ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Livatino ieri e oggi.
Sacrificio di un giudice e giurista d’altri tempi o testimonianza limpida di un magistrato "di ogni tempo" al servizio della società?
*in calce il parere del Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Caltanissetta di idoneità all'esercizio delle funzioni giudicanti e requirenti di Rosario Livatino
Intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva
Il 21 settembre 1990 Rosario Livatino cadde, a 38 anni, sotto i colpi brutali della stidda a pochi chilometri da Agrigento, mentre a bordo della sua vettura stava per recarsi al Tribunale di Agrigento dove svolgeva le funzioni di giudice presso la sezione misure di prevenzione.
A trent'anni dalla morte Giustizia Insieme intende fare memoria su quell'agguato, raccogliendo la testimonianza di chi è stato accanto a Livatino, ne ha respirato l'aria, ha vissuto sulla propria pelle il prima, il durante e il dopo di quella vicenda e di quel periodo. Ciò in una prospettiva massimamente rivolta ai giovani, molti dei quali non hanno avuto conoscenza della statura morale e professionale di Livatino nè dell'humus in cui maturò la scelta di eliminarlo fisicamente.
Una testimonianza, quella di Roberto Saieva, oggi Procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, che offre squarci importanti sul "contesto" ambientale – locale ma anche dei palazzi delle Istituzioni – nel quale maturò quell'omicidio e che assume oggi un valore davvero particolare provenendo da un magistrato schivo, che ha fatto della sobrietà e del riserbo la cifra della sua ormai lunga esperienza giudiziaria ma che oggi ha voluto tornare indietro nel tempo, forse convinto dalla drammaticità del momento storico che sta attraversando la magistratura e dal desiderio di offrire il ricordo di uno dei suoi più fedeli, coraggiosi e lindi rappresentanti.
Quale il senso delle sue riflessioni? Esse non sembrano affatto rivolte a suscitare consenso, ammirazione o clamore, ma semmai a scuotere le coscienze, a riannodare i fili di una magistratura colpita oggi al cuore da vicende che ne hanno minato profondamente la credibilità.
Saieva fuori da ogni retorica indossa l'abito di chi la storia l'ha vissuta in prima persona e scolpisce con poche espressioni il "modello" senza tempo di magistrato. Lo fa senza enfasi, attraverso le parole di Rosario Livatino e del Presidente della Repubblica, confidando - non per sè, ma per la società che cambia di cui Livatino si fece interprete - in risposte concrete, comportamenti coerenti, prese di posizione ferme e univoche che possano onorare e vivificare il sacrificio di quel "giudice ragazzino" per renderlo realmente "senza tempo" e moltiplicarlo all'infinito.
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R. Conti Roberto, grazie per questa opportunità che offri ai lettori della rivista di ripercorrere l’esperienza di Rosario Livatino presso gli uffici del Tribunale di Agrigento che ti coinvolge in prima persona, essendone stato collega. Cominciamo dall’inizio. Come lo hai conosciuto e quale impressione suscitò in te inizialmente la sua figura di giovane magistrato?
R. Saieva Conobbi Rosario Livatino quando, dopo lo svolgimento del tirocinio a Palermo, assunsi le funzioni di giudice presso il Tribunale di Agrigento, nel settembre del 1979. Nello stesso periodo Rosario – eravamo stati nominati con lo stesso decreto ministeriale – cominciò, dopo avere effettuato il tirocinio presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta, la sua attività di sostituto procuratore della Repubblica di Agrigento e poiché in Tribunale, nel corso del primo anno, fui addetto alla sezione penale, i nostri rapporti furono ovviamente assidui. L’impressione che Rosario Livatino mi fece fu simile a quella che faceva a tutti coloro che si muovevano nel piccolo mondo giudiziario agrigentino: un’impressione notevole. Il suo lessico, parlato e scritto, era molto accurato e richiamava l’attenzione dell’interlocutore per la frequente inclusione di termini non comuni e il ricorso a figure retoriche. I suoi modi erano sempre inappuntabili, improntati ad una cortesia che anche quaranta anni fa si poteva considerare non usuale. In udienza dimostrava abitualmente una completa conoscenza degli atti dei processi e delle questioni giuridiche da affrontare, che non sempre i pubblici ministeri erano e sono in grado di esibire. Sosteneva le proprie tesi con convinzione, non dando mai l’impressione di considerare l’esercizio del proprio ufficio come un adempimento rituale.
Il rapporto con Livatino rimase professionale o diventò personale e quanto incise il contesto ambientale nel quale eravate chiamati ad operare?
I miei rapporti con Livatino si intensificarono allorché, nel gennaio del 1983, fui trasferito dal Tribunale alla Procura della Repubblica di Agrigento. Nel suo discorso di commiato ai colleghi ed al personale della Procura della Repubblica, quando si accingeva a trasferirsi in Tribunale, Rosario ricordò come io, negli anni della comune attività, avessi trascorso con lui assai più tempo di quello passato con la mia famiglia. I nostri rapporti tuttavia, per quanto intensi, rimasero prevalentemente professionali. Rosario non abitava ad Agrigento, era assorbito, nel tempo libero dal lavoro, dalla cura dedicata ai propri anziani genitori e, soprattutto, aveva un carattere schivo, riservato; d’altra parte, neppure io ho un carattere particolarmente estroverso.
In quegli anni non erano state ancora costituite le Procure Distrettuali Antimafia. Cosa rappresentava il giovane Rosario Livatino all’interno della Procura di Agrigento? Erano gli anni delle polemiche sorte sui giudici ragazzini dei quali aveva parlato il Presidente Cossiga. Arrivaste in terra di mafia preparati a confrontarvi con quella realtà o avvertivate disagio o inadeguatezza? Sentivate la protezione dei vertici dell’Ufficio? Era sufficientemente appagante?
Gli anni Ottanta del secolo scorso furono nell’azione di contrasto alle mafie anni di passaggio, di cambiamento, riflesso delle trasformazioni che si preparavano nel mondo e che, peraltro, non erano compiutamente e generalmente percepibili. Nelle fasi di transizione si muovono sempre forze contrastanti, il vecchio tarda a scomparire e il nuovo stenta a farsi largo. Anche il mondo giudiziario siciliano, con riferimento alle indagini sulle attività di cosa nostra, viveva in quegli anni una stagione mutevole, incerta. L’effetto che l’arrivo di Livatino in quella stagione produsse negli uffici giudiziari agrigentini fu quello della caduta di un sasso in uno specchio d’acqua stagnante. Livatino intraprese indagini antimafia di largo respiro – orientate anche, con l’ausilio della polizia tributaria, alla identificazione di patrimoni di illecita provenienza – che travalicarono i confini della provincia. Uno spunto investigativo di particolare interesse fu posto a base di una vasta indagine che ci portò alla fine del 1984 alla esecuzione di numerosi provvedimenti cautelari nei confronti dei vertici di cosa nostra agrigentina e poi ad un processo concluso con molte sentenze definitive di condanna. La sensazione di isolamento c’era e – anche se non in tutti i periodi e non con riguardo a tutti i soggetti con i quali ci si confrontava –, la si percepiva, a tratti nettamente, anche all’interno del Palazzo; era sicuramente causa di uno stato tensione; in compenso la consapevolezza dell’importanza del lavoro che si andava svolgendo e la coscienza dello straordinario impegno che vi si profondeva, era per noi fonte di soddisfazione professionale ed umana.
La paura che potesse accadervi qualcosa in ragione della vostra attività esisteva o no a quell’epoca e, se sì, vorresti descriverla a beneficio dei giovani magistrati, molti dei quali non vissero quella stagione per ragioni anagrafiche?
All’indomani della esecuzione dei provvedimenti restrittivi ai quali ho fatto cenno in precedenza fummo avvertiti dalle forze di polizia – che sul territorio avevano le loro antenne – che le associazioni mafiose avevano percepito come particolarmente duro il colpo assestato e che erano da mettere in conto possibili reazioni. Furono disposte misure di protezione nei confronti dei magistrati che avevano ruolo nelle indagini. E’ innegabile che ciascuno di noi nutriva allora timori per la propria incolumità personale. Si dice che il magistrato deve sempre esercitare il proprio ministero nec spe nec metu, ma ci si vuole normalmente riferire, oltre che alla speranza di vantaggi morali o materiali, alla paura di conseguenze negative del proprio operato sul piano professionale. Trovarsi nelle condizioni di dover nutrire timori per la propria incolumità personale, in ragione dell’adempimento dei doveri istituzionali, provocava un certo smarrimento, disorientava, legittimava l’interrogativo: “Ma che razza di Stato è questo nel quale si corre il rischio di essere uccisi a causa dell’esercizio, quali suoi funzionari civili, di pubbliche funzioni?”. Si faceva però in modo di gestire, di controllare l’ansia e, a tale scopo, serviva molto il rapporto di solidarietà che intercorreva tra di noi, tra Livatino, me e gli altri magistrati impegnati sullo stesso fronte.
La scelta di non fruire della scorta fu per Livatino un atto di fede, una scelta dettata dal fatalismo o un atto di amore per chi avrebbe dovuto difenderne l’incolumità?
Ci fu più di una ragione a sconsigliarlo. Livatino sapeva bene di vivere in un contesto ambientale – la cittadina di Canicattì – particolarmente difficile e temeva che l’esibizione di una scorta potesse essere percepita come una sfida dalle associazioni mafiose insediate in quel territorio. Non voleva inoltre recare turbamento ai propri genitori, evidenziando la situazione di oggettivo pericolo in cui versava. Era poi convinto che di fronte alla risoluzione di un’organizzazione criminale potente ci fossero ben scarse possibilità di difesa. La mafia aveva già dimostrato, in occasione dell’omicidio di Rocco Chinnici, di non indietreggiare davanti ad opzioni stragiste.
Voi colleghi aveste mai la percezione del rapporto che legava Livatino ai suoi familiari e quanto secondo te il contesto familiare e ambientale nel quale continuò a vivere fino ai suoi ultimi giorni Livatino a Canicattì incise sulla sua attività professionale?
Lo speciale legame che univa Rosario Livatino, figlio unico, ai genitori era evidente, come evidente era che proprio in ragione di questo legame familiare Rosario continuava a rimanere annodato ad un contesto ambientale dal quale si sarebbe altrimenti allontanato senza particolari rimpianti. Ed è in questo contesto che si radicano i moventi della sua uccisione.
Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti di Livatino. Cosa spinse Livatino a quella scelta. Aveste mai modo di prefigurare possibili ritorsioni delle organizzazioni criminali locali rispetto a quella scelta?
Livatino passò alle funzioni giudicanti nell’agosto del 1989, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. La riforma aveva tra i suoi obiettivi primari quello della “degiurisdizionalizzazione” del pubblico ministero, di cui veniva fortemente accentuato nel processo il ruolo di parte, trasformandolo da organo investito di poteri di acquisizione probatoria in organo di ricerca delle fonti della prova. Livatino era un pubblico ministero con una solida cultura della giurisdizione e preferì transitare nei ruoli della giudicante. Il passaggio, portato a compimento nella stessa sede giudiziaria, lo esponeva ulteriormente sotto il profilo della sua sicurezza personale; ne era consapevole e gli fu anche evidenziato, ma non ritenne di tornare sui propri passi.
Livatino persona, Livatino giurista e Livatino sostituto procuratore e poi Giudice di Tribunale. Qual è secondo te il tratto comune e aggregante che Livatino mostrava in ciascuna di quelle dimensioni?
La religiosità alla quale ispirava la sua condotta. Non mi riferisco a quella che derivava dalla sua fede cattolica, parlo di religione laica, la religione del dovere, che improntava in egual misura il suo essere magistrato e uomo. Richiamerò le parole da lui pronunciate in un suo intervento, dal titolo Il giudice nella società che cambia: “ … è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole …”. Ecco: era difficile poter distinguere, nella sostanza e nella forma, il Livatino magistrato dal Livatino uomo e, per questa ragione, è facile comprendere perché sia naturale rivolgersi alla figura di Rosario Livatino con grande rispetto e, al pensiero che la sua così gravosa, austera vita fu brutalmente stroncata quando non aveva ancora 38 anni, con pena altrettanto grande, soprattutto da parte di chi lo ha personalmente conosciuto.
Il rapporto di Livatino con il foro. Cosa ci puoi dire?
La cortese premura con cui Livatino trattava gli avvocati era massima, pari alla distanza che interponeva tra sé e loro. Aveva ben presente che magistrati e avvocati fanno mestieri diversi. La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri.
Quella mattina del 21 settembre 1990 ero nello studio di mio padre in Via De Gasperi e sentii un anomalo numero di sirene di auto delle forze dell’ordine imboccare la Via Nuova Favara, una dopo l’altra. Poi il silenzio… Rabbia, dolore, rassegnazione. Cosa prevalse nei giorni successivi?
La prima reazione fu di sbalordimento. Ho già detto che simili evenienze erano messe in conto, ma una cosa è immaginare il dramma, altra è vederlo concretamente rappresentato davanti ai propri occhi. Poi subentrarono il dolore e la rabbia, non la rassegnazione. Lo sconvolgimento delle nostre esistenze che quella morte produsse non poteva lasciare spazio alla rassegnazione. Mi riferisco ovviamente a quanti di noi avevano condiviso con Livatino un certo modo di intendere l’impegno professionale.
E il Tribunale di Agrigento come reagì, gli uomini di legge, la società civile?
Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. Poi ciascuno riprese inevitabilmente la propria strada. Ricordo una assemblea della locale sottosezione della ANM, svoltasi appena qualche giorno dopo l’omicidio, nel corso della quale, in un clima assai teso, archiviata la commozione, emersero opinioni tutt’altro che unanimi sulle posizioni da assumere, come magistratura associata, a fronte di quanto accaduto, corrispondenti alle “diverse sensibilità”, chiamiamole così, con le quali ci si rapportava al modello di magistrato che Livatino rappresentava e al tipo di attività giudiziaria che lui ed alcuni altri giovani magistrati – e tra questi anch’io – avevano sviluppato nel decennio precedente. E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre.
Sono andato a ritrovare due tue interviste, una al settimanale Il Sabato, insieme al collega Fabio Salamone, riportata in stralcio in un periodico agrigentino “La Tribuna” ed un’altra di poco successiva, quando eri in procinto di lasciare Agrigento, che ricordo assai bene. In quest’ultima campeggia una foto con il Presidente della Repubblica Cossiga, il Ministro Vassalli, Martelli e Craxi dietro la bara di Livatino. Il senso complessivo che ne usciva mi pare essere quello di un pessimismo marcato per la risposta che lo Stato diede all’uccisione di Livatino. A distanza di tanto tempo come ti sentiresti di spiegare quel periodo a chi non visse quel periodo? E oggi quelle criticità che avevi manifestato ti sentiresti di ribadirle nell’attuale contesto storico-sociale?
Si, ricordo che in quel periodo alla domanda di un cronista ebbi a rispondere che noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente.
Poi la risposta dello Stato prese corpo. Fu approntato un efficace strumentario normativo, furono istituite le direzioni distrettuali antimafia, furono messe in campo adeguate risorse finanziarie e personali. In parte fu effetto dell’ondata emotiva che aveva attraversato il Paese all’indomani della strage di Via D’Amelio; ma fondamentalmente l’attività di contrasto si sviluppò con pienezza in quanto erano maturate le condizioni politiche, interne ed internazionali, perché del fardello rappresentato da certe contiguità con le associazioni mafiose, con cosa nostra in particolare, le Istituzioni – o, comunque, determinati centri di potere – si liberassero.
Oggi la situazione è quindi ben diversa da quella di un trentennio fa, anche se è innegabile che la nebbia che ancora avvolge in parte gli avvenimenti che nell’arco di tre lustri, tra il 1979 e il 1993, sconvolsero la vita del Paese pesa su noi tutti. Dell’eredità di quel periodo non sarà possibile liberarsi fino a quando non sarà fatta piena luce sulle circostanze, sui moventi, sulle complicità di tanti delitti eccellenti.
Nei suoi due scritti lasciati a perenne memoria della sua persona, Il giudice nella società che cambia, che tu hai già citato, e Fede e diritto, Livatino traccia le linee portanti dell’essere magistrato di ogni tempo. Alla luce dell’esperienza che hai vissuto accanto a lui credi che l’Istituzione Magistratura abbia offerto nei territori ad alta densità mafiosa una risposta adeguata alle aspettative della società?
Credo che, con riferimento al profilo di cui parli, nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi.
Quanto alle linee portanti delle sollecitazioni di natura etico-professionale che compaiono a più riprese nel pensiero di Livatino in ordine alla figura del Magistrato, quali valutazioni ti senti di fare nell’attuale contesto storico?
Partirò dalla citazione di alcuni passi dell’intervento già richiamato, Il giudice nella società che cambia. Scriveva Livatino nell’aprile del 1984: “L'indipendenza del giudice … non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”. Ed ancora: “ … il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. “Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha.”.
Io sono convinto che il modello di magistrato scolpito da Livatino trentasei anni or sono, proprio perché “senza tempo”, sia ancora valido. Della immutabilità del profilo etico del magistrato ha parlato Alfonso Amatucci in un contributo recentemente pubblicato su questa rivista, affermando che “il privilegio di aver avuto la ventura di esercitare il più bel mestiere del mondo, [che conferisce] il potere di incidere fortemente sulle vite degli altri, non può non essere bilanciato da un assoluto rigore morale, da un profondo impegno allo studio e al continuo perfezionamento, dal costante sforzo di capire con autentica umiltà quali siano le speranze, i timori, le aspettative che si nascondono dietro ogni carta processuale e quali le loro ragioni. Altro che adempiere il munus publicum con disciplina ed onore! Il dovere del magistrato è enormemente superiore, ieri come oggi”.
E sono convinto che – sebbene il mutamento degli assetti politici e sociali e l’evoluzione dei costumi abbiano determinato un sensibile, diffuso affievolimento del senso dello Stato e della coscienza civica – siano tanti i magistrati che a quel modello corrispondono o che a quel modello con sforzo incessante si sforzano di aderire.
E’ però indubbio che la maggioranza dei cittadini considera oggi i magistrati ben lontani dal modello di cui discorriamo. Il livello di credibilità dei magistrati, nonostante la grande visibilità di cui l’ordine giudiziario ha goduto per effetto delle ampie deleghe di poteri ad esso conferite nel tempo dal ceto politico, è progressivamente scemato, a causa di ripetuti episodi di infedeltà ai doveri del loro stato, talora gravi o gravissimi, di cui molti, troppi magistrati si sono resi protagonisti, ed è letteralmente precipitato allorché sono state rese pubbliche le vicende emerse dalla nota indagine condotta recentemente dalla Procura della Repubblica di Perugia.
Vicende che non possono essere riassunte meglio di come ha fatto il Presidente della Repubblica, quando le ha qualificate come un “coacervo [“sconcertante e inaccettabile”] di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato … in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura”, rimarcando che “quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza [non soltanto del CSM] ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario”; parole che ho richiamato nell’intervento che ho svolto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 nel distretto di Catania, dedicato in larga parte, come peraltro l’intervento dell’anno precedente, alla questione etica che l’esercizio della funzione giudiziaria propone.
Sul tema il Presidente della Repubblica è ritornato il 18 giugno di quest’anno, svolgendo il suo intervento in occasione della cerimonia commemorativa del quarantesimo anniversario dell’uccisione dei magistrati Giacumbi, Minervini, Galli, Amato e Costa e del trentennale dell’uccisione di Rosario Livatino.
In quell’intervento il Presidente ha sottolineato l’amaro contrasto tra l’alto livello morale delle figure commemorate e il contesto documentato dall’indagine della Procura della Repubblica di Perugia, rimarcando come la pubblicazione di atti ulteriori rispetto a quelli diffusi l’anno precedente sembri presentare l’immagine di una Magistratura china su se stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi, fornendo la percezione della vastità del fenomeno e lasciando intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della Magistratura.
Nella medesima occasione il Capo dello Stato ha messo in risalto il ruolo decisivo per la formazione etica e professionale dei magistrati che può e deve assumere la Scuola Superiore, auspicando che essa dedichi sessioni di studio apposite ai doveri di correttezza e trasparenza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie; affinché siano tradotti nei comportamenti a cui è tenuto ciascun magistrato, non soltanto nello svolgimento dell’attività giudiziaria ma anche nel servizio reso negli organi di governo autonomo.
E’ però evidente che una correzione di rotta nei comportamenti che ciascuno deve tenere nello svolgimento dell’attività giudiziaria, come nel servizio reso negli organi di governo autonomo, non può essere affidata esclusivamente al lento lavoro di propagazione dei principi etici tra i magistrati ad opera della Scuola, né alla concreta realizzazione dei propositi di rifondazione morale che sono stati enunciati (ma non è la prima volta che questo accade) da tanti esponenti dei gruppi associativi. Sono necessarie riforme, anche radicali, che rendano più incisivo il meccanismo dei controlli e quindi della responsabilità dei magistrati, che deve necessariamente corrispondere e controbilanciare l’ampiezza dei poteri ad essi attribuiti e che riconducano entro i confini della conveniente ed insopprimibile discrezionalità quelle pratiche di esercizio del governo autonomo che frequentemente sono state invece ispirate all’arbitrio.
Essenziale è che ogni modifica normativa si articoli lungo il tracciato delineato della Costituzione, poiché, come il Presidente della Repubblica ha costantemente ricordato, indipendenza e autonomia dell’Ordine Giudiziario sono principi fondamentali, irrinunziabili per la Repubblica.
Il sacrificio di Livatino quanto è servito alla nostra società e quanto quella società si è meritata una figura di uomo e di magistrato come la sua?
Non credo che i tanti magistrati che hanno sacrificato la vita nell’adempimento del dovere si siano chiesti se la società meritasse il loro sacrificio. Hanno agito sospinti da un imperativo morale, sentendosi parte di una comunità, convinti che la società questo da loro si aspettasse. Comunque ritengo che quel sacrificio sia servito. E’ stato scritto: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Il nostro ne ha bisogno e Livatino sacrificandosi è entrato nella galleria degli eroi che i popoli come il nostro amano, perché servono a purificare la loro coscienza collettiva.
Hai mai avuto qualche rimorso inconfessato per quel che accadde il 21 settembre 1990?
In situazioni come quella che abbiamo rievocato chi sopravvive si interroga sempre sulle proprie eventuali colpe, ma dubito che la progressione di eventi che si sviluppò fino al suo fatale epilogo potesse essere fermata da me, come da qualcuno degli altri colleghi che a Rosario furono più vicini.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive. [1]
di Pasquale Serrao d'Aquino
Sommario Parte Seconda: 6. Le valutazioni di professionalità dei magistrati con funzioni - 6.1. Il procedimento - 6.2. Le fonti di conoscenza - 6.2.1. Fonti di conoscenza atipiche, integrazione istruttoria e partecipazione procedimentale dell’interessato - 6.2.2. Iniziativa autonoma dei singoli consiglieri - 6.2.3. Assunzione d’ufficio da parte del Consiglio giudiziario di informazioni - 6.2.4. Facoltà di audizione del magistrato - 6.3. L’autorelazione - 6.4. L’acquisizione dei provvedimenti a campione - 6.5. Prerequisiti, parametri e indicatori - 6.6. L’esito della valutazione e i possibili sfasamenti temporali - 6.6.1. Un caso di valutazione negativa espressa dal Consiglio giudiziario - 6.7. Il rapporto tra valutazione di professionalità e giudizio disciplinare - 6.7.1. Sospensione dal servizio - 6.8. I problemi del ritardo nella conclusione del procedimento di valutazione di professionalità - 7. Le modalità espressive del giudizio sulla professionalità del magistrato - 8. Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni di professionalità - 9. Conclusioni.
6. Le valutazioni di professionalità dei magistrati con funzioni
Il D.L.vo n. 160/2006, come modificato dagli artt. 1 e 2 della L. n. 111/2007, prevede che i magistrati siano sottoposti a valutazioni di professionalità con cadenza quadriennale, a decorrere dalla data della nomina e fino al superamento della settima di tali valutazioni.
Il sistema delle valutazioni e il tipo di giudizio sono analoghi a quelli ipotizzati dal Ministro della Giustizia Flick il 27 novembre 1996 (dis. di legge n. 1799), sebbene lo stesso prevedesse che per alcune valutazioni la competenza spettasse in esclusiva al Consiglio superiore (la III, la V e la VII), mentre per le altre poteva essere svolta dal Consiglio giudiziario dietro delega del Consiglio, al quale però il primo avrebbe dovuto comunque rimettere la decisione definitiva in caso di esito negativo della valutazione.
I criteri per operare la valutazione periodica di professionalità già allora erano indicati in quelli di capacità, laboriosità, diligenza e impegno (oltre che attitudine alla dirigenza), così come anche secondo tale disegno il giudizio avrebbe potuto concludersi con un giudizio a) positivo, se ritenuti sufficienti tutti i parametri presi in considerazione; b) non positivo, in casi di carenza di alcuni parametri; c) negativo, per l’ipotesi di grave carenza in uno o più requisiti.
6.1. Il procedimento
Il procedimento di valutazione si snoda attraverso le seguenti tappe fondamentali: parte con il rapporto informativo del Capo dell’ufficio; prosegue con il parere del Consiglio giudiziario competente per territorio ovvero del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione per i magistrati con funzioni di legittimità, per poi essere decisa, su proposta della IV^ Commissione, da parte dell’Assemblea Plenaria del CSM.
La valutazione di professionalità è formulata dal Consiglio sulla scorta del parere motivato del Consiglio giudiziario, che riceve il rapporto del capo dell’ufficio e le eventuali segnalazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati, e può anche “assumere informazioni su fatti specifici segnalati da suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati” nonché “può procedere alla audizione del magistrato”.[2]
Il magistrato, entro dieci giorni dalla notifica del parere del consiglio giudiziario, può far pervenire al Consiglio superiore della magistratura le proprie osservazioni e chiedere di essere ascoltato personalmente.
Il Consiglio procede alla valutazione di professionalità, oltre che sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario e della relativa documentazione, anche sulla base dei risultati delle ispezioni ordinarie e può anche assumere ulteriori elementi di conoscenza.
Nell’espressione del suo giudizio di professionalità, il C.S.M. non è vincolato dal parere del Consiglio giudiziario, se ne può dunque discostare, ma deve, comunque, dare atto nella motivazione della valutazione degli elementi istruttori e del percorso argomentativo posto a base delle proprie conclusioni.
La delibera consiliare è trasmessa al Ministro della Giustizia, che adotta il relativo decreto, ed è inserita nel fascicolo personale del magistrato.
6.2. Le fonti di conoscenza
La normativa primaria riconosce al Consiglio giudiziario una posizione di centralità, in quanto pur svolgendo una mera funzione consultiva, è titolare di ampi poteri istruttori.
L’ istruttoria si connota, infatti, per una fase di istruttoria cd. necessaria e una meramente eventuale.
La prima si articola nelle acquisizioni degli elementi conoscitivi disciplinati dal comma 4 dell’art. 11. La seconda, invece, è subordinata all’esercizio di una specifica facoltà di integrazione del materiale conoscitivo valutabile, prevista dall’art. 1 del d.lgs. 160/2006 e compiutamente disciplinata dalla Circolare.
Per esprimere il giudizio di professionalità, l’Organo di governo autonomo, nonché il Consiglio giudiziario, pur nella fondamentale atipicità delle fonti di conoscenza, a norma del comma 4 dell’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006, possono formulare il proprio giudizio valutativo sulla base del seguente compendio istruttorio:
- dai rapporti dei dirigenti degli uffici;
- dal rapporto informativo annuale del capo dell’ufficio relativamente all’andamento generale
dell’ufficio;
- dalle segnalazioni pervenute al Consiglio giudiziario o ai dirigenti degli uffici dal Consiglio
dell’ordine degli avvocati competente per territorio;
- dalle informazioni inserite nel fascicolo personale del magistrato;
- dai verbali di audizione del magistrato;
- dai verbali di seduta del Consiglio giudiziario;
- da eventuali atti che si trovino nella fase pubblica di uno dei processi trattati dal magistrato in valutazione, acquisiti su specifica richiesta di un componente del Consiglio giudiziario;
- dalla relazione del magistrato interessato illustrativa del lavoro svolto.
Accanto a tali fonti, la Relazione illustrativa alla Circolare indica che, per l’assenza di un principio di tipicità delle fonti e dei documenti utilizzabili, e al fine di garantire la massima completezza della valutazione, si è stabilito di consentire “l’utilizzazione di ogni atto e documento che fornisca dati obiettivi e rilevanti relativi all’attività professionale e ai comportamenti incidenti sulla professionalità del magistrato”.
Per evitare ogni possibile equivoco, allo scopo di tutelare indiscutibili esigenze di garanzia dello scrutinato e di obiettività della valutazione, si è anche esplicitato l’assoluto divieto di impiegare fonti anonime e voci correnti.
È importante la previsione di un momento partecipativo del magistrato. I dirigenti trasmettono il rapporto e gli atti allegati al Consiglio giudiziario e comunicano contestualmente il rapporto al magistrato interessato, che può far pervenire al Consiglio giudiziario eventuali osservazioni, nei sette giorni successivi alla comunicazione del rapporto (Capo XIII Circolare).
6.2.1. Fonti di conoscenza atipiche, integrazione istruttoria e partecipazione procedimentale dell’interessato
Accanto a tali fonti tipiche è previsto, pertanto, anche il ricorso ad elementi di valutazione esterna rispetto all’organizzazione giudiziaria.
Ad esempio, quanto alla laboriosità, il rispetto di tempi di trattazione dei procedimenti e dei processi, accertato, viene accertato, non solo attraverso i rapporti dei dirigenti degli uffici, ma anche mediante “le segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente per territorio, le informazioni esistenti presso la Prima Commissione e presso la Segreteria della Sezione Disciplinare del Consiglio superiore, quelle inserite nel fascicolo personale del magistrato, nonché mediante la verifica della insussistenza di eventuali rilievi di natura contabile o di giudizi di responsabilità civile” (Cap. V Circolare).
Più nello specifico, sono individuabili differenti fattispecie di integrazione istruttoria, che si distinguono per presupposti, contenuti e procedimento.
La funzione istruttoria del Consiglio giudiziario, che si accompagna a quella consultiva per il CSM, titolare del potere decisorio, implica che il flusso informativo non sia esclusivamente dall’organo di autogoverno locale a quello centrale, ma che nell’istruttoria cd. eventuale esso possa anche essere di segno opposto, dal momento che il primo “Alla scadenza del periodo di valutazione” (e, quindi, NB non in ogni momento) il Consiglio acquisisce e valuta le informazioni disponibili presso il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia anche per quanto attiene agli eventuali rilievi di natura contabile e disciplinare (art. 11, comma 4, lett. a).
Può comprendersi come sia necessario trovare un punto di equilibrio tra lo spazio che il Consiglio è tenuto a riconoscere all’organo locale di espletamento dell’istruttoria e la necessità di rispettare il segreto istruttorio e la riservatezza del magistrato che, naturalmente, subisce una forte limitazione con la conoscenza acquisita da tutti i componenti dell’organo locale.
6.2.2. Iniziativa autonoma dei singoli consiglieri
La prima ipotesi è disciplinata dalla lettera a) del comma 4 dell’art. 11 del d.lgs. 160/2006, laddove si prevede l’autonoma possibilità per ciascun membro del consiglio giudiziario di accedere agli atti che si trovino nella fase pubblica del processo. Ciò comporta che deve essere garantito l’accesso anche agli atti dell’eventuale processo penale cui sia sottoposto il magistrato in valutazione. Tali informazioni sono infatti nella disponibilità del CSM, cui l’Autorità procedente è tenuta a riferire, nel caso in cui penda a carico di un magistrato un procedimento penale.
L’unico dato chiaro è quello del potere di ciascun componente del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti del processo che si trova in fase pubblica (deve desumersi, del processo riguardante il magistrato, oltre che, naturalmente dei processi trattati DAL magistrato), per poterne valutare l’utilizzazione.[3] Norme non chiarissime perché, ovviamente, è necessaria una delibazione di non manifesta irrilevanza che eviti una possibile strumentalizzazione di tale potere.
Si è già affermato che l’esercizio di questa facoltà riconosciuta al singolo componente del CG non implica l’automatica utilizzabilità dell’atto processuale ai fini del giudizio di professionalità, essendo necessario uno specifico intervento deliberativo del Collegio in ordine all’utilizzabilità di tali elementi di conoscenza. Inoltre, si è evidenziato che l’attività istruttoria disposta dal Consiglio giudiziario non può in ogni caso comportare alcuna sovrapposizione con l’accertamento – eventualmente in atto – del giudice penale o disciplinare sulla condotta oggetto di verifica da parte del Consiglio medesimo[4].
6.2.3. Assunzione d’ufficio da parte del Consiglio giudiziario di informazioni
La seconda ipotesi è quella di un autonomo potere istruttorio del CG.
Indipendentemente dalla segnalazione dei dirigenti o di quelle allegate la loro rapporto informativo, laddove lo ritenga necessario, il Consiglio giudiziario può assumere analoghe informazioni su fatti specifici, segnalati dai suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati, incidenti sulla professionalità del magistrato[5].
Il capo XV della Circolare prevede l’instaurazione di un sub procedimento in quanto garantisce, da un lato, il diritto all’informazione, all’accesso e alla copia degli atti del magistrato in valutazione (“All’esito dell’istruttoria, il Consiglio giudiziario ne dà tempestiva comunicazione all’interessato. L’interessato ha diritto di prendere visione ed estrarre copia degli atti a disposizione del Consiglio giudiziario”).
6.2.4. Facoltà di audizione del magistrato
La terza forma di integrazione istruttoria prevista, in termini generali, dal Capo XV della Circolare riguarda la facoltà di procedere all’audizione del magistrato, qualora ritenuto necessario. Il magistrato ha diritto in tal caso di presentare atti o memorie scritte fino a sette giorni prima dell’audizione e di farsi assistere da altro magistrato durante l’audizione. Inoltre se è lo stesso magistrato a richiederlo, l’audizione deve essere obbligatoriamente disposta.
Emerge dunque con chiarezza come il Consiglio Giudiziario sia titolare di poteri istruttori che, pur con le connotazioni enunciate, sono sostanzialmente liberi: in particolare proprio l’ampia previsione della facoltà di assunzione di informazioni, nei termini sopra delineati, non essendo accompagnata dalla specificazione delle modalità e degli strumenti attivabili, consente di radicare in capo all’organo decentrato il potere di decisione in ordine al mezzo istruttorio azionabile nel caso concreto.[6] A fare da necessario contrappeso a tale potere, pertanto, assicurando il rispetto delle garanzie dell’interessato vi sono le sopra indicate facoltà partecipative dell’interessato.
Quanto al rapporto tra le fonti e i parametri di giudizio occorre indicate che sussiste una relazione tra le prime e i secondi nel senso che le fonti di conoscenza sono correlate alla rilevazione dei vari indicatori dei parametri che si connota anche per un momento partecipativo del magistrato, che redigendo la c.d. autorelazione può illustrare adeguatamente tutti gli elementi rilevanti ai fini della propria valutazione.
6.3. L’autorelazione
L’autorelazione del magistrato occupa, infatti, un ruolo centrale nelle fonti di conoscenza per la valutazione di professionalità. Essa è tesa ad illustrare le caratteristiche del profilo professionale del magistrato sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, con attenzione a tutte le competenze ed esperienze professionali acquisite, anche antecedenti all’ingresso in magistratura.
Sebbene il procedimento di valutazione sia ufficioso, a partire dal 2012 (introducendo nella Circolare il capo XIII bis - delibera plenaria del 25 luglio 2012), si è espressamente indicato che costituisce onere del magistrato in valutazione quello di trasmettere la relazione al dirigente dell’ufficio, unitamente alla copia degli atti e dei provvedimenti volontariamente prodotti, nel periodo compreso tra il 45 e il 30 giorno anteriore alla scadenza del quadriennio in valutazione, così da consentire al Capo Ufficio di formulare il proprio rapporto.[7]
Mentre il rapporto del dirigente e il parere del Consiglio giudiziario vengono redatti seguendo lo schema di un modulo predefinito, come evidenziato nella Relazione esplicativa della modifica, per redigere l’autorelazione non è prevista la compilazione di un modulo predefinito, ma si è solo stabilito che essa deve tendenzialmente strutturarsi considerando l’ordine e l’articolazione dei parametri di valutazione indicati nella parte I^ della Circolare, nella prospettiva di ottenere informazioni accurate e coerenti ai canoni di valutazione vigenti ma, al tempo stesso, non “ingessate” rispetto alla ricchezza e varietà possibile delle esperienze professionali presenti in magistratura.[8]
Il contenuto può comporsi di parte descrittiva: informazioni sulla carriera, su sedi ed uffici in cui si è prestato il servizio, sulle funzioni esercitate, se specializzate, generiche, promiscue, se il magistrato si è prestato ad applicazioni e supplenze, a quali particolari settori di attività e gruppi di lavoro ha partecipato; inoltre, esperienze extraprofessionali qualificanti, esperienze universitarie, attività scientifica o di formazione.
Ad essa si può opportunamente accompagnare una parte interpretativa delle informazioni confluite nel procedimento, che rende possibile una lettura ragionata dei dati catalogati sotto i 4 parametri (capacità, laboriosità, impegno e diligenza) in relazione alla particolare situazione lavorativa del magistrato.
Ad esempio, nell’indicare lo svolgimento di funzioni in una determinata sezione civile, indicandone la specializzazione, si possono evidenziare i dati delle statistiche comparate, il rispetto degli obiettivi fissati nel programma di gestione ex art. 37 (o le ragioni per le quali ci si è discostati dagli stessi), l’introduzione o adesione a prassi virtuose, peculiari vicende giuridiche o casi che si sono affrontati, il contesto ambientale e lavorativo nel quale si è agito, gli eventuali incarichi che sono stati svolti su delega del presidente della sezione o del presidente del tribunale, etc.
Anche in relazione delle attività extragiudiziarie è opportuna, in luogo di una mera elencazione, una loro esposizione ragionata: le attività formative per la Scuola della magistratura e quelle svolte per istituzioni universitarie, scientifiche, la loro aggregazioni per materie o settori (es. internazionale, linguistico, specializzazione scientifica, etc.
6.4. Il rapporto del dirigente.
Appare scontato che il rapporto del dirigente occupi ordinariamente una posizione centrale tra le fonti di conoscenza.[9]
S'è sottolineato che tale oggettiva valenza privilegiata determina il rischio di <<spinte gerarchizzanti, ma anche di impercettibili impulsi alla reviviscenza di moduli argomentativi ispirati alla soggettività e al conformismo, esattamente come nel passato. Rischio che, vale la pena ripetere, si annida già in un sistema che non ha potuto fare a meno di continuare a fondarsi su meccanismi di sintesi valutativa ove di misurabile c’è ben poco. >>[10]
Un principio di buona amministrazione, trasparenza e non discriminazione ha indotto a tipizzare il contenuto del rapporto che i dirigenti degli uffici devono trasmettere ai Consigli giudiziari entro il sessantesimo giorno successivo alla scadenza del quadriennio in valutazione (o, comunque, dopo un anno a far data da un giudizio non positivo o decorsi due anni dal giudizio negativo, un rapporto sulla professionalità del magistrato) da redigersi non solo “secondo i parametri della presente circolare”, ma anche in conformità al modello contenuto nella circolare, specificandosi, con enfasi, “che costituisce parte integrante della circolare stessa”.[11]
In un momento successivo si è aggiunta la previsione per la quale esso deve contenere anche “l’indicazione di situazioni rappresentate da terzi, di cui i dirigenti degli uffici abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare e sempre che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità del magistrato, ivi compresi situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”.
Si tratta di un aspetto ovviamente delicato, in quanto in questo modo il sistema delle fonti manifesta un’apertura verso la collettività (non essendo terzi solo il Consiglio dell’Ordine, ma anche singoli avvocati, cittadini, consulenti, pubbliche amministrazioni, etc.) e, per tale ragione espone il magistrato a possibili ritorsioni o condizionamenti nell’esercizio delle sue funzioni.
Per evitare denunce o segnalazioni strumentali, per circoscriverne la rilevanza delle stesse e, al tempo stesso, responsabilizzare i dirigenti, si precisa che: a) devono riguardare la professionalità del magistrato; solo irrilevanti, pertanto, eventuali lamentele sul contenuto di decisioni giudiziarie, ove non affette da errori macroscopici o da mancanza di diligenza nella redazione dell’atto; b) rilevano allorché indicano situazioni “concrete ed oggettive”; c) devono essere state segnalate ai titolari del’azione disciplinare (il che, ovviamente, presuppone l’obbligo della segnalazione).
6.4. L’acquisizione dei provvedimenti a campione
L’acquisizione dei provvedimenti a campione, se la valutazione che ne segue venisse effettuata con accuratezza, potrebbe costituire uno dei pilastri della valutazione di professionalità.
Mentre, infatti, nei vecchi concorsi per titoli ed esami, anteriori alla Legge Braganze, il magistrato produceva la “bella sentenza” che serviva per superare il concorso, la campionatura, invece, consente di vedere come il magistrato lavora nella quotidianità e, quindi, le modalità con le quali assicura il servizio giustizia.
L’accompagnare tale estrazione con i provvedimenti selezionati dal magistrato, invece, consente di fornire ulteriori elementi di valutazione che possono testimoniare la qualità del lavoro che non emerge dal carotaggio effettuato in modo casuale.
Il pag. 2.7 della circolare ribadisca doverosamente che «gli orientamenti politici, ideologici o religiosi del magistrato non possono costituire elementi rilevanti ai fini della valutazione di professionalità» e che «la valutazione di professionalità… non può riguardare l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove».
Con le modifiche introdotte dal Consiglio il 25 luglio 2012 il CSM ha disciplinato la cadenza del sorteggio (annuale, con annualità riferita al periodo in valutazione); l’individuazione, nel dirigente dell’ufficio, del soggetto titolare del compito di procedere al prelievo annuale secondo le indicazioni di circolare e del CG; la creazione di un archivio informativo ai fini della custodia dei provvedimenti e dei verbali in vista della valutazione di professionalità del magistrato; la riduzione del numero dei verbali da acquisire a campione.
Più in particolare, il CSM ha individuato, i criteri oggettivi e predeterminati di estrazione, la cadenza temporale annuale per trimestre sorteggiato; la percentuale e numero di provvedimenti e verbali da acquisire per ciascuna funzione magistratuale[12]
Tali provvedimenti non vengano ad essere sindacati sotto il profilo del merito ma, per l’insindacabilità dell’attività di interpretazione delle norme e del fatto, ci si ferma ad una disamina estrinseca dei provvedimenti. Per tale ragione, si è osservato è <<difficile ipotizzare, nella prassi applicativa, altro giudizio che quello di aderenza del provvedimento a uno standard puramente formale, ferma restando la possibilità di valutare la ricorrenza di anomalie nel rapporto tra pronunce del magistrato ed esiti dei successivi gradi>>, con la conseguenza che la <<qualità giuridica del lavoro del magistrato sembra restare sullo sfondo, quasi fosse un dato imperscrutabile, e ciò a rischio di approfondire il solco che talvolta corre tra le risultanze formali dei procedimenti di valutazione e la percezione concreta, quotidiana, ambientale, delle capacità professionali del magistrato>>.[13]
6.5. Prerequisiti, parametri e indicatori
Il giudizio di professionalità ha una articolazione complessa ed è basato su prerequisiti, sui parametri e indicatori dei parametri.
I prerequisiti sono quelle modalità di svolgimento della funzione giudiziaria che sono assolutamente indefettibili e senza le quali la valutazione non può essere positiva: indipendenza, imparzialità ed equilibrio. Al contrario, quando non emergano dati negativi, il parere è essere espresso con la formula “nulla da rilevare” (Capo II della Circolare).
Si intende per indipendenza, lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali senza condizionamenti, rapporti o vincoli che possano influenzare negativamente o limitare le modalità di esercizio della giurisdizione; per imparzialità, il corretto atteggiamento del magistrato nei confronti di tutti i soggetti processuali; per equilibrio, l’esercizio della funzione condotto con moderazione e senso della misura, libero da determinazioni di tipo ideologico, politico o religioso.
Per citare un esempio recente, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità della delibera contenente un giudizio negativo in relazione alla precondizione dell'equilibrio dell'interessata fondata su una valutazione globale della condotta tenuta dal magistrato il quale, tra l’altro, ritenuta carente a causa dall'episodio occorso in udienza allorché il magistrato in valutazione, presidente del collegio penale, nel leggere il dispositivo della sentenza nel procedimento aveva specificato che l'assoluzione dell'imputato era «intervenuta "a maggioranza"» dei componenti del collegio (CDS, Sez. V, sent. del 29 luglio 2019, n. 5309).
In alcune difese innanzi al giudice amministrativo è stato posto in dubbio che il CSM potesse fondare le proprie valutazioni sui prerequisiti, in quanto non espressamente previsti dall’art. 11 del d.lgs. 160/2006. 18.
Si tratta di una tesi infondata, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che, pur non essendo gli stessi menzionati dall'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 160 del 2006: “Tra questi ultimi rientra incontestabilmente l'equilibrio, che insieme alle altre precondizioni dell'imparzialità e dell'indipendenza, parimenti individuate dal Consiglio superiore nel più volte citato capo III della parte I della circolare n. 20691 dell'8 ottobre 2007, sono consustanziali all'esercizio della funzione giurisdizionale”.[14]
I parametri, indicati dal legislatore nella capacità, laboriosità, diligenza e impegno, invece, sono valutati tenendo conto dei parametri normativi previsti dall’art. 11 de d.lgs. 160 del 2006 e dal Capo 4 della Circolare.[15]
Gli indicatori, infine sono gli elementi in base ai quali accertare che le funzioni si siano svolte in modo conforme ai parametri.
Una esame a volo d’uccello sul contenuto dei parametri fa comprendere come, ad esempio, la capacità non coincida affatto con la mera conoscenza del diritto e neppure con le modalità di redazione dei provvedimenti giudiziari: accanto a tale aspetti, ovviamente necessari dal possesso vi sono la conduzione delle udienze da parte di chi le l’idoneità a utilizzare, dirigere e controllare i collaboratori e gli ausiliari, l’attitudine a cooperare, a svolgere funzioni di direzione amministrativa, anche con riferimento ai compiti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del D.Lgs. n. 240/2006, la capacità di sinergia ed al coordinamento con soggetti istituzionali terzi aventi, il comprovato possesso di competenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell'esercizio della funzione giurisdizionale.
Non tutti questi aspetti, per una problematicità collegata ai tempi del processo e alla parziale informatizzazione dei procedimenti giudiziari, sono di solito concretamente accertati.
Ad esempio il possesso di tecniche di argomentazione e di indagine non viene abitualmente valutato “anche in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento”, e ciò a prescindere dal tema delicato della riforma della sentenza quale elemento sintomatico di un errore giudiziario.
Gli altri parametri poi, sono rappresentativi di una professionalità a tutto tondo: la laboriosità si desume dal dato quantitativo, la diligenza da elementi come l’assiduità e dalla puntualità nella presenza in ufficio e dalla partecipazione alle riunioni; l’impegno dalla disponibilità alle sostituzioni di magistrati assenti, nonché dalla frequenza della partecipazione o nella disponibilità a partecipare ai corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola superiore della magistratura e dalla collaborazione alla soluzione dei problemi di tipo organizzativo e giuridico.
Il legislatore, pertanto, non ha in mente un modello di magistrato monade, che si reca in ufficio per celebrare le udienza tabellarmente previste e depositare i provvedimenti, ma un magistrato che è presente, è disponibile per gli altri colleghi, il personale amministrativo, partecipa alla gestione complessiva dell’ufficio.
Anche la stessa tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari, ferma restando l’assoluta libertà di decisione e di contenuto viene improntata ad un modello di giudice contemporaneo, privo di ogni referenzialità: essa va apprezzata, tenendo conto quali indicatori della “chiarezza, completezza espositiva e capacità di sintesi nella redazione dei provvedimenti giudiziari, in relazione ai presupposti di fatto e di diritto, nonché dalla loro congruità rispetto ai problemi processuali o investigativi affrontati”. In poche parole la sentenza trattato, il cui contenuto è in buona parte svincolato dalle emergenze processuali e dalle questioni che in concreto devono essere risolte non è una buona sentenza ai fini della valutazione di professionalità e non lo è neppure per il conseguimento delle funzioni di legittimità alle quali storicamente è legata.
Un capitolo molto spinoso nella storia consiliare e oggetto di lunghe dispute da parte della magistratura associata e poi quello degli standard medi di rendimento. L’art. 11, comma 2 del d.lgs. 160/2006 prevede che la laboriosità venga valutata “tenuto anche conto degli standard di rendimento individuati dal Consiglio superiore della magistratura, in relazione agli specifici settori di attività e alle specializzazioni”. L’attuale Circolare prevede che gli indici di laboriosità siano costituiti: oltre che dal numero di procedimenti e processi definiti per ciascun anno in relazione alle pendenze del ruolo, ai flussi in entrata degli affari, e alla complessità dei procedimenti assegnati e trattati, verificati sulla base delle statistiche e dei dati forniti dai capi degli uffici ed eventualmente dai magistrati in valutazione; dal rispetto degli standard medi di definizione dei procedimenti, determinati annualmente dal CSM Consiglio e comunicati, tramite una scheda individuale, ai magistrati in valutazione, ai capi degli uffici ed ai Consigli giudiziari. Tali standard sono individuati anche in base alla media statistica della produzione dei magistrati dell’ufficio di cui il magistrato sottoposto a valutazione fa parte ed assegnati a funzioni, sezioni, gruppi di lavoro omogenei a quest’ultimo. La necessità per i magistrato di adeguamento agli standard costituisce uno dei punti più dibattuti. Va ricordato, tuttavia, che sempre la Circolare prevede che vanno, comunque, valutati non in sé ma alla luce “della complessiva situazione organizzativa e strutturale degli uffici; dei flussi in entrata degli affari; della qualità degli affari trattati, determinata in ragione del numero delle parti o della complessità delle questioni giuridiche affrontate; dell’attività di collaborazione alla gestione dell’ufficio ed all’espletamento di attività istituzionali; dello svolgimento di incarichi giudiziari ed extragiudiziari di natura obbligatoria; di eventuali esoneri dal lavoro giudiziario; di eventuali assenze legittime dal lavoro diverse dal congedo ordinari” (Capo V della Circolare)
Nonostante il lungo lavoro svolto dalla Commissione incaricata anni addietro dal Consiglio, gli standard non sono operativi, sebbene essi siano stati oggetto di recente riformulazione, non ancora approvata dall’istituzione consiliare.
6.6. L’esito della valutazione e i possibili sfasamenti temporali
La valutazione va compiuta sulla scorta dei parametri su indicati si conclude con un giudizio:
a) "positivo", quando la valutazione è sufficiente in relazione a tali parametri. In tal caso, il magistrato consegue la valutazione di professionalità ed è sottoposto a successiva valutazione quadriennale;
b) "non positivo", quando emergono carenze in relazione a uno o più dei medesimi parametri. In tal caso il magistrato è soggetto ad ulteriore valutazione per il periodo di un anno;
c) "negativo", quando risultano gravi carenze in relazione a due o più dei parametri o il perdurare di carenze in uno o più dei parametri che hanno portato ad un precedente giudizio "non positivo". In tal caso il magistrato è soggetto ad ulteriore valutazione per un periodo di due anni. (art. 11, co. 9, D.Lgs. n. 160/2006, come modificato dall’art. 2, L. n. 111/2007).
Tale previsione deve essere integrata con quella contenuta nella Circolare n. P-20691 che specifica, sulla base degli indicatori previsti, quali siano le condizioni affinché il giudizio su ciascun parametro sia positivo, carente o gravemente carente, precisando che è “carente” qualora difetti significativamente, senza mancare del tutto, una delle condizioni previste per ciascun parametro, qualora manchi del tutto una delle condizioni o difettino significativamente almeno due delle condizioni. La Circolare, quindi, stabilisce che il giudizio di professionalità è “positivo” quando risultino positivi tutti i parametri di valutazione, mentre è “non positivo” quando uno o più parametri risultino carenti o anche uno solo dei parametri sia giudicato gravemente carente, siano comunque positivi i profili dell’indipendenza, dell’imparzialità e dell’equilibrio; infine, è “negativo” il giudizio di professionalità quando sia negativo il profilo dell’indipendenza, dell’imparzialità o dell’equilibrio, o risultino gravemente carenti due o più degli altri parametri, o ancora, dopo un giudizio di professionalità non positivo, perduri per il successivo anno la valutazione di “carente” in ordine al medesimo parametro.
Quanto agli effetti, il giudizio “non positivo” comporta che il Consiglio Superiore della Magistratura proceda ad una nuova valutazione di professionalità dopo il decorso di un anno dalla scadenza del periodo relativo alla precedente valutazione, acquisendo un nuovo parere dal Consiglio giudiziario; ulteriore effetto è quello per il quale il nuovo trattamento economico o l’aumento periodico di stipendio, ove correlati alla specifica valutazione di professionalità in esame, siano corrisposti solo a decorrere dalla scadenza dell’anno se il nuovo giudizio è positivo. Infine, nell’anno antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari.
Più penalizzanti sono, invece, le conseguenze in caso di valutazione negativa: innanzitutto, la nuova valutazione di professionalità avviene dopo un biennio; inoltre, il Consiglio Superiore della Magistratura può disporre che il magistrato partecipi ad uno o più corsi di riqualificazione professionale, individuati in relazione alle specifiche carenze di professionalità riscontrate, può procedere ad assegnare il magistrato, previa sua audizione, ad una diversa funzione della medesima sede o escluderlo anche dalla possibilità di accedere ad incarichi direttivi, semidirettivi od a funzioni specifiche, e non può autorizzare lo svolgimento di incarichi extragiudiziari nel biennio antecedente alla nuova valutazione.
Circa l’incidenza sul trattamento economico, la valutazione negativa comporta la perdita dell’aumento periodico di stipendio per il biennio successivo e l’acquisizione del nuovo trattamento solo in caso di giudizio positivo e con decorrenza dalla scadenza del biennio (art. 11, comma 12).
In pratica, la valutazione non positiva o negativa determina un’alterazione definitiva della scansione temporale di tutte le valutazioni di professionalità giusta la decorrenza della valutazione dal completamento dell’ulteriore periodo di “prova” di uno o due anni[16].
Il secondo giudizio negativo comporta la dispensa dal servizio.
L’ordinamento giudiziario prevede ulteriori ipotesi di disallineamento definitivo, quanto ai tempi e alla decorrenza degli effetti, delle valutazioni del magistrato rispetto ai colleghi con il medesimo decreto ministeriale: le condanne disciplinari alla perdita di anzianità e le misure cautelari disciplinari di sospensione dalle funzioni (salvo successiva assoluzione)[17].
Sul piano della carriera le valutazioni di professionalità determinano effettivi significativi in quanto il magistrato, oltre ad non poter accedere agli uffici per i quali è richiesta la valutazione di professionalità non conseguita e ad essere destinatario di un potenziale diniego di accesso a incarichi direttivi o semidirettivi, ove consegua un secondo giudizio negativo, viene dispensato dal servizio.
Occorre delineare alcuni punti fermi nella ricostruzione del sistema delle valutazioni di professionalità.
1) Il magistrato è dispensato dal servizio solo nel caso in cui consegua un doppio giudizio negativo relativo alla medesima valutazione di professionalità, e non quando vengono espressi due giudizi negativi riguardanti valutazioni diverse nell’arco dell’intera carriera.
Va detto a riguardo, che il dato normativo primario, prevedendo all’art. 11, comma 13 che “Se il Consiglio superiore della magistratura, previa audizione del magistrato, esprime un secondo giudizio negativo, il magistrato stesso e' dispensato dal servizio” non indica, almeno non espressamente, che esso debba riferirsi al periodo immediatamente successivo ad un precedente giudizio di segno negativo.
La norma, tuttavia, non appare estremamente chiara a riguardo e risulta interpretata in senso restrittivo dalla Circolare consiliare.
La Circolare si esprime, infatti, al par. XVII in termini non del tutto identici: “6. Il Consiglio Superiore, in caso di primo giudizio negativo, procede a nuovo scrutinio trascorsi due anni dalla scadenza del quadriennio per il quale si è riportata la valutazione negativa. Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, commi 11 e 12 del d.lgs. n.160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo biennale di rivalutazione. 7. Qualora la seconda valutazione del Consiglio superiore abbia esito negativo, il magistrato è dispensato dal servizio”.
Il riferimento al “nuovo” o “supplementare” scrutinio e al periodo biennale consente di ritenere, piuttosto agevolmente, che per il Consiglio il magistrato vada dispensato solo ove consegua due giudizi negativi per la medesima valutazione.
Alla luce di una lettura integrata sella normativa primaria con quella secondaria emerge, pertanto, che tale grave effetto consegue esclusivamente nel caso in cui, in relazione alla medesima valutazione si determini una sequenza di giudizi negativo-negativo, negativo-non positivo-negativo o ancora, non positivo-negativo-negativo.
2) Un secondo aspetto di rilievo da tenere in considerazione per la tematica in esame è costituito dal fatto che il Capo X della Circolare prevede tre ipotesi alternative che conducono ad un giudizio negativo: a) assenza delle precondizioni (indipendenza, imparzialità e d equilibrio); b) grave carenza di due più parametri; c) dopo una valutazione non positiva, nell’anno di monitoraggio successivo, perdurante carenza specifica del medesimo parametro già oggetto della precedente rilevazione. Da ciò si desume che, nel caso di giudizio successivo ad una valutazione non positiva, solo nel caso sub c) è necessaria l’identità del parametro. Non potrebbe, peraltro, essere diversamente, posto che se una negativa può essere espressa nei casi sub a) e b) successivamente ad un giudizio positivo, certamente la medesima conclusione non può essere impedita dal fatto che il magistrato abbia già mostrato delle carenze e successivamente, recuperate le stesse, abbia manifestato altre gravi lacune, tra le quali il difetto dei cd. prerequisiti. Si osservi a riguardo che la norma primaria indica alternativamente tali ipotesi: “è "negativo" quando la valutazione evidenzia carenze gravi in relazione a due o più dei suddetti parametri o il perdurare di carenze in uno o più dei parametri richiamati quando l'ultimo giudizio sia stato "non positivo".”.
Una terza premessa è costituita dalla successione temporale delle valutazioni.
Sopra chiarito come operi e quali effetti abbia il giudizio negativo, occorre evidenziare che il sistema normativo presuppone univocamente una rigida successione cronologica delle valutazioni in modo da: a) conservare l’allineamento delle valutazioni e della loro decorrenza giuridica tra i magistrati dello stesso concorso quando non vi siano criticità (tanto che la normativa secondaria indica espressamente che questo sia l’obiettivo da raggiungersi tendenzialmente a distanza di otto mesi dalla scadenza del quadriennio); b) prevedere una decorrenza differita, ma fissata con certezza nel tempo, per il magistrato nei cui confronti è espresso un giudizio non positivo o negativo; c) evitare che vi siano zone d’ombra nelle valutazioni che sottraggono a qualsiasi valutazione l’operato del magistrato.[18]
6.6.1. Un caso di valutazione negativa espressa dal Consiglio giudiziario
Il Consiglio giudiziario ha espresso parere negativo sul riconoscimento della quarta valutazione di professionalità nei confronti del dott. X magistrato ordinario con funzioni di sostituto procuratore della Repubblica, imperniato su una aggressione nei confronti degli agenti di polizia municipale che lo avevano colto di notte in stato di ebbrezza alla guida della sua autovettura e per la quale era stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale per i reati di cui agli artt. 186, comma 1, lett. c), del codice della strada (guida in stato di ebbrezza), 337, 582, 585, 576, in relazione all'art. 61, n. 2), del Codice penale (resistenza a pubblico ufficiale e lesioni lievi aggravate), e che (all'epoca del parere) il dibattimento era tuttora pendente.
Il CG ha esaminato il merito delle imputazioni, rilevando che il magistrato sorpreso nottetempo alla guida di una vettura in stato di ebbrezza “avrebbe reagito con violenza e minaccia, accompagnate, peraltro, da una impropria rivendicazione dell'autorevolezza derivante dal proprio ruolo di magistrato (...) procurando, altresì, ad uno degli operanti (che, secondo quanto contestato, sarebbe stato afferrato per il collo e strattonato) lesioni lievi”. Nel prosieguo il Consiglio giudiziario riferisce: di una "controdenuncia" del dott. X nei confronti degli agenti municipali per reati di falso in atto pubblico, calunnia, abuso d'ufficio, arresto illegale e lesioni personali, tuttavia, archiviata dal competente G.I.P. presso il Tribunale; e di un ulteriore procedimento con il magistrato nella veste di indagato, per i reati di ingiuria aggravata continuata ai danni dei medesimi agenti di polizia per i fatti commessi la stessa notte, scaturito da una successiva querela sporta da questi ultimi, e definito con sentenza di non doversi procedere per remissione di querela dal Giudice di pace.
Sulla base di questi elementi, il Consiglio giudiziario ha ritenuto che entrambe le notizie di reato a carico del dott. X fossero "quanto meno non manifestamente infondate", in seguito al superamento del vaglio dell'udienza preliminare e l'approdo alla successiva fase dibattimentale. Per quanto riguarda la seconda, essa è stata definita non già con un "proscioglimento nel merito", ma di improcedibilità.
Secondo il Consiglio giudiziario tali notizie di reato sono "sintomatiche, ove dimostrate, di una palese e gravissima carenza di equilibrio (trattandosi di comportamenti che, sebbene posti al di fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, denoterebbero una arrogante percezione della propria funzione ed una totale assenza di rispetto verso l'operato delle forze dell'ordine, per giunta da parte di un magistrato del pubblico ministero, che con le stessa interagisce quotidianamente) ".
A conclusione di questa disamina, nella parte finale del parere l'organo preposto alla valutazione si esprime in questi termini: "la gravità dei fatti per i quali pende procedimento penale (...) non consente, allo stato, di formulare un parere positivo in ordine al parametro dell'equilibrio". Infine, stante la carenza nei parametri della capacità e impegno, il giudizio globale sulla professionalità del magistrato è negativo.
Dal punto di vista procedimentale e delle fonti, la peculiarità del caso consisteva anche nell’assenza di rilievi da parte del procuratore capo.
Nel ritenere non decisivo tale elemento il Consiglio di Stato, nel ritenere legittimo, riformando la sentenza di primo grado l’operato del consiglio giudiziario (Cons. Stato Sez. V, Sent., 26 ottobre 2016, n. 4471), evidenzia che, sebbene l’art. 11, D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 160 si limiti a richiedere che nelle valutazioni periodiche di professionalità siano acquisiti "il rapporto e le segnalazioni provenienti dai capi degli uffici, i quali devono tenere conto delle situazioni specifiche rappresentate da terzi e di pervenute dal consiglio dell'ordine degli avvocati, che incidono sulla professionalità del magistrato (comma 4, lett. f). Aggiunge, tuttavia, che, dal punto di vista istruttorio, come si è visto il comma 5 dell’art. 11 prevede l’autonomo potere del Consiglio giudiziario di assumere informazioni “su fatti specifici segnalati da suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell'ordine degli avvocati”.
Se ne ricava che l’organo preposto alla valutazione “è tenuto ad esaminare ed eventualmente acquisire ogni elemento istruttorio che possa avere rilievo ai fini del giudizio”. Nel caso di specie il Consiglio giudiziario, dopo avere preso atto che la relazione inviatagli dal capo dell'ufficio non conteneva alcun rilievo e, in particolare, elementi che potessero essere utilizzati ai fini del giudizio sul parametro dell'equilibrio, ha proceduto ad una valutazione negativa sulla base dell'ulteriore "documentazione acquisita in sede istruttoria", relativa ai fatti oggetto di procedimento penale a carico dell'odierno appellato. Peraltro, l’acquisizione ulteriori informazioni dalla persona del Procuratore capo, che era stata ritenuta decisiva del TAR, costituisce – secondo il Consiglio di Stato - una mera facoltà ulteriore di cui il Consiglio giudiziario può discrezionalmente decidere di avvalersi.[19]
6.7. Il rapporto tra valutazione di professionalità e giudizio disciplinare
Un aspetto importante del procedimento è quello del cd. principio di autonomia tra valutazioni di professionalità e giudizio disciplinare. Il par. XII della Circolare disciplina la sospensione del procedimento in caso di pendenza disciplinare attribuendo la competenza alla Commissione con provvedimento motivato e distinguendo le ipotesi di sospensione obbligatoria (nel caso di sospensione della funzioni e dallo stipendio in via obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 21, D.L.vo n.109/2006, in quanto a) sottoposto a misura cautelare personale nell’ambito di un procedimento penale; b) sospeso in via facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 22, D.L.vo n. 109/2006; c) sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo; d) sospeso in via facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 22 D.L.vo n. 109/2006, in quanto sottoposto a procedimento disciplinare e quella di sospensione facoltativa (quando difetti la sospensione disciplinare in tutti gli altri casi di pendenza di procedimento penale e/o disciplinare, anche anteriormente all’esercizio dell’azione penale e/o disciplinare, nonché nelle ipotesi di formale apertura del procedimento di trasferimento d’ufficio ai sensi dell’art. 2 R.D.Lgs. n. 511/1946), a condizione che “l’accertamento dei fatti oggetto del procedimento penale e/o disciplinare incida sulla definizione della procedura di valutazione della professionalità”.
Molto delicata è l’interpretazione dell’ultimo comma in base al quale “3. I fatti accertati in sede disciplinare sono oggetto di autonoma valutazione da parte del Consiglio superiore della magistratura ai fini della valutazione di professionalità, indipendentemente dall’esito, di condanna o di assoluzione, del procedimento disciplinare”.
Ma cosa si intende con tale nozione di autonomia?
Essa non si traduce in irrilevanza del disciplinare.
Una tesi sostenuta in ambito consiliare afferma che far seguire alla condanna disciplinare la valutazione di professionalità negativa significhi penalizzare due volte per il medesimo fatto il magistrato e si traduce, pertanto, in un sorta di bis in idem. Si tratta, tuttavia di una idea fuorviante. A prescindere dal fatto che portando alle sue estreme conseguenze tale tesi poterebbe a risultati del tutto irrazionali, perché nella Circolare sarebbe prevista la sospensione del procedimento solo affinché il magistrato condannato disciplinarmente possa eccepire il bis in idem quanto alla valutazione di professionalità (perché in altra sede sanzionato), deve replicarsi che, più semplicemente con tale principio si intende solo evidenziare l’autonomia di giudizio della Quarta Commissione e della Sezione Disciplinare del CSM.
Una autonomia che non riguarda tanto il tipo di giudizio espresso (perché la Commissione è vincolata alla condanna o all’assoluzione del magistrato dall’addebito disciplinare, senza poter ribaltare il giudizio del giudice disciplinare), ma l’oggetto del giudizio stesso. Il CSM, come organo amministrativo, valuta la professionalità complessivamente espressa nel quadriennio, formulando un giudizio che può essere positivo o negativo indipendentemente dall’esito del disciplinare: il magistrato condannato disciplinarmente potrà ricevere una valutazione positiva e quello assolto, invece, una negativa. Tuttavia, la Commissione deve tenere in considerazione anche i fatti oggetto del disciplinare, con il vincolo del solo accertamento di fatto compiuto dal giudice disciplinare e, deve ritenersi, anche della sua qualificazione giuridica. Ciò non esclude, tuttavia, che anche il singolo comportamento possa essere determinate ai fini del giudizio negativo di professionalità.[20]
Allo stato la questione sembra risolta dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha recentemente affermato (Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339) testualmente che: “Il fatto, sebbene successivamente accertato nella sua rilevanza disciplinare, non perde la sua autonomia quale condotta materiale, come confermato dalla circostanza che - mentre in sede disciplinare la sanzione è stata applicata in conseguenza della accertata lesione del prestigio della magistratura - nella diversa sede del giudizio sulla progressione di carriera quella medesima condotta è stata autonomamente apprezzata - nella piena completezza informativa assicurata dal vaglio disciplinare - come sintomatica di una grave mancanza di equilibrio. Sussiste cioè una ipotesi di pluriqualificazione giuridica della fattispecie, a fini disciplinari ed a fini di progressione di carriera, fermo restando che, come correttamente osservato dal T.a.r., l'esistenza di precedenti disciplinari e penali rileva comunque, in sé, ai fini della progressione di carriera, in quanto concorre alla valutazione complessiva della personalità professionale del magistrato. Pertanto deve escludersi che vi sia stata una duplicazione degli effetti sanzionatori, atteso che la sanzione disciplinare ha sì concorso alla valutazione globale della competenze tecniche del magistrato e della sua personalità professionale, ma la condotta materiale sanzionata è stata autonomamente valutata rispetto ai parametri professionali, quale circostanza idonea a rivelare una grave mancanza di equilibrio”.
Per esemplificare in caso di assoluzione disciplinare perché il fatto non sussiste, la IV^ Commissione dovrà escludere la rilevanza di tali fatti. In caso di esclusione dell’elemento soggettivo da parte del giudice disciplinare, invece, essa potrà tenere conto della condotta materiale; in caso di proscioglimento per tenuità del fatto, (es. ritardi nel deposito dei provvedimenti), potrà comunque valutare tale condotta unitamente alla diligenza complessiva del magistrato (considerando, ad esempio, la puntualità o i ritardi nel deposito nei periodi diversi da quelli oggetto di addebito disciplinare).
Si tratta di questioni che possono essere in concreto particolarmente intricate, come accade quando l’addebito disciplinare, necessariamente legato a condotte ben circoscritte, si unisce ad un quadro di comportamenti più ampio, non addebitabile disciplinarmente, ma rilevante per la valutazione di professionalità e/o per l’incompatibilità ambientale del magistrato.
6.7.1. Sospensione dal servizio
Come in precedenza accennato, la Circolare consiliare, a seguito delle modifiche disposte nel 2017 chiarisce che i periodi di valutazione debbano essere necessariamente più ampi rispetto a quello ordinariamente quadriennali qualora il magistrato, per una pluralità di cause, non presti servizio. La Relazione illustrativa chiarisce tale aspetto: “Nei casi in cui il magistrato non abbia svolto attività lavorativa, appunto per condanna disciplinare alla sospensione dalle funzioni ovvero per congedo straordinario nei casi dettagliatamente indicati dal capo XIII qui novellato, è logico e coerente che quei periodi non possano essere conteggiati ai fini della valutazione di professionalità ché altrimenti si ridurrebbe irragionevolmente il periodo di valutazione ovvero non si terrebbe conto della necessaria posticipazione della carriera, determinata tanto dalle condanne disciplinari alla perdita di anzianità quanto dai casi di aspettativa o congedo straordinario che determinano una perdita di anzianità.”[21]
La dilazione della valutazione risulta coerente con il non esercizio delle funzioni e, pertanto, con la mancanza di un oggetto effettivo della valutazione.
6.8. I problemi del ritardo nella conclusione del procedimento di valutazione di professionalità
Aspetto diverso dalla divergenza temporale delle valutazioni del magistrato che non consegue valutazioni tutte positive rispetto ai colleghi di concorso è quello del ritardo in cui intervene il giudizio di professionalità rispetto alla scadenza del periodo di valutazione.
Il meccanismo nel quale si articolano le valutazioni di professionalità e il procedere asincrono del termine finale del periodo di valutazione (ancorato al solo dato temporale) e del giudizio successivo (che dipende dai tempi di definizione del procedimento), per quanto talora inevitabili, possono determinare, qualora la prima delle due valutazioni in sequenza sia negativa o non positiva, delle conseguenze certamente non auspicabili.[22]
Si tratta di un problema che si accentua quando il procedimento di valutazione è sospeso per la pendenza di un procedimento disciplinare che peraltro, a sua volta, può essere sospeso in attesa della definizione del processo penale.
L’esemplificazione consente di comprendere bene il problema.
Può ipotizzarsi che il magistrato debba ricevere la seconda valutazione di professionalità a seguito del completamento del periodo 01.1.2011-31.1.2014 e che per le criticità riscontrate e per la sospensione del procedimento per la pendenza di disciplinare, solo nel 2017 venga espresso un giudizio negativo su tale periodo.
A questo punto, il giudizio negativo modifica la sequenza temporale e il magistrato deve essere oggetto di valutazione non per il periodo 1.1.2015-31.12.2016 (previsto a seguito di giudizio positivo), ma per il periodo 01.01.2015-31.12.2016. Il magistrato svolge le funzioni in tale biennio senza sapere che per il quadriennio antecedente verrà poi formulato un giudizio negativo. Al momento della valutazione del biennio 2015-2016 nel 2018 l’interessato riceve il preavviso di giudizio negativo e ha un pieno diritto di difesa quanto alla fondatezza del giudizio, ma non può ovviare alle gravi carenze segnalate nella valutazione del periodo 2011-2015 e 2015-2016.
Si tratta di una evenienza difficilmente evitabile in quanto la giurisprudenza afferma al contempo che:
- deve tenersi conto dei fatti oggetto del giudizio disciplinare[23], e che, pertanto, non può che attendersi l’esito del relativo giudizio ove non sia possibile in sede di quarta commissione una compiuta e celere istruttoria a riguardo, ferma l’autonomia dei due procedimenti;
- il principio di pertinenza della condotta rilevante al periodo di valutazione ha carattere inderogabile, non potendo essere traslato il relativo giudizio ad un periodo successivo a quello in cui è stata posta in essere[24]. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato i fatti oggetto di rilievo disciplinare devono riferirsi al periodo oggetto di valutazione, per cui la sentenza disciplinare intervenuta successivamente per fatti anteriori non può essere utilizzata per negare la valutazione positiva di professionalità del quadriennio successivo (cfr. es. Cons. Stato, Sez. V, n. 3442/2017)[25].
In senso contrario altra pronuncia, tuttavia, si afferma, invece, che <<quando un episodio non è stato valutato dal C.S.M. in sede di progressione di carriera, perché ancora oggetto di esame in sede disciplinare, il medesimo episodio - una volta accertato nella sede disciplinare - ben può essere preso in considerazione in occasione della successiva valutazione dell'interessato>>.[26]
Assecondare le conflittuali esigenze di accertamento (e relativi tempi) e di pertinenza dei fatti al periodo in valutazione comporta che, quando la loro natura non può essere agevolmente accertata nel procedimento amministrativo della IV Commissione, occorre opportunamente attendere il giudizio disciplinare (o anche del procedimento di trasferimento ex art. 2 l. guarentigie) prima di procedere alla valutazione del magistrato, con ciò potendo verificarsi il superamento dei periodi di osservazioni abbreviati previsti in caso di giudizio non positivo o negativo.
Per comprendere se tale evenienza sia stata presa in considerazione dal legislatore e quali siano i rimedi occorre, quindi, di ricostruire le modalità attraverso le quali il legislatore primario ha inteso regolare il procedimento di valutazione di professionalità successivo ad una valutazione negativa o non positiva e, nello specifico, analizzare se esso presupponga giuridicamente che il magistrato sia consapevole dell’esito sfavorevole del pregresso giudizio.
Non si tratta di un problema di contraddittorio endoprocedimentale e della possibilità di contrastare il giudizio di segno negativo del consiglio giudiziario o, in ipotesi, anche della IV^ commissione, perché la circolare consiliare assicura ampiamente il diritto di difesa del magistrato all’interno del procedimento valutativo (al quale, per l’ipotesi dell’adozione di un giudizio negativo, è dedicato l’intero par. XVIII della Circolare).
Si tratta, invece, di comprendere la natura e le finalità del giudizio di segno negativo per accertare se esso rappresenti una semplice ricostruzione de praeterito della professionalità espressa nel quadriennio oppure abbia anche altre finalità di indirizzo o “tutorie” nei confronti del magistrato.
L’art. 11, comma 1 si esprime nei seguenti termini “1. Se il giudizio è "negativo", il magistrato è sottoposto a nuova valutazione di professionalità dopo un biennio. Il Consiglio superiore della magistratura può disporre che il magistrato partecipi ad uno o più corsi di riqualificazione professionale in rapporto alle specifiche carenze di professionalità riscontrate; può anche assegnare il magistrato, previa sua audizione, a una diversa funzione nella medesima sede o escluderlo, fino alla successiva valutazione, dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi o semidirettivi o a funzioni specifiche. Nel corso del biennio antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari”.
La Circolare in proposito, riprendendo il testo dell’art. 10 d.lgs. 160/2006, comma 11, recita, al par. XVII.5: “5. Laddove il Consiglio superiore abbia espresso giudizio negativo la delibera deve indicare espressamente i parametri deficitari e, per l’effetto, specificare: - se il magistrato debba eventualmente partecipare a corsi di riqualificazione professionale, indicandone la natura ed il numero; - se il magistrato sia inidoneo all’esercizio di particolari funzioni e se, in tal caso, si imponga un’assegnazione ad altra funzione fino alla successiva valutazione; - se si imponga l’esclusione dall’accesso ad incarichi direttivi, semidirettivi o a funzioni specifiche, indicandone la natura. In tali casi copia della delibera va trasmessa alla Scuola superiore della magistratura, salvo quanto previsto dalla disciplina transitoria, o alle articolazioni consiliari competenti per l’ulteriore corso”.
Ancora il successivo comma 6 dispone che “Il Consiglio Superiore, in caso di primo giudizio negativo, procede a nuovo scrutinio trascorsi due anni dalla scadenza del quadriennio per il quale si è riportata la valutazione negativa”.
Il dato testuale della normativa primaria evidenzia una netta divergenza quanto al tipo di provvedimento che il Consiglio è tenuto ad adottare in caso di giudizio non positivo, rispetto a quello in cui il giudizio è negativo: nel primo caso, infatti, il Consiglio non può adottare alcuna misura tesa ad ovviare le ricadute delle carenze riscontrate nella professionalità del magistrato. Nel secondo caso, invece, può adottare le misure in precedenza esposte.
Ma che natura e funzione hanno tali prescrizioni e a chi sono indirizzate?
Innanzitutto, si tratta di previsioni di carattere facoltativo e, come tali, rimesse alla discrezionalità consiliare.
In secondo luogo, esse sono dirette, in sostanza, al dirigente perché provveda ad adottare le misure organizzative indicate dal Consiglio, e non al magistrato. Esse, infatti, appaiono in prima battuta e direttamente volte a ridimensionare gli effetti negativo dell’esercizio carente delle funzioni giurisdizionali e non assumono carattere prescrittivo nei confronti del magistrato, disponendosi alternativamente l’assegnazione ad altre funzioni (in deroga al divieto di inamovibilità) o l’esclusione da incarichi o specifiche funzioni.
Solo l’obbligo di frequentazione di corsi di riqualificazione vede come destinatario il magistrato, ma esso ha carattere, come può apprezzarsi del tutto generico ed attiene a criticità organizzative o gravi lacune di competenza.
Di certo, tuttavia, la norma primaria non prevede in alcun modo che al magistrato vengano fornite prescrizioni su modalità di esercizio della funzione o obiettivi da raggiungere.
Ne consegue che il giudizio da esprimersi dopo la valutazione negativa resta del tutto identico a quello del magistrato che viene valutato all’esito del quadriennio.
Ciò comporta che il magistrato non è – almeno non in termini giuridici - orientato, né potrebbe esserlo a garanzia della sua indipendenza, nel rispetto al quomodo dell’esercizio delle funzioni né tanto meno, ove si registrino ritardi rilevanti o carenze organizzative il Consiglio può prescrivere in che modo egli debba ovviarvi. Trattasi, quindi, nei limiti nei quali non si invada la sfera di autonomia del magistrato, di rimedi rimessi nella loro attuazione al capo dell’ufficio che deve approntare i rimedi organizzativi necessari a ovviare alle disfunzioni cagionate a seguito delle carenze professionali palesatesi.
Inoltre, occorre constatare che l’art. 11, comma 2 prevede che per tutte le valutazioni valgano i medesimi parametri, indipendentemente dal momento dalla fase della progressione in carriera – cioè non prevede criteri di maggior rigore per le valutazioni più avanzate e dalla natura dei giudizi precedentemente espressi, con l’eccezione del giudizio non positivo a cui segue – nell’anno successivo - il perdurare della medesima carenza dimostrata in tale occasione (il giudizio, si ripete è “negativo" anche quando “la valutazione evidenzia (…) il perdurare di carenze in uno o più dei parametri richiamati quando l'ultimo giudizio sia stato "non positivo".
Il legislatore primario, pertanto, così come quello secondario, non presuppone né espressamente, né implicitamente che il magistrato in valutazione abbia conoscenza tempestiva del giudizio negativo ricevuto in precedenza.
In altre parole, la valutazione non cambia né quanto all’oggetto né al metodo o al rigore del giudizio; ciò che muta è solo l’orizzonte temporale. La limitazione del tempo di valutazione nel caso in cui non sia conseguita la valutazione positiva è perfettamente coerente con le carenze riscontrate e con la necessità di un monitoraggio più serrato del magistrato che non è potuto progredire, dimostrando un esercizio della giurisdizione idoneo a compromettere anche severamente i diritti dei cittadini. E’ perfettamente logico, pertanto, che non si attenda un ulteriore quadriennio prima che sia nuovamente espresso un giudizio sull’operato del magistrato.
Partendo dal presupposto in precedenza indicato che il doppio giudizio negativo debba afferire alla medesima valutazione, il secondo periodo di osservazione rappresenta, in sostanza, una misura garantistica per la quale il magistrato, invece, di essere dispensato dal servizio al termine del quadriennio per una valutazione non positiva o negativa, beneficia di un periodo supplementare di osservazione che, dovendosi contemperare il suo diritto alla conservazione del posto di lavoro con un minimo di rendimento qualitativo e quantitativo, oltre che con un esercizio indipendente e equilibrato della giurisdizione, deve essere necessariamente più breve. Solo al perdurare di plurime gravi carenze viene esonerato.
La normazione secondaria non si occupa dell’aspetto della conoscenza, limitandosi a richiamare le già citate disposizione dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2006.
La consapevolezza dell’aver già ricevuto una valutazione negativa e del mutamento del regime giuridico del periodo (quanto alla durata e al possibile esito) di osservazione successivo, pertanto, assume rilievo solo come monito, come stimolo psicologico correggere il proprio operato – del quale, naturalmente, il magistrato è tenuto ad avere giuridica contezza - sì da evitare la grave conseguenza della cessazione dal servizio.[27]
Tanto richiamato, alla luce di quanto in precedenza esposto, appare comprensibile che permangano esigenze opposte, difficili da coniugare: se da un lato il rallentamento del procedimento di valutazione è fisiologico allorché emergano severe criticità, soprattutto quando esse siano oggetto di contestuale valutazione in sede disciplinare, dall’altro lato, indubbiamente il potere-dovere del Consiglio di intervenire sulle funzioni espletate dal magistrato (si è detto non quanto alle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale) è frustrato dall’espressione di un giudizio negativo sul quadriennio quando è già decorso anche l’ulteriore biennio di valutazione e, al contempo, il magistrato non avrà la possibilità di ovviare alle criticità riscontrate con la valutazione negativa.
Ulteriore restrizione allo spazio di intervento consiliare è dato dalla necessità, già indicata, di non stravolgere la sequenza temporale e l’oggetto delle valutazioni di professionalità prescritte dal legislatore. La traslazione del periodo biennale di valutazione ad un momento successivo a alla comunicazione del giudizio negativo comporta anche la possibilità di effetti giuridici in malam partem ove il magistrato non abbia manifestato gravi carenze nel biennio previsto ope legis di monitoraggio biennale. In tal caso egli, tornando all’esempio, incrementando notevolmente la produttività quanto al parametro della laboriosità negli anni (2015-2016) successivi al 2011-2014, ha acquisito l’aspettativa giuridicamente tutelata di ottenere una valutazione positiva. Per contro, ove la grave carenza di produttività si sia ripetuta nel periodo “traslato”, da considerarsi dopo la comunicazione del giudizio negativo egli, invece, di conseguire la valutazione di professionalità maturata con un biennio positivo dopo quello negativo, dovrebbe essere valutato negativamente per il periodo 2017-2018 e dovrebbe essere dispensato dal servizio.
Nel caso, invece, di giudizio positivo sul 2017-2018, resterebbe non valutato il periodo pregresso, nonostante, per evitare effetti in malam partem, la valutazione positiva dovrebbe essere riconosciuta con effetto dal 2016, e non dal 2018.
Concludendo sul punto, la necessità di tener conto di elementi non ancora definiti quanto alla valutazione di professionalità, combinata a quella di delimitare rigorosamente il periodo in valutazione senza traslazione determina una oggettiva impossibilità di addivenire nei casi critici ad una delibera di valutazione non positiva o negativa immediatamente a ridosso della scadenza del quadriennio.
7. Le modalità espressive del giudizio sulla professionalità del magistrato
Il dibattito sulle modalità attraverso le quali esprimere le valutazioni di professionalità non si è mai sopito.
Alcuni ritengono che i pareri di valutazione periodica di professionalità debbano essere ridotti al minimo, servendo esclusivamente a verificare se quel magistrato può proseguire il proprio lavoro. Ne costituisce un logico corollario che i pareri dovrebbero essere analitici solo se sussistono criticità.
Altri, invece, sostengono che i pareri debbano essere analitici ed esprimere tutte le qualità del magistrato, con particolare riguardo a quelle rilevanti per la valutazione degli incarichi. Non solo per quelli semidirettivi o direttivi, ma anche per quelli più legati alla professionalità giudiziaria (si pensi alla nomina a magistrato di Cassazione) o a specifiche funzioni extragiudiziarie, quali quelle formative, informatiche e ordinamentali.
In un articolo dal titolo indovinato “Basta aggettivi!”,[28] si afferma che essi non costituiscono non più semplicemente un onorifico riconoscimento di professionalità appiattito verso l’alto e valido per tutti, ma “l’ambito di verifica delle prospettive di carriera dei magistrati, atteso che l’utilizzo di un “eccellente” assume un rilievo straordinario nelle successive valutazioni comparative del Csm”.
Si è sottolineato, ancora, che nei consigli giudiziari “si discute spesso su adeguato, buono, ottimo, eccellente, come se il parere dovesse creare una graduatoria da giocarsi nella carriera futura” e che si tratterebbe di un atteggiamento errato in quanto la Circolare afferma in modo inequivoco che “il dispositivo del parere contiene il giudizio finale, positivo, non positivo o negativo, senza aggettivazioni relative a tali giudizi”.
Naturalmente la Circolare che, in effetti, vieta gli aggettivi nella sola parte dispositiva, rileva fino ad un certo punto, potendo essere cambiata con una nuova delibera consiliare. Quella espressa con tale tesi, non è tanto una interpretazione del reale, quanto una proposta, perché gli aggettivi, salvo quelli negativi non hanno rilevanza per la valutazione di professionalità, ma contano, eccome, per il conferimento di incarichi direttivi e di altra natura, sia pure come caratterizzazione di esperienze ed attività svolte o sulla qualità di redazione dei provvedimenti giudiziari.
Il problema non è tanto quello di aggettivare o meno, ma quello delle fonti a cui attingere, non per la valutazione di professionalità, ma per il successivo conferimento delle funzioni: se gli aggettivi sono voti impliciti e scarsamente sindacabili, come sostituirli nelle procedure comparative e in quelle fondate su punteggi (per attitudine, merito e anzianità) . Non è questa la sede per affrontare funditus tale tematica, ma rappresenta un fatto che l’attuale Testo unico sulla dirigenza giudiziaria contiene numerosi elementi di valutazione (indicatori) dell’attitudine ad un determinato incarico direttivo e che, naturalmente, rileva non solo cosa si sia fatto, ma anche il come si è svolto un determinato lavoro (e quindi, i problematici aggettivi), tanto che occorre sempre indicare i risultati conseguiti. Il TU, quindi, non richiede comparazioni fatte in base aggettivi, ma neppure li espunge e, anzi a fronte di esperienze analoghe, delinea un giudizio comparativo nel quale la valutazione dei dirigenti sull’operato dei magistrati può sostituire l’ago della bilancia.
Inoltre, per il conferimento delle funzioni di legittimità, oltre a doversi tenere conto della capacità scientifica e di analisi delle norme, deve essere scandagliato l’intero profilo professionale del magistrato in conformità ai criteri propri delle valutazioni di professionalità (art. 12 d.lgs. 160 del 2006) che, pertanto, restano l’ossatura sulla quale valutare anche l’attitudine a determinati incarichi. E’ evidente che se si tratta di giudizi standardizzati nei casi, la stragrande maggioranza privi di criticità, essi non presentano alcuna utilità.
Infine, la necessità di una coerenza tra provvedimenti amministrativi, altrimenti censurabili dal giudice amministrativo, induce a non poter riformulare volta per volta il giudizio sul magistrato che aspira ad un determinato incarico disattendendo quanto precedentemente espresso, se non sulla scorta di nuovi elementi fattuali (solitamente di natura disciplinare o che attengono ai prerequisiti o a incompatibilità) non frequentemente riscontrabili.
8. Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni di professionalità
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e del T.A.R. del Lazio (T.A.R. Lazio 29 marzo 2010, n. 4924; 4 maggio 2007, n. 3926; 18 luglio 2003, n. 6358; 15 ottobre 1999, n. 2288), per ciò che concerne la delimitazione espansiva dell’esercizio del sindacato giurisdizionale sugli atti consiliari, che l’ambito dell’indagine giurisdizionale si limiti all’estrinseca legittimità del provvedimento adottato, con particolare riguardo alla fedele ricostruzione dei fatti, alla congruenza dei presupposti e logicità della motivazione, nonché all’accertamento del nesso logico di consequenzialità tra presupposti e conclusioni. Ciò al fine di accertare se il potere discrezionale del C.S.M. si sia svolto nel rispetto dei criteri generali previsti dalla legge ed in conformità ai canoni di ragionevolezza che connotano qualsivoglia potere amministrativo. È, quindi, ex converso precluso al Giudice amministrativo di sovrapporre una sua valutazione a quella effettuata dall’Organo cui tale potere spetta in via esclusiva (T.A.R. Lazio, 29 marzo 2010, n. 4924).
9. Conclusioni
Emergono dall’analisi compiuta numerose criticità del sistema delle valutazioni di professionalità.
I. Dal punto di vista generale, nonostante le articolazioni della disciplina e gli approfondimenti consiliare e associativi sul tema, potrebbe dirsi riguardo alle valutazioni di professionalità che si agita “molto rumore per nulla”: nel periodo 2008-2010 su 2.300 nuove valutazioni (che non riguardavano periodo maturati in precedenza) n. 2.297 sono state positive.
Lo scorso anno, a fronte di una attività laboriosa della IV Commissione i dati non sono molti distanti, come si evince dai grafici seguenti:
II. La quasi totalità di valutazioni positive dimostra come anche le gravi cadute deontologiche riscontrate anche negli ultimi anni stentino ad emergere, e, ancor più, ad essere prevenute attraverso una accertamento puntuale delle professionalità non adeguate. Diversi magistrati, sottoposti anche a misure cautelari personali o condannati in via definitiva in sede penale negli ultimi anni, avevano in precedenza ricevuto valutazioni positive nonostante alcuni comportamenti non irreprensibili fossero già emersi nell’istruttoria per le valutazioni di professionalità che, pertanto, non sono state in grado di evitare il decadimento progressivo della loro deontologia.
III. L’uso di aggettivazioni improprie ed attribuite spesso in modo del tutto soggettivo, senza rigore metodologico, oltre a contrastare talvolta con la logica e la matematica ( da un esame complessivo la maggior parte dei magistrati, oltre ad essere eccellente ha statistiche superiori alla media) rende problematico il successivo scrutinio dei magistrati per le funzioni direttive e di legittimità, fondate anche, o soprattutto (artt. 11 e 12 d.lgs. 1060/2006), sulle valutazioni di professionalità.
IV. Non si riesce a spezzare, inoltre, il circolo tra valutazioni di professionalità generose e al conseguente vincolo, che ne deriva per il Consiglio, sindacabile dal giudice amministrativo sotto il profilo della contraddittorietà, al momento di conferire le funzioni direttive o di legittimità.[29]
La ragione è insita in numerosi fattori tra i quali la difficoltà di esprimere giudizi negativi da parte dei dirigenti giudiziari (e prima ancora da parte dei presidenti di sezione o da parte dei procuratori aggiunti), nonché di ancorare i giudizi ad elementi concreti ed analitici, oltre che a non infrequenti tendenze “protettive” da parte dei gruppi associativi.
V. La preoccupazione del ritardo nei depositi porta taluni a privilegiare una gestione fin troppo oculata del proprio ruolo, evitando il rischio dell’assunzione di un carico eccessivo di decisioni. Si tratta di una preoccupazione eccessiva, che crea un forbice tra il rischio percepito e quello reale di ricevere una valutazione negativa (così come una condanna disciplinare), minimo e collegato a comportamenti abnormi. Alcuni eccessi ed automatismi nelle valutazioni dei ritardi in precedenti consiliature hanno alimentato oltremodo tali preoccupazioni, radicando l’idea che l’incremento della produttività con accumulazione di un arretrato, tutto sommato “fisiologico”, sia un rischio molto maggiore che contenere il numero di provvedimenti depositati con attenzione maniacale alla tempistica. Si tratta di un dato fuorviante, perché espunti, appunto, gli automatismi connessi alla soggezione indeclinabile al disciplinare in caso di ritardi oltre una certa misura (molto abbondante), i casi effettivi di condanna disciplinare per ritardi sono per magistrati che, purtroppo, hanno numerosissimi ritardi cronici nel deposito.
VI. In una certa misura collegata è la tematiche della valutazione delle statistiche comparate. Pur costituendo un indicatore ineliminabile della laboriosità del magistrato, portano indirettamente alcuni a prediligere la definizione delle cause, solitamente le più recenti, che possono essere definite speditamente. Solo un piano di smaltimento dell’arretrato e un progetto di organizzazione individuale e dell’ufficio dei ruoli, e la relativa verifica del rispetto dello stesso, consente di coniugare arretrato, complessità e produzione quantitativa, rifuggendo ad opportunismi selettivi.
VII. Un ulteriore elemento di riflessione è costituito dal giudizio sui provvedimenti a campione. Nella mente del legislatore e del Consiglio si tratta di un aspetto centrale nella valutazione della capacità del magistrato; molto spesso, invece, il relatore del Consiglio giudiziario non ne effettua uno scrutinio analitico. Si tratta di uno scarto poco commendevole tra l’impegno necessario ad acquisirli (utilizzo di fin troppo sofisticate procedure di estrazione, la necessità di autentica da parte della Cancelleria e, soprattutto, il singolare onere del magistrato di farsi parte attiva per recuperarli previsto dalla Circolare) e l’utilità effettiva in sede di valutazione. L’assegnazione delle pratiche indipendentemente dalle funzioni e dal settore di esercizio del componente del Consiglio giudiziario designato relatore, poi, ridimensiona ulteriormente l’accuratezza di tale scrutinio.
VIII. Chiarita la portata del principio di autonomia delle valutazioni di professionalità dal procedimento disciplinare, resta, invece, quello della mancanza da parte del magistrato della conoscenza del giudizio negativo o non positivo nel momento in cui inizia il biennio o l’anno di verifica successiva, determinato dallo sfasamento temporale tra periodo di valutazione e approvazione della delibera di mancato riconoscimento della valutazione di professionalità.
IX. Infine, deve constatarsi che lo spirito più autentico delle valutazioni di professionalità, da intendersi come verifica del raggiungimento di uno standard quantitativo e qualitativo adeguato alla funzione giudiziaria (abbandonando le prassi di fornire da parte del dirigente e di acquisire da parte del magistrato, giudizi con aggettivazioni altisonanti), attraverso l’obbligo di una descrizione analitica e ragionata delle condotte e dei provvedimenti del magistrato, viene in parte frustrato dal necessario collegamento con i bandi-concorso per il conferimento delle funzioni direttive, di legittimità o di coordinamento nazionale. Esso viene operato, non solo dalla V^ Commissione del CSM, ma anche dal giudice amministrativo.
Si tratta di un problema, tuttavia, che può trovare soluzione, almeno parziale: a) in una revisione del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria volto a ridimensionare, selezionare e disciplinare in una ottica di trasparenza i numerosi indicatori, corrispondenti a “medagliette” da acquisire nel tempo in attesa di proporre domande per l’incarico ambito; b) in una lettura corretta dell’art. 12, d.lgs. 160/2006 sul conferimento delle funzioni di legittimità (ma anche sulla destinazione dei magistrati al Massimario presso la Suprema Corte) e della stessa Circolare n. 13778 sui tramutamenti, fedele alla logica del legislatore. Quest’ultimo, quanto a tali funzioni, richiede nella valutazione delle attitudini l’esame anche della capacità scientifica e di analisi delle norme da effettuarsi prevalentemente sui provvedimenti giudiziari (esaminati i quali si valutano “anche” i titoli scientifici), da affiancarsi all’esame del profilo complessivo del magistrato, senza che il peso del giudizio attitudinale possa essere sbilanciato in favore di competenze giuridiche desunte da pubblicazioni scientifiche o monografie.
X. Nonostante quanto sopra illustrato, il bilancio attuale relativo al sistema delle valutazioni di professionalità, dal punto di vista ordinamentale, non può essere del tutto negativo. I parametri delle valutazioni di professionalità fissati dal legislatore, i prerequisiti e gli indicatori fissati dal Consiglio e gli stessi principi enunciati nel contesto eurounitario, chiuso il lungo periodo degli automatismi di carriera e della progressione per anzianità senza demerito, non dipingono una figura di magistrato arretrata e non attuano un inconsapevole ritorno al magistrato disattento al servizio perché concentrato sui passaggi necessari per una carriera brillante.
Un magistrato tecnocratico, chiuso in sé stesso e nel proprio (presunto) sapere giuridico non è, né secondo la normativa primaria né quella secondaria, un buon magistrato. L’assenza dei prerequisiti obbliga ad una valutazione che deve essere necessariamente di segno negativo, senza alcuna possibilità di compensazione tra capacità tecnica o laboriosità e difetto degli elementi necessari a garantire la rispondenza al modello costituzionale di giudice indipendente e terzo, nonché a quello di giudice “equilibrato”.
Il magistrato professore, anche se tale profilo viene valorizzato in modo non pertinente in alcuni rapporti di dirigenti, non è un modello prescelto dal legislatore, tanto è vero che le pubblicazioni di provvedimenti giudiziari o di altri contributi aventi rilievo scientifico e le relazioni a convegni giuridici sono solo uno degli strumenti idonei “a dimostrare l’aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale”, sempre “che abbiano comportato un arricchimento del lavoro giudiziario”.
Le norme che regolano la valutazione di professionalità disegnano, quindi, indirettamente ma con grande chiarezza, quale siano le caratteristiche del lavoro del giudice: una ricerca di un punto di equilibrio tra efficienza del servizio, mediante attenzione al dato quantitativo e qualità del lavoro; il possesso di adeguate tecniche argomentative, nonché, aspetto a mio avviso essenziale, di congruenza della motivazione e, quindi, della decisione, ai fatti emersi nel processo, capacità di lavoro di equipe con gli altri colleghi, con il personale amministrativo e, nell’Ufficio del processo, insieme ai tirocinanti ex art. 73, con i giudici onorari di pace o i VPO assegnati al Tribunale o alla Procura, capacità di condivisione di idee mediante la partecipazioni a riunioni diverse per natura e per partecipanti rispetto alle camere di consiglio.
In tal modo emerge anche quale sia del magistrato professionalmente attrezzato secondo l’ordinamento attuale: capace di presidiare con fermezza la propria indipendenza anche interna, ma anche di partecipare all’espletamento di un servizio che viene garantito dall’ufficio giudiziario nella sua interezza (come si evince anche dall’obbligo di partecipazione alle scelte organizzative dell’ufficio); non solo redattore di provvedimenti giudiziari, ma anche figura presente in e per l’ufficio; espressione di affidabilità (puntualità e presenza in ufficio) e capacità relazionale, dotato di competenze interdisciplinari (non solo giuridiche, ma anche di capacità di comprensione di questioni tecnico-scientifiche illustrate dai consulenti), munito anche di una attitudine direttiva (del personale amministrativo, del gruppo di lavoro, partecipe al progetto della dirigenza giudiziaria).
Viene ad essere confermata, quindi, l’idea indicata in premessa, per la quale il sistema delle valutazioni di professionalità “disegna” un certo modello di magistratura: in quello attuale un potere diffuso, privo di gerarchie, non composta da monadi ma da individualità che agiscono sinergicamente con gli altri, nel rispetto della propria autonomia; per le quali la soluzione dei casi giudiziari non è una occasione per fare giurisprudenza, ma per risolvere con puntualità problemi delle persone ad assicurare la realizzazione di diritti violati e solo eventualmente e indirettamente per contribuire all’innovazione dell’ordinamento. Un modello, però,in parte messo a rischio da spinte carrieristiche e gerarchizzanti, soprattutto nelle procure, indotte dalla riforma ordina mentale.
Manca, però, nelle disposizioni attuali un indicatore della capacità del magistrato che, nella sostanza, costituisce quasi un prerequisito: l’adattabilità ai continui cambiamenti, giuridici, tecnici, relazionali, ambientali e funzionali. Questa capacità però, è il bene più importante che i giovani magistrati possono conferire alla Magistratura.
[1] Seconda parte della Relazione tenuta all’incontro del 21-24 aprile organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 18.7.2019 (Bolzano) e 3.1.2020; già pubblicata su Diritto Pubblico Europeo - Rassegna Online,.https://doi.org/10.6092/2421-0528/6865, 2020 (Serrao d’Aquino, P,. Le valutazioni di idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni di professionalità.)
[2] La Circolare responsabilizza il CG e il Presidente della Corte d’appello sul rispetto dei tempi, affermando espressamente che “Il Consiglio giudiziario - sulla base degli elementi indicati al Capo VII, e valutate, altresì, le osservazioni eventualmente presentate ai sensi del comma 3 bis del capo precedente - esprime il parere conformandosi al modello allegato alla presente circolare, entro quattro mesi dalla scadenza del termine. Sul rispetto del termine per il rilascio del parere vigila il Presidente della Corte di appello, quale Presidente del Consiglio giudiziario. Le modalità di esercizio di tale compito di vigilanza sono valutate ai fini della conferma o del conferimento di ulteriori incarichi”. Nel caso di impossibilità al rispetto di tali termini, è obbligatoria la comunicazione al CSM: “1bis. Qualora la necessità di eccezionali attività istruttorie - diverse dalla acquisizione di atti o documenti e dalla audizione del magistrato interessato - renda impossibile l’espressione del parere nel termine indicato, il Consiglio giudiziario, non appena si determini al compimento di dette attività e comunque entro quattro mesi dalla ricezione del rapporto informativo, comunica al Consiglio superiore della magistratura tale impossibilità indicandone le ragioni, nonché la prevedibile epoca in cui il parere sarà espresso”.
[3] La norma primaria parla si esprime in tali termini <<ferma restando l'autonoma possibilità di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti che si trovino nella fase pubblica del processo per valutarne l'utilizzazione in sede di consiglio giudiziario>>.
[4] Risposta a quesito con delibera del CSM del 21 dicembre 2016.
[5] Precisandosi: “ivi comprese situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
[6] G. Galoppi, op. cit.
[7] Nei sette giorni successivi alla scadenza del quadriennio in valutazione, il magistrato interessato può integrare la relazione con riferimenti a eventuali ulteriori circostanze rilevanti che hanno interessato la sua attività professionale nel periodo.
[8] Così la Relazione introduttiva alla Circolare dell’8.10.2007.
[9] Critico rispetto a tale centralità, per il rischio di un conformismo soprattutto negli uffici di procura, più gerarchizzati G. Zaccaro, in associazione magistrati.it, 29 maggio 2017.
[10] A. Iacoboni, Le valutazioni di professionalità, in Foro it., 2016, c. 204.
[11] Il rapporto contiene, tra l’altro:
- la segnalazione sulla complessità dei procedimenti e dei processi trattati in ragione del numero delle parti e delle questioni giuridiche affrontate;
- la comunicazione dell’esito, nelle successive fasi e nei gradi del procedimento, dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti, e relativi all’adozione di misure cautelari o alla definizione di fasi procedimentali o processuali, accertato attraverso la comunicazione dei dirigenti degli uffici e da valutarsi, ove presenti caratteri di significativa anomalia, anche alla luce del rapporto esistente tra provvedimenti emessi o richiesti e provvedimenti non confermati o rigettati, rapporto da valutarsi altresì avuto riguardo alla tipologia ed alla natura degli affari trattati;
- la segnalazione del dirigente dell’ufficio relativa al livello dei contributi in camera di consiglio;
- la segnalazione del possesso delle conoscenze informatiche dirette alla redazione dei provvedimenti ed al miglioramento dell’efficacia dell’azione giudiziaria;
- per i magistrati requirenti con funzioni di coordinamento nazionale la segnalazione relativa alla capacità di rapportarsi in maniera efficace, autorevole e collaborativa con gli uffici giudiziari ed i magistrati destinatari del coordinamento;
- la segnalazione relativamente all’attitudine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro e ad adottare misure finalizzate al miglioramento dell’attività giudiziaria;
- la segnalazione del possesso di conoscenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell’esercizio della funzione giudiziaria e dell’attività d’interazione svolta con soggetti istituzionali terzi nell’esercizio dell’attività giudiziaria;
- la segnalazione di eventuali ritardi nel deposito dei provvedimenti, con l’indicazione delle ragioni accertate, degli elementi utili per valutarne l’eventuale giustificabilità e dei provvedimenti organizzativi adottati ai sensi di quanto previsto dal paragrafo 60 della circolare sulla formazione delle tabelle introdotto con delibera in data 13 novembre 2013;
- l’indicazione della collaborazione fornita su richiesta del dirigente medesimo o del coordinatore della posizione tabellare o del gruppo di lavoro ovvero del puntuale e corretto assolvimento di funzioni amministrative, anche di livello dirigenziale, comunque svolte;
- l’indicazione del rispetto degli impegni prefissati;
- l’indicazione relativa alla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative, nonché per la conoscenza dell’evoluzione della giurisprudenza;
- l’indicazione in ordine alla disponibilità alle sostituzioni, applicazioni e supplenze.
[12] Cfr. Allegati A e B alla Circolare.
[13] A. Iacoboni, Le valutazioni di professionalità, cit., c. 204.
[14]Continua la citata pronuncia “Sulla base di questo incontestato rilievo esse: sono state pertanto definite dalla circolare ora richiamata come «imprescindibili condizioni per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali» (paragrafo 1, del capo III ora richiamato); sono inoltre state poste in apice rispetto ai parametri di valutazione indicati nell'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 160 del 2006; diversamente da questi ultimi sono state destinate ad essere apprezzate in via ordinaria in termini di assenza di elementi ostativi, «con la formula "nulla da rilevare"», nel senso cioè dell'assenza di elementi incidenti, salvo il caso contrario, da cui «emergano dati che evidenzino difetti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio» (così il paragrafo 5 del capo III in esame)”.
[15] Come prevede la Circolare :
la capacità si desume: - dalla preparazione giuridica e dal grado di aggiornamento; - dal possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine, anche in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento; - dalla conduzione delle udienze da parte di chi le dirige o le presiede; - dall’idoneità a utilizzare e dirigere i collaboratori e gli ausiliari, nonché a controllarne l’apporto; - dall’attitudine a cooperare secondo criteri di opportuno coordinamento con altri uffici giudiziari aventi competenze connesse o collegate; - dall’attitudine a svolgere funzioni di direzione amministrativa, anche con riferimento ai compiti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del D.Lgs. n. 240/2006; - dall’idoneità ad attuare metodi di lavoro improntati alla sinergia ed al coordinamento con soggetti istituzionali terzi aventi un qualsiasi ruolo nell’attività giudiziaria; - dal comprovato possesso di competenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell'esercizio della funzione giurisdizionale. - dalla capacità decisionale desunta dai tempi, dalla complessità, dall’adeguatezza e dalla congruità della decisione;
la laboriosità si desume: - dalla produttività, intesa come numero e qualità degli affari trattati e come consistenza dell'attività istruttoria eseguita in rapporto alla tipologia ed alla condizione organizzativa e strutturale degli uffici ed in raffronto alla specificità ed eventuale varietà delle funzioni espletate; - dai tempi di smaltimento del lavoro; - dall’attività di collaborazione svolta nell’ufficio; - dall’efficienza nell’attività di direzione amministrativa dell’ufficio comunque svolta;
la diligenza si desume: - dall’assiduità e dalla puntualità nella presenza in ufficio, nelle udienze e nei giorni stabiliti, dovendo ritenersi che la giornata del sabato imponga la presenza in ufficio esclusivamente per assicurare udienze e turni calendarizzati, o attività urgenti, sopravvenute e indifferibili dal rispetto dei termini per la redazione ed il deposito dei provvedimenti, o comunque per il compimento di attività giudiziarie, fatta salva la necessità di garantire l’effettività della fruizione delle ferie e di ogni altra forma di assenza giustificata; - dalla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative, nonché per la conoscenza dell’evoluzione della giurisprudenza o, nell’ipotesi di presidenti di sezione e di coordinatori di gruppi di lavoro, dalla periodica convocazione di tali riunioni; - dal puntuale e corretto assolvimento di funzioni amministrative, anche di livello dirigenziale, comunque svolte;
l’impegno si desume: - dalla disponibilità alle sostituzioni di magistrati assenti; - dalla frequenza della partecipazione o nella disponibilità a partecipare ai corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, salvo quanto previsto dalla disposizione transitoria; - dalla collaborazione alla soluzione dei problemi di tipo organizzativo e giuridico.
[16] Si veda in proposito le espresse indicazioni contenute, per la v. non positiva, nel comma 4 del par. XVII della Circolare a mente del quale “Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, comma 10. del d.lgs. n. 160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo annuale di rivalutazione”; nonché per la valutazione negativa, del comma 6 che dispone: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, commi 11 e 12 del d.lgs. n.160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo biennale di rivalutazione.).
[17] Par. XIII: “1.bis Non sono utili alla maturazione del quadriennio i periodi nei quali il magistrato non presta attività lavorativa per le ipotesi di sospensione dalle funzioni di cui agli articoli 10, 21 e 22 del decreto legislativo n. 109 del 23.2.2006, nonché nei casi di aspettativa per motivi di famiglia di cui all’art. 69 del testo unico n. 3 del 10 gennaio 1957; di congedo per eventi e cause particolari di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 53 dell’8 marzo 2000; di congedi per la formazione di cui all’art. 5 della medesima legge n. 53/2000; di ricongiungimento con il coniuge all’estero di cui alla legge n.26 dell’11 febbraio 1980 ed alla legge n. 333 del 25 giugno 1985. In queste ipotesi, il periodo di valutazione del magistrato sopravanza quello ordinario, al quale si aggiunge la durata della causa di mancata prestazione dell’attività lavorativa di cui al periodo che precede. Resta ferma, nel caso di cessazione degli effetti della sospensione cautelare di cui all’articolo 23 del decreto legislativo n. 109 del 23.2.2006, la successiva retrodatazione degli effetti delle delibere già emesse.”
[18] Relazione illustrative delle modifiche del 25 ottobre 2017: “Ciò premesso, un punto fermo è costituito da ciò che non è possibile praticare, sul piano logico e giuridico: non è possibile valutare i quadrienni indipendentemente dalla perdita di anzianità, e cioè operare come se la condanna non vi fosse stata, e al tempo stesso non è possibile non sottoporre a valutazione l’arco temporale oggetto della condanna, operando in tal modo come se nella carriera potesse esservi una sorta di zona “franca” non valutata. Infatti, nel primo caso si disapplicherebbe la norma primaria di cui al citato art. 8 del D.Lgs. n. 109/2006 in quanto si vanificherebbero, sul piano economico e giuridico, i concreti effetti della perdita di anzianità e “si darebbe ingresso all’anomala figura di un magistrato – quello, per l’appunto, attinto dalla sanzione disciplinare della perdita di anzianità – che percepisce una determinata retribuzione pur non avendo ancora maturato l’anzianità necessaria a tal fine” (così nel suddetto parere dell’Ufficio studi). Nel secondo caso si creerebbe un’inammissibile soluzione di continuità temporale nella valutazione di professionalità, con l’effetto di non poter prendere in considerazione, in positivo o in negativo, quanto compiuto dal magistrato nel periodo pari alla sanzione irrogata”.
[19] In tali termini si esprime la citata sentenza del Cons. Stato Sez. V, Sent., 26 ottobre 2016, n. 4471 “un simile operato, … è pienamente conforme al precetto normativo primario regolante le valutazioni di professionalità dei magistrati: è evidente che a fronte dell'assenza di elementi ritraibili dal rapporto informativo del dirigente sul profilo in questione il Consiglio giudiziario ha utilizzato gli altri elementi conoscitivi a sua disposizione.
Quanto all'esigenza di acquisire ulteriori informazioni dalla persona del Procuratore capo in carica nel quadriennio - elemento ritenuto decisivo dal Tribunale amministrativo - è sufficiente evidenziare che ai sensi del citato comma 5 dell'art. 11 D.Lgs. n. 160 del 2006, essa costituisce una mera facoltà ulteriore di cui il Consiglio giudiziario può discrezionalmente decidere di avvalersi e, soprattutto, che nell'esercizio della stessa facoltà è stata acquisita la documentazione relativa alle vicissitudini di natura penale che hanno visto coinvolto il magistrato in valutazione. Quindi, una volta acquisiti questi elementi conoscitivi non è dato cogliere l'esigenza di ulteriori apporti istruttori, ed in particolare dal precedente capo dell'ufficio, posto che verosimilmente nulla avrebbe egli rispetto a vicende avvenute al di fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali e dunque dell'attività d'ufficio del magistrato.”
[20] Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339, la quale richiama Cons. Stato, IV, 5 luglio 2010, n. 4250; Cons. Stato, sez. III, 7 aprile 2009, n. 456): “la valutazione negativa dell'aspirante può derivare anche da singoli elementi, purché idonei a denotare un difetto grave (…) sia pure in uno solo degli ambiti previsti dalla legge”.
[21] Continua la Relazione: “Per l’effetto, e per esemplificare, ove un magistrato debba essere valutato per la quarta valutazione di professionalità per il quadriennio dal 28.2.2012 al 28.2.2016 ed in quel quadriennio sia stato colpito da una condanna disciplinare di sospensione dalle funzioni di un anno ovvero abbia beneficiato del congedo straordinario per ricongiungimento del coniuge all’estero per la durata di un anno, il periodo di valutazione riguarderà l’arco temporale dal 28.2.2012 al 28.2.2017, pari comunque ad un quadriennio netto, visto che in questi cinque anni vi sarà stato un anno in cui il magistrato non ha prestato attività lavorativa e non è stato quindi valutabile (salve eventuali e gravi condotte extrafunzionali, che sarebbero comunque da valutare ma rappresentano una mera e non frequente eventualità)”.
[22] In passato vi è stata una proposta di modifica della Circolare tesa ad ovviare a tale inconveniente soprattutto quando il parere positivo del Consiglio Giudiziario lasci prevedere un analogo giudizio positivo da parte del CSM.
Si è evidenziato, tuttavia, da parte dell’Ufficio Studi che “Si verificherebbe, nell’indicata eventualità, una compressione dei diritti del magistrato in valutazione, compressione difficilmente giustificabile proprio nel caso – che ha formato oggetto, di recente, della modifica alla Circolare, introduttiva, al Capo XVII, del punto 3 bis – del soggetto che abbia ottenuto il parere favorevole da parte del Consiglio Giudiziario e rispetto al quale il primo organo che abbia disposto un’interlocuzione, a seguito del rilievo di criticità dapprima obliterate, sia stata la Quinta Commissione”.
A fronte di tale problematica si è altresì ricordato che “Per evitare tale compressione e al fine precipuo di riempire di contenuti sostanziali il diritto al contraddittorio di cui si è ripetutamente affermata l’esistenza, l’anzidetta articolazione dell’Organo di autogoverno ha formulato la proposta di modificare la Circolare in tema di valutazioni di professionalità nel senso di stabilire che, qualora le delibere consiliari che formulano un giudizio “non positivo” o “negativo” intervengano a distanza di più di un anno – nella prima eventualità – o di più di due anni – nella seconda – dai periodi che devono formare oggetto degli scrutini suppletivi, tali scrutini siano effettuati tenendo conto anche degli elementi relativi alla professionalità del magistrato intervenuti successivamente all’anno o al biennio de quibus e che, in tale eventualità, il Consiglio disponga le integrazioni istruttorie valutate necessarie”.
Come si vedrà, la proposta non è stata poi approvata per l’impossibilità di addivenire a soluzioni conformi al dato normativo primario (vedi a riguardo Delibera Plenaria adottata il 17 marzo 2017 allegata p. 4750/2017, pag. 7).
[23] Recentemente T.A.R. Lazio, Sez. Prima n. 1386 del 2018: “la giurisprudenza ha affermato che, nelle valutazioni di professionalità successive alla prima, il giudizio del CSM può (e, anzi, deve) estendersi al vaglio di ogni elemento utile a formulare la migliore valutazione complessiva del profilo professionale del magistrato, con la conseguenza che fra gli aspetti oggetto di rilievo ben possono essere incluse anche le eventuali condotte individuali che in precedenza abbiano formato oggetto di un provvedimento disciplinare, a prescindere dall’esito delle stesse, atteso che il procedimento è proteso all’autonomo “scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale dell’interessato attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla” (cfr. da ultimo Tar Lazio, sez. I, 5 aprile 2017, n. 4238)”.
Al di là delle diversità strutturali tra le due fattispecie considerate dall’appellante (il giudizio disciplinare ed il procedimento amministrativo di valutazione della professionalità), diverse sono le interferenze tra gli stessi.
V. anche Cons. St., Sez. Quinta, n. 4149 del 2017 secondo cui: “in primo luogo, ciò si verifica per quanto concerne i doveri del magistrato, individuati dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 in imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, ed i parametri di valutazione della professionalità, che parimenti espressamente contemplano alcuni di essi (non il riserbo e la correttezza, pur rilevando gli stessi, nel giudizio valutativo, in relazione, ad esempio, ai rapporti di collaborazione con gli uffici giudiziari, i magistrati destinatari del coordinamento ed i soggetti istituzionali terzi).Anche in relazione agli illeciti disciplinari alcune fattispecie tipiche trovano dei corrispondenti nei parametri e negli indicatori della professionalità, in primis in tema di ritardi: in ambito disciplinare, l’art. 2, comma 1, lett. q) prevede “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” (con presunzione di non gravità del ritardo che non ecceda il triplo dei termini previsti dalla legge), laddove la circolare, tra gli indicatori della diligenza, menziona il “rispetto dei termini per la redazione e il deposito dei provvedimenti, o comunque per il compimento di attività giudiziarie”, rinviando per il relativo accertamento all’esame dei prospetti statistici comparati o alle indicazioni dei dirigenti degli uffici”.
[24] Per quanto “non si tratta (i) di una inammissibile duplicazione di sanzione, in quanto la rinnovata considerazione di un fatto già colpito da un precedente disciplinare non viene effettuata con una prestabilita finalità punitiva, costituendo piuttosto un accertamento proteso al ben diverso scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale del magistrato, attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 marzo 1992, n. 3391)” (conf. Cons. stato, Sez. 5, 4149/2017); conf. Cons. Stato n. 620 del 2017: “In questo differente contesto valutativo – a differenza di quello finalizzato a una stima anche de futuro e non semplicemente de preterito - infatti, una distinta considerazione di un fatto già colpito da precedente disciplinare non configura, in sé stessa, un'inammissibile duplicazione di “sanzione”, ma costituisce un accertamento proteso al ben diverso scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale del magistrato, attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla in vista del suo successivo svolgimento di carriera (cfr. Cons. Stato, IV, 3 giugno 2010, n. 3544; IV, 5 luglio 2010, n. 4250, che si riferisce alle condotte individuali già accertate e oggetto di procedimento penale, disciplinare o di trasferimento per incompatibilità ambientale; IV, 10 giugno 2011, n. 3527, che precisa che i fatti possono essere anche antecedenti la pregressa valutazione di professionalità; 1 settembre 2015, n. 4093, che sottolinea che non ricorre un’inammissibile duplicazione di sanzione vietata dal ne bis in idem). Un fatto che abbia costituito un precedente disciplinare deve comunque distintamente vagliarsi se rileva ai fini del detto art. 11”. (conf. 3544 del 2010).
[25] Ne consegue che, impregiudicati i casi di sospensione obbligatoria della valutazione in caso di sospensione dalle funzioni in via cautelare (par. XII della Circolare) la sospensione facoltativa del procedimento – prevista dal comma 2 del par. XII - va disposta, salva la possibilità di valutare autonomamente quei fatti alla base del giudizio disciplinare senza attenderne l’esito, proprio per evitare irrazionalmente che essa divenga irrilevante a seguito del conseguimento della valutazione di professionalità e per poter effettuare quella valutazione necessariamente completa necessaria ad attribuire la qualifica, salvo l’eventuale revoca in autotutela della valutazione precedentemente conseguita. In altri termini andrebbe escluso che si possa non sospendere il procedimento valutativo e omettere l’analisi dei fatti alla base dell’incolpazione disciplinare.
[26] Cons. Stato, 26 febbraio 2019, n. 1339, che aggiunge: <<9.5 Non si tratta di proiettare sine die le conseguenze di un episodio circoscritto, ma di riconoscere che tale episodio, certamente sintomatico della mancanza di equilibrio, non essendo stato preso in considerazione nella valutazione di idoneità alla qualifica di magistrato di appello essendo ancora in corso gli accertamenti del caso secondo le garanzie proprio del procedimento disciplinare, possa e debba essere
ponderato nella fase valutativa successiva, nel cui arco temporale comunque gli effetti di quella condotta vanno a riverberarsi con certezza, quanto meno nella fase iniziale.>>
[27] Nella delibera consiliare citata del 15 marzo 2017 a riguardo si osserva: “Seguendo il principale criterio ermeneutico di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., va rilevato che sia la norma primaria (ossia l’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006) sia la norma secondaria (ossia la circolare 12940/2007) impongono che il periodo, annuale o biennale, di rivalutazione del magistrato che non abbia conseguito una positiva valutazione di professionalità sia collocato subito dopo quello già preso in considerazione, senza soluzioni di continuità. Ciò senza alcuna eccezione, anche quando il magistrato nel periodo scrutinato non abbia svolto attività giudiziaria. Come infatti chiarito nel parere tecnico n. 290/2013, reso in data 23.9.2013 dall’Ufficio studi e documentazione di questo Consiglio, “all’attualità, non vi è alcuna norma di rango primario che condizioni la legittimità del conseguimento della valutazione di professionalità all’effettivo esercizio dell’attività giurisdizionale. L’unico dato di legislazione positiva è quello che riferisce il controllo periodico a ciascun quadriennio in cui si articola il rapporto di servizio del magistrato, computato a decorrere dal decreto ministeriale di nomina. Una diversa soluzione, che collochi la valutazione in un momento successivo e consideri un periodo diverso e più lungo di quattro anni dalla precedente allo scopo di attendere un corrispondente periodo di reale esercizio delle funzioni, avrebbe l’effetto di modificare sostanzialmente il percorso di carriera individuando una diversa decorrenza giuridica ed effettiva degli avanzamenti economici, nonché degli eventuali tramutanti funzionali possibili per il magistrato interessato”.”.[27]
In conclusione, sebbene l’espletamento dell’ulteriore attività giudiziaria, causativa di conseguenze non proprio in linea con i principi di ragionevolezza e di equità che necessariamente devono connotare l’azione amministrativa, la proposta formulata dalla Quarta Commissione, in cui – come detto – si propugna la presa in considerazione di tutto il lasso temporale che precede la concreta effettuazione della valutazione di professionalità, anche nella parte eccedente l’anno o il biennio oggetto dello scrutinio suppletivo, se di apprezzabile durata, presta il fianco, pur nell’encomiabile finalità che la connota, a più d’una critica.Non può non rilevarsi, infatti, che la proposta di modifica della Circolare di cui trattasi presenta evidenti profili di contrasto con la normativa primaria di cui all’art. 11, 10° e 11° comma, D.lgs. 160/2006, ove si prevede con chiarezza che lo scrutinio suppletivo si effettua decorso un anno o un biennio dalla prima valutazione “non positiva” o “negativa”. E questo a tacer del fatto che, in conseguenza delle modifiche in disamina, si infrangerebbe, sul piano formale, la scansione dei periodi quadriennali (nell’eventualità fisiologica), biennali o annuali (in quelle patologiche) che caratterizzano la progressione in carriera dei magistrati e si finirebbe, de facto, col valutare doppiamente la frazione temporale, di congrua durata, eccedente l’anno o il biennio oggetto di scrutinio suppletivo, vagliata sia nell’ambito dell’indicato scrutinio suppletivo “allargato”, sia all’interno della successiva valutazione di professionalità, ove prevista”.
[28] I. Mannucci Pacini, Basta aggettivi, in www.questionegiustizia.it, 2020.
[29] Sul punto vedi G. Campanelli, Nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in questione giustizia.it, 9 aprile 2016.
Mio padre vive!
Intervista di Donatella Palumbo a Caterina Chinnici
Il 29 luglio 1983 a Palermo, in via Pipitone Federico, vennero assassinati il magistrato Rocco Chinnici, due carabinieri addetti al servizio di tutela - Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta - e Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il magistrato e dinanzi al quale era parcheggiata la Fiat 126 imbottita di esplosivo. Unico superstite Giovanni Paparcuri, autista del magistrato. Sono trascorsi 37 anni eppure il ricordo è ancora vivo, soprattutto nella mente e nel cuore della figlia Caterina Chinnici, che ha seguito l’esempio del padre diventando magistrato. Attraverso le parole di Caterina Chinnici il ricordo non assume una dimensione solo privata ma è testimonianza dell’impegno civile di un magistrato che ha compiuto il suo dovere fino alla fine senza cedere alla prepotenza mafiosa, contribuendo con il sacrificio del bene più prezioso - la sua vita - alla tenuta democratica dello Stato e dei diritti e delle libertà di tutti noi. Una vita “al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni”, come recita la motivazione con cui è stata assegnata al magistrato la Medaglia d’oro al valore civile. Una testimonianza per chi c’era e in quegli anni ha vissuto la tragicità degli eventi proseguendo tenacemente il proprio lavoro e per i giovani magistrati della mia generazione che, pur non avendo vissuto quel periodo, hanno come modello per la propria formazione colleghi come Rocco Chinnici, nel solco del cui esempio cercano di affrontare le difficoltà quotidiane della funzione con spirito di servizio, dedizione al lavoro e rigore morale.
1) Il 29 luglio 1983 Rocco Chinnici venne ucciso, unitamente a due uomini della scorta e al portiere dello stabile della sua abitazione, in un agguato mafioso. Un dolore intimo e personale per la morte di un genitore che assunse una dimensione pubblica per il ruolo svolto da suo padre. Che ricordo serba di quella terribile giornata e a cosa pensa ogni volta che ricorre questa data?
“Quel giorno non mi trovavo a Palermo. Ero a Caltanissetta, sulla strada da casa al tribunale. Come sempre mi accompagnò mio marito. Passammo prima dal suo studio, accanto al quale c’era la casa dei suoi genitori. Era già successo tutto ma ancora non sapevamo. Incrociai uno sguardo strano di mia suocera ma sapevo che suo marito era malato e lo ricollegai a questo. Pochi minuti dopo, però, telefonarono dalla questura di Caltanissetta e rispose mio marito. Improvvisamente cambiò espressione, si contrasse in volto e disse «No, lo zio Rocco no»: in quel momento capii. È così che ho saputo dell’attentato a mio padre. Partimmo per Palermo ma non ricordo nulla di quell’ora di strada, a parte un grande vuoto e la sensazione di sprofondare. Volevo andare subito da mio padre e mi accompagnarono all’obitorio, dove avevano già spostato i corpi delle vittime, e lì lo vidi per un attimo. Poi andai a casa dai miei fratelli, che qualche minuto prima dell’esplosione avevano bevuto il solito caffè preparato da nostro padre, l’ultimo. Li trovai impietriti in quello scenario di devastazione, anche loro sotto shock. Mia mamma fu avvisata da un cugino, una volante andò a prenderla a Trapani nella scuola dove lei era impegnata in commissione d’esami durante le sessioni di maturità. Quel giorno il dolore si è annidato dentro di me, non se n’è più andato. Lo stordimento iniziale, la rabbia, ma a poco a poco la volontà di proseguire nel nostro percorso di vita con dignità e coraggio. A papà infatti la rabbia non sarebbe piaciuta. Lui stesso, pur consapevole dei rischi ai quali si esponeva, aveva scelto di portare avanti fino in fondo il proprio impegno civile mantenendo sempre intatta la propria benevolenza. Il suo sacrificio non è stato vano: per il messaggio culturale che ha lasciato ai giovani, per come il suo lavoro ha contribuito a tutta l’antimafia moderna e agli importanti risultati che ne scaturiscono, per gli sviluppi che le sue intuizioni continuano ad avere adesso a livello europeo, anche attraverso il mio personale impegno al Parlamento Europeo. Questo è ciò che penso ogni anno in occasione del 29 luglio, perché in questo c’è il significato più alto della memoria: la continuità”.
2) La città di Palermo, dal 1979 al 1982, venne scossa da plurimi omicidi di mafia contro uomini delle forze dell’ordine, politici e magistrati: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Erano gli anni in cui suo padre, Rocco Chinnici, assunse la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Ebbene, di fronte a questa lunga scia di sangue quale era lo stato d’animo di suo padre e come veniva vissuto in famiglia il suo lavoro e i rischi cui andava incontro?
“Papà amava molto il suo lavoro. Le difficoltà le metteva nel conto e non lo condizionavano. Si è sempre sforzato di tenerci al riparo dalle preoccupazioni e dalle tensioni che, sicuramente, con il passare del tempo si facevano strada sempre di più. Da metà anni Settanta, tuttavia, le limitazioni dovute a ragioni di sicurezza e le conseguenti rinunce diventarono progressive, e io ebbi la netta sensazione che fosse iniziata una nuova epoca dalla quale non si sarebbe più tornati indietro, sebbene lui ripetesse che era una situazione transitoria. Smise di andare in ufficio a piedi, venivano a prenderlo con l’auto blindata. Non poté più andare con mamma a fare una passeggiata, al cinema o al teatro. Non accompagnava più noi alle feste. Poi dal 1980 si intensificarono le telefonate minatorie, alcune anche in piena notte. Papà arrivava sempre prima di noi a prendere la cornetta del telefono, tranne un paio di volte in cui rispose mamma per errore, ma ormai a quel punto la paura era entrata in casa. Mamma voleva che lui lasciasse l’ufficio Istruzione e che presentasse istanza per andare alla procura generale di Torino ma non credo che papà abbia mai avuto realmente questa intenzione, anche se per tranquillizzare mamma si mostrava a volte possibilista. Sentiva di essere al suo posto e noi stessi ci rendemmo conto che non potevamo chiedergli di rinunciare al lavoro che stava portando avanti: per lui sarebbe stato come tirarsi indietro”.
3) Una delle intuizioni più importanti di suo padre quando dirigeva l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo fu la creazione di una struttura collaborativa tra magistrati dell’ufficio che negli anni successivi sarebbe diventato il “pool antimafia”, un gruppo di lavoro capace di creare sintonie professionali e anche amicizie tra magistrati e uomini della polizia giudiziaria, al fine di alleviare la solitudine e l’isolamento che spesso connotano il nostro lavoro. Quanto credeva suo padre nel lavoro di squadra, soprattutto con riferimento al contrasto dei reati di criminalità organizzata?
“Ci credeva moltissimo. E quella fu una delle innovazioni dirompenti nate dal suo lavoro. Basti pensare al fatto che oggi la cooperazione, sia giudiziaria che di polizia, è un pilastro delle strategie investigative per la lotta contro le organizzazioni criminali. Quell’idea non è solo all’origine del pool antimafia, ha ispirato anche la nascita delle direzioni distrettuali antimafia coordinate dalla direzione nazionale antimafia, e di riflesso anche la procura europea istituita di recente. Mio padre analizzava, approfondiva, e per questo aveva maturato una grande conoscenza del fenomeno mafioso. Aveva capito che alcuni fatti di sangue apparentemente indipendenti erano tasselli di uno stesso scenario, che c’erano connessioni tra mafia, imprenditoria e politica, che era necessario monitorare i movimenti di denaro sui conti correnti bancari. Si rese conto, cioè, che non era possibile combattere la mafia un reato per volta, e così decise di costituire un gruppo. Era indispensabile superare la frammentazione delle conoscenze e garantire la condivisione delle informazioni tra magistrati, così come la condivisione delle scelte successive. Un metodo che fece dell’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo un modello di efficienza nella lotta alla mafia. Uno schema consolidato nel tempo venne così scardinato, ma non fu l’unico. Per esempio, papà iniziò a dare direttamente indicazioni alla polizia giudiziaria, coordinandone l’attività: per questo ricevette una lettera di richiamo, ma con il nuovo codice di procedura penale del 1989 quella prassi diventò legge e ancora oggi la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del pubblico ministero, ad ulteriore dimostrazione di quanto le intuizioni di Rocco Chinnici abbiano inciso sull’evoluzione dell’antimafia moderna”.
4) Rocco Chinnici aveva una visione moderna e innovativa delle tecniche investigative e diede, in particolare, grande impulso alle misure di prevenzione patrimoniali come strumento elettivo per indebolire l’organizzazione criminale mafiosa aggredendone direttamente il profitto illecitamente accumulato. Nel suo Ufficio lavorarono anche due grandi magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorda qualche episodio che possa far comprendere il livello dei loro rapporti professionali e personali?
“Mio padre li scelse uno per uno i giudici con cui formare quel gruppo di lavoro successivamente denominato pool antimafia. Paolo Borsellino lo affiancava già da qualche anno, Giovanni Falcone invece arrivò dopo. Papà lo convinse a trasferirsi all’ufficio Istruzione dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo. Voleva infatti avviare le prime indagini bancarie e pensò di sfruttare la capacità di leggere i bilanci societari e di ricostruire i movimenti di denaro che Falcone aveva maturato in ambito civilistico. Tre personalità diverse, appartenenti a correnti diverse della magistratura, ma tra loro c’erano coesione, complicità, stima e amicizia. Si frequentavano anche fuori dal lavoro, spesso con il coinvolgimento delle famiglie. Ricordo molti momenti trascorsi insieme ma quello che meglio esemplifica i loro rapporti personali e professionali è, ritengo, il momento in cui io, allora giovane uditore giudiziario in servizio proprio all’ufficio Istruzione, li vedevo appartarsi in un angolo del palazzo di giustizia per scambiarsi informazioni sottovoce. In quei conciliaboli c’è la rappresentazione di tutto quanto ho appena detto e, in più, della grande fiducia reciproca senza la quale quell’approccio d’èquipe non sarebbe stato possibile”.
5) Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, l’Associazione Libera celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno attraverso la lettura dell’elenco dei nomi di tutte le vittime di mafia, tra i quali figura anche suo padre. Nel corso di questa giornata, così come in altre occasioni, di fondamentale importanza risulta la partecipazione dei giovani, sempre più spesso impegnati in percorsi di legalità nel corso dell’anno scolastico. Per Rocco Chinnici quanto era importante coinvolgere in dibattiti ed incontri le istituzioni, la società civile e, in particolare, i giovani al fine di sensibilizzare le coscienze sui temi del contrasto alla criminalità organizzata e quanto credeva suo padre nelle nuove generazioni e nella loro capacità di riscatto?
“Papà dischiuse le porte degli uffici giudiziari. Metaforicamente, intendo. Nel senso che, superando e quasi forzando la propria innata riservatezza, parlava del suo lavoro per sensibilizzare la cittadinanza, per spiegare cos’era la mafia in un’epoca in cui spesso ne veniva negata l’esistenza, per mettere in guardia dai pericoli legati all’uso di droghe. Interveniva alle conferenze, ai dibattiti televisivi, e fu proprio in quegli anni, periodo ’79-‘80, che per esempio si iniziò a parlare di una nuova legislazione che consentisse di perseguire i reati di mafia in quanto tali. Con grande impegno papà si batteva già insieme a Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, affinché fosse previsto il reato di associazione di stampo mafioso e affinché i giudici potessero colpire la mafia nel vivo, cioè nella sua ricchezza conseguita illecitamente. Sostenne pubblicamente la necessità di approvare la legge Rognoni-La Torre con la quale poi, nel settembre 1982, fu effettivamente introdotta la nuova figura di reato, cioè l’associazione di tipo mafioso, e furono rese obbligatorie le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni illecitamente conseguiti dall’organizzazione mafiosa. Inoltre papà parlava spesso con i giovani. Era sua convinzione che dovesse essere combattuta l’acquiescenza a un certo sistema, e che questo andava fatto a livello sociale, riducendo il disagio delle famiglie, portando il lavoro e la cultura che, diceva sempre, vuol dire libertà. E siccome l’illegalità trova terreno fertile dove prosperano ignoranza e indigenza, lui volle scommettere soprattutto sui giovani. Perché credeva nei ragazzi. Diceva che se i giovani sono messi in condizione di studiare, la loro intelligenza può renderli cittadini consapevoli, in grado di esercitare i diritti e di fare le proprie scelte. La sorte e il futuro dei giovani erano stimoli fortissimi per lui, e non potrò mai dimenticare quanto era rimasto segnato dalla tragedia di una ragazza, inquilina del nostro palazzo, trovata morta per overdose. Decise allora che doveva fare di più, e iniziò ad andare sistematicamente nelle scuole per informare i ragazzi sui rischi che correvano. Nessun magistrato aveva mai fatto queste cose prima di lui”.
6) Lei è entrata in magistratura nel 1979, anno in cui furono uccisi i magistrati Emilio Alessandrini e Cesare Terranova. L’anno successivo, nel 1980, vennero assassinati anche i magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa. Per ogni giovane magistrato il periodo del tirocinio rappresenta un momento importante, vissuto con grande entusiasmo atteso che finalmente, dopo tanti anni di studio, si ha la possibilità di confrontarsi con la realtà giudiziaria, con gli affidatari e con gli altri colleghi in tirocinio per prepararsi adeguatamente ad assumere le funzioni nella prima sede di assegnazione, spesso uffici di frontiera caratterizzati da molteplici criticità. Cosa ha significato per lei, giovane magistrato, svolgere l’uditorato e lavorare nel primo ufficio di destinazione in quel periodo scosso da eventi così tragici?
“Era un periodo di tragici eventi, sì, e ovviamente anche di forti tensioni, ma non c’era il tempo di pensarci più di tanto perché all’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo si lavorava incessantemente. Io e gli altri uditori di quell’epoca abbiamo avuto la grande fortuna di poter imparare il mestiere da alcuni autentici fuoriclasse della magistratura, peraltro in un clima reso molto familiare dalla loro carica umana che andava sempre a braccetto con una rigorosissima professionalità. Il mio è stato un uditorato bellissimo, perché come giudice affidatario mio padre scelse per me Paolo Borsellino, che di papà aveva lo stesso profilo umano, la stessa severità, la stessa capacità di essere instancabile. Lo conoscevo già perché frequentava anche casa nostra. Con me era paterno, mi rendeva partecipe del suo lavoro. Io studiavo i fascicoli e gli esponevo il mio punto di vista sui possibili provvedimenti. Un giorno Paolo mi portò con sé al carcere, dove doveva interrogare un imputato per omicidio. Di solito gli uditori prendevano contatto insieme, in gruppo, con questo tipo di realtà. Paolo volle che lo accompagnassi e per me già il solo varcare le porte di ferro del penitenziario fu traumatico, ma dopo fui ancora più turbata dal trovarmi faccia a faccia con un assassino. È davvero difficile per un giovane magistrato quel momento in cui necessariamente si entra nei particolari del fatto per capire come è stato compiuto il crimine. Ma ecco l’insegnamento che viene dall’esempio: mentre a me quasi tremavano le gambe, Paolo rimase lucido e distaccato, pose le domande in modo fermo ma trattando sempre quel detenuto come una persona. È stato un grande maestro per me”.
7) Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto da suo padre e che ha praticato nella sua vita professionale?
“Il suo modo di essere magistrato mi ha fortemente ispirato. Era un giudice rigoroso nell’applicare la legge ma sempre umano nei confronti delle persone che era chiamato a giudicare. Un vero servitore dello Stato e della collettività. Il suo esempio ha avuto un ruolo determinante nella mia scelta di intraprendere la carriera di magistrato. E poi lui mi ha insegnato ad andare sempre oltre le difficoltà per portare avanti quello in cui credo. Pur conscio di cosa significasse in quegli anni essere magistrato, non ha mai cercato di dissuadermi e anzi ha sempre sostenuto questa mia passione. Ma questo insegnamento, il non farsi scoraggiare dalle difficoltà, me lo aveva sempre dato, fin da quando ero piccola. Era proprio questo, per esempio, il suo messaggio quando io, bambina tranquilla ma con il vezzo della velocità sulla bicicletta, cadevo rovinosamente procurandomi sbucciature a volte anche profonde: lui non mi sgridava, nessuna ramanzina, anzi mi medicava, mi rimetteva in sella e mi diceva «ora ricomincia a correre e cerca di farlo meglio». Coraggio e determinazione: questo l’’insegnamento più importante che ho ricevuto da mio padre e che ho praticato nella vita e nel lavoro”.
8) Dal 2015 Rocco Chinnici è onorato come Giusto nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano, un memoriale per tutti coloro che si sono opposti ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Sul cippo in suo onore si legge “Magistrato integerrimo e di grande umanità, coraggioso promotore del primo pool antimafia del Tribunale di Palermo, ucciso dalle cosche nel 1983”. Secondo suo padre, quali erano le qualità professionali, umane ed etiche che dovevano essere incarnate da un magistrato e come lui le praticava?
“Né lui né i suoi colleghi impegnati in prima linea avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto senza una solidissima base di valori che li sorreggeva nel loro eccezionale impegno. La giustizia, la legalità, il senso del dovere, la fedeltà allo Stato e alle istituzioni. Tutto questo si traduceva poi in una straordinaria dedizione al lavoro. Mio padre aveva proprio la religione del lavoro, riusciva a smaltire impressionanti quantità di lavoro. Una domanda molto simile a quella che lei mi pone adesso la fecero a lui un giorno durante un’intervista televisiva, e lui disse proprio così: che un magistrato deve innanzitutto lavorare”.
9) Un’ultima domanda: cosa direbbe oggi suo padre Rocco Chinnici ad un giovane che si appresta a muovere i primi passi in magistratura, soprattutto in contesti criminali difficili?
“Ai giovani magistrati che prendevano servizio all’ufficio Istruzione come uditori papà trasmetteva un grande entusiasmo. Me lo hanno testimoniato tanti colleghi che hanno iniziato la carriera proprio con lui. Parlava loro della responsabilità che si ha nello svolgere la professione di magistrato, a maggior ragione in un contesto territoriale difficile come quello di Palermo, e al tempo stesso li stimolava a lavorare con passione, anche contagiandoli con la sua che era smisurata. Sono sicura che anche oggi a un giovane magistrato Rocco Chinnici direbbe di lavorare tenendo sempre come riferimenti l’impegno, la passione e il senso di responsabilità”.
L’Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela.
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario. 1. Premessa: la questione generale dell’onere di proposizione di cd “ricorsi al buio”. - 2. La decorrenza del termine di impugnazione degli atti di affidamento dei contratti pubblici: la questione rimessa all’Adunanza plenaria. - 3. Considerazioni conclusive in rapporto alle recenti tendenze legislative a ridurre le garanzie di legalità in materia di contratti pubblici.
1.Premessa: la questione generale dell’onere di proposizione di cd “ricorsi al buio”.
Investita da un’ordinanza della V Sezione[1], con la sentenza n. 12 del 2 luglio 2020 l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è tornata ad occuparsi della decorrenza dei termini di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture. L’ultima pronuncia in materia era stata resa nell’aprile 2018 (Ad. plen. n. 4) concernente i limiti all’onere di immediata impugnazione delle clausole della lex specialis.
Le questioni ora portate all’esame dell’organo di nomofilachia avevano invece ad oggetto l'individuazione del momento nel quale si realizza il requisito della “piena conoscenza legale” idoneo a far decorrere il breve termine decadenziale (30 giorni rispetto agli ordinari 60) per contestare i vizi dei diversi atti di gara (lex specialis, nomina della commissione, ammissione o esclusione dei concorrenti e delle offerte, aggiudicazione, ecc.), per i quali significativamente il codice dei contratti (tanto nella “prima” versione del 2006, quanto nell’attuale versione di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, s.m.i.) ha imposto specifici obblighi di pubblicazione e/o di comunicazione.
Il tema investe più in generale la compatibilità con i principi di leale collaborazione tra poteri pubblici e amministrati e di effettività della tutela nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti equiparati di un sistema che imponga la proposizione di ricorsi c.d. “al buio” contro atti di cui si conosca, attraverso il dispositivo, l’effetto pregiudizievole, ma non sia noto il contenuto motivazionale e dei quali sia pertanto estremamente difficile, se non addirittura impossibile, individuare i possibili vizi (tanto da riuscire a formulare censure con adeguato grado di specificità) e/o gli elementi idonei ad apprezzarne l’entità.
Come spesso accade, il cd “rito appalti”, per l’importanza economica del settore dei contratti pubblici e per la rilevanza che la garanzia della relativa legalità assume anche in ambito eurounitario (è l’unica materia per la quale gli organi dell’Unione abbiano adottato direttive procedurali per assicurare l’effettivo rispetto di quelle sostanziali[2]) costituisce un importante banco di prova e assume un ruolo “pilota” per affrontare questioni più generali.
Il problema sopra esposto si pone infatti per tutti i provvedimenti amministrativi, per i quali, significativamente, l'art. 3 della legge 241 del 1990 stabilisce un precipuo onere di motivazione sui “presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell' istruttoria”, con l’ulteriore specificazione che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della [stessa legge] anche l'atto cui essa si richiama”. Lo stesso art. 3 aggiunge peraltro che “in ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere”.
Purtroppo le riferite prescrizioni sono state spesso disattese e i soggetti lesi dagli atti amministrativi sono frequentemente costretti ad affrontare gli oneri economici e psicologici[3], il legislatore di impugnazioni meramente “precauzionali”, senza essere ancora effettivamente in grado di apprezzarne la fondatezza, con il rischio di constatare in corso di causa l’opportunità di rinunciare a un’azione con scarse possibilità di accoglimento o di doverla all’opposto integrare e rafforzare con la proposizione (evidentemente foriera di nuovi oneri) di cd “motivi aggiunti” [4].
Il codice del processo amministrativo non ha però specificamente affrontato l’argomento, limitandosi a disporre all’art. 41 che il ricorso deve essere notificato a pena di decadenza entro il termine di legge “decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”.
Nulla, come si vede, è detto, di più specifico, sulla necessità della conoscenza della motivazione e degli eventuali atti presupposti, dando così spazio a posizioni giurisprudenziali differenziate: secondo un orientamento, minoritario, più garantista, il termine decorrerebbe solo dalla conoscenza della motivazione (Cons. St. Sez. V, 31 gennaio 2012, n. 467; Id. 16 settembre 2011, n. 5191; Id. 8 febbraio 2007, n. 522), mentre, secondo la tesi opposta, decisamente prevalente, il dies a quo dipenderebbe dalla mera conoscenza del carattere potenzialmente lesivo del provvedimento, a prescindere dalla conoscenza della relativa motivazione (ex multis, Cons. St., Sez. V, 28 ottobre 2019, n. 3784; 4 aprile 2019, n. 2190; 31 ottobre 2018, n. 6187; Sez. IV, 21 marzo 2016, n. 11356; 23 gennaio 2012, n. 281).
2.La decorrenza del termine di impugnazione degli atti di affidamento dei contratti pubblici: la questione rimessa all’Adunanza plenaria e la relativa soluzione.
Nella materia dei contratti pubblici, la tematica è stata invece affrontata funditus dalla richiamata Direttiva 2007/66, che, nella suddetta ottica di garanzia dell'effettività della tutela, afferma espressamente che il termine per ricorrere dovrà essere computato dalla notifica del provvedimento e delle ragioni che ne sono alla base ai soggetti interessati, in modo che questi ne possano percepire l'ingiustizia e la lesività (considerando 6 e 7 e artt. 1, 2-bis, 2-quater e 2-septies Direttive 89/665/CEE e 1992/13/CEE s.m.i.; Corte giust. UE, Sez. V, 8 maggio 2014, C-161/2013 e Sez. III, 28 gennaio 2010, C-406/08, meglio nota come sentenza Uniplex e, a seguire, Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, cit., punto 40; e, da ultimo, Sez. IV, 14 febbraio 2019, in C-54/18).
In ambito nazionale, il criterio era stato esplicitamente recepito, su sollecitazione della dottrina e del parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto “correttivo”, dal d. lgs. 56 del 2017, soltanto in riferimento ai ricorsi super accelerati avverso le ammissioni e le esclusioni (tipologia specialissima opportunamente eliminata dalla legge “sblocca cantieri” del 2019)[5], ma, come già sottolineato in altre occasioni[6], anche in forza del primato del diritto dell'Unione, non può non trovare generalizzata applicazione a tutti gli atti di gara (inter alia, le aggiudicazioni).
A questi fini, la normativa processuale speciale dettata dagli artt. 19 e 120 c.p.a. deve essere, necessariamente, integrata con le disposizioni dello stesso codice dei contratti, in tema di trasparenza (art. 29, comma 1) e di “informazione dei candidati e degli offerenti” sullo svolgimento e sull'esito della procedura (art. 76), modificate dal sopracitato “correttivo” del 2017 e dal d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019, e con quelle in tema di sospensione dei termini per la stipula del contratto nelle more della scadenza dei termini per l’impugnazione (il c d standstill period sostanziale di cui all’art. 32, comma 9)[7].
L’art. 120, comma 5, del codice processuale reca infatti specifiche disposizioni sulla rilevanza della comunicazione e della pubblicazione degli atti.
In particolare, come evidenziato dall’ordinanza di rimessione e dall’Adunanza plenaria, la disposizione fa però tuttora riferimento agli artt. 79 e 66 del ‘primo codice’ dei contratti (d.lgs. n. 163 del 2006) e il difetto di coordinamento ha creato non pochi problemi interpretativi, in considerazione della non perfetta corrispondenza tra l’art. 76 del codice contrattuale vigente e l’art. 79 di quello del 2006 (che prevedeva specifiche regole in tema di accesso, opportunamente utilizzate dalla giurisprudenza a garanzia di una maggiore effettività di tutela, irragionevolmente non riprese nel codice del 2016) e tra le rispettive disposizioni in tema di pubblicità e trasparenza.
Il Consiglio di Stato ha dovuto quindi compiere un’importante opera di ricostruzione sistematica, non mancando peraltro di segnalare al Governo la necessità di un sollecito intervento legislativo.
La sentenza ha in primo luogo rilevato che l’art. 120, comma 5 – ispirandosi al principio della effettività della tutela giurisdizionale delle imprese interessate – ha disposto che il termine per l’impugnazione comincia a decorrere da una ‘data oggettivamente riscontrabile’, da individuare:
- da un lato, sulla base degli ‘incombenti formali ex lege’ cui è tenuta l’Amministrazione aggiudicatrice (connessi alla disciplina sullo stand still, contenuta dapprima nell’art. 11 del ‘primo codice’ e poi nell’art. 32, comma 9, del ‘secondo codice’);
- dall’altro lato, sulla base del criterio della normale diligenza per la conoscenza degli atti, cui è tenuta l’impresa che intenda proporre il ricorso.
Il supremo Collegio ha quindi ricordato che, per la determinazione di tale data, il c.p.a. ha fissato tre regole:
a) per l’impugnazione degli atti ‘concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture’, incluse le aggiudicazioni, ha fatto riferimento alla data di ‘ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163’ (recante il titolo ‘informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni’), attribuendo, dunque, rilievo decisivo al rispetto delle previsioni dell’art. 79;
b) per l’impugnazione dei bandi e degli avvisi ‘con cui si indice una gara, autonomamente lesivi’, si ha richiamato la data di ‘pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8’ del medesimo d.lgs. n. 163 del 2006, attribuendo, dunque, analogo rilievo a tale pubblicazione;
c) ‘in ogni altro caso’, ha disposto che va accertata la ‘conoscenza dell'atto’.
Per i casi previsti dalle lettere a) e b), l’art. 120 ha attribuito dunque rilievo decisivo al compimento delle ‘informazioni’ e delle ‘pubblicazioni’ che l’Amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad effettuare.
Quanto alle prime, l’Adunanza plenaria ha ritenuto potersi fare riferimento all’art. 76 del nuovo codice contrattuale, che impone di “informare tempestivamente ciascun candidato e ciascun offerente delle decisioni adottate riguardo alla conclusione di un accordo quadro, all’aggiudicazione di un appalto o all’ammissione ad un sistema dinamico di acquisizione, ivi compresi i motivi dell' eventuale decisione di non concludere un accordo quadro o di non aggiudicare un appalto per il quale è stata indetta una gara o di riavviare la procedura o di non attuare un sistema dinamico di acquisizione” e di comunicare entro un termine massimo di 5 giorni, a) l’aggiudicazione al concorrente che segue in graduatoria e a tutti i candidati non definitivamente esclusi; b) l'esclusione ai relativi destinatari; c) la decisione di non aggiudicare un appalto o non concludere un accordo quadro a tutti i candidati; d) la data di avvenuta stipulazione del contratto ai soggetti di cui alla lettera a e comunicare, entro 15 giorni dalla sua eventuale richiesta scritta, ad ogni offerente escluso i motivi di rigetto della sua offerta, ad ogni candidato escluso i motivi di rigetto della sua domanda di partecipazione, ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata le caratteristiche e i vantaggi di quella selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato l'appalto o delle parti dell'accordo quadro e ad ogni offerente che abbia presentato un’offerta ammessa in gara e valutata lo svolgimento e l’andamento delle negoziazioni e del dialogo con gli offerenti. A quest’ultimo riguardo, la sentenza ha chiarito che, in assenza delle disposizioni speciali dettate dall’art. 79 del ‘primo codice’, trovano applicazione, con riferimento all’accesso, le disposizioni generali sull’accesso informale agli atti amministrativi, previste dall’art. 5 del Regolamento approvato con il d.P.R. n. 184 del 2006. Ne consegue che, “l’Amministrazione aggiudicatrice deve consentire all’impresa interessata di accedere agli atti, sicché - in presenza di eventuali suoi comportamenti dilatori (che non possono comportare suoi vantaggi processuali, per il principio della parità delle parti) - va ribadito quanto già affermato dalla giurisprudenza [prima soluzione] per la quale, qualora l’Amministrazione aggiudicatrice rifiuti l’accesso o impedisca con comportamenti dilatori l’immediata conoscenza degli atti di gara (e dei relativi allegati), il termine per l’impugnazione degli atti comincia a decorrere solo da quando l’interessato li abbia conosciuti”.
Quanto all’altra data “oggettivamente certa”, l’organo di nomofilachia della giustizia amministrativa l’ha, coerentemente, individuata nell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 s.m.i., che dispone al primo periodo che “tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture nonché le procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione di concorsi di idee e di concessioni (…), alla composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti, ove non considerati riservati ai sensi dell’articolo 53 ovvero secretati ai sensi dell’articolo 162, devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente nella sezione ‘Amministrazione trasparente’”, precisando, all'ultimo periodo che, “fatti salvi gli atti a cui si applica l'articolo 73, comma 5, i termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione decorrono dalla data di pubblicazione sul profilo del committente”. Ne consegue che “l’impresa interessata – che intenda proporre un ricorso - ha l’onere di consultare il ‘profilo del committente’, dovendosi desumere la conoscenza legale degli atti dalla data nella quale ha luogo la loro pubblicazione con i relativi allegati (data che deve costantemente risultare dal sito)”.
Prima di dare puntuale e formale risposta a tutti i quesiti sollevati dalla V Sezione, la sentenza ha poi richiamato la posizione assunta dall’Unione europea, ricordando come la Corte di Giustizia avesse evidenziato che:
- i termini imposti per proporre i ricorsi avverso gli atti delle procedure di affidamento cominciano a decorrere solo quando “il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione” (Corte di Giustizia, Sez. IV, 14 febbraio 2019, in C-54/18, punto 21 e anche punti 32 e 45, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante il comma 2 bis dell’art. 120 del c.p.a., poi abrogato dalla legge n. 55 del 2019; Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, punto 37, che ha deciso una questione pregiudiziale riguardante proprio l’art. 79 del ‘primo codice’ e l’art. 120, comma 5, del c.p.a.);
- “una possibilità, come quella prevista dall’articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010, di sollevare «motivi aggiunti» nell’ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto non costituisce sempre un’alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell’appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso” (Corte di Giustizia, Sez. V, 8 maggio 2014, in C-161/13, cit., punto 40).
Dalla normativa (art. 2-quater della Direttiva 89/665 s.m.i.) e dalla giurisprudenza eurounitaria il Collegio ha dunque tratto conferma che “la sopra riportata normativa nazionale vada interpretata nel senso che il termine di impugnazione degli atti di una procedura di una gara d’appalto non può che decorrere da una data ancorata all’effettuazione delle specifiche formalità informative di competenza della Amministrazione aggiudicatrice, dovendosi comunque tenere conto anche di quando l’impresa avrebbe potuto avere conoscenza degli atti, con una condotta ispirata alla ordinaria diligenza”.
Da ultimo, la Plenaria ha affrontato la questione sul se il ‘principio della piena conoscenza o conoscibilità’ (per il quale in materia il ricorso è proponibile da quando si sia avuta conoscenza del contenuto concreto degli atti lesivi o da quando questi siano stati pubblicati sul ‘profilo del committente’) si applichi anche quando l’esigenza di proporre il ricorso emerga dopo aver conosciuto i contenuti dell’offerta dell’aggiudicatario o le sue giustificazioni rese in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta.
In linea con la massima attenzione riservata alla tutela del diritto di difesa e della legalità, il Supremo Collegio risponde in modo affermativo, riconoscendo espressa rilevanza al “tempo necessario per accedere alla documentazione presentata dall’aggiudicataria, ai sensi dell’art. 76, comma 2, del ‘secondo codice’” (come osservato ai punti 19 e 27 della pronuncia), con la testuale, importante, precisazione che “poiché il termine di impugnazione comincia a decorrere dalla conoscenza del contenuto degli atti, anche in tal caso non è necessaria la previa proposizione di un ricorso ‘al buio’ [‘in abstracto’, nella terminologia della Corte di Giustizia, e di per sé destinato ad essere dichiarato inammissibile, per violazione della regola sulla specificazione dei motivi di ricorso, contenuta nell’art. 40, comma 1, lettera d), del c.p.a.], cui dovrebbe seguire la proposizione di motivi aggiunti”.
In conclusione, sulla base delle riferite considerazioni, la pronuncia ha affermato i seguenti principi di diritto:
“a) il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione decorre dalla pubblicazione generalizzata degli atti di gara, tra cui devono comprendersi anche i verbali di gara, ivi comprese le operazioni tutte e le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte presentate, in coerenza con la previsione contenuta nell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016;
b) le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione non solo dei motivi aggiunti, ma anche di un ricorso principale;
c) la proposizione dell’istanza di accesso agli atti di gara comporta la ‘dilazione temporale’ quando i motivi di ricorso conseguano alla conoscenza dei documenti che completano l’offerta dell’aggiudicatario ovvero delle giustificazioni rese nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta;
d) la pubblicazione degli atti di gara, con i relativi eventuali allegati, ex art. 29 del decreto legislativo n. 50 del 2016, è idonea a far decorrere il termine di impugnazione;
e) sono idonee a far decorrere il termine per l’impugnazione dell’atto di aggiudicazione le forme di comunicazione e di pubblicità individuate nel bando di gara ed accettate dai partecipanti alla gara, purché gli atti siano comunicati o pubblicati unitamente ai relativi allegati”.
3. Considerazioni conclusive in rapporto alle recenti tendenze legislative a ridurre le garanzie di legalità in materia di contratti pubblici.
La sentenza merita il massimo apprezzamento, soprattutto per l’attenzione che mostra di porre alla garanzia della legalità e dell’effettività della tutela giurisdizionale nell’affidamento dei contratti pubblici, in controtendenza con le più recenti riforme legislative, che, da anni, progressivamente la erodono, come dimostra anche il recente decreto semplificazioni[8].
Come noto, da qualche anno (e soprattutto dal 2014), il legislatore ha cercato invero strumenti artificiali di “deflazione” del contenzioso amministrativo, particolarmente incisivi in subiecta materia, individuabili:
-nell’inaccettabile incremento del contributo unificato da versare per le controversie di maggior impatto economico[9] (per il contenzioso sui contratti pubblici e sugli atti delle Authorities il ricorso, tanto in via principale, quanto in via incidentale, è soggetto al versamento di un contributo unificato variabile da 2.000 a 6.000 euro, mentre per i ricorsi nelle materie soggette, per la loro rilevanza politica ed economica, a rito accelerato, è richiesto un contributo fisso di 1.800 euro. I predetti importi - “contenuti” negli altri giudizi in 650 euro - sono aumentati del 50% per le controversie in grado di appello e sono spesso raddoppiati o moltiplicati se l’amministrazione adotta nuovi atti contro i quali occorre rivolgere nuove censure: circostanza tutt’altro che infrequente nelle procedure di evidenza pubblica o a fronte della deprecabile prassi di “correggere” i provvedimenti impugnati in corso di causa, non scoraggiata da una esemplare condanna alle spese del giudizio fondatamente instaurato contro il provvedimento corretto; e rischiano di essere inutilmente versati o raddoppiati o moltiplicati quando il sistema ammette/pretende la presentazione del ricorso “al buio”);
-nell’obbligo di definire i ricorsi sull’affidamento dei contratti pubblici in tempi estremamente contratti e con sentenza redatta ordinariamente “in forma semplificata” (difficilmente compatibile con l’oggettiva complessità della materia) e la preferenza generalmente riconosciuta a questo strumento (difficilmente conciliabile con il ruolo conformativo dell’attività amministrativa che il sistema costituzionale ha voluto conferire al giudice amministrativo e con il ricordato ruolo “regolatorio” attribuitogli, sia pure impropriamente, dal legislatore);
- nell’imposizione di limiti dimensionali agli scritti difensivi e di apposite regole di redazione di questi ultimi (limiti che, se si combinano con l’introduzione del processo telematico obbligatorio e i tempi necessariamente circoscritti della discussione orale, rendono vieppiù oggettivamente difficile la dimostrazione della fondatezza delle censure e delle eccezioni formulate);
- nell’imposizione di ulteriori limiti al potere giurisdizionale di sospensione dei provvedimenti relativi alle procedure di affidamento dei contratti pubblici: l’art. 120, comma 8-ter c.p.a., per un verso, assoggetta il potere cautelare alle medesime regole e ai medesimi limiti di incisione sul contratto previsti, dagli artt. 121 e 122, per la decisione di merito e, per l’altro, (non ritenendo evidentemente sufficiente il mero, tradizionale, bilanciamento dei diversi interessi, già in qualche modo sbilanciato a favore di quello pubblico dall’art. 119, commi 3 e 5) impone al Collegio di valutare l’istanza cautelare tenendo conto delle pretese “esigenze imperative connesse ad un interesse generale all’esecuzione del contratto” (laddove l’unico interesse generale in subiecta materia è all’evidenza quello, sottolineato anche dalla direttiva 2007/66/CE, che le violazioni alle regole sostanziali non producano i loro effetti)[10];
- nell’imposizione di limiti ancora più incisivi al potere del giudice cautelare nei giudizi relativi alla progettazione e alla realizzazione delle c.d. “infrastrutture strategiche” (che deve tenere conto, “delle probabili conseguenze del provvedimento per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera” (preminenza aprioristicamente stabilita dalla legge, dunque), e valutare l’[effettiva] “irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente”, da comparare in ogni caso “con quello del soggetto aggiudicatore allacelere prosecuzione delle procedure” e, in termini ancora più gravi, nella previsione della non incidenza delle pronunce di annullamento e/o di sospensione assunte in tali giudizi per vizi diversi da quelli (più gravi) individuati dall’art. 121 sui contratti eventualmente già stipulati (art. 125 c.p.a.)[11].
E, da ultimo, a quanto è dato conoscere dalla bozza in circolazione, il dl semplificazioni, approvato dal Consiglio dei Ministri del 7 luglio scorso con la criticabile formula “salvo intese” (utilizzata sempre più frequentemente dai governi per indicare che la redazione definitiva del testo formalmente approvato è rinviata all’esito di successivi negoziati tra le forze politiche), nel ridurre le ipotesi di responsabilità erariale commissiva e di abuso d’ufficio dei funzionari pubblici (artt. 21 e 23), estenderebbe la portata del citato art. 125 e prevederebbe un’ipotesi specifica di responsabilità erariale e disciplinare a carico dei funzionari che, anche in pendenza di contenziosi, in assenza di espressa inibitoria legislativa o giurisdizionale, non procedono tempestivamente alla stipula e all’avvio dell’esecuzione dei contratti o, se il ritardo è imputabile all’operatore economico, l’esclusione di dritto di quest’ultimo dalla procedura o la risoluzione del contratto per suo inadempimento (artt. 1,2 e 4).
Ne consegue che gli affidamenti contra legem per i quali il soggetto leso non sia riuscito a superare i riferiti ostacoli frapposti all’accoglimento dell’istanza cautelare producono indisturbati i loro effetti, con pregiudizio irreparabile dei concorrenti (soprattutto le PMI) illegittimamente esclusi o mal valutati e degli utenti (esposti anche a rischi di sicurezza) e, soprattutto, della legalità. Si tratta di danni seri e gravi, che si aggiungono a quello del rischio del risarcimento gravante sulla stazione appaltante e, di risulta, sulla collettività[12], che il decreto avrebbe cercato di attenuare riconoscendo la possibilità delle stazioni appaltanti di stipulare (evidentemente a caro prezzo) appositi contratti di assicurazione (!).
Né desta minore preoccupazione la previsione, nello stesso decreto, che i giudizi de quibus debbano essere “di norma” definiti in sede cautelare con sentenza semplificata, anche in deroga ai presupposti stabiliti dall’art. 74, comma 1, c.p.a. e che, in ogni caso, il giudice dovrebbe rendere la sentenza entro 15 giorni dall’udienza di discussione e che, qualora la stesura della motivazione fosse particolarmente complessa, il giudice debba comunque pubblicarne entro tale termine il dispositivo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e depositare in ogni caso la sentenza entro 30 giorni dall' udienza. Si rischia dunque di privilegiare la celerità su una decisione adeguatamente ponderata e consapevole[13].
C’è dunque soltanto da confidare nella reazione della giurisprudenza, anche attraverso eventuali rinvii alla Corte costituzionale e alla Corte di Giustizia; mentre, tornando alle questioni affrontate dalla sentenza in commento, c’è da auspicare che la garanzia di effettività della tutela segnata dal più stretto legame tra termine di impugnazione e obbligo di motivazione trovi un’applicazione più generalizzata. Si ricorda del resto che la Direttiva 2007/66, al considerando 36, fa espresso richiamo al principio di effettività della tutela sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (cd Carta di Nizza), che, evidentemente, non si limita ai contratti pubblici.
* * *
[1] Ord. 2 aprile 2020 n. 2215.
[2] Le note Direttive 1989/665 e 1992/13, modificate e integrate dalla Direttiva 2007/66 con il dichiarato obiettivo di imporre agli Stati membri l’adozione di strumenti di ricorso più efficaci contro la violazione delle nuove direttive sostanziali nn. 17 e 18 del 2004, e misure di tutela (inibitoria, cautelare, caducatoria e risarcitoria) più stringenti, al fine di evitarne l’elusione, anche attraverso la cd corsa alla stipula del contratto nelle more della proposizione di un eventuale ricorso sull’aggiudicazione o della decisione (almeno cautelare) sullo stesso.
Tradizionalmente, infatti, tale settore si caratterizza per la difficoltà di trovare un equo contemperamento tra l'esigenza, economica e funzionale, che le prestazioni richieste dalle pp.aa. (e dai soggetti a esse equiparati per l’affidamento delle relative commesse: organismi di diritto pubblico, titolari di concessioni pubbliche affidate senza gara e, in particolari settori, imprese pubbliche e titolari di diritti speciali o esclusivi) siano sollecitamente rese e quella, morale e giuridica, che il relativo affidamento sia improntato al massimo rispetto della legalità, a tutela delle regole di contabilità pubblica e di garanzia della concorrenza e degli altri interessi di volta in volta individuati dall'ordinamento (tra le quali oggi, in particolare, quelli ambientali e sociali).
[3] Se non addirittura giuridici, nei casi in cui, come accaduto proprio in riferimento ai contratti pubblici, il legislatore abbia considerato l’instaurazione di contenziosi come elemento negativo per il rating del proponente: v infra.
[4] Il tema, classico (E. Cannada Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi, in Foro amm. 1961, 1081; A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, Morano Editore, 1963, 242 ss., che, mettendo l’accento sul fatto che l’art. 36 non del Regolamento di procedura davanti al Consiglio di Stato non equiparava alla notificazione una “qualsiasi conoscenza” dell’atto da impugnare, ma una conoscenza “piena” e che, coerentemente l’art. 6 del suddetto Regolamento onerava l’interessato non solo ad impugnare i provvedimenti ritenuti lesivi nei termini, anche di indicare i “motivi su cui si fonda il ricorso, sottolineava che “il legislatore ha voluto che la decadenza per decorso del termine, dalla possibilità di proporre il ricorso, si verifichi solo in quanto, conoscendo l’atto in misura sufficiente per individuare anche i difetti incidenti nel campo della propria sferra giuridica, l’interessato abbia lasciato trascorrere inutilmente il termine fatale”), è troppo ampio per poterlo affrontare in questa sede: si rinvia, per tutti, agli scritti di G. Virga, La disciplina dei termini nel processo amministrativo, in Atti del convegno di studi organizzato dalla facoltà di giurisprudenza di Messina, 15-16 aprile 1988, Giuffré, Milano, 1989, 249; S. Baccarini, La comunicazione del provvedimento amministrativo tra prassi e nuove garanzie, in Dir. proc. amm., 1994, 1, 8; Id., motivazione ed effettività della tutela, in giustamm.it; M.A. Sandulli, Rilevanza e trasparenza dei motivi nel procedimento e nel processo, in AA.VV., Attidel Convegno di Brescia del 18-19 ottobre 1991, Roma, 1995; R. Politi, Decorrenza del termine per l'impugnazione del provvedimento in sede giurisdizionale e conoscenza della motivazione dell'atto: spunti di riflessione, in TAR, 1999, 2, 133; R. Damonte, Conoscenza del provvedimento amministrativo e termini di proposizione del ricorso al giudice amministrativo, in Riv. giur. edil., 2000, 1, 1135; A. Reggio d’Aci, La piena conoscenza del provvedimento amministrativo e la decorrenza del termine per la sua impugnazione, in Urb. e app., 2007, 11, 1367; L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm.-TAR, 2008, 1193; S. De Paolis, B. Rinaldi, Piena conoscenza ed effettività della tutela: riflessioni e attualità del pensiero dei maestri, in Atti del convegno su L'impugnabilità degli atti amministrativi, Giornate di studio in onore di E. Cannada Bartoli, 13-14 giugno 2008, Siena, in giustamm.it; M.A. Sandulli I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in federalismi.it, n. 18/2009; A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, Gi2012; nonché, più recentemente, M.A. Sandulli, Profili soggettivi e oggettivi della giustizia amministrativa: il confronto, in federalismi.it, n. 3/2017 nonché ai contributi generali sulla motivazione di F. Aperio Bella, La motivazione del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2 ed., 2017, (aggiornamento 2020 in corso di stampa) e di F. Cardarelli, La motivazione del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2 ed., 2017, 374 ss. e R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017, 269 ss.
[5] In argomento, specificamente, A.G. Pietrosanti, Piena conoscenza, termine per impugnare ed effettività della tutela nel rito “super accelerato” ex art. 120 co. 2 bis c.p.a., in www.federalismi.it, 7/2017; S. Tranquilli, Prime riflessioni a margine di alcune recenti oscillazioni giurisprudenziali sull’individuazione del dies a quo per impugnare le ammissioni e le esclusioni dalle gare alla luce della disciplina del rito “super-speciale”, in www.federalismi.it, 5/2018.
[6] Per tutti, M.A. Sandulli, Nuovi limiti al diritto di difesa introdotti dal d.lgs. n. 50 del 2016 in contrasto con il diritto eurounitario e con la Costituzione, in lamministrativista.it, 2016; e Rito speciale in materia di contratti pubblici, Bussola in lamministrativista.it; M.A. Sandulli, S. Tranquilli, Art. 204, in Codice dei contratti pubblici - Commentario di dottrina e giurisprudenza, a cura di G. M. Esposito, UTET, 2017, 2365; M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “preconteziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici, in www.federalismi.it, 2016, n. 10, 39 ss.; R. De Nictolis, Il nuovo codice dei contratti pubblici, in Urb. e App., 2016, 5, 503 ss; G. Severini, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici, in www.giustizia-amministrativa.it, 2016.
[7] Per un approfondimento della complessa disciplina, nazionale ed eurounitaria, in materia di contratti pubblici e dei relativi principi e istituti, si rinvia all’ampio Trattato sui contratti pubblici (5 volumi) a cura di M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II ed., Milano, 2019. Per una visione sintetica, ma completa, del quadro normativo e giurisprudenziale aggiornato alla l. n. 55 del 14 giugno 2019, cfr. il Codice dei contratti pubblici annotato con normativa e giurisprudenza e linee guida ANAC, a cura di G.A. Giuffrè, P. Provenzano e S. Tranquilli, Napoli, 2019.
[8] Su cui cfr. l’accenno critico in M.A. Sandulli, Cognita causa, rielaborazione della Relazione al webinar del 30 giugno/1luglio 2020 su L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro, in giustiziainsieme, 6 luglio 2020. Il tema è stato ampiamente affrontato da M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, Relazione al medesimo webinar, in lamministrativista.it, 3 luglio 2020.
[9] Si rinvia, ancora, a M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell'abuso di processo o diniego di giustizia? in federalismi.it, n. 20/2012.
[10] Cfr. le considerazioni critiche di G. Severini, Tutela cautelare e standstill, in Trattato sui contratti pubblici, cit., cap. 125.
[11] A queste misure il Codice dei contratti pubblici del 2016 aveva aggiunto un rito super specialissimo (opportunamente abrogato dall’art. 1, comma 4, del d.l. n. 32 del 2019) che imponeva al concorrente l’onere di proporre immediata impugnazione, non soltanto della propria esclusione, ma anche della ammissione degli altri concorrenti, a prescindere dalla sussistenza di un reale interesse alla relativa contestazione, (concretizzabile soltanto all’esito della valutazione delle offerte) entro trenta giorni dalla pubblicazione sul sito del committente del mero elenco dei soggetti ammessi, ancorché privo delle informazioni necessarie a valutarne la legittimità: la misura, apparentemente diretta a definire ogni controversia prima della fase di valutazione delle offerte, si traduceva, se combinata all’alto costo del giudizio e alle conseguenze che la relativa instaurazione può determinare sul rating delle imprese, in una ulteriore, ingiusta, misura di “deflazione” dall’accesso alla giustizia. Per una panoramica generale sulla disciplina del processo in materia di affidamento dei contratti pubblici, cfr. R. De Nictolis, in Trattato sui contratti pubblici, cit., cap. 124.
[12] Sul tema ancora M.A. Sandulli, Cognita causa, cit. e, più specificamente, La nuova tutela giurisdizionale in tema di contratti pubblici (note a margine degli artt. 244-246 del Codice de Lise), Il processo amministrativo superaccelerato e i nuovi contratti ricorso-resistenti e Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici in federalismi.it, nn. 21/2006, 5/2009 e 15/2016; e F. Francario,Forme e tecniche di tutela alla prova dell’emergenza, relazione al webinar L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo, e gli interventi al webinar organizzato dall’AIPDA su Poteri del giudice amministrativo e efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti, coordinato da C. Barbati e introdotto da interventi di R. Cavallo Perin, M. Clarich, G. De Giorgi Cezzi, G. Morbidelli, F.G. Scoca, L. Torchia e G. Tropea sul dibattito apertosi sul tema tra G. Della Cananea, M. Dugato, A. Police e M. Renna E G. Corso, F. Francario, G. Greco, M.A. Sandulli e A. Travi, ascoltabili sul link in giustiziainsieme.it.
[13] Ci si consenta ancora il rinvio allo scritto Cognita causa e alle osservazioni sulla sentenza semplificata svolte in M.A. Sandulli, c Il tempo del processo come bene della vita, in federalismi.it, n. 18/2014.
La discussione scritta della causa nel processo ammistrativo*
di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. La trattazione scritta della causa nella disciplina processuale anti-covid - 2. L’incremento della trattazione scritta nel codice del processo amministrativo - 3. La trattazione scritta e l’oralità. – 4. I caratteri dell’oralità. – 5. L’oralità e il processo amministrativo. – 6. La trattazione scritta e la trattazione orale nel processo amministrativo: una ricostruzione aggiornata. – 7. Principi fondamentali e trattazione scritta.
1. La trattazione scritta della causa nella disciplina processuale anti-covid. – La disciplina del processo amministrativo contenuta nei decreti legge emanati a seguito dell’emergenza covid – 19, oltre ad avere prima soppresso e poi limitato o modificato la trattazione orale della causa, ha anche introdotto nuovi momenti di trattazione scritta: si è trattato, in particolare, della introduzione di due ipotesi di presentazione di brevi note scritte, con diversa scansione temporale, sempre a ridosso dell’udienza o della camera di consiglio, e perciò in sostituzione della trattazione orale stessa: a’ sensi dell’art. 84, c. 5 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, se nessuna parte ha chiesto la discussione orale, ciascuna può presentare brevi note sino a due giorni prima dell’udienza; a’ sensi dell’art. 4, c. 2 del d.l. n. 30 aprile 2020, n. 28, se è richiesta la discussione orale (i dl parlano sempre di udienza: già il cpa, all’art. 60, nella rubrica indica “udienza cautelare”, mentre l’art. 87 distingue) da una delle parti, l’altra, in alternativa alla partecipazione, può depositare note d’udienza fino alle ore 9 del giorno dell’udienza[1]. Quest’ultimo termine è stato modificato dalla legge di conversione 25 giugno 2020, n. 70, nelle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza.
Si tratta, in sostanza, delle note di udienza, istituto non sconosciuto, in passato, come si vedrà, al processo amministrativo e al giudizio avanti la Corte di Cassazione.
Sul punto, la disciplina introdotta dai decreti legge richiamati non è completa: la medesima, infatti, non indica quale dev’essere il contenuto delle note né la loro dimensione. Né è utile il riferimento a quanto parimenti disposto per il processo civile, ove si consideri che, in quel caso, a’sensi dell’art. 83, le note sono soltanto la sostituzione scritta della partecipazione del difensore all’udienza e debbono contenere le richieste e le istanze rivolte al giudice, e cioè quello che il difensore verbalizzerebbe nel verbale d’udienza.
Riflettendo, però, sulla collocazione delle note, è evidente che alle medesime va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi[2] ma, invece, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio[3].
Va, a questo proposito, perciò, effettuata una distinzione. Se le note sono depositate in vista dell’udienza, posto che il contraddittorio scritto disciplinato dal Codice del processo amministrativo è articolato, consistendo nelle memorie e nelle repliche, e posto che le repliche debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi, se ne deve trarre che le note sono semplicemente una estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica.
Non sarebbe possibile introdurre questioni nuove in precedenza non dibattute.
Se viceversa le note sono depositate in vista della camera di consiglio, posto che per la camera di consiglio non è previsto il deposito di repliche non perché sia vietato ma perché è temporalmente impossibile, e posto che nella discussione in camera di consiglio viceversa le repliche orali sono normalmente il contenuto della trattazione, nelle note sarà possibile per il ricorrente replicare all’atto di costituzione delle controparti e per le controparti puntualizzare quanto già dedotto nella comparsa o quanto ulteriormente ritengono di introdurre in sede di discussione orale (in vista della camera di consiglio infatti non vi è nessuna previsione dalla quale possa emergere che non è possibile sollevare questioni nuove).
In entrambi i casi ovviamente si deve trattare di atti sintetici (anche se non possono essere riprese le indicazioni che taluno[4] ha formulato per il processo civile di limitazione ad una pagina proprio perché la natura e il contenuto delle note sono diversi nei due processi).
Meno agevole è la soluzione con riferimento al rapporto fra le note che possono essere depositate due giorni prima a’ sensi dell’art. 84 quinto comma del d.l. n. 18 del 2020 e le note che possono essere presentate sino alle ore 9 del giorno dell’udienza o della camera di consiglio a’ sensi dell’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 (ora alle ore 12 del giorno antecedente l’udienza). Le prime note sono previste nel caso in cui nessuno abbia chiesto l’udienza di discussione; con riferimento all’udienza di merito, e cioè all’udienza in senso proprio, la regola potrebbe accettarsi, poiché in quel caso la richiesta della discussione può essere formulata fino alla scadenza del termine per il deposito delle repliche cosicché dopo quella data tendenzialmente la discussione non può essere richiesta.
La regola si comprende molto meno per quanto concerne invece la fase cautelare, perché, in questo caso, il termine per la richiesta della trattazione orale, cinque giorni prima della camera di consiglio, viene a scadere antecedentemente alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio delle controparti del ricorrente. Ne consegue che se si volesse applicare rigidamente la regola in forza della quale le note scritte possono essere depositate due giorni prima e le note d’udienza possono essere depositate il giorno stesso (o il giorno prima) soltanto nel caso in cui sia stata richiesta e disposta la discussione orale, il risultato sarebbe che inevitabilmente la parte più scrupolosa sarebbe indotta a richiedere comunque la discussione in sede cautelare per potere valutare, una volta depositato l’atto di costituzione delle controparti, se replicare o meno con le note scritte[5].
La richiesta della trattazione orale in camera di consiglio sarebbe perciò null’altro se non uno strumento per ottenere di potere depositare note scritte. Questo costituirebbe un evidente appesantimento privo di significato. Se ne deve dedurre, perciò, che per quanto concerne la tutela cautelare le note scritte sino alle ore 9 o alle ore 12 del giorno prima del giorno della trattazione devono essere comunque consentite[6]. Questa soluzione è quella che dal punto di vista della economicità è più praticabile.
Un’altra questione è stata sollevata questa volta con riferimento all’udienza e cioè se le note scritte d’udienza siano depositabili anche da chi non si sia costituito in giudizio e in ipotesi voglia partecipare alla discussione orale e non l’abbia richiesta entro i termini.
Chi non si è costituito tempestivamente in giudizio e non ha rispettato i termini dell’attività defensionale in vista dell’udienza non è abilitato a depositare nessuna trattazione scritta; questo soggetto potrebbe soltanto discutere oralmente ma, evidentemente, nella discussione orale si discute se possa sollevare eccezioni, proprio perché per le eccezioni è riservata la trattazione scritta (tanto che vi è stato chi ha ipotizzato in questo caso la necessità di un rinvio dell’udienza). Se le brevi note depositate due giorni prima sono la sostituzione della discussione, non può però rifiutarsi a colui che si costituisca tardivamente la possibilità di questo deposito e se le note d’udienza sono ugualmente sostitutive della discussione, non può nemmeno negarsi la possibilità di deposito delle note d’udienza. In fin dei conti, così facendo, il soggetto che si costituisce tardivamente non farebbe altro che utilizzare la facoltà defensionale che è consentita in generale dell’ordinamento e la sua controparte si trova soltanto esposta alla possibilità di una discussione orale della controparte non preceduta da trattazione scritta, cosa che di norma può verificarsi[7].
A questo punto però non essendovi la possibilità di replica scritta, è gioco forza che la trattazione debba essere differita[8], vuoi che si tratti di un’udienza vuoi che tratti di una camera di consiglio per consentire la replica del ricorrente e delle altre parti contrapposte. Il rinvio potrà essere anche breve, poiché l’unico termine da rispettare è appunto i due giorni prima dell’udienza di merito o il giorno prima per l’udienza cautelare. Nient’altro è previsto trattandosi di quanto potrebbe verificarsi in una pubblica udienza. Non può essere disposto un rinvio ad horas, perché nel caso in cui la discussione non sia richiesta il soggetto coinvolto nell’udienza non può collegarsi telematicamente né sarebbe tenuto a farlo. Poiché ora il termine è quello delle ore 12 del giorno antecedente, la necessità di rinvio è ridotta.
È più che evidente che una situazione di questo genere, assai complessa, giustifica l’atteggiamento più rigido e restrittivo assunto dal Presidente del Consiglio di Stato, che però non può risolvere i casi limite che si sono prospettati; la soluzione del problema sta in un comportamento responsabile e collaborativo di tutti i soggetti del processo, che limiti al massimo queste situazioni critiche, comportamento che peraltro è ragionevole aspettarsi si generalizzi, posto che ha avuto successo il protocollo d’intesa sottoscritto dal Consiglio di Stato, dall’Avvocatura Generale dello Stato, dal Consiglio Nazionale Forense, dall’Ordine degli Avvocati di Roma e dalle Associazioni degli Avvocati Amministrativisti: nelle udienze e camere di consiglio che si sono tenute nel mese di giugno avanti il Consiglio di Stato, come emerge da una lettura dei decreti dei singoli presidenti di sezione pubblicati sul sito ufficiale, la discussione è stata richiesta per un numero molto ridotto di controversie.
Ne discende che la gestione coordinata e consensualmente partecipata del processo è indispensabile: ma il processo è proprio il luogo nel quale i difensori delle parti e il giudice, tutti legati tra di loro dall’esigenza di rispettare il contraddittorio, cooperano, pur da posizioni differenti, affinché sia fatta giustizia[9].
L’osservazione ora svolta può rendere meno ardua e impegnativa la valutazione della normazione anti-covid: si è trattato di una normazione molto frequente, spesso contraddittoria, che ha dato luogo a un regime particolare per il processo amministrativo, che ha indotto a ricordare come molto spesso l’opzione zero, cioè la non introduzione di elementi di modificazione, possa essere il miglior antidoto rispetto alle emergenze[10] e ad evidenziare una differenza rispetto a quanto si è verificato per il processo civile.
In realtà, come emerge dalla rassegna cronologica degli interventi che taluno ha effettuato[11], per quanto concerne il processo amministrativo il legislatore ha tentato di inseguire l’evoluzione del contagio e quindi la percezione della sempre crescente gravità della epidemia, fino al momento in cui la medesima è parsa in qualche misura ridurre la sua pervasività. È stato perciò un inseguirsi della normativa dovuto proprio alla esigenza di essere tempestivi rispetto all’evoluzione della pandemia. D’altro canto, nel processo amministrativo la trattazione è sempre davanti a un giudice collegiale, e l’udienza di discussione o la camera di consiglio di discussione hanno un ruolo particolare, cosicché non vi era la possibilità di interventi marginali quali quelli introdotti per il processo civile, nel quale la trattazione avviene normalmente davanti a un giudice monocratico e i momenti di effettiva discussione sono rari.
Ciò non toglie che la normativa in più occasioni, e forse sempre, sia risultata oscura e perciò di incerta interpretazione, con conseguenze particolarmente pericolose per le parti e per i loro difensori laddove sono stati introdotti o già vi erano termini perentori[12]. L’antidoto a questa situazione è la non enfatizzazione della perentorietà dei termini oltre ragione ove le esigenze siano altrimenti soddisfatte (il termine dei cinque giorni per la richiesta della fissazione d’udienza, per esempio, non è un termine perentorio, perché è connesso soltanto a esigenze organizzative e può perciò essere superato), nella interpretazione ragionevole delle fattispecie che eviti di introdurre eccezioni a regole generali (quale quella della sospensione dei termini per tutti i ricorsi, indipendentemente dal contenuto della domanda proposta)[13] o decadenze non espressamente comminate e infine nel prudente esercizio del potere di riconoscere l’errore scusabile, e la conseguente rimessione in termini, anche oltre rispetto ai casi letteralmente stabili dalla normativa anti-covid.
D’altro canto, in questa situazione, i presupposti per la concessione dell’errore scusabile vi sono tutti[14]: la successione di norme diverse in un arco brevissimo di tempo, l’inesistenza di una disciplina consolidata, una situazione di urgenza e di difficoltà in precedenza mai verificatasi. Non è il caso di aggiungere alla pandemia e al turbamento che tutto questo ha arrecato nell’attività dei giudizi, dei giudici e degli avvocati anche delle preclusioni e delle decadenze inaspettate ed imprevedibili.
2. L’incremento della trattazione scritta nel codice del processo amministrativo. – La tendenza all’incremento della trattazione scritta era già presente nel codice del processo amministrativo, ove era configurata come un arricchimento della possibilità di contraddittorio tra le parti.
Il codice infatti ha introdotto, dopo la memoria, la possibilità di depositare repliche, così ovviando ad un contraddittorio claudicante, conseguente alla non perentorietà del termine per la costituzione in giudizio delle controparti del ricorrente, ed ha previsto l’obbligo per il collegio, che si avveda dell’esistenza di una questione rilevabile d’ufficio non discussa tra le parti e che potrebbe risolvere il giudizio dopo la conclusione dell’udienza, di assegnare un termine alle parti per una trattazione scritta sulla medesima.
Il processo amministrativo, con questi innovazioni, è diventato sicuramente più strutturato e la possibilità di discutere argomenti sempre più complessi in fatto e in diritto certamente è cresciuta.
In questo senso militano le riforme introdotte nel codice e in norme esterne ma connesse relative al contenuto del ricorso: dalla previsione che stabilisce che i motivi di ricorso debbano essere indicati distintamente, contenuta nel codice, alla previsione relativa alle dimensioni degli atti del ricorso e difensivi delle parti. Queste due innovazioni, lette in modo corretto, giovano alla formulazione degli atti e perciò al contraddittorio, perché un ricorso redatto in modo strutturalmente adeguato consente alla controparte e al giudice di comprenderlo esattamente e un ricorso contenuto in termini ragionevoli ugualmente consente alla controparte e al giudice di valutarlo nella sua interezza (del resto, proprio con riferimento alle dimensioni del ricorso l’Adunanza plenaria ha interpretato la normativa relativa nel senso che il rispetto delle dimensioni del ricorso comporta l’obbligo del giudice di esaminare tutte le censure contenute nello spazio dimensionale assegnato senza possibilità di assorbimento)[15].
La stessa formalizzazione della graduazione dei motivi di ricorso, richiesta dall’Adunanza plenaria[16], va nello stesso senso, nel senso cioè di rendere più rilevante la trattazione scritta anche per profili che nell’impostazione originaria del processo amministrativo non erano valorizzati.
Rimane non risolto il problema della rilevanza del termine per la costituzione in giudizio, che l’Adunanza plenaria[17] ha qualificato come non perentorio: in realtà, il termine dovrebbe essere qualificato come perentorio e dovrebbe anche essere riferito ad una trattazione contenutisticamente precisa, come è richiesto ormai nel processo civile, e non solo nel processo del lavoro. Così facendo, tutto lo sviluppo successivo del processo e il contraddittorio sarebbero valorizzati. Una scelta di questo genere comporta l’adeguamento dell’amministrazione alla tempistica della giustizia, ma l’amministrazione deve essere in grado di procedere celermente così come non solo l’ordinamento ma le esigenze della comunità nazionale richiedono.
3. La trattazione scritta e l’oralità. – Il problema che si pone è se l’ampliamento della trattazione scritta comporti una modificazione del processo amministrativo dal punto di vista dell’oralità.
Vi è una certa incertezza su quale sia la connotazione tipica del processo amministrativo.
Vi sono autori che sottolineano come il processo amministrativo sia un processo scritto: in questi termini V. CAIANIELLO[18], che afferma espressamente che il processo amministrativo è dominato dal principio della scrittura e che l’udienza pubblica può risolversi anche soltanto nella formalità della chiamata della causa[19].
Diversa è la posizione di Mario NIGRO, che ritiene che nel processo amministrativo viga il principio dell’oralità ma “in senso attenuato”, poiché l’udienza di discussione orale è centrale ma ha luogo dopo lo scambio di difese scritte tra le parti[20].
Anche altri autori estremamente importanti valorizzano il ruolo dell’udienza sia pure senza prendere posizione sulla qualificazione del processo amministrativo come un processo ispirato al principio di generalità o no. Così, A. M. SANDULLI[21] dedica un’ampia trattazione alla udienza di discussione, all’interno del paragrafo intitolato “La discussione orale”, nel quale esamina analiticamente l’andamento dell’udienza peraltro, come suo uso, senza esprimere giudizi; nello stesso senso, F. G. SCOCA[22] tratta ampiamente dell’udienza che, afferma, “consiste in un’attività di relazione tipica del giudice … che si concreta nell’incontrare in luogo e tempo predeterminato, le parti processuali”.
Non manca, però, chi alla discussione in udienza non dedica cenno alcuno, pur trattando degli articoli del codice del processo amministrativo che la regolano[23].
In realtà fra i vari autori richiamati non vi è contrasto, poiché da tutti emerge che nei fatti il ruolo dell’udienza esiste perché l’udienza è celebrata ma che nella medesima la trattazione è di norma estremamente sintetica[24]; in questo senso si è pronunciato ora il Presidente del Consiglio di Stato, che ha affermato che “il processo amministrativo è storicamente un processo scritto, basato su prove scritte e precostituite, come dimostra anche la ridotta percentuale delle cause in cui viene chiesta dalle parti la discussione orale”[25]. La tendenza sarà accentuata posto che l’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 prevede che le parti in alternativa alla discussione, possano depositare una “richiesta di passaggio in decisione” e che il difensore che depositi questa istanza è considerato presente a tutti gli effetti in udienza o in camera di consiglio. L’utilizzazione di questa modalità, per non sovraccaricare le udienze da remoto, è consigliata nel Protocollo d’intesa sottoscritto il 25 maggio 2020 tra il Presidente del Consiglio di Stato, l’Avvocatura dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense e la Associazione Avvocati Amministrativisti.
Si tratta invero di una situazione assai risalente, posto che già E. GUCCIARDI[26], indicava che all’udienza il relatore espone i motivi “senza aggiungere alcun apprezzamento o giudizio proprio” e che “di regola per ciascuna parte può parlare brevemente un solo avvocato e non vi è possibilità di replica”.
Questo autore, peraltro, anticipando quanto verrà poi stabilito nella disciplina anti-covid richiamata all’inizio, dava per consolidata la possibilità di replica per iscritto, mediante brevi note di udienza, alle deduzioni avversarie presentate o nella memoria depositata alla scadenza del termine assegnato oppure per la prima volta nella discussione orale.
Può dirsi, a questo punto, che l’abitudine che si è diffusa nel processo amministrativo negli ultimi decenni è frutto della innovazione conseguente alla istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, che hanno portato nel giudizio amministrativo non solo un numero ben più elevato di avvocati, ma anche professionisti con diverse abitudini all’udienza e magistrati che, forse per la maggior vicinanza territoriale rispetto alle parti e perciò maggiormente sensibili alla dimensione anche sociale dei conflitti, sono risultati più disponibili ad una trattazione allargata.
Questo tipo di atteggiamento, che ha connotato i primi trent’anni di esperienza dei T.A.R., è ormai alle spalle, poiché anche in questi Tribunali, come in Consiglio di Stato, l’esigenza di contenere in tempi ragionevoli la celebrazione dell’udienza a fronte di un contenzioso certamente cresciuto rispetto ai tempi di GUCCIARDI ha condotto ad un contingentamento della discussione.
Non può negarsi che questo contingentamento è anche una conseguenza della sempre più ampia trattazione scritta svolta nei giudizi, sia nel ricorso che nelle memorie, conseguente alla diffusione delle modalità elettroniche di scrittura e delle banche dati informatiche, che consentono una illustrazione più agevole degli argomenti e un richiamo molto più numeroso dei precedenti, che ha fatto sì che molto più spesso la discussione orale sia in realtà, inevitabilmente, una ripresa di argomenti già illustrati ampiamente per iscritto.
4. I caratteri dell’oralità. – Le considerazioni sopra svolte debbono essere a questo punto saggiate valutando quali sono le caratteristiche dell’oralità nel processo, tenendo conto del fatto che è opinione diffusa anche ora che l’oralità sia una connotazione positiva, che deve essere perciò non solo garantita ma addirittura incrementata (si tratta da questo punto di vista di un tipo di impostazione ormai risalente, dal momento che è stata sostenuta per le prime volte all’inizio del 1900, e che ha costituito addirittura, come è ben noto, l’oggetto della celebre prolusione di Giuseppe CHIOVENDA.
Ora, la connotazione dell’oralità[27] ha questi tratti caratteristici: la centralità dell’udienza, il che non significa che gli scritti non vi debbano essere e che sono soprattutto richiesti nella fase iniziale del giudizio, ma che la trattazione davanti al giudice è essenziale; l’immediatezza, e cioè un rapporto diretto tra le parti e il giudice, rapporto di carattere fisico e cioè in presenza; l’identità fisica del giudice durante tutto il giudizio; un rapporto diretto con le prove, da assumere nel processo; la concentrazione in un’unica udienza o in poche udienze ravvicinate di tutta la trattazione della causa e della sua decisione.
Se si considerano queste caratteristiche dell’oralità ne risulta evidente che l’aspetto della discussione orale dell’udienza è soltanto uno degli elementi caratterizzanti e forse nemmeno in sé il più importante, in quanto l’oralità è uno strumento per consentire al giudice di pervenire direttamente alla conoscenza della realtà di fatto e degli argomenti che le parti discutono ed alle parti di poter rappresentare al giudicante nello stesso modo diretto la loro posizione rispetto sia alla questione di fatto che alla questione di diritto.
L’oralità è cioè uno strumento per pervenire ad una decisione giusta, non è un valore in sé; valutando l’insieme dei tratti caratteristici dell’oralità che si sono ricordati, risulta che l’elemento più significativo è il contatto delle parti con il giudice non tanto per la discussione degli argomenti di diritto e cioè delle rispettive tesi, quanto per la rappresentazione della situazione di fatto e cioè per la prova della situazione di fatto che è alla base delle reciproche domande. In effetti la discussione degli argomenti giuridici ben può essere sviluppata per iscritto e la riflessione su questi argomenti ben può essere compiuta dal giudice in disparte dalle parti, nel segreto della camera di consiglio, sulla base della disamina degli scritti dalle parti medesime presentati. Ciò che invece è importante che avvenga nell’immediatezza dell’udienza, davanti al giudice persona fisica presente, in un rapporto con le parti, è l’accertamento del fatto, poiché l’accertamento del fatto più difficilmente può essere colto soltanto sulla base degli scritti in quanto vi sono profili che emergono soltanto da un approfondimento che deve essere compiuto di volta in volta, non essendovi elementi predeterminati, nel confronto tra le parti sotto la guida del giudice. Ogni situazione dal punto di vista del fatto è unica e nuova, mentre le questioni giuridiche sono molto spesso ripetitive.
Non per nulla vi sono stati autori[28] che proprio sulla funzione istruttoria dell’oralità hanno molto insistito.
Se l’attività istruttoria è centrale, poi, sono superate quelle preoccupazioni relative alle oralità che già in passato erano state avanzate circa la possibile incidenza sulle sorti del giudizio della capacità oratoria di uno dei legali delle parti: la capacità oratoria può essere massima ma se ciò che conta è l’accertamento del fatto questo può risultare anche sulla base dell’introduzione di elementi da parte di un difensore di pochissime parole e di scarsa incisività dialettica.
5. L’oralità e il processo amministrativo. – Così configurata, secondo la letteratura più autorevole, l’oralità nel processo, può dirsi che il processo amministrativo nell’impostazione originaria, quella antecedente ai Tribunali Amministrativi Regionali, era fondato sull’oralità. In quel processo, nella generalità dei casi, le questioni dibattute concernevano esclusivamente l’interpretazione del provvedimento e il suo raffronto con le regole giuridiche. L’attività istruttoria era sostanzialmente limitata all’acquisizione del provvedimento di modo che l’illustrazione del contenuto del provvedimento in sede di discussione orale era insieme istruzione e trattazione della causa. Se nell’udienza i difensori di fronte al giudice discutono il contenuto del provvedimento, in diritto e in fatto, lo criticano e lo raffrontano con le norme, l’oralità del processo si manifesta appieno perché tutti i profili di fatto e di diritto possono essere sviscerati.
Nel processo avanti il Consiglio di Stato, questa oralità era ancor più evidente negli anni ’20 del secolo scorso, allorché i motivi aggiunti al ricorso originario potevano essere addirittura dedotti oralmente all’udienza; l’esistenza di un’udienza più articolata, del resto, è dimostrata anche dal fatto che non vi era una disciplina delle memorie in prossimità dell’udienza, che, come è noto, è stata introdotta prima dai Presidenti di Sezione nel 1946 e poi dal Presidente del Consiglio di Stato con un proprio decreto nel 1953.
Dopodiché, però, sono noti i riferimenti a discussioni anche particolarmente sintetiche e per questo incisive (si ricordano gli interventi dell’Avv. SORRENTINO) e sono noti anche gli atteggiamenti più sbrigativi assunti da taluni presidenti particolarmente rapidi (si ricorda il Presidente A. BARRA CARACCIOLO).
Quando la situazione cambia, perché, non tanto per l’intervento dei Tribunali Amministrativi Regionali, quanto per la modificazione della disciplina legislativa (è sufficiente il richiamo alla disciplina in materia di contratti per la pubblica amministrazione) il rilievo del fatto aumenta ed il provvedimento non è più in grado di costituire l’unico punto di riferimento della contestazione, dal momento che vi è una serie di elementi di fatto accertati o non accertati nel procedimento che nel provvedimento possono non riflettersi, la centralità dell’udienza viene inevitabilmente meno. I difensori delle parti non sono in grado davanti al giudice di discutere nell’udienza sia l’istruzione che la trattazione della causa, perché l’istruzione della causa deve essere effettuata altrimenti, con l’acquisizione di elementi di fatto e con la loro valutazione dal punto di vista tecnico, che sono qualcosa di diverso dalla considerazione dal punto di vista giuridico.
Il processo amministrativo non è più un processo improntato all’oralità, ma si avvicina al processo in Cassazione nel quale certo che c’è la centralità dell’udienza di discussione (salvo il caso in cui, come ora avviene assai spesso, vi sia soltanto la camera di consiglio) ma la discussione è una discussione su elementi di puro diritto (anche se è noto nell’esperienza comune che vi sono moltissimi avvocati che anche avanti la Corte di Cassazione trattano ampiamente il fatto durante la discussione approfittando del garbo normalmente usato dai presidenti).
Ma l’oralità non è il processo avanti la Suprema Corte di Cassazione, l’oralità è il processo del lavoro avanti il giudice monocratico.
6. La trattazione scritta e la trattazione orale nel processo amministrativo: una ricostruzione aggiornata. – Alla luce di tutto quanto detto le regole sulla trattazione scritta hanno un effetto anche sull’oralità del processo amministrativo e possono essere utili per ricondurla nel suo ambito naturale. La trattazione scritta è la trattazione nella quale le parti sviluppano nel modo più ampio e adeguato possibile gli argomenti che sono in grado di trattare per iscritto e cioè sicuramente tutti gli argomenti giuridici e in parte anche gli argomenti di fatto laddove questi argomenti in fatto non siano contestati oppure laddove questi argomenti di fatto siano in qualche modo comprovati nelle rispettive produzioni, sulle quali perciò anche per iscritto ci si può diffondere al fine di sottolineare gli elementi più significativi. Se l’istruttoria procedimentale è stata effettuata in modo completo e corretto, la trattazione scritta sarà senz’altro sufficiente. Se le parti sono riuscite sia nella loro istruzione primaria, e cioè antecedente alla proposizione del ricorso o alla redazione della comparsa di costituzione in giudizio, a ricostruire esattamente tutta la situazione di fatto, tanto da rappresentarla nei loro atti, la trattazione scritta sarà sufficiente. La trattazione scritta sarà ugualmente sufficiente se nel corso del processo le parti, esercitando ciascuna in modo attento e responsabile le facoltà che sono conferite dalla disciplina processuale, hanno introdotto tutti gli elementi di prova necessari per la decisione.
Se è così, è ragionevole immaginare che la trattazione scritta sia adeguata e sufficiente: le note d’udienza, prima non previste ed ora introdotte con la disciplina anti-covid, sono perciò bastanti per superare una qualunque discussione orale.
Anzi, in questo caso, la trattazione scritta più facilmente può essere ritenuta dal relatore e dai componenti del collegio e quindi considerata nella successiva camera di consiglio dedicata alla decisione della controversia.
Ma se viceversa non è così, se cioè il fatto non è adeguatamente chiarito, se l’attività istruttoria dell’amministrazione non era completa o non sufficientemente imparziale, se gli elementi di prova non erano nella disponibilità del ricorrente e il medesimo non ha potuto perciò introdurli nel giudizio, se le istanze istruttorie non sono state valutate dal giudice amministrativo prima dell’udienza e le prove perciò non sono state disposte ed acquisite, la discussione è indispensabile.
La discussione è indispensabile non per chiarire gli elementi di diritto, è indispensabile per chiarire gli elementi di fatto e se si vuole anche per connotare gli elementi di fatto con riferimento all’ambiente nel quale l’amministrazione opera e il ricorrente si trova. Questi elementi non possono emergere in modo così preciso ed efficace nella trattazione scritta e invece possono essere rappresentati dialetticamente nella discussione orale. Ne discende che la discussione deve dar luogo ad un approfondimento istruttorio che il collegio, se non lo ritrova negli atti, e secondo la tesi sopra esposta negli atti non lo può trovare, deve disporre utilizzando i propri poteri istruttori.
Alla luce di quanto detto la disciplina processuale amministrativa non è adeguata, e non è adeguata innanzitutto perché prevede che l’escussione dei testimoni avvenga soltanto per iscritto che è il contrario dell’oralità, e perché prevede come possibile soltanto in casi non frequenti l’esperimento della consulenza tecnica d’ufficio, che è lo strumento con il quale il giudice acquisisce una realtà di fatto connotata tecnicamente (la consulenza tecnica d’ufficio più utile è la consulenza tecnica percipiente). Per rendere il processo amministrativo effettivamente un processo orale, tenuto conto che l’oralità è un valore riconosciuto, occorre perciò che il codice venga adeguato o venga interpretato in modo adeguato e che il giudice amministrativo disponga l’attività istruttoria che è utile per una decisione approfondita della causa.
A maggior ragione una decisione approfondita è indispensabile tenuto conto dei poteri che il codice attribuisce al giudice amministrativo, che giungono, anche dalla giurisdizione generale di legittimità, alla possibilità di sostituirsi all’amministrazione fin dalla fase del giudizio di cognizione. In una situazione di questo genere provvedere senza avere una piena conoscenza del fatto è un rischio elevatissimo sia per il ricorrente che per l’amministrazione, perché può comportare l’adozione di pronunzie giurisdizionali vincolanti per l’amministrazione che non sono adeguate alla realtà di fatto.
Il rischio che si è paventato può essere scongiurato soltanto in un dibattito tra le parti nel quale le medesime, stimolate eventualmente dal presidente del collegio, possano rappresentare le loro rispettive posizioni e fare emergere perciò quali sono i connotati significativi della realtà di fatto sulla base della quale il giudice deve provvedere.
Il giudice amministrativo deve, perciò, assumere un atteggiamento diverso rispetto all’udienza e all’esercizio dei poteri istruttori; un atteggiamento diverso devono assumerlo anche gli avvocati delle parti, che non possono pensare che l’udienza debba servire per la dimostrazione delle proprie qualità oratorie, o per soddisfare le esigenze dei clienti, pur non presenti (per i quali tutta la vita sia personale che dell’impresa o dell’ente che rappresentano deve essere oralmente illustrata al giudice) e che debbono perciò limitarsi a rappresentare al giudice amministrativo gli aspetti più significativi della controversia. Talvolta può anche verificarsi che si tratti di aspetti di diritto, allorché vi è una situazione nella quale la normativa di cui si discute è nuova oppure vi è un contrasto di giurisprudenza o vi è la volontà di ottenere la revisione di un orientamento che non si ritiene corretto, ma di norma così non succede.
È corretta perciò l’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato nelle recenti ordinanze della VI Sezione[29] nelle quali si afferma che nel processo amministrativo l’udienza non ha la centralità indispensabile del processo penale, ma un rilievo tale da non poter essere del tutto eliminata[30].
L’oralità del processo amministrativo è perciò una sfida ancora oggi sia per il giudice che per gli avvocati. Parallelamente, la trattazione scritta, che costituisce il completamento e il contraltare rispetto alla trattazione orale, deve essere ugualmente articolata in modo sintetico e convincente.
7. Principi fondamentali e trattazione scritta. – I principi fondamentali che sono stati in più occasioni richiamati sono quelli del rispetto del contraddittorio che è il cardine di tutto il processo e che, come si è detto, lega le parti tra di loro e le parti e il giudice. Il principio del contraddittorio trova la sua espressione più rilevante nel momento finale del processo che è l’udienza, perché è in quel momento che le parti possono entrambe, se sono due, o tutte se sono più, rappresentare davanti al giudice in posizione di assoluta uguaglianza (la toga che l’avvocato indossa dimostra appunto l’uguaglianza tra le parti e il giudice) le proprie tesi. L’udienza è il momento nel quale gli argomenti che le parti hanno faticosamente illustrato nei loro atti difensivi, a seguito di riflessioni e ricerche, vengono rappresentate nella esposizione più limpida e ciascuno spera convincente. È evidente perciò che un momento di questo genere non può mai venire meno.
Nei rapporti fra le persone umane, il dato della fisicità è inevitabile e irrinunciabile, perché costituisce uno degli aspetti della persona, che non è puro spirito[31]. Proprio durante la pandemia ci si è resi conto del resto che la presenza, il contatto fisico, o anche soltanto la vicinanza sono indispensabili perché le relazioni umane possano svilupparsi al meglio. Il processo si fonda su relazioni umane e perciò l’udienza dev’essere prevista. Il principio fondamentale dell’udienza è un principio irrinunciabile[32].
L’udienza di per sé è un’udienza pubblica, perché il processo è una vicenda sociale, è la vicenda sociale più importante insieme alla consultazione elettorale, e deve potersi svolgere nella conoscibilità di tutti i consociati eccezion fatta per quegli aspetti rispetto ai quali la conoscibilità potrebbe costituire un condizionamento (l’espressione materiale del voto nella consultazione elettorale, la formazione della volontà del giudice nel processo).
Non sarebbe perciò legittimo un processo nel quale la trattazione orale in udienza fosse esclusa: e nel processo amministrativo, anche di appello, non è replicabile il rito attuale del giudizio in Cassazione.
Questo non significa però che sempre e comunque la trattazione orale debba esservi, perché è ben possibile che le parti ritengano la trattazione orale superflua o che l’ordinamento in certi casi a fronte di prevalenti esigenze possa introdurre delle deroghe o delle eccezioni: deroghe ed eccezioni sono ammesse, purché in modo ragionevole e sempre finalizzato al medesimo risultato che è il perseguimento della giustizia. Tra queste deroghe ed eccezioni vi può essere la trattazione soltanto scritta oppure la trattazione a distanza, in udienza telematica.
Del resto con la telematica la conoscibilità dell’attività del giudice è ben più reale di quanto non fosse con la presenza del pubblico all’udienza.
L’esperienza che la pandemia porta è quella della possibilità di definire le controversie con trattazione soltanto scritta con il consenso delle parti e con limitate ipotesi di trattazione telematica[33]. Come si è già detto, dall’esame dei decreti dei Presidenti delle Sezioni del Consiglio di Stato del mese di giugno emerge come nelle varie udienze e camere di consiglio i ricorsi per i quali è stata chiesta e disposta la trattazione scritta siano stati pochi, non oltre il 10% delle cause a ruolo. L’esito dei processi, quanto meno per il rito cautelare per il quale il dato è stato fornito[34], non è stato diverso da quello raggiunto con la discussione orale (la fase cautelare è sempre favorevole per l’amministrazione, posto che in sede cautelare soltanto il 30% delle sospensive chieste viene accordato).
Ne consegue che finita, al più presto, la fase dell’emergenza, qualcosa di quanto ora acquisito potrà essere mantenuto.
Il processo amministrativo come già si è detto in realtà si svolge quasi sempre soltanto sugli scritti e le udienze di discussione sono poche: l’affollarsi degli avvocati per le istanze preliminari, perciò, è assolutamente ingiustificato. Ne consegue che può essere mantenuta l’impostazione in forza della quale l’udienza di discussione orale dev’essere richiesta espressamente (come del resto si verifica per il processo tributario)[35] anche se le modalità di richiesta devono essere modificate quanto meno per la trattazione cautelare, nel senso di ammettere la richiesta fino al giorno antecedente la camera di consiglio.
Se gestito in modo corretto, e cioè in un’ottica di ragionevole collaborazione, il processo amministrativo così potrà essere più snello, meno dispendioso e di conseguenza più efficace al fine di conseguire la giustizia nell’amministrazione.
* * *
L'articolo rielabora e completa con note la relazione presentata alle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, webinar 30 giugno -1 luglio 2020 "L'emergenza Covid 19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro".
[1] Così la disciplina è riassunta dal Presidente del Consiglio di Stato, Linee guida sull’applicazione dell’art. 4 del d.l. 28/2020 e sulla discussione da remoto, in data 25 maggio 2020, che ha ammesso, nel caso di deposito il giorno dell’udienza, che il presidente possa posticipare l’orario di trattazione o concedere un breve rinvio; negli stessi termini N. DURANTE, Il procedimento cautelare ai tempi dell’emergenza, in www.giustizia-amministrativa.it, 19 maggio 2020.
[2] F. VOLPE, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.LexItalia.it, 18 marzo 2020.
[3] F. FRANCARIO, L’emergenza coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, 23 marzo 2020; G. GRASSO, Sull’opposizione alla discussione e allegazione documentale alternativa nel regime della oralità mediata eventuale, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] R. JONTA e F. CAROLEO, Trattazione scritta. Un’impalcatura, in www.giustiziainsieme.it, 1° aprile 2020, che propongono di contenere le note in una pagina.
[5] F. VOLPE, Ancora sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo, in www.LexItalia.it, 1° maggio 2020.
[6] Così anche C. VOLPE, Il superamento del “processo cartolare coatto”. Legislazione della pandemia o pandemia della legislazione?, in www.giustizia-amministrativa.it, 12 luglio 2020.
[7] Così anche M. A. SANDULLI, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, l’Amministrativista, 1° maggio 2020; C. CACCIAVILLANI, Controcanto sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo (con riferimento all’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28), in www.Giustamm.it, giugno 2020.
[8] Come già ammetteva Cons. Stato, Ad. plen, 25 febbraio 2013, n. 5, cit..
[9] Perciò utile, ma non decisivo, è il bilanciamento affidato al giudice, proposto da N. DURANTE, Il lockdown del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2020; evidenzia la necessità di regole interne C. VOLPE, Il superamento del “processo cartolare coatto”, cit..
[10] Così M. LIPARI, L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma, in www.federalismi.it, 29 aprile 2020.
[11] R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in www.federalismi.it, 15 aprile 2020; C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, in www.federalismi.it, 13 maggio 2020; C. VOLPE, Il superamento, cit..
[12] Come sottolinea F. FRANCARIO, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it, 15 aprile 2020.
[13] E perciò anche per i ricorsi cautelari, anche in appello, come evidenzia M. LIPARI, L’art. 36, cit..
[14] Come suggerisce M. LIPARI, L’art. 36, cit.
[15] Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5, in Dir. proc. amm., 2016, p. 205 ss., con nota di L. R. PERFETTI – G. TROPEA, “Heart of darkness”: l’Adunanza plenaria tra ordine di esame e assorbimento dei motivi.
[16] Ancora Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5.
[17] Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5, con nota di G. URBANO, La costituzione tardiva delle parti intimate, in Dir. proc. amm., 2014, p. 185 ss..
[18] V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, Utet, 1994, pag. 413.
[19] Identica è l’opinione espressa nella precedente pubblicazione Lineamenti del processo amministrativo, Torino, Utet, 1976, pag. 241.
[20] M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1983, pag. 333; identica è la posizione nella prima edizione del 1976, pag. 291.
[21] M. A. SANDULLI, Il giudizio avanti al Consiglio di Stato, Napoli, Morano, 1963, pag. 367.
[22] F. G. SCOCA, Gli atti processuali, in Giustizia amministrativa, a cura di F. G. SCOCA, Torino, Giappichelli, 2011, pag. 256 ss.
[23] Così F. CARINGELLA – M. PROTTO, Codice del nuovo processo amministrativo, 2012, Roma, Dike, pag. 759; A. POLICE, La riunione, la discussione, la decisione dei ricorsi, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G. P. CIRILLO, Milano – Padova, Walter Kluwer – CEDAM, 2014, pag. 531.
[24] Come si è già segnalato commentando l’art. 73 del codice: C.E. GALLO, Udienza di discussione, in Il processo amministrativo, a cura di A. QUARANTA – V. LOPILATO, Giuffrè, Milano, 2011, pag. 581.
[25] F. PATRONI GRIFFI, Direttive del Presidente del Consiglio di Stato – Secondi chiarimenti su alcuni profili relativi all’attività giurisdizionale nel periodo di emergenza covid – 19, 20 marzo 2020, prot. 7400.
[26] E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Padova, 1942, pag. 200.
[27] Volendo fare riferimento alla trattazione riassuntiva ma molto elaborata di C. VOCINO, Oralità nel processo (dir. proc. civ.), Enc. dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pag. 592 ss..
[28] Il più rilevante è M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, Giuffrè, 1962, p. 189 ss..
[29] Cons. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2358 e 2359.
[30] Pronunzie apprezzate da C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, cit., e da S. TARULLO, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale. Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. n. 28 del 2020, in www.federalismi.it, 13 maggio 2020.
[31] Come sottolinea C. ZUCCHELLI, Sull’udienza telematica, cit..
[32] F. SAITTA, Da Palazzo Spada un ragionevole no al “contraddittorio cartolare coatto” in sede cautelare, in www.federalismi.it, 5 maggio 2020.
[33] Ritengono utile il processo telematico per il risparmio di tempo che consente F. SAITTA e S. TARULLO, negli scritti già citati.
[34] Da R. DE NICTOLIS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, cit., 15 aprile 2020.
[35] Così anche M. A. SANDULLI, Un brutto risveglio? cit..
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