ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte Costituzionale chiama il Parlamento sulle modifiche in tema di diffamazione secondo il "modello Cappato" (a proposito di Corte cost.n.132/2020)
di Marina Castellaneta
Nel riproporre il modello seguito nel caso Cappato, la Corte costituzionale, al termine dell’udienza tenutasi il 9 giugno, con l’ordinanza n. 132/2020, depositata il 26 giugno 2020, ha accordato un anno di tempo al Parlamento per modificare le norme interne in materia di diffamazione a mezzo stampa e adeguarle, così, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, entro il 22 giugno 2021, il legislatore dovrà arrivare a rimuovere i profili di contrasto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e mettere fine alle infinite discussioni sui cambiamenti da apportare al quadro normativo sulla diffamazione a mezzo stampa, provando a raggiungere un accordo tra le forze politiche che in tutti questi anni di discussione non è stato conseguito. E questo malgrado i richiami di istituzioni internazionali che considerano la previsione del carcere per i giornalisti nei casi di diffamazione contraria alle regole internazionali a tutela della libertà di espressione (salvo nei casi di incitamento all’odio e alla violenza) e i numerosi disegni di legge presentati. Né sono servite a “svegliare” il legislatore le pronunce di condanna da parte della Corte europea (si vedano, tra le altre, la sentenza Sallusti contro Italia, ricorso n. 22350/13, depositata il 7 marzo 2019; la pronuncia del 24 settembre 2013 relativa al caso Belpietro, ricorso n. 43612/10 e quella Magosso e Brindani, ricorso n. 59347/11, depositata il 16 gennaio 2020) che, oltre a indicare l’Italia come uno Stato che comprime la libertà di stampa, incidono sulle casse dello Stato a causa degli indennizzi da versare alle vittime delle violazioni convenzionali. E’ opportuno ricordare, inoltre, che l’Italia è stato il Paese, tra quelli del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di alerts per intimidazioni ai giornalisti (2018), secondo quanto rilevato dalla Piattaforma per la protezione dei giornalisti istituita dal Consiglio d’Europa, collocandosi, inoltre, nel 2019, al secondo posto (si veda il rapporto “Hands of Press Freedom: Attacks on Media in Europe must not become a New Normal”, reperibile all’indirizzo https://rm.coe.int/annual-report-en-final-23-april-2020/16809e39dd).
Di conseguenza, l’intervento della Corte costituzionale è di grande rilievo e fornisce al legislatore italiano l’opportunità di approvare un testo conforme alle regole di diritto internazionale in materia di libertà di stampa e, al tempo stesso, di procedere a tutelare altri diritti come quello alla reputazione, con una rimodulazione del bilanciamento tra i diritti in gioco. Il ricorso alla tecnica processuale dell’incostituzionalità differita, ispirata alle decisioni della Corte suprema canadese e del Regno Unito permette, infatti, in via generale, di contemperare le due esigenze che vengono in rilievo. Si veda, sul punto la relazione annuale sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, presentata il 28 aprile 2020 dalla Presidente Marta Cartabia la quale ha sottolineato, con riferimento all’ordinanza relativa al caso Cappato, che la nuova tecnica processuale permette di “lasciare in prima battuta al legislatore lo spazio per intervenire in una materia altamente sensibile, oggetto di profondi dibattiti nell’opinione pubblica, che esige che le dinamiche politiche e culturali trovino modo di ricomporsi anzitutto in sedi politiche” (la relazione è reperibile nel sito https://www.cortecostituzionale.it. Si veda, in particolare, p. 11 ss.).
Resta da vedere se questa volta il legislatore riuscirà a centrare l’obiettivo. Prima di tutto, però, occorre ricostruire brevemente il percorso che ha portato il caso dinanzi alla Corte costituzionale.
La vicenda ha avuto origine dalle questioni di costituzionalità sollevate (diremmo finalmente) dai Tribunali di Salerno (ordinanza del 9 aprile 2019) e di Bari, sede di Modugno (ordinanza del 16 aprile 2019) che, prima di decidere nell’ambito di procedimenti penali a carico di giornalisti e direttori di testata, hanno avviato un giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Punto centrale è se l’articolo 595 del codice penale e l’articolo 13 della legge n. 47/1948 siano contrari all’articolo 117 della Costituzione in quanto in contrasto con il parametro interposto costituito dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura la libertà di espressione nonché con l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero. Vale la pena ricordare che, tra l’altro, nel procedimento dinanzi alla Consulta, grazie alla delibera dell’8 gennaio 2020, “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”, è intervenuto anche l’Ordine nazionale dei giornalisti (ordinanza n. 37 del 2020).
La scelta di sollevare la questione di costituzionalità appare quanto mai opportuna perché se in alcuni casi i giudici nazionali e, in particolare la Cassazione, hanno utilizzato i parametri individuati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per assicurare un giusto bilanciamento tra tutela del diritto alla reputazione e diritto alla libertà di stampa, in altri casi i parametri fissati da Strasburgo non sono stati considerati, come accertato dalla stessa Corte europea che, in diverse occasioni, come osservato poc’anzi, ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 10 e, in alcuni casi, proprio per l’apparato sanzionatorio incompatibile con la Convenzione.
La Corte costituzionale, come detto, ha seguito il modello Cappato e, in ragione della circostanza che in Parlamento pendono diversi disegni di legge, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia”. Va ricordato che il rinvio effettuato nel caso Cappato non ha portato a una conclusione favorevole perché, nonostante il tempo concesso con l’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018, il legislatore non è intervenuto, con la conseguenza che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) …agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile…”.
È difficile dire se l’ultimatum in materia di diffamazione possa portare a un risultato favorevole ossia all’adozione di una legge in materia conforme alla Convenzione europea come interpretata dai giudici internazionali. Tuttavia, si può rilevare che lo strumento dell’incostituzionalità differita è senza dubbio una misura utile per bilanciare i valori da tutelare e per evitare che una pronuncia di incostituzionalità conduca a effetti pregiudizievoli su un diritto in gioco (sulla incostituzionalità differita si veda, per tutti, R. Pinardi, La Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano, 1993).
Se la Corte avesse dichiarato immediatamente l’incostituzionalità delle norme sulla diffamazione si sarebbe realizzato un pregiudizio alla tutela del diritto alla reputazione e proprio per questo, molto opportunamente, il Redattore dell’ordinanza, Francesco Viganò”, ha sottolineato la necessità di “una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica…con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”.
E così, la Corte ha offerto al legislatore una possibilità di raggiungere un giusto equilibrio e un bilanciamento che contempli “non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generali riparatori adeguati (come in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare…”.
Riuscirà il legislatore a fare quello che in tanti anni non è riuscito a fare? È difficile essere ottimisti perché, pur senza soffermarci sull’esame dei diversi disegni di legge in discussione, ci sembra che la sola decisione di eliminare il carcere non sia sufficiente se si introducono multe e sanzioni di natura pecuniaria in grado di produrre un chilling effect sulla libertà di stampa. Così, il tempo fornito dalla Corte costituzionale dovrebbe essere utilizzato ad ampio raggio, per rimuovere dal disegno di legge n. 812 “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato” tutti gli aspetti – e non sono pochi – che sin da subito appaiono non conformi alla giurisprudenza della Corte europea. Non basta, quindi, un semplice ritocco al maquillage con l’eliminazione del carcere se le sanzioni economiche previste risultano sproporzionate e in grado di produrre un effetto dissuasivo su chi esercita la libertà di stampa per fornire alla collettività notizie di interesse generale. Che – come chiarito dalla Corte europea – sono un bene da proteggere. E varrebbe la pena, nell’intervenire, tenere conto della realtà italiana dalla quale emerge un utilizzo sempre più frequente, e in diversi casi pretestuoso, della denuncia per diffamazione come strumento per bloccare e intimidire i giornalisti. Va ricordato, a tale proposito che il Relatore speciale del Comitato sulla cultura, la scienza, l’educazione e i media dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, George Foulkes, nel rapporto presentato il 3 gennaio 2020 ha evidenziato il comportamento aggressivo della classe politica verso i giornalisti in particolare in Italia, nella Repubblica Ceca, in Slovacchia e in Turchia.
Di conseguenza, non basta la rimozione del carcere ma è necessario un intervento organico per bloccare gli assalti giudiziari ai giornalisti e anche la prassi delle querele temerarie, naturalmente assicurando la tutela della reputazione che anche a causa del web rischia di essere danneggiata in modo grave da un’informazione non corretta.
Il giudice amministrativo può pronunciarsi sull’ottemperanza di una sentenza del giudice civile pur in presenza di un impreciso dispositivo sul quantum risarcitorio.
(nota a Cons. Stato Sez. III, 24 giugno 2020, n. 4028)
di Esper Tedeschi
La sentenza n.4028 del 24 giugno 2020 della Sezione III del Consiglio di Stato merita di essere segnalata perchè precisa quali siano, nell’ambito del giudizio d’ottemperanza, i poteri cognitori del giudice amministrativo a fronte di una pronuncia del giudice civile che non quantificava l’ammontare risarcitorio e non dettava esatti criteri per la determinazione del quantum.
In particolare, il Tribunale di Firenze condannava il Ministero della Salute al risarcimento del danno subito per infezione da virus HCV, contratta a causa della somministrazione di emoderivati infetti.
Il G.O. – con sentenza confermata dalla Corte d’Appello Fiorentina – aveva dichiarato che dalla somma liquidata si sarebbe dovuto detrarre “quanto corrisposto a titolo di rendita riconosciuta” al mese ai sensi della l. n. n. 210 del 1992 e, in relazione al danno non patrimoniale, “l’importo pari alla capitalizzazione della rendita – omissis – al mese per il periodo successivo al marzo 2008 [data di notificazione della citazione, n.d.r.]”.
A fronte dell’inerzia dell’Amministrazione ad adempiere, il T.A.R. Toscana adìto dichiarava l’obbligo del Ministero della salute di corrispondere alla ricorrente le somme oggetto di condanna da parte del Tribunale ordinario, nominando, altresì, un Commissario ad acta per il caso di ulteriore inottemperanza.
Il T.A.R. si è anche pronunciato sull’incidente d’esecuzione proposto in conseguenza del pagamento del Ministero, avvenuto – secondo la ricorrente – in misura inferiore rispetto a quanto asseritamente dovuto.
Il G.A. ha ritenuto che, in esecuzione delle pronunce del giudice civile, dalla somma indicata a titolo di risarcimento si sarebbero dovuti decurtare i ratei futuri della rendita da capitalizzare e che “tuttavia, la sentenza non indica «le modalità tecniche con le quali [la capitalizzazione, n.d.r.] deve effettuarsi (profilo che non è quindi ricompreso nel giudicato), né risulta che vi siano indicazioni univoche sul punto»”. Ciò precisato, secondo il giudice dell’ottemperanza, il ricorrente avrebbe chiesto al G.A. un’inammissibile integrazione della sentenza del giudice civile.
Atteso, infatti, che “il Tribunale ordinario di Firenze ha provveduto recta via a decurtare l’ammontate del risarcimento liquidato […] dell’importo della rendita corrisposta fino alla data della notificazione dell’atto di citazione del 19 marzo 2008 […] condannando l’Amministrazione al pagamento del residuo importo di -omissis-, permane da definire la questione attinente alla compensabilità del risarcimento con i ratei successivamente maturati e maturandi”.
In giudizio, a fronte di tale indeterminatezza, l’Amministrazione eccepiva che la misura compensabile dell’assegno sarebbe dovuta derivare dalla capitalizzazione di quanto maturato e maturando fino al compimento di 85 anni di vita. Al contrario, per la ricorrente, nessuna ulteriore decurtazione – oltre a quanto già operato fino al 19 marzo 2008, data di notificazione della citazione – avrebbe potuto legittimamente essere consentita.
In appello, il Consiglio di Stato ha, anzitutto, rilevato che il meccanismo compensativo andava applicato oltre la misura temporalmente circoscritta dal G.O. (ossia in relazione ai ratei maturati sino alla data d’instaurazione del giudizio civile risarcitorio). Questo perché già il Tribunale civile indicava nel dispositivo dichiarativo che si sarebbe dovuto detrarre “quanto corrisposto nel corso del tempo e quanto deve ancora corrispondersi a titolo di rendita riconosciuta […]”, così allargando il meccanismo compensativo anche ai ratei ancora da corrispondere, ulteriormente precisando, nel dispositivo di condanna, che “dovrà detrarsi l’importo pari alla capitalizzazione della rendita -omissis- al mese per il periodo successivo al marzo 2008”.
Quindi, ai fini della coerente applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, dal quantum risarcitorio deve essere defalcata la capitalizzazione dei ratei di rendita maturati successivamente al marzo 2008, per evitare inutili duplicazioni e arricchimenti ingiustificati.
Ciò posto, il Consiglio di Stato si è interrogato sul limite temporale da applicare alla misura compensativa dei ratei di rendita. Sotto questo profilo il TAR Toscana avrebbe errato nello statuire l’inammissibilità del ricorso d’ottemperanza per genericità dei criteri dettati dal G.O. in merito ai criteri da applicare per la capitalizzazione della rendita ex l. n. 210 del 1992.
La Sezione III del Consiglio di Stato ha ritenuto che la sentenza del giudice civile si prestasse a essere “riempita” nella fase esecutiva, al fine di realizzare le esigenze di effettività e di concentrazione della tutela, oltre che per motivi di ragionevole durata del processo, evitando alla ricorrente di dover adire nuovamente il G.O. per ottenere il bene della vita.
Infatti, la concreta definizione operativa del meccanismo della capitalizzazione non apparterrebbe al nucleo sostanziale del diritto oggetto di accertamento nel giudizio civile di cognizione, ma agli aspetti tecnico-esecutivi della sentenza oggetto di ottemperanza. Quindi, secondo il Consiglio di Stato, accertato il diritto al risarcimento del danno, l’identificazione dei criteri per la quantificazione della capitalizzazione – a effetto compensativo – dell’assegno ex art. 1, l. n. 201 del 1992 rientra tra i poteri cognitori del giudice dell’ottemperanza che, come noto, tende all’attuazione e non alla semplice esecuzione del comando giudiziale, in considerazione della natura “mista” – cognitoria ed esecutiva – del rito ex art. 112 e ss. c.p.a.
Pertanto, al fine di individuare il corretto criterio regolatore del meccanismo compensativo, la Sezione ha deciso di demandare la risoluzione della questione a un organo tecnico apposito, da investire quale Commissario ad acta, affinché proceda all’esatta capitalizzazione dell’assegno ex art. 1, l. n. 201 del 1992.
Sul tema si segnalano i contributi raccolti nel volume Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della P.A., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della LUISS Guido CArli (6 febbraio 2018), a cura di B. Capponi e A. Storto, ESI, Napoli, 2018.
Giudizi, Ingiustizie e Palinsesti Giudiziari di Sebastiano Addamo*
di Alessandro Centonze
sommario: 1. Sebastiano Addamo e il “senso di ingiustizia” immanente della sua narrativa. – 2. La formazione giuridica di Sebastiano Addamo e la forma del conte philosophique delle sue opere narrative. – 3. Il giudizio della sera e il “senso di ingiustizia” di una generazione “senza padri”. – 4. L’ingiustizia del potere e gli “uomini senza qualità” di Un uomo fidato. – 5. Gli uomini di legge di Sebastiano Addamo e i palinsesti giudiziari di Non si fa mai giorno.
1. Sebastiano Addamo e il “senso di ingiustizia” immanente della sua narrativa.
Intervenire su uno scrittore come Sebastiano Addamo, a vent’anni dalla sua morte, avvenuta a Catania il 9 luglio del 2000, è una sfida impegnativa[1].
La difficoltà del cimento deriva anzitutto dal fatto che Sebastiano Addamo, che è certamente uno dei più grandi scrittori siciliani del secondo dopoguerra, è un autore di culto tra gli addetti ai lavori, che gli hanno tributato, soprattutto dopo la sua morte, doverosi riconoscimenti. A questa, meritata, fama letteraria, però, non corrisponde un’adeguata diffusione delle sue opere presso il grande pubblico, che ha sempre considerato Addamo un intellettuale più che un narratore; inquadramento che, del resto, sembra essere confermato dalla sua notorietà nel campo della saggistica.
Sebastiano Addamo, invero, appartiene a quella ristretta cerchia di grandi scrittori, molto apprezzati dagli storici della letteratura italiana, ma non altrettanto conosciuti dal grande pubblico, peraltro sempre meno numeroso e sempre più distratto. In questa cerchia, naturalmente, Addamo è in eccelsa compagnia, trovandosi insieme ad alcuni indimenticabili “minori”, come Carlo Morselli, Tommaso Landolfi, Francesco Lanza, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente; e però la diffusione non capillare della sua vasta produzione comporta la difficoltà ad avvicinarsi alla sua linea autoriale – soprattutto quella collegata alle opere narrative – e di renderla interessante per i possibili, auspicabili, nuovi lettori di questo scrittore.
Accanto a queste difficoltà se ne accompagnano altre, collegate al tema con cui mi voglio confrontare, costituito dall’idea di giustizia di Sebastiano Addamo e dallo speculare senso di ingiustizia che condiziona i protagonisti delle sue narrazioni, che sono la conseguenza dell’atteggiamento nichilista dei suoi personaggi di fronte alla storia, alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano; atteggiamento, che, in fondo, è il riflesso dell’ingiustizia delle scelte, antisociali e prevaricatorie, degli uomini di potere raccontati dall’autore.
2. La formazione giuridica di Sebastiano Addamo e la forma del conte philosophique delle sue opere narrative.
L’attenzione di Sebastiano Addamo a questi temi, probabilmente – ma la mia è soltanto un’opinione personale –, è la conseguenza del suo percorso formativo, che è quello di un giurista e non quello di un letterato, pur non essendo il nostro autore mai diventato, nemmeno all’apice della sua fama, stricto sensu, uno scrittore di tematiche giuridiche.
La sua biografia e i suoi primi passi nel mondo accademico, a ben vedere, mi sembrano una conferma di queste affermazioni sul rapporto inscindibile tra le tematiche filosofico-giuridiche delle sue opere narrative e la sua formazione giovanile.
Sebastiano Addamo nasce il 18 febbraio 1925 da una famiglia originaria di Carlentini – un paese della Piana di Catania, di verghiana memoria – ed è il primo di cinque figli; trascorre in questo piccolo centro del siracusano la sua giovinezza, mentre nel paese limitrofo, Lentini, compie gli studi liceali.
Sebastiano Addamo, quindi, si laurea il 12 marzo 1948 in giurisprudenza nell’Università di Catania, discutendo una tesi di filosofia del diritto su Adriano Tilgher[2] – un pensatore oggi sostanzialmente dimenticato – dal titolo Tilgher Adriano: il suo pensiero e il suo concetto del diritto. Dopo la laurea diventa assistente del relatore della sua tesi, il professor Orazio Condorelli[3], ma non intraprende mai la carriera universitaria a causa delle condizioni economiche della sua famiglia.
La sua formazione filosofico-giuridica, però, non lo abbandonerà mai, essendo la sua scrittura caratterizzata da uno sguardo indagatore, lucido e privo di indulgenze, tipico dei giudici-storici o, se si vuole, degli storici-giudici, descritti da Carlo Ginzburg[4].
Diventato insegnante di filosofia e storia nei licei, dopo oltre un ventennio d’insegnamento, trascorso tra le provincie di Catania e Siracusa, Sebastiano Addamo diventa il preside di due istituti superiori del paese dove, nel frattempo, era andato ad abitare, Lentini; professione per la quale Addamo è fondamentalmente ricordato nel suo ambiente cittadino e per la quale io stesso lo ricordo con nostalgica ammirazione – con il suo sguardo timido e i suoi occhi chiari penetranti –, essendo stato il preside del Liceo Classico “Gorgia”, che ho frequentato tanti anni addietro.
Dopo il suo pensionamento, Sebastiano Addamo si trasferisce a Catania, dove muore il 9 luglio del 2000.
In parallelo a questa pluriennale attività didattica, Sebastiano Addamo intraprende la carriera di scrittore, esordendo con il libro di racconti intitolato Violetta[5], pubblicato nel 1963 da Arnoldo Mondadori Editore, che lo fa subito apprezzare dall’ambiente letterario.
A questo esordio narrativo fanno seguito due romanzi, entrambi editi da Garzanti: Il giudizio della sera[6] pubblicato nel 1974 e Un uomo fidato[7] pubblicato nel 1978.
Dopo Un uomo fidato, Addamo torna alla forma del racconto, pubblicando le raccolte I mandarini calvi[8], edita nel 1978; Le abitudini e l'assenza, edita nel 1982[9]; Palinsesti borghesi[10], edita nel 1987; Piccoli dei[11], edita nel 1994; Non si fa mai giorno[12], edita nel 1995, che è la sua ultima opera narrativa.
Come si è detto in apertura, Sebastiano Addano è stato anche uno straordinario saggista e un altrettanto straordinario poeta, anche se delle opere che riguardano questi settori della sua produzione letteraria non mi occuperò in questa sede, essendo incentrato il mio intervento sulle sue, per me ineguagliabili, narrazioni sul “senso di ingiustizia” che tormenta i suoi protagonisti.
Le narrazioni di Addamo, infatti, sono impregnate di considerazioni e spunti filosofico-giuridici, di cui sono esemplare rappresentazione i romanzi Il giudizio della sera e Un uomo fidato, pubblicati negli anni Settanta, nel pieno della sua maturità intellettuale, dei quali mi occuperò nelle prossime pagine, unitamente a uno dei racconti della raccolta Non si fa mai giorno, intitolato La mano tagliata.
3. Il giudizio della sera e il “senso di ingiustizia” di una generazione “senza padri”.
La forma del conte philosophique, probabilmente, ricollegandoci alla formazione filosofico-giuridica di Sebastiano Addamo, è quella che meglio ci fa comprendere le spinte culturali e le istanze espressive che animano Il giudizio della sera, che è il suo romanzo di esordio ed è la sua opera narrativa più conosciuta.
Il giudizio della sera è un romanzo scoperto tardivamente dai lettori e, soprattutto, è un’opera di straordinario interesse per la letteratura siciliana del secondo dopoguerra.
Con questo romanzo Addamo, con il suo sguardo impietoso e demistificatorio, descrive la crisi del sistema di valori dell’epoca in cui vivono i suoi protagonisti, che attraversano il dramma della seconda guerra mondiale da un osservatorio periferico e angosciato, inserendo i loro dilemmi giovanili nel crollo del mondo fascista in cui sono cresciuti. Tuttavia, da questa crisi di valori i protagonisti del romanzo escono quasi rafforzati, costretti dall’esigenza di un rinnovamento etico delle loro esistenze, che è lo specchio della sfida che il Paese, di lì a poco, si troverà impegnato ad affrontare.
Il giudizio della sera è un romanzo di formazione, in cui si inseriscono spunti autobiografici, che si rispecchiano nel travagliato percorso formativo dei suoi giovani protagonisti; anzitutto Gino, che è il riflesso romanzesco dell’autore, ma anche Pippo, Carletto, Gianni e Morico, che agiscono sotto un’incessante spinta vitalistica, che si contrappone agli scenari di morte di cui è espressione l’area urbana etnea di San Berillo, dove è ambientata una parte significativa del romanzo; scenari che costituiscono una sorta di metafora del degrado materiale e morale di una città e di un’epoca, travolte dal secondo conflitto mondiale. Come acutamente evidenziato da Sarah Zappulla Muscarà[13], che ha curato la fortunata riedizione del romanzo, i protagonisti del racconto si muovono in un “febbrile desiderio di sperimentazione”, che è ostacolato dall’atmosfera catanese soffocata dal ventennio fascista ormai al crepuscolo e dalla situazione bellica, anch’essa, per l’Italia, crepuscolare.
Immersa nella rassegnazione e nell’indolenza malinconica, tipicamente siciliane, la Catania di Sebastiano Addamo, che è quasi materica e sembra fuoriuscire dalle pagine del romanzo, si mostra con i sintomi di quella malattia che è la guerra, che si esprime nei volti di un’umanità cittadina derelitta, composta da uomini disperati, in preda a un’inedia ancestrale, che non riescono a superare, finendo per essere dominati da sentimenti di alienazione e di angoscia.
Ne emerge un’umanità negativa, che viene ritratta con tonalità sconsolate crescenti, benché accompagnate dalla forte partecipazione emotiva dell’autore, che aveva vissuto quegli anni e descrive il dramma della città, le cui vicende dolorose sono, allo stesso tempo, il simbolo della guerra: quella guerra che aveva distrutto Catania, descritta da Sebastiano Addamo, con esiti ineguagliabili, raggiunti forse dal solo Don Giovanni in Sicilia di Brancati.
L’ambiente urbano etneo e i cittadini che lo animano diventano, allora, per Sebastiano Addamo lo strumento narrativo per mostrare le ferite di una città meridionale sconfitta e ribadire il suo atto di accusa nei confronti dell’abiezione della guerra e dell’ingiustizia del potere, che è espressione degli uomini ingiusti che lo hanno esercitato nel ventennio che precede le vicende vitalistiche di Gino e dei suoi giovani amici; ingiustizia che è testimoniata dalle morti sempre più numerose dei catanesi e dai lutti che colpiscono le loro famiglie.
Accentuando, in questo modo, una naturale ispirazione letteraria, favorita dalla sua formazione filosofico-giuridica, Sebastiano Addamo, nel suo romanzo d’esordio interviene sulle vicende narrate come il giudice-storico di Carlo Ginzburg[14], rendendo evidenti la tensione morale e il pessimismo ontologico, espressi dal suo racconto. Queste caratteristiche, a loro volta, sono descritte attraverso una trama narrativa intessuta del sostrato filosofico che alimenta il romanzo, attraverso continui rimandi agli autori amati da Addamo, come Kirkegaard, Schopenhauer, Heidegger e Husserl, che accompagnano, quasi silenziosamente, il procedere del racconto di Gino e dei suoi giovani e vitali amici.
Queste connotazioni del racconto, sotterranee ma evidenti, dunque, si innestano nella trama romanzesca, che procede su due piani paralleli: il primo è quello della memoria e dei ricordi di Gino, venati di autobiografismo; il secondo è quello della riflessione filosofica dell’autore sulla società ingiusta in cui vivono i giovani protagonisti, esplicitata attraverso i continui richiami ai punti di riferimento ideologico di Addamo, mediante i quali si esprimono i suoi giudizi severi sull’ingiustizia di un’epoca e sui suoi sfortunati personaggi.
Come ha detto Enrico Iachello in un bellissimo intervento sul tessuto urbano in cui si sviluppano gli avvenimenti del romanzo d’esordio di Sebastiano Addamo, che è il deuteragonista del racconto: «Crollano sotto le bombe le case così come sono ‘caduti’ sotto la fame gli abitanti, che sembrano d’un tratto muoversi quasi disarticolati via via che il dramma si compie, e si perdono ruoli e dignità […]»[15].
Il giudizio della sera, così, diventa un vero e proprio manifesto, intellettuale e sentimentale, dell’autore, che descrive, attraverso una sorta di conte philosophique, il disastro etico di un’epoca e il disagio dei loro giovani protagonisti, che sono l’unico elemento di speranza del suo straordinario romanzo.
4. L’ingiustizia del potere e gli “uomini senza qualità” di Un uomo fidato.
Il percorso narrativo di Sebastiano Addamo trova, a mio avviso, il suo vertice letterario nel romanzo Un uomo fidato, che è la narrazione maggiormente contestualizzata tra le sue opere, essendo collocata cronologicamente tra il 1975 e il 1976, che sono gli anni immediatamente successivi al referendum sul divorzio – svoltosi nel 1974 – e alle elezioni politiche del 1976, in cui le forze parlamentari di sinistra raggiunsero la maggioranza parlamentare.
Occorre premettere che il romanzo Un uomo fidato, nel percorso letterario di Sebastiano Addamo, è importante per molteplici ragioni, delle quali mi limito a segnalare le due più significative.
Un uomo fidato, innanzitutto, è la prosecuzione delle riflessioni condotte da Sebastiano Addamo sull’ingiustizia del potere, che è espressione degli uomini ingiusti che lo esercitano, avviato con Il giudizio della sera e, in quest’opera, sviluppato con risultati espressivi esemplari.
Un uomo fidato, inoltre, è il romanzo più sciasciano di Sebastiano Addamo, come vedremo, anche alla luce del suo anomalo finale; caratteristica, questa, che non è di secondaria importanza, essendo Leonardo Sciascia, probabilmente, l’autore più vicino, umanamente e culturalmente, allo scrittore car-lentinese.
Con questo romanzo Sebastiano Addamo ci racconta una storia di trasformismi umani, tipicamente italiani, che si presentano con caratteri marcatamente gogoliani.
Il protagonista, Marco Trigillo è un impiegato catanese, che per ragioni di sopravvivenza abdica alla sua coscienza e alle sue scelte ideologiche, accettando di diventare democristiano.
Il racconto inizia con la descrizione delle abitudini di Marco Trigillo, che ogni giorno si reca nel suo ufficio, portando con sé il quotidiano l’Unità; però, il suo capoufficio, il dottor Foti, non accettando le sue scelte, politiche e ideologiche, comincia a sottoporlo a un crescente processo di condizionamento psicologico, fino a quando non gli dice chiaramente che un “comunista” nel suo ufficio non lo vuole. Marco Trigillo, del resto, come ci riferisce Leonardo Sciascia in un suo intervento sul romanzo «vagamente comunista per dottrina e comportamento, lo è profondamente per istinto e condizione»[16].
Il dottor Forti, invece, è una figura esattamente speculare a quella di Marco Trigillo e incarna perfettamente il modello degli uomini di potere “ingiusti” della narrativa di Addamo. Così ce lo descrive l’autore: «Conosceva e frequentava le persone importanti della città, dal vescovo ai professori di università e ai giornalisti, ma aveva l’astuzia di non mascherare la sua rozzezza intellettuale, ed era forse presunzione di identità, di essere quel che si è nel bene e nel male»[17].
Il protagonista di un Un uomo fidato, dunque, rinuncia progressivamente alla sua amata lettura quotidiana e alla sua ideologia, fino a quando, allo scopo di assecondare il dottor Foti, si iscrive alla Democrazia Cristiana, completando il suo processo di palingenesi negativa e snaturando la sua identità. In questo modo, l’Unità diventa, per Marco Trigillo, come il cappotto di Akakij Akakievič, il protagonista dello straordinario racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol, appunto intitolato Il cappotto[18]; entrambi gli impiegati dei due racconti, infatti, non trovano pace e fanno di un episodio, apparentemente marginale della loro vita, un pretesto per trovare una loro giustizia e percorrere anomale strade alla ricerca dell’agognata e non soddisfatta sete di giustizia.
Il pretesto per dare soddisfazione alla sua sete di giustizia, infine, Marco Trigillo lo trova nelle successive scelte politiche del suo capoufficio, il quale, per ragioni di opportunismo, collegate ai risultati delle elezioni politiche del 1976, comincia a leggere, inaspettatamente l’Unità, il “suo” giornale.
Questo avvenimento fa vacillare il mondo di abitudini consolidate in cui vive Marco Trigillo, che inizia a nutrire sentimenti di odio nei confronti del suo capoufficio, fino a quando, mentre era impegnato in una delle sue abituali letture filosofiche – tra le quali spiccavano quelle di Immanuel Kant – elabora un piano per sbarazzarsi della causa delle sue sofferenze interiori, collegate al “senso di ingiustizia” che ha sviluppato nel corso degli anni, progettando di uccidere il dottor Foti.
Marco Trigillo, in questo modo, mette in moto un piano criminoso perfetto e si trasforma in giustiziere, provocando la caduta del dottor Foti dal quarto piano del suo ufficio e causandone la morte, proprio mentre il suo capoufficio, dedicandosi alla lettura quotidiana del suo nuovo giornale – come detto l’Unità – era immerso nella sua trasformistica dimensione burocratica.
Ma, a questo punto, anche Marco Trigillo si è definitivamente trasformato, concretizzando la palingenesi giustizialista che caratterizza Un uomo fidato, di cui è testimonianza la frase che conclude il libro, pronunciata tra sé e sé dopo l’omicidio del dottor Foti, in occasione di una conversazione che riguardava la vittima: «Li avrebbe uccisi tutti!»[19].
Questo romanzo, dunque, si conclude alla maniera di Todo Modo[20] di Sciascia, atteso che è tale l’odio, il furore verso il trasformismo del dottor Foti, che è l’espressione dell’opportunismo del potere politico italiano, che alla fine il protagonista del racconto – che pure, all’inizio della narrazione, è descritto come un uomo mite – arriva all’omicidio.
Un uomo fidato è un romanzo straordinario che, come diceva Leonardo Sciascia, si incentra su un personaggio «cui consapevolmente stinge la profonda e congeniale affezione dell’autore ai grandi scrittori russi»[21], che merita di essere riscoperto, in un processo di rivalutazione complessiva di questo grande scrittore siciliano.
5. Gli uomini di legge di Sebastiano Addamo e i palinsesti giudiziari di Non si fa mai giorno.
Si colloca su una linea narrativa similare a quella descritta in Un uomo fidato anche il racconto di apertura della raccolta intitolata Non si fa mai giorno, intitolato La mano tagliata, assistendosi, anche in questo caso, a un processo di evoluzione personale che passa attraverso la personale palingenesi giustizialista del protagonista della narrazione, che è un magistrato siciliano.
Occorre precisare che La mano tagliata è il racconto di apertura di una raccolta che comprende, nell’ordine di esposizione narrativa, anche i racconti intitolati Noia a Catania, Fine di una giornata, Il muro davanti a noi e Nel cuore della legge, il quale ultimo affronta, anch’esso, tematiche giudiziarie, però trattate con un tono leggero, quasi atipico per Addamo, che non ce lo rendono utile ai nostri fini.
In questo racconto si descrive la storia di un magistrato autorevole, rispettato e temuto, che si trasforma, inconsapevolmente, in un feroce assassino, attraverso una sorta di sdoppiamento della personalità, che viene descritto mirabilmente da Addamo attraverso le riflessioni filosofico-giuridiche che costituiscono la trama insostituibile delle sue narrazioni, portate avanti con una forma assimilabile a quella del conte philosophique. La narrazione appassionante di questo racconto, quindi, in linea con i precedenti interventi narrativi dell’autore, è intessuta di riferimenti filosofici e culturali, collegati alle scelte del protagonista, che rendono La mano tagliata un altro tassello delle indimenticabili parabole umane descritte da Addamo.
Ci si trova, dunque, di fronte, analogamente a quanto si è visto per Un uomo fidato, a una sorta di palingenesi giustizialista, che travolge il protagonista del racconto La mano tagliata, che, nel corso della narrazione, si trasforma, non del tutto consapevolmente, da magistrato probo e giusto in uomo improbo e ingiusto, fino all’inaspettato e bellissimo finale, anch’esso di matrice gogoliana, che viene riecheggiato nel titolo del racconto. Il racconto di Addamo, pertanto, costituisce una sorta di parabola sulla giustizia irraggiungibile e sullo speculare senso di ingiustizia che condiziona in negativo i protagonisti delle sue opere narrative – su cui ci si è già soffermati nell’esaminare Il giudizio della sera e Un uomo fidato – che è la conseguenza dell’atteggiamento di impotenza dei suoi personaggi di fronte alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano.
Nel racconto La mano tagliata, pertanto, Sebastiano Addamo, descrivendo – come li avrebbe probabilmente chiamati lui – i palinsesti giudiziari della vita di un magistrato – torna su un tema a lui molto caro, che è quello del “senso di ingiustizia”, che gli uomini sviluppano venendo a contatto con le istituzioni e gli uomini di potere che le rappresentano, incarnati in questo caso dai magistrati.
(*) Questo intervento è stato pubblicato sull’opera collettanea Sebastiano Addamo a vent’anni dalla sua morte, a cura di M. Grasso, Prova d’Autore, Catania, 2020, edita nel ventennale della morte di Sebastiano Addamo.
[1] È possibile documentarsi sui profili biografici, professionali e letterari di Sebastiano Addamo, acquisendo le informazioni presenti sul suo sito ufficiale, www.addamosebastiano.it.
[2] Adriano Tilgher (1887-1941) è stato un filosofo, saggista e giornalista italiano, di estrazione non accademica.
[3] Orazio Condorelli (1897-1969) ha insegnato filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania; della stessa Università di Catania è stato anche il rettore.
[4] I riferimenti del testo, naturalmente, rimandano a C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino, 1991.
[5] S. Addamo, Violetta, Mondadori, Milano, 1963.
[6] Id., Il giudizio della sera, Garzanti, Milano, 1974.
[7] Id., Un uomo fidato, Garzanti, Milano, 1978.
[8] Id., I mandarini calvi, Scheiwiller, Milano, 1978.
[9] Id., Le abitudini e l’assenza, Sellerio, Palermo, 1982.
[10] Id., Palinsesti borghesi, Scheiwiller, Milano, 1987.
[11] Id., Piccoli dei, Il Girasole, Valverde, 1994.
[12] Id., Non si fa mai giorno, Sellerio, Palermo, 1995.
[13] S. Zappulla Muscarà, Come i neofiti dell'oscuro, introduzione a S. Addamo, Il giudizio della sera, Bompiani, Milano, 2008.
[14] Vedi supra, nota 4.
[15] E. Iachello, Storia e letteratura. Catania, il fascismo e la guerra nel racconto di Sebastiano Addamo, in Mediterranea, Agosto 2018, n. 43, p. 341.
[16] Così si esprime L. Sciascia, Nero su nero, in Opere (1971-1983), Mondadori, Milano, 1989, p. 812.
[17] S. Addamo, Un uomo fidato, cit., pp. 23-24.
[18] N. Gogol, Il cappotto (1842), BUR Rizzoli, Milano, 1987.
[19] S. Addamo, Un uomo fidato, cit., p. 148.
[20] L. Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.
[21] L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 811.
Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning – 3. Considerazioni conclusive
1. Premessa
La pronuncia in commento presenta diversi profili di interesse, in quanto il Consiglio di Stato, analizzando la questione ha ritenuto elusiva del provvedimento di interdittiva antimafia la misura di self cleaning posta in essere, da un’associazione, successivamente al provvedimento antimafia.
Il Consiglio di Stato, adito dopo lo svolgimento di un giudizio innanzi al T.A.R. per la Campania sede di Napoli, ha espresso dubbi in merito alla compatibilità delle statuizioni del giudice di primo grado che annullava la conferma dell’interdittiva a seguito di operazioni di self cleaning stabilendo che le misure - seppur aventi come fine quello di eludere la normativa antimafia - da sole non risultavano abbastanza adeguate a sorreggere l’annullamento provvedimento prefettizio.
Nello specifico, l’associazione resistente si avvaleva di un consulente legale condannato per il reato di corruzione elettorale ordinaria oltre ad avere nella stessa compagine associativa dei dipendenti vicini agli ambienti malavitosi: da ciò discendeva l’emanazione del provvedimento di interdittiva.
Di conseguenza, la società, in risposta all’adozione della misura interdittiva, attuava delle misure volte a stabilire una netta censura dei rapporti contestati, revocando l’incarico di rappresentanza legale precedentemente conferito e licenziando i dipendenti inquinati, chiedendo poi un aggiornamento del provvedimento interdittivo.
Ciononostante, per i giudici di Palazzo Spada, la mera censura dei rapporti non ha comunque garantito una totale estraneità dalla stessa dagli ambienti deviati, in quanto tale agire è contrastante con la normativa della documentazione antimafia contenuta nel libro II, capo II del D.lgs. 159/2011[[1]] ed è quindi è legittimo il diniego di aggiornamento del provvedimento interdittivo opposto per elusività della misura di self cleaning.
2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning
L’art. 84, comma 3 del D. lgs. n. 159 del 2011[[2]], riconosce quale elemento fondante dell’informazione antimafia la presenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”[[3]].
Il legislatore, in riferimento ad una situazione potenzialmente dannosa, ha concesso alle prefetture il beneficio di emanare misure di prevenzione basate, anche, sulla sola potenzialità di condizionamenti[[4]] e perciò il Prefetto, in forza di un pregresso accertamento di pericolosità, agisce in chiave probabilistica[[5]], formulando un giudizio di tipo preventivo-prognostico: una volta accertato il pericolo può procedere ad interdire l’impresa interrompendo ogni rapporto con le pubbliche amministrazioni.
Nel caso di specie, i giudici di Palazzo Spada, seppur concordi col Tar nel ritenere che ciò che occorre verificare, nel caso di adozione di misure di self cleaning, non è lo scopo soggettivamente perseguito dall’ente attinto dall’informativa e dai suoi esponenti, bensì l’effettiva idoneità delle misure stesse a recidere quei collegamenti e cointeressenze con le associazioni criminali che hanno fondato l’adozione della precedente informazione antimafia, contrariamente a quanto assume lo stesso giudice di primo grado ritengono, però, che nella fattispecie siano stati individuati gli elementi in base ai quali dovesse ritenersi persistente il condizionamento.
Sul merito, la Sezione ha chiarito in ordine all’elusività del self cleaning, sostenendo la tesi secondo cui già ab origine l’amministratore della società destinataria dell’interdittiva avrebbe potuto e dovuto conoscere il ruolo e la figura complessiva del consulente, peraltro facilmente riconducibile ad ambienti inquinati, ed è proprio tale atteggiamento che ha spinto il giudice di secondo grado a ritenere elusiva la misura adottata.
Occorre ricordare che, il fondamento dommatico che sorregge l’intero impianto del sistema preventivo antimafia trova espressione nella formula del “più probabile che non” che opera valutando il rischio di alterazione alla luce di una regola di giudizio di tipo probabilistico, vale a dire, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso. In tal senso, il criterio del “più probabile che non” si pone in una veste proteiforme di regola, garanzia e strumento di controllo[[6]].
Ciò posto, la presenza di dette personalità ambigue, seppur rimosse, costituiscono un dato ancora attuale che pienamente giustificano la valutazione, compiuta dalla Prefettura in ordine a quegli elementi sintomatici e indiziati del probabile coinvolgimento dell’associazione in situazioni limite e ragionevolmente, dunque, il Prefetto ha ritenuto che fosse ancora “più probabile che non” la vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata; non è certamente l’allontanamento, intervenuto a soli pochi giorni di distanza dall’adozione della stessa interdittiva, a dare piena garanzia dell’effettiva netta cesura dai contesti mafiosi ed in tale contesto, l’organo periferico del Ministero dell'Interno, effettuando una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, ha ritenuto "più probabile che non" il pericolo di infiltrazione mafiosa”.
Ciò premesso, il pericolo dell'infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un semplice sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, "a condotta libera", sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell'autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell'art. 91, comma 6, del D. Lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali "unitamente a concreti elementi da cui risulti che l'attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata".
Sul tema, il Consiglio di Stato ha rimarcato più e più volte la propria posizione in ordine alle condotte sintomatiche caratterizzate da elementi in parte tipizzati ed in parte lasciati al libero apprezzamento discrezionale, ma che in comune devono avere la concordanza degli elementi indizianti, cosi come prevista dall’art. 2729 c.c.
3. Considerazioni conclusive
Orbene, il consolidato indirizzo interpretativo dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con il passato continuando a subire, consapevolmente o non, i tentativi di ingerenza ben si prestano ad essere adattate al caso in questione [[7]].
Ha ancora chiarito la Sezione [[8]] che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati”, ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
La P.A., invece, in ossequio ai principi di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito[[9]].
In ultimo, giova sottolineare come la funzione di "frontiera avanzata" dell'informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, dovrà arrestarsi [[10]].
[[1]]Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 - Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136.
[[2]] L’art. 84 comma 3, D.lgs. 159/2011, recita testualmente che “l'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4.”
[[3]] Sul punto, Consiglio di Stato sez. III, 30 gennaio 2019, n. 759.
[[4]] Cfr. Consiglio di Stato sez. III, 6 gennaio 2019, n.1553.
[[5]] Quanto alla concezione probabilistica, il Consiglio di Stato nella sentenza n. 4483 del 2017 stabiliva che caso di adozione di misura interdittiva “l'interprete è sempre vincolato a sviluppare un'argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l'ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale".
[[6]] Il Consiglio di Stato ha affermato che “l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la necessaria prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2342/2011; n. 5019/2011; n. 5130/2011; n. 254/2012; n. 1240/2012; n. 2678/2012; n. 2806/2012; n. 4208/2012; n. 1329/2013; sez. VI, n. 4119/2013; sez. III, n. 4414/2013; n. 4527/2015; n. 5437/2015; n. 1328/2016; n. 3333/2017, 2343/2018, 26/2017, n. 1923/2017 e n. 3173/2017).
[[7]] Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386.
[[8]] Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[[9]] Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111.
[[10]] Cons. St., sez. III, 6 marzo 2019, n.1553.
Ergastolo ostativo e 41 bis ord.pen. L’interazione virtuosa tra giudici ordinari e Corte costituzionale
Intervista di R. Conti a Giovanni Fiandaca
Recenti interventi giurisprudenziali del giudice comune e di quello costituzionale sulla materia che ruota attorno al trattamento detentivo di condannati posti al regime del 41 bis l. ord.pen., in qualche modo collegati alla sentenza Viola c. Italia della Corte edu, impongono un approfondimento conoscitivo che Giustizia Insieme ha chiesto a Giovanni Fiandaca, uno dei più autorevoli studiosi viventi del diritto penale che, di recente, ha già offerto, anche da questa Rivista, il suo contributo di riflessione in materia.
Il punto di partenza è stato offerto da due fonti di innesco rappresentate, rispettivamente, dalla sentenza n.97/2020 della Corte costituzionale sul divieto assoluto di scambiare oggetti previsto dall’art. 41 bis ord.penit. per detenuti in regime differenziato appartenenti anche al medesimo gruppo di socialità- già commentata da Stefano Tocci su questa Rivista, Realtà storica e Costituzione: una problematica dualità?- e dall'ordinanza della prima sezione penale della Cassazione che ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis comma 1, 58-ter O.P. e 2 d.l. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
Pronunzie che Fiandaca mostra di condividere e di mettere in relazione alla precedente Corte cost.n.253/2019, intravedendo una commendevole alleanza fra il diritto vivente del giudice comune e le pronunzie del giudice costituzionale rivolte a garantire in modo sempre più effettivo la dignità della persona condannata anche se per delitti che destano fortissimo allarme sociale e cagionano danni irrisarcibili per le vittime. Un'alleanza che sembra ispirata da un sottostante principio di cooperazione fra le Corti, nazionali e sovranazionali, che non sembra avere ancora esaurito la sua capacità di modificare il sistema normativo interno ove questo si dimostri in concreto non coerente con i valori costituzionali.
***
Professore Fiandaca, il passaggio di oggetti e di generi alimentari di prima necessità tra i detenuti al 41 bis ord.pen. facenti parte del medesimo gruppo di socialità e la sentenza n.97 del 2020. Puoi dirci in pillole qual era la questione rimessa al giudice costituzionale?
E la Corte costituzionale cosa ha fatto?
Il carattere inutilmente afflittivo di un divieto quando non corrisponde ad un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica ed il ruolo della Corte costituzionale(e del giudice comune).Che ne pensi?
La valutazione del giudice può impedire il passaggio di beni di prima necessità fra detenuti al regime dell’art.41 bis l.ord.giud. quando “esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini, e la motivata esigenza di prevenire – come recita l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a), ordin. penit. – «contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».” Dalla valutazione generale e astratta a quella giudiziale, ricamata sul fatto concreto. Probatio diabolica o personalizzazione della tutela attraverso un bilanciamento caso per caso?
È stato anche detto che Corte cost.n.97/2020 abbia inteso privilegiare una visione puramente tecnica e ideale delle norme sottoposte al vaglio del giudice costituzionale, svalutando la ratio storica e sociale delle stesse.
Ha secondo Te un particolare significato che a sollevare la questione di legittimità costituzionale poi accolta sia stata anche la Corte di Cassazione, che nell’ordinamento interno ha il compito di garantire la funzione nomofilattica?
Corte cost.n.97/2020 depotenzia, secondo Te, il contrasto dello Stato alla criminalità organizzata, come pure sostengono le opinioni critiche rispetto ad una linea interpretativa della Corte costituzionale considerata troppo indulgente e orientata alla protezione di situazioni giuridiche configurate come diritti(spesso fondamentali)?
Dove va il 41 bis ord.pen.? Dall’irrigidimento alla flessibilità, e poi?
È di pochi giorni fa la notizia che la Corte di Cassaizone -Cass. Penale, Sez. I, ud. 3 giugno 2020, Ord.18518,dep.18 giugno 2020, -Presidente Mazzei, Rel. Santalucia -ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata – con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost. – la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis comma 1, 58-ter O.P. e 2 d.l. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991, «nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale». Si tratta di un tema, quello dell’ergastolo ostativo, a Te assai caro, sul quale hai già espresso le tue opinioni anche sulla nostra Rivista. Qual è il tuo avviso su questa decisione?
G.Fiandaca
1. Premetto che le mie risposte si porranno, sotto diversi aspetti, in una linea di continuità ideale con la mia precedente intervista in tema di ergastolo ostativo pubblicata su Giustizia insieme il 19 ottobre 2019, cioè in un frangente temporale successivo alla sentenza Viola della Corte edu e di poco precedente rispetto alla pronuncia n. 253/2019 della Corte costituzionale.
Ciò premesso, cominciando dalla questione oggetto della sentenza costituzionale n. 97/2020, si trattava di verificare se fosse costituzionalmente legittimo, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., il divieto assoluto di scambiare oggetti previsto dall’art. 41 bis ord.penit. per detenuti in regime differenziato appartenenti anche al medesimo gruppo di socialità: la questione, eccepita dalla prima sezione della Corte di Cassazione, riguardava nel caso concreto lo scambio di generi alimentari provenienti dai consueti canali (cioè pacco-famiglia o acquisto in sopravitto effettuato attraverso il circuito interno all’istituto penitenziario).
2.Nel dichiarare l’incostituzionalità del suddetto divieto, la Corte ha sviluppato un iter argomentativo che si ricollega, in maniera coerente, a principi precedentemente affermati e ribaditi per rendere compatibile con la Costituzione il regime penitenziario speciale: principi che, com’è intuibile, pongono limiti invalicabili a tale regime, a garanzia di diritti, valori ed esigenze che vanno costituzionalmente bilanciati con la tutela della sicurezza collettiva e con gli obiettivi presi di mira con l’azione statale di contrasto alla criminalità organizzata. Il primo, collegato all’art. 3 Cost., si riferisce alla congruità o funzionalità della misura restrittiva in questione rispetto agli scopi del circuito detentivo differenziato; il secondo limite, connesso all’art. 27 Cost., deriva dall’esigenza di non vanificare completamente la finalità rieducativa della pena e di non violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.
Sottoposto a scrutinio sotto entrambi i punti di vista, il divieto di scambiare oggetti all’interno del medesimo gruppo di socialità è andato incontro a una netta bocciatura: esso è stato infatti considerato dai giudici costituzionali incongruo rispetto all’insieme delle finalità attribuibili al regime di cui al 41 bis, e irrispettoso dei vincoli costituzionali in funzione limitatrice cui l’esecuzione penale differenziata deve sottostare. Ne è, dunque, conseguita la dichiarazione di incostituzionalità del diviato di scambiare oggetti considerato nella sua astratta e rigida assolutezza normativa.
Ma, attenzione: secondo la Corte, questo giudizio di incostituzionalità non presuppone l’esistenza di un diritto fondamentale del detenuto a scambiare oggetti con i soggetti reclusi dello stesso gruppo di socialità. Piuttosto, lo scambio di oggetti viene qualificato – analogamente al “cuocere cibi” di cui alla precedente sentenza n. 186/2018 – come una facoltà spettante anche all’individuo in stato detentivo, quale espressione di una più generale facoltà di comunicazione e socializzazione fatta di “piccoli gesti di normalità quotidiana”. Ecco che questa facoltà, se non può essere inibita in linea generale e astratta per via legislativa, può però – secondo la Corte – essere fatta oggetto di operazioni di bilanciamento in concreto ed ex post, laddove eventualmente emergano contingenti e specifiche esigenze di sicurezza che consentano di giustificare, con esplicita motivazione, limitazioni allo scambio.
Da qui, allora, il riconoscimento del potere dell’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di realizzazione degli scambi di oggetti tra reclusi appartenenti allo stesso gruppo, nonché di prevedere eventuali esclusioni dallo scambio rispetto ad oggetti suscettibili di diventare strumenti di comunicazione ambigua con l’ambiente esterno.
3. Passando ad una valutazione di merito della pronuncia n. 97/2020 fin qui sintetizzata, manifesto una condivisione di principio, insieme – come dirò poi - a qualche ragione di perplessità.
Condivido senz’altro l’assunto – che è andato progressivamente facendosi strada nella giurisprudenza costituzionale sull’art. 41 bis – secondo cui un divieto diventa inutilmente afflittivo, e perciò privo di possibile legittimazione costituzionale, quando non risulti funzionale e proporzionato alla tutela della sicurezza pubblica. Si ratta di un orientamento decisorio che la Corte è andata prospettando e ribadendo nelle sentenze di accoglimento in materia, ad esempio, di restrizioni del numero dei colloqui con i difensori (sent. n. 143/2013) e del divieto di cucinare cibi (sent. n. 186/2018). Invero, ricorre lo stesso schema argomentativo: se una determinata misura risulta, in base a giudizi di normalità suffragati dall’esperienza, oggettivamente inidonea o poco funzionale al perseguimento dell’obiettivo di prevenire il rischio di collegamenti tra i detenuti al 41 bis e le associazioni di originaria appartenenza (o il rischio di comunicazioni tra detenuti al carcere duro rientranti in diversi gruppi di socialità), essa si rivela inutilmente vessatoria e, quindi, irragionevole e contraria al senso di umanità sotto il profilo costituzionale.
A ben vedere, si tratta di uno schema di ragionamento in larga misura somigliante a quello adottato dalla Corte di Strasburgo per vagliare, appunto, la compatibilità convenzionale dei regimi penitenziari speciali, in particolare con riferimento all’art. 3 Cedu. Anche i giudici strasburghesi, com’è noto, non hanno mai contestato in radice la legittimità di un circuito differenziato come quello italiano, ma ne hanno bocciato in quanto convenzionalmente incompatibili alcune forme di attuazione particolarmente umilianti o invasive (come nei casi di perquisizioni personali “integrali” quotidiane, della videosorveglianza costante in cella, ecc.): e hanno elaborato in proposito un criterio di bilanciamento tra sicurezza e diritti o beni confliggenti basato infatti, da un lato, sulla idoneità allo scopo di tutela perseguito e, dall’altro, sul carattere di stretta necessità della misura in questione. Che ci sia una notevole affinità con i criteri di bilanciamento adottati dalla nostra Corte costituzionale, mi sembra indubbio. Anche se non manca qualche differenza, messa in rilievo in particolare da Alessandro Tesauro (studioso appartenente alla cerchia dei miei allievi, per cui confido che mi si perdoni l’unica citazione), nel contesto di suoi recenti studi dedicati ad una analisi comparativa, effettuata anche in una prospettiva giusfilosofica e teorico-generale, dei rispettivi modelli decisori della Corte edu e della Corte costituzionale italiana.
Ciò detto, credo che valga la pena ripercorrere, più in dettaglio, come la Consulta ha argomentato nell’ escludere che lo scambio di oggetti contrasti con la finalità di prevenzione tipica ed essenziale del 41 bis, cioè quella di impedire le comunicazioni con l’esterno. Riproponendo un rilievo già formulato nella sent. n. 122/2017, essa ribadisce che qualsiasi oggetto può in linea astratta, per effetto di una valenza simbolica intrinseca o per circostanze estrinseche, assumere un significato comunicativo, o può fungere da sostituto anomalo dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi o, ancora, da contenitore per celarli al suo interno. Ciò ribadito, la Corte rileva che è vero che nel caso specifico dello scambio di oggetti quali i generi alimentari il significato simbolico o convenzionale insito nell’oggetto scambiato potrebbe anche tradursi, in ipotesi, “in una comunicazione da veicolare all’esterno, magari in occasione di un colloquio con familiari o (negli eccezionali casi in cui è consentito) terze persone”. Senonché, questa possibile prima giustificazione del divieto di scambio, ad un più attento esame, non risulta a suo avviso convincente proprio in termini di congruità rispetto all’obiettivo: contro la sua persuasività, infatti, depone la circostanza che i detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità hanno varie occasioni di poter comunicare reciprocamente messaggi in forma orale, senza essere ascoltati (fatte salve eventuali percezioni casuali da parte degli agenti penitenziari o eventuali intercettazioni ambientali). Se così è, alla compressione della forma minima di socialità derivante dal divieto di scambio non corrisponde in effetti alcun accrescimento della sicurezza, per cui vietare lo scambio si traduce in una misura inutilmente afflittiva.
Ma il divieto in parola - come continua a ben argomentare la Corte - non supera lo scrutinio di razionalità rispetto allo scopo neppure sotto l’aspetto della seconda sua possibile ratio giustificatrice, cioè quella di impedire che qualcuno dei reclusi possa strumentalizzare l’offerta di oggetti per acquisire una posizione di supremazia simbolicamente rilevante nell’ottica criminale, come tale da comunicare anche all’esterno. Infatti, come già sostenuto nella sent. n. 186/2018 relativa al divieto di cottura di cibi, viene (giustamente!) ribadito che la prevenzione di ruoli di potere deve essere perseguita “attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario”, come già del resto avviene grazie alla regola generale di cui all’art. 15, comma 2, del regolamento penitenziario, che permette soltanto la cessione o lo scambio di beni di modico valore.
4. Come ho anticipato, le ragioni addotte dalla Corte per escludere – se mi è consentito importare espressioni weberiane – sia la razionalità strumentale, sia la razionalità assiologica del divieto di scambio di oggetti mi sembrano abbastanza persuasive.
Alcune riserve le avanzerei, invece, rispetto a quella parte della sentenza n. 97/2020 in cui la facoltà di scambiare oggetti finisce con l’essere relativizzata sulla base di un bilanciamento in concreto con eventuali esigenze contingenti di sicurezza, la cui valutazione rimane pur sempre rimessa all’amministrazione penitenziaria. Innanzitutto, non mi riesce facile immaginare circostanze concrete nelle quali lo scambio possa risultare concretamente pericoloso, né tipi di oggetti passibili di apparire pericolosi in concreto: il dubbio che tali situazioni di contingente pericolo possano davvero verificarsi mi sembrerebbe avvalorato dal fatto che la Corte – forse non a caso! – si astiene dal fare qualsiasi esemplificazione in proposito. Sicché, azzarderei l’impressione che essa lasci la porta aperta a possibili bilanciamenti in concreto, più per stornare da sé il temuto rimprovero da parte di settori di un’antimafia radicale di procedere ad un progressivo svuotamento del 41 bis, che non per la realistica preoccupazione di prevenire effettive situazioni di rischio per la sicurezza collettiva.
In secondo luogo, avanzo riserve rispetto ad una delega del bilanciamento in concreto affidata ad un organo dell’applicazione quale in particolare l’amministrazione penitenziaria: la Corte, nello responsabilizzare quest’ultima (deresponsabilizzando al contempo se stessa!), a mio avviso trascura che si tratta di un comparto amministrativo che in realtà è parte in causa in quanto istituzionalmente e pregiudizialmente vocato alla tutela privilegiata del bene-sicurezza, per cui difficilmente esso può garantire un bilanciamento imparziale (e lo rilevo anche grazie alla mia attuale esperienza di garante regionale dei diritti dei detenuti). È vero che le decisioni degli organi penitenziari possono poi essere contestate in sede giurisdizionale, ma non è da escludere che un giudice possa essere a sua volta orientato in senso pregiudizialmente opposto rispetto a quello dell’amministrazione carceraria, cioè in linea di generale principio a favore della tutela delle libere facoltà dei soggetti reclusi. Per cui, alla fine, non è appunto detto che si pervenga a quel compromesso equilibrato tra esigenze in conflitto, che la Consulta preferisce delegare ad altri organi.
5. L’obiezione che una sentenza costituzionale come quella fin qui considerata svaluterebbe la ratio storica del 41 bis, privilegiando invece una visione prevalentemente tecnica o ideale delle disposizioni in questione, può provenire – come è anche avvenuto a proposito di precedenti prese di posizione della Corte – soprattutto da due fronti: da quello delle procure antimafia, che continuano per lo più a considerare interesse assolutamente prioritario (tendenzialmente non bilanciabile) l’efficacia preventivo-repressiva della normativa di contrasto alle mafie; e dai settori più radicali e oltranzisti dell’antimafia politico-sociale, che difendono il carcere duro come una sorta di istituzione sacralizzata attraverso il sacrificio della vita di Falcone e Borsellino e di tante altre vittime note e meno note del terrorismo mafioso, per cui il 41 bis andrebbe mantenuto integro in tutte le sue componenti rigoristiche anche per ragioni di ordine simbolico. Pur con tutto il rispetto delle motivazioni morali ed emotive sottese a questa visione simil-religiosa, come giurista di orientamento liberaldemocratico non posso non rivendicare una concezione laica del diritto, alla cui stregua la moralità giuridica vincolante è quella che costituisce il riflesso dell’affermazione dei principi costituzionali.
Quanto alla prevalente tendenza delle procure a privilegiare, più che il costituzionalismo penale, la dimensione pragmatica dell’efficacia preventivo-repressiva, ho più volte evidenziato un rischio: che all’interno dell’universo giudiziario, non ultimo per effetto del ruolo di accusatore o di giudice rivestito, si manifesti e consolidi una differenziazione radicale di vedute addirittura rispetto al modo di concepire e attuare i principi fondamentali dell’ordinamento penale. Una cosa è infatti il pluralismo moderato e ragionevole quale valore da preservare anche nell’ambito della magistratura, altra cosa è un pluralismo talmente accentuato da sfociare in contrapposizioni tra culture giudiziali così agli antipodi, da risultare inconciliabili.
6. Che a sollevare la questione di costituzionalità sia stata la Cassazione, peraltro non soltanto nel caso dello scambio di oggetti, mi sembra una scelta sintomatica di una linea di tendenza che auspicherei destinata a proseguire in futuro. Non solo per l’autorevolezza della Corte, e per il suo (almeno teorico) atteggiarsi ad organo di nomofilachia, ma per ragioni aggiuntive. Cioè la Cassazione può disporre delle risorse culturali e tecniche per interagire virtuosamente con la giurisprudenza di Strasburgo, in modo da superare anche sul terreno specifico dell’esecuzione penitenziaria posizioni di chiusura conservatrice: significativi riscontri di questo atteggiamento di apertura verso nuovi orizzonti possiamo, ad esempio, desumerli dalla eccezione di costituzionalità che la Corte (insieme col tribunale di Perugia) ha sollevato in tema di ergastolo ostativo e permessi-premio, accolta con la ormai nota sentenza costituzionale n. 253/2019, e dalla più recente eccezione sollevata sempre dalla prima sezione a proposito di ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
7. Anche sulla base dei rilievi precedentemente svolti, escluderei che una sentenza come la n. 97 del 2020 possa causare un effettivo indebolimento del contrasto statale alla criminalità organizzata. A meno che non si tema che un qualche depotenziamento della lotta alle mafie possa derivare anche dal solo venir meno della funzione ‘simbolica’ che si presume inerente a questo o quel divieto caducato. Ma, oltre a ritenere di più che dubbia fondatezza empirica una preoccupazione come questa, da giurista laico contesto fermamente la legittimità di una attribuzione di funzioni meramente simboliche agli strumenti della giustizia penale.
Vi è di più. Anche se un pur minimo indebolimento fosse da paventare, questo costituirebbe pur sempre un costo da tollerare a vantaggio di un’esecuzione penale costituzionalmente orientata. Il regime di cui al 41 bis è apparso sempre, sin dalla sua origine, assai problematico in termini di compatibilità costituzionale e convenzionale. Che il suo ambito di legittima operatività vada progressivamente riducendosi per effetto del riconoscimento, ad opera delle Corti, di diritti o facoltà incomprimibili in capo agli stessi autori di delitti di criminalità organizzata, non dovrebbe né sorprendere, né indignare. È anzi da auspicare che in un futuro non troppo lontano, anche grazie ai crescenti successi delle strategie di contrasto alle mafie, le differenze tra regime differenziato e circuito penitenziario ordinario siano destinate ad assottigliarsi.
8. Che una eccezione di costituzionalità avente ad oggetto la preclusione dell’accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo non collaborante con la giustizia sarebbe stata prima o poi sollevata, era abbastanza prevedibile: trattandosi di un seguito, pressoché a rime obbligate, di un percorso argomentativo in gran parte tracciato dalla sentenza Viola (e da precedenti sentenze) della Corte di Strasburgo e dalla successiva pronuncia n. 253/2019 della nostra Corte costituzionale.
In effetti, le cadenze fondamentali del ragionamento sviluppato ancora una volta dalla prima sezione della Corte di Cassazione per sollevare la suddetta questione di legittimità sono contenute nella sentenza n. 253: non sono il solo a ritenere che, se la Consulta avesse avuto il coraggio di portarne alle estreme conseguenze l’impianto motivazionale, trascendendo lo stretto riferimento all’istituto del permesso-premio oggetto della concreta vicenda sub iudice, essa avrebbe nel medesimo contesto decisionale già potuto dichiarare incostituzionale, per illegittimità conseguenziale, anche l’esclusione dell’accesso alla liberazione condizionale. Pur se l’atteggiamento di self restraint e di cautela della Corte può apparire comprensibile, specie considerando la natura persistentemente divisiva e polemogena dell’istituto dell’ergastolo ostativo (con divisioni interne, per di più, alla stessa Corte), c’è comunque una parte della pronuncia in parola – mi si consenta questa critica, peraltro non solo mia, a una sentenza in ogni caso molto importante – che non può non destare riserve. Mi riferisco, com’è intuibile, ai punti critici rilevabili riguardo al regime probatorio rafforzato che la Corte ha ‘creativamente’ additato, con aggiunta di sostanziale valenza ‘legislativa’, per accertare che il condannato (non collaborante) non sia più pericoloso: occorrerebbe cioè acquisire elementi per escludere non solo l’attualità dei collegamenti con le associazioni criminali di originaria appartenenza, ma altresì il pericolo di un loro ripristino. Orbene, come si fa a verificare sul serio l’assenza del pericolo di una futura ripresa di collegamenti? È un problema da approfondire, che riporta il discorso – tra l’altro – sugli strumenti conoscitivi di cui i magistrati di sorveglianza possono disporre, a cominciare dalle informative del Comitato dell’ordine pubblico e dalle comunicazioni delle Procure competenti, che, per come sono solitamente fatte, sono però ben lungi dal fornire piattaforme cognitive ampie e scrupolosamente aggiornate. Rimane poi sullo sfondo la grande e impegnativa questione non solo teorica, finora a mio avviso insufficientemente esplorata, cui ho accennato nella mia precedente intervista a questa rivista: che senso e contenuto devono assumere concetti come rieducazione, risocializzazione o ravvedimento quando sono riferiti ad autori di gravi delitti di criminalità mafiosa?
Tornando al merito della recentissima eccezione sollevata dalla Cassazione, con riferimento agli artt. 3, 27, comma terzo e 117 Cost., mi piace qui richiamare due punti della motivazione che reputo assai rilevanti. Il primo, rispecchiante una felice consonanza assiologica con la giurisprudenza sovranazionale, è quello in cui la Corte menziona esplicitamente (e suppongo per la prima vola!) il “diritto alla speranza”, così argomentando: “L’esistenza (…) di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la rieducazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. La motivazione dell’ordinanza di rimessione prosegue, non a caso, con la citazione di passi della sentenza Vinter c. Regno Unito del 2013, in cui la Corte edu ha affermato che la speranza inerisce strettamente alla persona umana e anche agi individui responsabili dei crimini più odiosi.
L’altro punto importantissimo dell’ordinanza è quello che sembra confermare la fondatezza di quanto rilevavo in precedenza, cioè che la sentenza costituzionale n. 253/2019 contiene in motivazione le premesse di prevedibili eccezioni di costituzionalità future: “Le premesse contenute in detta sentenza, benché essa abbia avuto ad oggetto soltanto – negli stretti limiti della devoluzione – il tema della concedibilità dei permessi premio e non di altro beneficio, costituiscono, unitamente alla sentenza Viola c. Italia della Corte Edu, un importante banco di prova su cui verificare se possa ancora dirsi valido il pregresso orientamento della corte di Cassazione (…) che ha ritenuto infondata la questione ora in rilievo”.
In conclusione, direi che è molto apprezzabile che la Cassazione mostri così di essere disposta a rivedere i propri orientamenti per impulso di un virtuoso combinato disposto della giurisprudenza europea e di quella costituzionale, sollecitando la Consulta a proseguire sulla strada di una progressiva delegittimazione dell’ergastolo ostativo.
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