ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’illegittimità costituzionale della legge-provvedimento e la “riserva” di procedimento amministrativo (Nota a Corte Costituzionale n.116/2020)
di Sonia Caldarelli
Sommario: 1. I dubbi di legittimità costituzionale; 2. La soluzione della Corte Costituzionale; 3. Dalla riserva di amministrazione, alla riserva di procedimento amministrativo: note critiche; 4. La tutela del diritto (fondamentale) di difesa come grimaldello per l’illegittimità costituzionale delle leggi in sanatoria
1. I dubbi di legittimità costituzionale
Con ordinanza n. 49 del 2018 il Tar Molise[1], nell’ambito del processo pendente tra l’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed IRCCS s.r.l. e il commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario del Molise, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n.50 (recante Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96.
La norma censurata approvava - “in considerazione della necessità di assicurare la prosecuzione dell’intervento volto ad affronta la grave situazione economico finanziaria e sanitaria della regione Molise” - il programma operativo straordinario (POS) per la Regione Molise per il triennio 2015-2018. Nel giudizio a quo, l’amministrazione resistente sollevava una eccezione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, derivante dalla avvenuta legificazione - ad opera del citato art. 34 bis del d.l. 50/2017 - del POS (oggetto di gravame).
Il Tar Molise ha sostenuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 bis sotto tre distinti profili:
i. per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione laddove il legislatore ha inteso “sanare”, in via postuma, la potenziale illegittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati, in difformità dai principi di ragionevolezza e di non contraddizione, oltre che di legalità e di imparzialità della pubblica amministrazione;
ii. per violazione degli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), essendo la norma censurata diretta ad interferire con la funzione giurisdizionale, incidendo su una controversia pendente;
iii. per violazione degli artt. 117 primo e terzo comma e 120 della Costituzione, derivante dalla riconducibilità della materia in esame alla tutela della salute, con conseguente limitazione della funzione legislativa ordinaria alla sola fissazione dei principi fondamentali.
2. La soluzione della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale ha anzitutto perimetrato i confini delle censure enucleate nell’ordinanza di rimessione, rilevando che gli artt. 6 e 7 Cedu non sono direttamente invocabili per affermare l’illegittimità costituzionale di una disposizione dell’ordinamento nazionale; ciò in quanto, come noto, le norme della Cedu hanno valore di norme interposte la cui osservanza è richiesta dall’art. 117 comma 1 della Costituzione; non avendo il Tar richiamato tale ultimo parametro, la Corte Costituzionale ha inteso il riferimento alle norme convenzionali al solo scopo di rafforzare le censure proposte.
Così individuato il confine delle questioni rilevanti, la sentenza muove dall’inquadramento della legge censurata nella categoria delle c.d. leggi provvedimento “poiché eleva a livello legislativo una disciplina già oggetto di un atto amministrativo” (punto 5.); a tale riguardo la Corte ha rammentato che secondo il suo costante insegnamento un simile esercizio della funzione legislativa non è in sé incompatibile con l’assetto di poteri stabilito in Costituzione, ferma restando la regola del suo scrutinio stretto di legittimità in punto di non arbitrarietà e non irragionevolezza[2].
L’iter argomentativo che ha condotto il giudice delle leggi a ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale, ruota attorno alla valorizzazione del ruolo del procedimento amministrativo “nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 7 agosto 1990 n.241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”).
Osserva la Corte (i) che il procedimento amministrativo costituisce il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto “[è] nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela”[3]; (ii) e che la modalità dell’azione amministrativa deve poter emergere “a livello giuridico-formale, quale limite intrinseco alla scelta legislativa…”.
Sulla scorta di simili premesse si legge nella sentenza che se la materia “per la stessa conformazione che il legislatore le ha dato” presenta i tratti della materia amministrativa, allora ne consegue l’applicazione delle garanzie tipiche del procedimento amministrativo.
In applicazione di tale ultimo criterio ermeneutico, la Corte Costituzionale ha rilevato, quanto al caso di specie, che l’oggetto della legge provvedimento censurata ha le caratteristiche della materia amministrativa (punto 9) e che la complessità delle scelte e degli interessi in gioco (legati alla tutela della salute) e le ricadute su tutte le strutture sanitarie regionali, avrebbe postulato una istruttoria amministrativa approfondita, fisiologicamente non appartenente all’iter di formazione delle leggi.
La qualificazione della materia come tipicamente amministrativa, avrebbe inoltre una specifica proiezione sulla fase successiva del vaglio giurisdizionale, nel senso che sarebbe destinata a produrre un contenzioso specifico centrato sul rispetto delle regole del procedimento, quali il difetto di partecipazione degli interessati, che non si potrebbe addebitare all’atto legislativo in quanto elemento estraneo al relativo procedimento.
Sulla scorta dei predetti argomenti la Corte Costituzionale ha concluso nel senso della violazione degli artt. 3 e 97 Cost. perpetrata dal legislatore, con assorbimento dei rimanenti parametri invocati dal rimettente.
3. Dalla riserva di amministrazione, alla riserva di procedimento amministrativo: note critiche
La sentenza in commento affronta un tema che sebbene possa definirsi “classico”[4], non sembra ancora aver trovato una sistemazione teorica e pratica definitiva[5]; si tratta della questione dei limiti e dei presupposti di ammissibilità delle leggi provvedimento, la cui natura anfibologica di legge in senso formale e di provvedimento amministrativo in senso sostanziale, sembra essere alla base degli ondivaghi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si rinvengono nella materia[6].
Le criticità derivanti dalla sostituzione del legislatore all’attività puntuale della pubblica amministrazione involgono, per un verso, la questione teorica dell’esistenza di una sfera di attribuzioni riservate alla p.a., come tali infungibili; e per altro verso, la questione della interferenza della funzione legislativa con quella giurisdizionale tutte le volte che la legge-provvedimento intervenga a sanare in via postuma un provvedimento amministrativo potenzialmente illegittimo oggetto di un ricorso pendente dinanzi al giudice amministrativo.
Occorre immediatamente rilevare che la qualificazione giuridica di un atto come legge provvedimento ne determina l’assoggettamento al regime giuridico previsto per le leggi (che sono tali, in senso formale, per il solo fatto di essere adottate a valle del procedimento legislativo conformato dalla Costituzione[7]), essendo irrilevante la sua natura sostanziale di atto a contenuto particolare e concreto; da ciò conseguono rilevanti implicazioni quanto alle modalità e forme della tutela giurisdizionale del privato leso nella sua situazione giuridica soggettiva: mentre avverso un atto che abbia la forma e la sostanza di provvedimento amministrativo il diritto di difesa è assicurato dall’esercizio dell’azione giurisdizionale a tutela della posizione giuridica lesa mediante contestazione diretta del provvedimento che si assume illegittimo dinanzi al giudice amministrativo, ex artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, la natura formale di legge propria delle leggi-provvedimento determina l’impossibilità, nel nostro ordinamento, di una simile azione diretta, dovendo la tutela avverso una legge passare attraverso il giudizio accentrato di legittimità costituzionale, a sua volta “raggiungibile” mediante il filtro del giudice a quo e soltanto per violazione dei parametri della Carta fondamentale[8].
Ciò posto, nei limiti imposti dal commento alla decisione, appare utile prendere le mosse dai principi costantemente affermati dalla giurisprudenza costituzionale quanto all’ammissibilità delle leggi provvedimento.
Secondo l’approccio tradizionalmente seguito dalla Corte, le leggi provvedimento:
- devono considerarsi in linea di principio compatibili con l’assetto dei poteri delineati nella Carta fondamentale non esistendo nella Costituzione una “riserva di amministrazione”, ossia una previsione normativa che attribuisca agli organi amministrativi il potere di adottare atti a contenuto particolare e concreto[9];
- non si sottraggono per ciò solo alla garanzia della tutela giurisdizionale, sebbene siano soggette al regime proprio delle leggi, con la conseguenza che esse non saranno censurabili attraverso i rimedi processuali previsti dall’ordinamento avverso i provvedimenti amministrativi, risultando viceversa sottoposte ad una diversa modalità di tutela che è quella del controllo accentrato di costituzionalità[10];
- lo scrutinio di legittimità costituzionale delle leggi provvedimento deve essere ispirato ad una rigida applicazione dei parametri di ragionevolezza e proporzionalità, desumibile anche dalla carente valutazione degli elementi sui quali la legge provvedimento incide[11].
In effetti nell’affrontare il tema della compatibilità costituzionale delle leggi provvedimento, la prima questione che occorre dipanare è se esita o meno nella Costituzione, una previsione normativa che attribuisca alla sola pubblica amministrazione il potere di adottare atti a contenuto concreto e particolare (rectius provvedimenti amministrativi). Un simile approccio è imposto dalla natura formale dell’atto che viene in rilievo che, in quanto adottato all’esito di un procedimento legislativo, assume la forza formale di legge[12].
Come visto, nella giurisprudenza del giudice delle leggi viene negata l’esistenza nella nostra Costituzione di norme attributive di una riserva, in favore della pubblica amministrazione, della competenza ad adottare atti a contenuto particolare e concreto; secondo tale approccio le pubbliche amministrazioni costituiscono un apparato servente, esecutivo, rispetto alla legge[13].
È l’assenza formale di norme costituzionali alle quali agganciare una simile riserva di amministrazione, a rendere in astratto costituzionalmente compatibili (perché non vietate) leggi in luogo di provvedimenti amministrativi.
La sentenza in commento, sebbene faccia espressamente salvo il tema della riserva di amministrazione (si legge testualmente al punto 7 che la tesi propugnata dalla Corte è elaborata “senza mettere in discussione il tema della riserva di amministrazione nel nostro ordinamento”), finisce in realtà per postularne l’esistenza; o meglio finisce con il ritenere di fatto sussistente una sorta di riserva di procedimento amministrativo (cioè delle garanzie partecipative proprie di esso), nella parte in cui afferma che se una materia è conformata dalla legge come amministrativa, allora ciò implicherebbe la necessità che essa trovi la sua emersione nelle modalità (nelle forme quindi) tipiche dell’azione amministrativa (per l’appunto quelle procedimentali connotate dalla garanzie proprie dell’istruttoria, dal diritto di partecipazione, dall’obbligo di motivazione)[14]. L’illegittimità costituzionale della legge provvedimento, discenderebbe, sotto tale profilo, dalle “mancanze, quali il difetto di partecipazione degli interessati, che non si potrebbero addebitare all’atto legislativo, in quanto fisiologicamente estranee al relativo procedimento”.
Ciò disvela un primo elemento di criticità nell’articolato argomentativo sui cui poggia la decisione della Corte Costituzionale.
La conformazione della materia come amministrativa e il conseguente vincolo di estrinsecazione delle relative manifestazioni volitive pubbliche mediante un procedimento amministrativo, viene inoltre fatta discendere dalla legge e non dalla Costituzione (si tratterebbe quindi di una riserva di matrice legislativa ordinaria, e non costituzionale); un simile argomento non sembra, tuttavia, sufficiente ai fini dell’affermazione della sussistenza di una riserva in favore delle garanzie procedimentali proprie del diritto amministrativo, tale da costituire un limite intrinseco all’esercizio della funzione normativa, in quanto trattandosi di fonti pari ordinate, la successiva legge provvedimento sarebbe destinata – in base alle regole sulla successione delle leggi nel tempo – a superare la scelta originaria (di conformazione amministrativa della materia).
Sotto concorrente profilo, si può rilevare che l’affermazione secondo cui se una materia è amministrativa allora le relative determinazioni volitive dovranno necessariamente estrinsecarsi nelle forme del procedimento amministrativo, è in sé neutrale ai fini che qui rilevano. In altri termini e più chiaramente, ogni manifestazione volitiva pubblica si estrinseca nelle forme procedimentali (la legge, nelle forme del procedimento legislativo; il provvedimento amministrativo, in quelle del procedimento amministrativo; la decisione giurisdizionale, in quelle del processo) e il procedimento amministrativo, o meglio il giusto procedimento, è connaturato all’adozione di provvedimenti amministrativi quale portato, costituzionale, della tutela dei diritti dei singoli[15]; ma ciò non impinge sul tema dell’ammissibilità costituzionale delle leggi provvedimento che passa invece attraverso la soluzione della questione già tratteggiata, concernente la sussistenza o meno in Costituzione di una sfera di attribuzione riservate alla p.a., rispetto alle quali il legislatore non può sostituirsi[16].
La tesi di fondo che sebbene non esplicitata, si annida nella decisione in commento, sembra essere quella secondo cui mentre in sede di azione amministrativa potrebbero trovare una compiuta e corretta emersione gli interessi contrapposti e gli elementi di fatto rilevanti ai fini del decidere, ciò non sarebbe fisiologicamente possibile nel procedimento che conduce all’adozione di atto aventi forma di legge; sebbene le leggi, in quanto provenienti dal Parlamento, siano per definizione frutto del contemperamento di tutti gli interessi in gioco (assicurato tramite il dibattito maggioranza e opposizione) e abbiano intrinsecamente natura di atti rappresentativi degli stessi in quanto promanati dall’organo, nel nostro sistema ordinamentale, a legittimazione democratica diretta.
Se si guarda alla morfologia del procedimento amministrativo, in effetti le modalità partecipative del procedimento amministrativo offrono più garanzie alle parti, di quante non siano assicurate dalla partecipazione al procedimento legislativo: ad esempio, la partecipazione al procedimento coinvolge in teoria tutti gli stakeholders, indipendentemente dalla loro collocazione territoriale (al contrario della territorialità imposta dal principio di rappresentanza).
Occorre però chiedersi se esista un fondamento costituzionale della garanzia del procedimento amministrativo, o meglio del giusto procedimento con tutti i corollari che ne discendono quanto alla partecipazione degli interessati. A tale riguardo, se è vero che il procedimento è la forma/modalità in cui si estrinseca una funzione, allora si torna per definizione al problema preliminare, ossia l’esistenza o meno di una riserva di amministrazione (di funzione amministrativa) che deve estrinsecarsi nelle forme del giusto procedimento.
In dottrina si è già evidenziata la contraddittorietà intrinseca nella giurisprudenza costituzionale che nei suoi più recenti orientamenti, pur mantenendo fermo (come nella specie) il principio dell’inesistenza di una riserva di amministrazione, rileva che dall’art. 97 Cost. discenderebbe la garanzia costituzionale del giusto procedimento amministrativo come limite intrinseco alla funzione legislativa.
A fronte di ciò, una possibile strada, volta però a “sanare” le criticità sul piano pratico derivanti dall’impossibilità di ricondurre a coerenza ed unità i principi emersi in giurisprudenza, sarebbe quella di consolidare la tendenza alla processualizzazione della funzione legislativa onde consentire un recupero delle garanzie (anzitutto democratiche) del “giusto provvedimento” [17].
4. La tutela del diritto (fondamentale) di difesa come grimaldello per l’illegittimità costituzionale delle leggi in sanatoria
Sembra piuttosto doversi indagare la rilevanza di altre disposizioni costituzionali per vagliare la compatibilità con la Carta fondamentale (non in astratto ma) in concreto della legge provvedimento, oggetto di contestazione.
Restando allo stato impregiudicata l’esistenza o meno della riserva di amministrazione, il vero nodo da sciogliere - nel caso oggetto della sentenza in commento -, sembra essere quello afferente alla possibilità che il legislatore interferisca, tramite l’elevazione a legge di un provvedimento amministrativo oggetto di ricorso pendente in sede giurisdizionale amministrativa, sull’esercizio della funzione del giudice.
L’interferenza della funzione legislativa con quella giurisdizionale, è un tema che viene in realtà sfiorato nella decisione in commento e che probabilmente non ha costituito oggetto di valutazione funditus per ragioni legate alle concrete modalità con cui il giudice remittente ha articolato le censure di costituzionalità. Come si è già rilevato la Corte Costituzionale, nel perimetrare l’oggetto della questione di costituzionalità, ha precisato di non poter assumere come parametri gli artt. 6 e 13 della Cedu, in assenza dell’espresso richiamo all’art. 117; occorre però precisare che il Tar in sede di rimessione aveva invece fatto espresso riferimento agli artt. 24, 103 e 113 Cost., deducendo che l’art. 34 bis violerebbe le predette disposizioni “anche in relazione agli artt. 6 e 13 della Cedu incidendo sulla risoluzione di controversie in corso aventi ad oggetto il POS legificato”.
Sebbene la sentenza in commento abbia ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale solo con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., in due passaggi viene dato rilievo al profilo della interferenza dell’esercizio della funzione legislativa con le garanzie giurisdizionali. Si legge nella decisione in commento che:
- “una delle caratteristiche dell’azione amministrativa” è “l’esistenza di un successivo vaglio giurisdizionale; vaglio necessario a maggior ragione in presenza di un’attività amministrativa già svolta e successivamente legificata, in cui una diminuzione di tutela delle situazioni soggettive incise dall’azione amministrativa è in re ipsa ed è nella specie conclamata” [18].
- “la qualificazione da parte del legislatore della materia come tipicamente amministrativa, ha una sua inevitabile proiezione anche sulla fase successiva al varo della disciplina, poiché è destinata a produrre un contenzioso altrettanto specifico, centrato sul rispetto delle regole proprie del procedimento amministrativo e delle relative mancanze. Questo contenzioso a sua volta costituisce il naturale oggetto del vaglio del giudice amministrativo (…)”.
Da una simile premessa la Corte non ha fatto tuttavia discendere l’accertamento della illegittimità costituzionale dell’art. 34 bis per violazione degli artt. 24 e 113 Cost..
A tale riguardo si può rilevare che le peculiarità della legge provvedimento si riflettono nella ricostruzione delle garanzie di tutela giurisdizionale: ed infatti, la sostituzione della legge all’atto amministrativo già adottato, incide sulle tecniche di tutela esperibili dal privato avverso tale determinazione. Secondo la Corte Costituzionale i diritti di difesa del cittadino, in caso di sopravvenuta approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo dei suoi interessi, non verrebbero sacrificati, ma si trasferirebbero dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale[19]. Nel caso tuttavia in cui sia pendente un ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo, il suo assorbimento in una legge finisce con l’incidere con un diritto fondamentale già esercitato, ossia quello di difesa oltre che con la funzione giurisdizionale già in atto. Più specificamente, nel caso che qui interessa (e più in generale in tutti i casi di leggi provvedimento in sanatoria, dirette cioè a sanare in via postuma un provvedimento amministrativo potenzialmente illegittimo oggetto di controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo) la legge provvedimento, sostituendosi ad un provvedimento amministrativo gravato da impugnazione, neutralizza l’azione giurisdizionale già proposta (essa diverrebbe difatti improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse[20]).
L’effetto di disattivazione della tutela giurisdizionale derivante da leggi che assorbono il contenuto di provvedimenti amministrativi impugnati dinanzi al giudice, suscita perplessità quanto alla sua compatibilità con l’art. 24 della Costituzione.
Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale l’emersione della illegittimità costituzionale delle leggi provvedimento in sanatoria passa attraverso una indagine sullo scopo dell’intervento (rispetto al parametro dell’arbitrarietà); osserva la Corte che in casi siffatti “non si ravvisa alcuno straripamento della funzione legislativa in quella giurisdizionale”, “censurabili sono piuttosto quelle leggi in sanatoria il cui unico intento è quello di incidere si uno o più giudicati, non potendo essere consentito al legislatore risolvere direttamente, con la forma di legge, concrete controversie”[21]. Il giudice delle leggi, ha escluso che all'adozione di una determinata disciplina con norme di legge sia necessariamente di ostacolo la circostanza che, in sede giurisdizionale, emerga l'illegittimità dei contenuti di una fonte normativa secondaria o di un atto amministrativo[22]; in altre occasioni, tuttavia, la stessa Corte ha reputato censurabile che il legislatore ordinario, oltre a creare una regola astratta, prenda espressamente in considerazione decisioni passate in giudicato[23], attraverso leggi di sanatoria il cui unico intento sia quello di incidere su uno o più giudicati.
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, essa ha adottato una interpretazione restrittiva degli artt. 24 e 101 ss. della Costituzione, nel senso che soltanto la formazione del giudicato impedirebbe l’adozione di leggi provvedimento[24].
È piuttosto nella giurisprudenza europea che si rinvengono applicazioni più rigorose delle garanzie proprie del diritto di difesa.
In tal senso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto che la pendenza del processo paralizza l’intervento del legislatore[25], in base ad una lettura estensiva dell’art. 6 della Cedu che, tra le sue previsioni, contempla quella secondo cui è preclusa l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia. Alla luce degli articoli 6 e 13 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - che affermano la difesa dei diritti e il diritto al ricorso effettivo – si deve ritenere vietato al legislatore ordinario di intervenire con norme ad hoc per le risoluzioni di controversie che eludano il sindacato giurisdizionale; da ciò si dovrebbe ricavare che la pendenza di un ricorso avente a oggetto un provvedimento amministrativo da approvare con legge non può essere indifferente ai fini del corretto esercizio della funzione legislativa quando ciò comporti un arretramento delle garanzie di tutela giurisdizionale[26].
Anche nella giurisprudenza sovranazionale si afferma che il fondamentale diritto di difesa deve essere garantito in modo indefettibile[27]; in tal senso, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha criticato l’uso dello strumento legislativo in sostituzione di quello amministrativo, quale tentativo di elusione delle regole sostanziali, procedurali e processuali poste a garanzia dei privati incisi da atti amministrativi a contenuto puntuale e concreto[28].
Nella specie, l’art. 34 bis del d.l. 24 aprile 2017, n.50 ha avuto l’effetto di comprimere il diritto di difesa e la tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive incise dal POS. Una lettura degli artt. 24, 103 e 113 Cost. coerente agli approdi della giurisprudenza europea avrebbe potuto condurre all’affermazione dell’esistenza di una garanzia costituzionale di piena accessibilità dei rimedi giurisdizionali e di effettività del diritto di difesa, tale da impedire al legislatore di poter interferire su un processo in corso, risolvendosi una simile interferenza in una lesione del diritto fondamentale di cui all’art. 24 della Costituzione.
[1] Tar Molise, 15.11.2018, n.49.
[2] Cfr., quanto alla astratta compatibilità delle leggi provvedimento con l’assetto dei poteri delineato in Costituzione, Corte Cost. n. 181 del 2019 e n. 85 del 2013,; nonché, ex multis, Id. 181 del 2019; n. 182 del 2017, n. 85 del 2013 e n. 20 del 2012, quanto alla necessità che le leggi provvedimento siano sottoposte ad un rigoroso scrutinio di legittimità.
[3] Si veda Corte Cost. n. 69 del 2018 secondo cui “La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241[…]: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Viene in tal modo garantita, in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.”.
[4] La prima definizione della legge provvedimento risale, come noto, a F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in V.E. Orlando, Primo Trattato di Diritto Amministrativo, Milano, 1907, III, p.94. Si v. anche C. Mortati, Le leggi provvedimento, Milano, 1969; A. Franco, Leggi provvedimento, principi generali dell’ordinamento, principio del giusto procedimento, Giur. Cost., 1989, II, 1056.
[5] Si pensi alle incertezze definitorie e alle diverse accezioni delle c.d. leggi provvedimento, nonché alle variegate posizioni dottrinali e giurisprudenziali quanto alla loro ammissibilità teorica e/o riferita alle singole fattispecie concrete che possono venire in rilievo: a mero titolo esemplificativo, cfr. F. Zammartino, Le leggi provvedimento nella giurisprudenza delle corti nazionali ed europee tra formalismo interpretativo e tutela dei diritti, in Rivista AIC, 4, 2017, 1 ss.; F. Pagano, Legittimo affidamento e attività legislativa nella giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti sovranazionali, in Dir. Pubbl., 2014; G. U. Rescigno, Leggi provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi provvedimento costituzionalmente illegittime, Relazione al 53° Convegno di studi amministrativi di Varenna, 22 settembre 2007, reperibile al sito www.astrid-online.it.
[6] Per una ricostruzione, si v. S. Spuntarelli, L’amministrazione per legge, Torino, 2007.
[7] Sul punto vedi infra.
[8] Gli effetti di una legge che contiene un precetto specifico e determinato possono essere rimossi solo dalla Corte costituzionale, quale “giudice naturale delle leggi”, sicché “a fronte dell’assorbimento del disposto di un atto amministrativo in un provvedimento avente forma e valore di legge, resta preclusa al giudice ogni possibilità di sindacato diretto sull’atto impugnato dinanzi a sé, che si risolverebbe, diversamente opinando, in una sottrazione alla Corte Costituzionale della sua esclusiva competenza nello scrutinio di legittimità degli atti aventi forza di legge”( Cons. Stato, Sez. IV, 20.1.2004, n.1559).
[9] Su tale principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale si v. G. Amato, La Corte questue ed il dissenso, in Gur. Cost., 1975, 55.
[10] Cfr. Corte Cost, n.231 del 2014, secondo cui le leggi provvedimento non determinano una lesione del diritto di difesa del privato che si trasferisce dalla giurisdizione amministrativa a quella costituzionale.
[11] Corte Cost. nn. 63, 248, 306, 347 del 1996.
[12] L’art. 70 della Costituzione recepisce il concetto di legge intesa in senso formale: la legge è tale non perché generale ed astratta (requisiti sostanziali che di regola vengono attribuiti a tale fonte), ma in quanto adottata all’esito del procedimento legislativo conformato dalla Costituzione, con conseguente implicita ammissione delle leggi che disciplinano il caso singolo: in tal senso, si v. A. M. Sandulli, Legge (diritto costituzionale) in riferimento all’art. 79 della Costituzione, in Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963, 630 ss.. G. U. Rescigno, Rinasce la distinzione-opposizione tra legge in senso formale e legge in senso sostanziale?, in Giur. Cost., 1999, 2013 ss..
[13] Cfr. A. Cerri, Principio di legalità, imparzialità, efficienza, in L. Lanfranchi (a cura di), 1997, Roma, 189; M. D’Alberti, La concertazione tra Costituzione e amministrazione, in Quad. Cost., 1999, 3, 493 ss.; V. Ottaviano, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1958, 835 ss..
[14] Si vedano a tale riguardo le riflessioni di A. Cardone, Riserva di amministrazione in materia di piani regionali e divieto di amministrare per legge: le ragioni costituzionali del “giusto procedimento di pianificazione, in Forum Cost., 10 ottobre 2018. L’A. ha rinvenuto una ”tensione insita nella latente contraddizione esistente all’interno della giurisprudenza costituzionale tra l’affermazione della costituzionalità delle leggi-provvedimento per inesistenza di una riserva d’amministrazione e la ricostruzione del principio del “giusto procedimento” in termini serventi rispetto all’attuazione di più principi e norme costituzionali” (pag. 10).
[15] Corte Cost. n.13 del 1963. In dottrina, G. Sala, Potere amministrativo e principi dell’ordinamento, Milano, 1993.
[16] Sull’esistenza di una riserva di amministrazione, in quanto derivante dall’art. 97 Cost., si v. G. Sciullo, Il principio del giusto procedimento fra giudice costituzionale e giudice amministrativo, in Jus, 1986; D. Vaiano, La riserva di funzione amministrativa, Milano, 1996.
[17] A. Cardone, op. cit..
[18] In senso conforme, Corte Cost. n.258 del 2019; Id. n.20 del 2012.
[19] Corte Cost. n.62 del 1993.
[20] Cons. St., Sez. III, 24.4.2018, n.2501.
[21] Corte Cost. n.352 del 2006.
[22] Cfr. Corte Cost. sentenze numeri 211 del 1998 e 263 del 1994; ordinanze numeri 32 del 2008 e n. 352 del 2006.
[23] Corte Cost., n. 374 del 2000.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. Vi, 19.10.2004, n. 3670 secondo cui “seppure non si può negare che l’intervenuta “legificazione” degli atti pianificatori, già impugnati dalla Casa di Cura, sia stata deliberata anche al fine di sottrarli alla cognizione del giudice amministrativo, si deve parimenti riconoscere che la strategia sottesa alla contestata iniziativa legislativa si rivela più articolata e complessa, in quanto l’ente regionale non intendeva soltanto evitare l’annullamento delle delibere impugnate, ma voleva, soprattutto, garantire adeguata stabilità ed offrire, quindi, copertura legislativa alle misure di riforma del servizio sanitario regionale, deliberate al precipuo fine di contenere la relativa spesa e di risanare le finanze regionali: ciò trova conferma nell’inserimento di entrambe le disposizioni succedutesi in corso di causa (art.18 della legge regionale n. 20 del 2002 e art. 35 della legge regionale n.1 del 2004) in leggi aventi ad oggetto l’assestamento e la formazione del bilancio regionale, annuale e pluriennale. Lo scopo dell’intervento legislativo non era pertanto quello di conservare l’efficacia degli interventi strategici deliberati al fine di conseguire il pareggio di bilancio e di risanare il pesante deficit accumulato negli anni precedenti, proprio per effetto di una spesa sanitaria eccessiva e priva di meccanismi di contenimento: si tratta di una scelta politica e di evidente interesse generale (priva di qualsiasi manifesta ed esclusiva volontà di sovrapporsi o contrapporsi all’esercizio della funzione giurisdizionale), non irragionevole e non arbitraria, che solo occasionalmente ha inciso sulla posizione dell’interessata Casa di Cure (impedendole di ottenere la pronuncia giurisdizionale azionata), le cui doglianze al riguardo finiscono per rilevarsi del tutto soggettive, riduttive e parziali: in altri termini, la circostanza che la “legificazione” degli atti generali già impugnati dall’appellante abbia, di fatto, impedito la decisione, nel merito, del ricorso proposto non vale, di per sé, ad integrare la fattispecie di un abuso di potere legislativo, quando, come nel caso di specie, l’intervento legislativo si rivela indirizzato al conseguimento di un fine politico di primaria importanza per la corretta amministrazione della Regione.
[25] Corte Edu, 14.9.2012, Arras c, Italia.
[26] Si vedano in tal senso le considerazioni svolte dal Tar Molise nella citata ordinanza di rimessione.
[27] Tribunale UE IX 15 giugno 2017, n. 262.
[28] Cgue, 30.4.2009, causa c-75/08, Mellor.
Immigrazione, permesso di soggiorno e pandemia .Nota a Trib. Napoli 25 giugno 2020, Pres. Corso est. Correale
di Rita Russo
Sommario: 1. Il permesso di soggiorno e la pandemia - 2. Le clausole generali di sistema e i parametri per il riconoscimento della protezione umanitaria. -3. Il valore della dignità. - 4. Considerazioni conclusive
1. Il permesso di soggiorno e la pandemia
Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25 giugno 2020 n. 23602, riconosce il diritto ad un permesso di soggiorno per motivi umanitari – sulla base della normativa previgente al D.L. n. 113/2018 ratione temporis applicabile – ad un cittadino pakistano, già integrato in Italia, considerando che nel paese di origine la situazione di emergenza sanitaria, data dalla diffusione del COVID-19, non è adeguatamente gestita tramite il servizio sanitario nazionale.
Non si tratta però di una indiscriminata apertura all’accoglienza di coloro che provengono dai paesi ove la pandemia è mal fronteggiata dal servizio pubblico, quanto della valutazione – su base individuale – della posizione di chi è già integrato in Italia da alcuni anni e che, tornando nel paese di origine, troverebbe condizioni talmente peggiorative da mettere a rischio i diritti fondamentali, in particolare il diritto alla salute.
Il Tribunale di Napoli rileva che, secondo COI attendibili[1] tratte da un Report dell’ EASO[2], il sistema sanitario pakistano è sempre più commerciale: hanno avuto grande diffusione le strutture private e a causa di questo orientamento commerciale i servizi sanitari per i poveri sono diventati scarsi. I servizi di assistenza primaria pubblica sono scadenti, specie in zone rurali, atteso che il 65% della popolazione rurale non ha accesso ai servizi e nell’intero Punjab gli ospedali COVID sono soltanto sei. Il richiedente asilo, proveniente appunto da un piccolo villaggio nel Punjab, in Italia è ormai integrato, parla la lingua italiana e ha avuto diversi contratti di lavoro regolari, dal momento che, come richiedente asilo, ha fruito di un permesso di soggiorno temporaneo. Esaminata la situazione del ricorrente, il Tribunale conclude nel senso che il ritorno in patria porrebbe il soggetto in condizioni di estrema vulnerabilità e a serio rischio il diritto del ricorrente alla salute.
Qui però occorre intendersi: dal contesto della motivazione emerge che non è il rischio per la salute – e cioè il rischio di ammalarsi – in sé considerato il fattore decisivo preso in considerazione, quanto il diritto a curarsi appropriatamente e a non essere escluso dalle cure in ragione della condizione sociale ed economica. In altre parole il diritto ad un trattamento dignitoso durante la (probabile) malattia. Si tratta quindi di quel fondamento dei diritti fondamentali che è la dignità umana, autorevolmente definito “il cuore del principio personalista, che, assieme a quello egualitario, sorregge il grande edificio del costituzionalismo contemporaneo[3]”.
Gli elementi caratterizzanti della fattispecie sono il diritto all’accesso alla cure senza discriminazioni fondate sulla condizione economica e sociale, la rilevanza di un già avvenuto radicamento nel territorio italiano, e le conseguenze di un rimpatrio a seguito del rigetto della domanda di protezione internazionale.
I giudici napoletani, individuando una condizione di speciale vulnerabilità del richiedente asilo per il quale è stata in primis esclusa la sussistenza dei presupposti delle due misure di protezione principali, applicano la disciplina della protezione umanitaria come originariamente prevista dall’art. 5 comma 6 del D.lgs. n. 286/1998, il quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno quando ricorressero "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano"; la norma è applicabile alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova normativa[4].
La protezione umanitaria era disegnata, nel quadro normativo previgente al D.L. n. 113/2018, quale misura atipica, espressione del diritto di asilo, e fortemente legata alla tutela dei diritti fondamentali. Una tutela a carattere residuale, posta a chiusura del sistema, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale; i motivi di carattere umanitario per il rilascio del permesso di soggiorno sono comunemente individuati con riferimento alle Convenzioni internazionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, in forza dell'art. 2 Cost.[5].
Nella disciplina abrogata dal D.L. n. 113/2018 i seri motivi umanitari costituivano il titolo per rimanere in Italia, lasciando largo spazio alla discrezionalità del giudice nell’accertare la sussistenza dei presupposti; la disciplina attuale prevede invece una serie di ipotesi nominate di titoli di soggiorno (calamità naturali, valore civile) e il permesso di soggiorno per cure mediche, inteso però nel senso di proteggere "stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi” (attuale art. 19 comma 2 lett. d-bis del D.lgs. n. 286/1998). Il nuovo permesso di soggiorno per cure mediche può quindi essere rilasciato solo se il soggetto si trovi già, all’atto della valutazione della domanda, in gravi condizioni di salute e non soltanto esposto ad un possibile rischio; in ogni caso è finalizzato a consentire al soggetto di praticare la terapia e temporalmente legato alla durata delle cure.
La fattispecie di cui si occupa la sentenza in esame ricade però nella vigenza della precedente normativa e in ogni caso prende in considerazione – come si è detto – più che il diritto alla salute in sé, la condizione di vulnerabilità che deriva dal divario tra le condizioni di vita conseguite in Italia e quelle proprie del paese di origine, applicando il principio enunciato nel 2018 dalla Suprema Corte, secondo il quale il giudice deve operare una valutazione comparativa al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[6]. Questo principio è stato poi confermato e ulteriormente precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, le quali rilevano che nell’individuare i presupposti utili per il riconoscimento della protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l'alimentano. In particolare, osserva la Suprema Corte “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”. Ne consegue che, come già in altre occasioni la Corte ha affermato, l'apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni[7] e che si tratta di una misura che le cui basi normative non sono affatto fragili, ma “a compasso largo” atteso che l'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell'art. 8 della CEDU, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione.
Per il riconoscimento della protezione umanitaria il giudice deve dunque operare una valutazione comparativa tra il grado d'integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale. Non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando isolatamente e astrattamente il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza. Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria[8].
2. Le clausole generali di sistema e i parametri per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Queste affermazioni della Suprema Corte consentono alcune riflessioni.
Il sistema di asilo, per dirsi perfetto, necessita di una “clausola generale di sistema” e cioè di una misura atipica che consenta di non chiudere – arbitrariamente – quel “catalogo aperto” dei diritti umani che l’art. 2 della Costituzione italiana riconosce e protegge. Da qui infatti i plurimi dubbi di costituzionalità sulla riforma operata dal D.L. n. 113/2018, che ha inteso tipizzare le ipotesi di riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno, pur non potendo evitare di lasciare quale clausola aperta (o norma a compasso largo) quella del non respingimento, strettamente legata al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, prescrizione inderogabile tanto nel sistema CEDU che nella comune legislazione europea[9]. Anche la nuova normativa prevede infatti, a chiusura del sistema, un permesso di soggiorno per “protezione speciale” espressione del divieto di refoulement. Significativamente, è questo permesso di soggiorno "per casi speciali" previsto dall'art. 1, comma 9, del D.L. n. 113/2018 che oggi viene rilasciato quando si riconosce, sulla base della normativa previgente, e cioè per le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018, la protezione umanitaria.
Altra considerazione da farsi è che la protezione internazionale – e vale la pena di ribadirlo poiché talora è forte la tentazione di ragionare per stereotipi – è riconosciuta su base personale, salvo che ricorra una situazione di conflitto armato del paese d’origine, nei termini rigorosi descritti dalla CGUE[10], che consenta di prescindere dal riscontro individuale. A maggior ragione ciò vale per la protezione umanitaria, ove si deve operare un giudizio di bilanciamento tra la condizione del soggetto concretamente vissuta in Italia e quella cui andrebbe incontro nel pase di origine. Ciò significa che il cittadino pakistano, la cui storia è stata presentata al Tribunale di Napoli, può ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari, perché il giudizio di comparazione di cui sopra si è detto ha dato un certo risultato, e un altro cittadino pakistano invece può esserne escluso. La diffusone del morbo, officiosamente presa in considerazione dai giudici napoletani esercitando il dovere-potere di cooperazione istruttoria[11], non è di per sé sola sufficiente al riconoscimento della protezione, come non lo è la circostanza che il servizio sanitario pubblico in Pakistan mostri le carenze evidenziate dal rapporto EASO. Questo è il contesto nel quale si inscrive la vicenda individuale del richiedente; in altri casi il contesto può essere uguale ma diversa la vicenda personale e quindi diverso l’esito del giudizio di comparazione.
Inoltre, se è vero che il compito degli uomini di cultura – o che alla cultura cercano di avvicinarsi – è quello di seminare dubbi e non già di raccogliere certezze, sarebbe bene chiederci perché è così importante che alla dignità umana debba corrispondere una misura di protezione atipica.
3.Il valore della dignità
Qui è necessario partire da lontano, tenendo conto che il rispetto della dignità è, nel sistema dato dalle nostre Carte dei valori, una prescrizione inderogabile. E’ stato autorevolmente osservato che l’ordinamento può chiedere in talune circostanze l’esposizione della vita al rischio che vada perduta e può anche, da un certo punto di vista, far “graduatorie” tra vite umane, ma nessuna richiesta può però esser fatta, in alcun caso o modo, che si traduca nel sacrificio della dignità. Ciò in quanto “la vita fisicamente sostiene la dignità ma la dignità sostiene la vita sia eticamente che giuridicamente”[12].
La misura della protezione umanitaria nasce da una lettura evolutiva della tutela dei diritti fondamentali, intesi come diritti universali e quindi dal superamento dell’idea che ogni Stato protegge il suo cittadino e, solo in condizioni eccezionali, il cittadino di un altro Stato. Questa è in verità l’idea di fondo del riconoscimento dello status di rifugiato: lo Stato di rifugio protegge la persona in quanto nel paese di origine essa è perseguitata dai poteri pubblici o da gruppi privati rispetto ai quali lo Stato non può assicurare protezione. Nell’ambito della UE tuttavia questa idea è stata progressivamente sviluppata ed ha avuto un punto di svolta nel 2009 quando è entrato in vigore il trattato di Lisbona, che, rendendo giuridicamente vincolante la precedente Carta dei diritti fondamentali della Unione, ha trasformato le misure in materia di asilo, passando dalla definizione di norme minime alla creazione di un sistema comune che comporta status e procedure uniformi.
I paesi della UE riconoscono invero il diritto di asilo come disegnato dalla Convezione di Ginevra del 1951: non caso l’art. 18 della Carta di Nizza fa esplicito riferimento a detta Convenzione, e l’art. 19 esplicita il divieto di allontanamento, espulsione e estradizione se la persona corre il serio rischio di essere sottoposta a pena di morte, torture e altri trattamenti inumani o degradanti. Ma si è andati ancora oltre. L’art. 78 del TFUE stabilisce che l'Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Il programma di Stoccolma, adottato dal Consiglio europeo il 10 dicembre 2009 per il periodo 2010-2014, ha riaffermato «l'obiettivo di stabilire uno spazio comune di protezione e solidarietà basato su una procedura comune in materia d'asilo e su uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale». L'Agenda europea sulla migrazione, e cioè la Comunicazione del 2015 della Commissione UE, rileva che l’attuale pressione migratoria è caratterizzata da un flusso misto di richiedenti asilo e migranti economici e che gli stereotipi tendenziosi preferiscono spesso guardare solo ai flussi di un determinato tipo, sorvolando sulla complessità intrinseca di un fenomeno che esercita molti e diversi effetti sulla società e che richiede molte e diverse risposte[13].
In Europa si è quindi affermata una idea del trattamento del cittadino di paese terzo basata sui valori fondamentali della UE e cioè la solidarietà e il rispetto della dignità, che è il principio primo della Carta di Nizza. Da ciò discende che il nostro sistema comune di asilo si è sviluppato su linee che ampliano l’idea di fondo della Convenzione di Ginevra del 1951, la cui nascita è storicamente legata all’idea di proteggere il rifugiato politico. L’idea europea – ben più ambiziosa perché incarna il grande sogno dell’Europa unita – è quella di proteggere l’Uomo e la sua dignità. Il sistema europeo comune di asilo è stato concepito in un contesto che presuppone che tutti gli Stati partecipanti rispettino i diritti fondamentali, compresi i diritti che trovano fondamento nella Convenzione di Ginevra, nonché nella CEDU, e che gli Stati membri possano fidarsi reciprocamente a tale riguardo.
Per quanto riguarda il nostro paese, la scelta di garantire una terza forma di tutela complementare alle due protezioni maggiori ha trovato una specifica legittimazione nella direttiva n. 2008/115/CE la quale stabilisce (art. 6, paragrafo 4) che "In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio".
Scelta apparentemente rinnegata dal legislatore del 2018, che però pur nel dichiarato sforzo di tipizzazione, e pur nella formale abrogazione della protezione umanitaria, non ha potuto fare a meno di introdurre ipotesi di permessi di soggiorno ulteriori e diversi da quelli conseguenti al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria e in ogni caso ha dovuto rispettare il principio di non refoulement riconoscendo il diritto ad un permesso di soggiorno “speciale” per i casi in cui non si può respingere o rimpatriare la persona che andrebbe incontro a un trattamento inumano e degradante. Ancora una volta quindi viene in rilievo la dignità umana e la necessità di evitare che essa venga offesa.
4. Considerazioni conclusive
Rese queste premesse, non sorprende che anche la Corte di giustizia dell’UE si sia soffermata sul rapporto tra dignità e diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (proibizione di tortura e trattamenti inumani e degradanti) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) che raggiungono livelli di gravità tali da integrare un trattamento degradante. Ciò in quanto si superi, però, una certa «soglia» di gravità delle carenze[14]. Nella fattispecie si trattava di migranti che contestavano il rinvio rispettivamente verso l’Italia e la Bulgaria, da loro ritenuti paesi con gravi carenze sistemiche nelle procedure per il riconoscimento dell’asilo e nell’accoglienza. Secondo la Corte, è possibile che in concreto si abbia tale livello di gravità quando “una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si verrebbe a trovare, a prescindere dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consentirebbe di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudicherebbe la sua salute fisica o psichica o che la porrebbe in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana”.
La sentenza è interessante perché fornisce alcun elementi utili per definire il concetto di dignità cui è specularmente legato quello di trattamento inumano e degradante. La dignità ha infatti una dimensione per così dire soggettiva e in ciò si riassume quel principio personalistico che informa il nostro ordinamento, ma anche una dimensione sociale e relazionale e così si declina nella concreta tutela del diritto alla salute, al lavoro, alla libertà personale, pur nella difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice[15]”. Ai fini che qui ci interessano, la sentenza della CGUE è utile per intenderci su cosa debba accertare il giudice quando verifica se la dignità umana potrebbe essere posta a rischio in caso di rimpatrio: non è infatti semplice definire il concetto di speciale (o grave) vulnerabilità della persona, cui fa riferimento anche il Tribunale di Napoli nella sentenza in esame.
Nei casi esaminati dalla CGUE si è giunti al punto di ritenere possibile che anche all’interno della stessa UE possano darsi gravi carenze sistemiche idonee ad incidere sulla dignità umana, ma non in termini generalizzati, bensì considerando le condizioni dei soggetti “totalmente dipendenti dalla assistenza pubblica”. Questa idea, che sottolinea la rilevanza della personale condizione di vulnerabilità determinata non solo dalle condizione soggettive ma anche dal contesto sociale in cui la persona si trova o potrebbe trovarsi, è ripresa dalla nostra Corte di legittimità, in tema di giudizio di comparazione ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria: si è infatti affermato che tanto più risulti accertata in giudizio una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri – predicati con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia – rappresentati dalla privazione della titolarità dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale[16].
Questo forte richiamo alla dignità ci potrebbe anche portare alla conclusione che il divieto di respingimento, in quanto legato alla protezione non solo dalla pena di morte ma anche dal trattamento inumano e degradante, tende a sovrapporsi all’area protetta dalla (previgente) protezione umanitaria; lo è almeno nella parte in cui entrambe rappresentano clausole generale di sistema, norme a “compasso largo”, sicché sotto questo profilo nuova e vecchia disciplina delle misure di protezione residuali, (prima e dopo il D.L. 113/2018) sono forse meno distanti di quanto sembra.
[1] L’art.3 del D.lgs. 251/2007 e gli artt. 8 e 27 comma 1 bis dal D.lgs. 25/2008, attuative delle Direttive 2005/85/CE (direttiva procedure) 2004/83/CE (direttiva qualifiche) impongono al giudice di esaminare la domanda, su base individuale, alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine (Country of origin information in acronimo COI) dei richiedenti asilo elaborate sulla base dei dati forniti dall'UNHCR, dall'EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale.
[2] European asylum support office, agenzia dell’UE che opera come centro specializzato in materia di asilo e contribuisce allo sviluppo del sistema europeo comune di asilo agevolando, coordinando e rafforzando la collaborazione pratica tra gli Stati membri.
[3] SILVESTRI Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in Rivista AIC, marzo 2008. Sul rapporto tra dignità e diritti fondamentali si veda anche RUGGERI, La dignità dell’Uomo ed il diritto di avere diritti in Consulta on line, giugno 2018
[4] Cass. sez. un. 13 novembre 2019, n.2945
[5] Cass. civ. sez. un. 9 settembre 2009, n.19393
[6] Cass. civ. 23 febbraio 2018 n. 4455
[7] Cass. civ. 15 maggio 2019 nn. 13079 e 13096
[8] Cass. 4455/2018 cit; Cass. sez. un. 2945/2019 cit.; v. anche Cass. 19 aprile 2019 n. 11110, Cass. 28 giugno 2018 n. 17072, Cass. 3 aprile 2019 n. 9304
[9] Sul punto sia consentito il rinvio, anche per riferimenti bibliografici, a RUSSO, I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti in questa Rivista, gennaio 2020
[10] La CGUE nei casi Elgafaji (17 gennaio 2009) e Diakitè (30 gennaio 2014) ha delimitato in modo rigoroso le ipotesi in cui si può prescindere dal riscontro individuale sul rischio di danno grave e cioè qualora si abbia un livello di violenza indiscriminata derivante dal conflitto, tale che la persona è esposta a rischio per la sola presenza nel paese.
[11] Sul punto v. FLAMINI, L’emergenza sanitaria da Covid-19 nel paese d’origine integra uno dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria? in Questione Giustizia, luglio 2020
[12]RUGGERI Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in Rivista AIC 1/2011
[13]Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Agenda sulla migrazione, 13.5.2015, in https://eur-lex.europa.eu
[14] CGUE, sent. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre.
[15] CONTI, Scelte di vita o di morte. Il giudice è garante della dignità umana? 57, Roma 2019
[16] Cass. civ., 12 maggio 2020, n.8819
Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio dall’ineffettività della tutela (Nota a Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato - 3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM - 4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza.
1. Premessa
In un momento particolarmente delicato per l’organo di autogoverno della magistratura, come per la magistratura tutta, leggere la sentenza che si annota fa venire alla mente l’osservazione fatta sul Conseil d’État francese da un importante etnografo che ha avuto il privilegio di assistere per un certo numero di mesi alle riunioni dell’organo: «Se cedono di un pollice, l’amministrazione, un po' alla volta, eroderà il loro potere; se fanno infuriare troppo l’amministrazione, essa li ignorerà o li accerchierà»[1]. Del resto, più di recente, anche per l’Italia si è messa in luce la delicata «tripolarità» giudice-legislatore-esecutivo e il ruolo strategico svolto dal nostro Consiglio di Stato[2].
La controversa questione del sindacato sugli atti volti al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi da parte del CSM riflette alla perfezione tali tensioni, ponendosi al crocevia di principi fondamentali quali la legalità e l’effettività della tutela da un lato, la separazione dei poteri dell’altro.
Non è in questione l’an del sindacato giurisdizionale ma il quomodo[3]. Le delibere del CSM, infatti, non si sottraggono al sindacato di legittimità, ai sensi dell’art. 17 l. n. 195/195, nonché a quello di merito, nell’ambito del giudizio di ottemperanza.
La Corte costituzionale ha confermato la legittimità di entrambe le scelte.
Ha ritenuto, infatti, attuazione dell’art. 24 Cost. l’impugnabilità anche degli atti di un organo di garanzia quale il CSM[4], e ha quindi ammesso l’esperibilità del giudizio di ottemperanza delle sentenze di annullamento delle deliberazioni consiliari nell’ambito di un conflitto di attribuzioni proposto dall’organo di autogoverno[5], poiché le competenze che discendono dall’art. 105 Cost. non possono comportare franchigie dell’attività di detto organo dal sindacato giurisdizionale, sia per il principio di legalità dell’azione amministrativa (artt. 97, 98 e 28 Cost.) che per il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 101, 103 e 113 Cost.).
Nonostante i dubbi che in passato sono stati avanzati sull’indipendenza dell’organo giurisdizionale e sull’opportunità che fosse a questo devoluto tale tipo di contenzioso (giudicandosi inopportuno il controllo del giudice amministrativo in ragione della nomina governativa di una parte dei membri del Consiglio di Stato[6]), quest’ultimo ha invece dimostrato – una volta di più – di poter ben svolgere tale delicato ruolo, confermando l’idea secondo cui in un moderno Stato di diritto non vi sono organi sottratti a forme di controllo di natura politica o giuridica, compresi gli organi posti al vertice dello Stato, che si controllano reciprocamente per assicurare l’equilibrio tra i poteri[7].
2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato
La vicenda, nel confermare tali assunti di base, riflette un contenzioso piuttosto comune e diffuso in materia, e può essere compendiata nel modo che segue.
Il CSM decide di conferire l’ufficio direttivo superiore di Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione a D.C., magistrato ordinario di settima valutazione di professionalità, preferendo questi a P.D., Presidente Aggiunto della Corte di cassazione. P.D. impugna tale determinazione al Tar Lazio, giudice di primo grado funzionalmente competente ex art. 135 c.p.a., che respinge il ricorso ritenendo che nei casi in questione sia sufficiente l’utilizzo di formule sintetiche, che facciano emergere gli snodi fondanti del giudizio di prevalenza. Il giudice d’appello, dopo aver premesso il principio consolidato secondo cui in materia il CSM è titolare di ampia discrezionalità, il cui contenuto resta estraneo al sindacato di legittimità del giudice amministrativo salvo che per irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione[8], effettua un (apparente) “scarto” argomentativo di notevole peso e richiede un «particolare obbligo di motivazione» per l’importanza del posto in concorso, gli eccellenti profili dei candidati e la rilevanza dei loro curricula. In buona sostanza: «quanto maggiore è il rilievo istituzionale dell’incarico messo a concorso, tanto più pregante, puntuale, approfondita e precisa dev’essere la motivazione a supporto del provvedimento di nomina».
In tal modo si perviene a ribaltare la sentenza di primo grado, palesandosi un vizio di motivazione sul profilo professionale di P.D., anche in relazione ai criteri generali di autovincolo[9] che il CSM si è dato nel 2015 con riferimento alla dirigenza giudiziaria (circolare del 28 luglio 2015 del CSM). Ciò avviene essenzialmente su due fronti: i) con riguardo alle attitudini di P.D. derivanti dalla partecipazione alle Sezioni Unite penali (dunque alle funzione nomofilattica cd. “rafforzata”), alle quali si è attribuito un peso minore rispetto all’incarico di D.C. di vice direttore dell’Ufficio del Massimario, ufficio che ha solo una funzione strumentale di studio e informazione; ii) con riguardo all’improprio peso dato dal CSM allo svolgimento di pur rilevanti incarichi istituzionali fuori ruolo di D.C.
3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM
Lungi dall’effettuare in questa sede un approfondimento sulla natura giuridica degli atti di conferimento degli uffici direttivi e semidirettivi[10], ci si limita ad osservare che comunemente essi si ritengono atti di alta amministrazione; del resto, lo stesso CSM è stato definito quale organo di alta amministrazione, o quale organo costituzionale chiamato ad esercitare funzioni amministrative e, in alcuni casi, di alta amministrazione.
D’altra parte, venendo immediatamente al fronte caldo del sindacato, anche il richiamo fatto in limine dal Consiglio di Stato all’ampia discrezionalità di tali atti pare evocare la perplessa categoria dell’atto di alta amministrazione[11]. Senonché, anche in passato il giudice amministrativo non si è sottratto ad un controllo assai penetrante nei confronti delle delibere del CSM, controllo tanto più approfondito quanto più precisi si sono rivelati i criteri elaborati dal Consiglio nell’esercizio della sua funzione paranormativa, la quale ha limitato grandemente quell’alta discrezionalità a cui il giudice amministrativo ha più volte fatto cenno nelle sue pronunce.
Per questa ragione c’è chi ha dubitato che la categoria della discrezionalità sia appropriata con riferimento all’attività del CSM di scelta dei capi degli uffici giudiziari e che il sindacato del giudice amministrativo sulle nomine sia, al di là delle formule tralaticie, un effettivo sindacato sulla discrezionalità[12]. In questo senso, poiché il criterio scelto per il conferimento dell’incarico è meritocratico e non fiduciario (v. T.U. sulla dirigenza giudiziaria del 28 luglio 2015), allora la scelta deve avvenire mediante valutazione comparativa, con criteri predeterminati, finalizzati a pervenire alla selezione del migliore con scarsi margini di opinabilità, che comunque compendiano non già una scelta di opportunità o merito amministrativo, ma un’attività di giudizio comparativo.
Anche qui si apre, come nel borgesiano giardino, una serie infinita di sentieri che si biforcano, per tutti quello che ci porta al tema sconfinato del sindacato sulla discrezionalità. Ci limitiamo a chiosare come, se è ben noto che la nostra dottrina discuta dell’esistenza di atti vincolati, sicché non vi sarebbe nulla di strano nel qualificare tutti gli atti amministrativi come discrezionali, tuttavia, altro è ritenere che tutti i provvedimenti contengano un margine di scelta ed altro è considerare i contenuti di questa scelta sempre ed invariabilmente non sindacabili da parte del giudice se non per ragione di errori macroscopici[13]. Sul punto, basti ricordare come, in materia antitrust, nel recente caso La Roche-Novartis il Consiglio di Stato ha introdotto il criterio di scrutinio della «maggiore attendibilità» (in luogo del precedente sindacato basato sulla semplice attendibilità) in relazione ai provvedimenti dell’Autorità che comportano la decifrazione dei c.d. concetti giuridici indeterminati e l’applicazione regole derivanti da scienze tecniche opinabili[14].
Non serve tuttavia indugiare su tali questioni di ordine generale.
Il sindacato sul vizio di motivazione, nel nostro caso, ha consentito e consente al giudice amministrativo un importante controllo sulle decisioni del CSM, dimostrando, una volta di più, come la motivazione del provvedimento sia «presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile…»[15], contro ogni tendenza che ne predica la dequotazione, magari evocando l’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990[16].
La stessa giurisprudenza delle Sezioni unite, nel definire il confine del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM in materia di incarichi direttivi, sembra muoversi sul crinale del distinguo tra sindacato sui criteri e sindacato sul modo in cui i criteri sono applicati in concreto: «per non eccedere dai limiti della propria giurisdizione il giudice amministrativo, chiamato a vagliare la legittimità di una deliberazione con cui il CSM ha conferito un incarico direttivo, deve astenersi dal censurare i criteri di valutazione adottati dall'amministrazione e la scelta degli elementi ai quali la stessa amministrazione ha inteso dare peso, ma può annullare tale deliberazione per vizio di eccesso di potere, desunto dall'insufficienza o dalla contraddittorietà logica della motivazione in base alla quale il CSM ha dato conto del modo in cui, nel caso concreto, gli stessi criteri da esso enunciati sono stati applicati per soppesare la posizione di contrapposti candidati»[17].
Anche per queste ragioni, la scelta parlamentare di non convertire in parte qua il d.l. n. 90/2014 che limitava il sindacato di tali atti all’eccesso di potere “manifesto” appare certamente condivisibile, nella misura in cui ha evitato una probabile declaratoria di incostituzionalità della norma per contrasto con il chiaro disposto dell’art. 113, co. 2, Cost.[18]
4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza
Nel caso di specie, peraltro, non ha avuto modo di porsi il vero problema che negli anni ha riguardato tali vicende: il vincolo conformativo del giudicato di annullamento per difetto di motivazione.
Difatti l’appellato, D.C., è stato recentemente collocato a riposo per limiti di età, circostanza che gli è di ostacolo al partecipare utilmente al rinnovando giudizio comparativo circa l’accertato vizio di motivazione, che, come puntualizzato dal Consiglio di Stato, comporta l’obbligo di riprovvedere tenendo conto degli specifici motivi che hanno determinato l’annullamento, ferma restando la piena (ed esclusiva) discrezionalità delle valutazioni di merito sulla prevalenza di un candidato rispetto agli altri.
In buona sostanza ciò non è nel nostro caso possibile, almeno con riguardo all’appellato, in capo al quale vengono conservati gli effetti medio tempore prodotti dagli atti impugnati, tra cui quelli sul trattamento economico percepito e sulla quantificazione dei provvedimenti accessori o consequenziali, richiamandosi il principio discendente dall’art. 2126 c.c. e la giurisprudenza – per vero perplessa e discutibile – sulla modulabilità dell’efficacia temporale delle sentenze di annullamento del giudice amministrativo.
Al netto di tale riferimento, la vicenda concreta esclude la configurabilità di quello che, negli ultimi anni, è stato il vero “capo delle tempeste”, non solo strettamente giuridico, ovvero il tema dell’ottemperanza da parte del CSM di tali sentenze di annullamento.
Da un lato sul punto si è osservato che da un giudicato di annullamento per difetto di motivazione «deriva l’obbligo per l’amministrazione di rinnovare il potere esercitato in modo illegittimo, ora deprivato delle ragioni invalidanti, e cioè attraverso una motivazione che risulti adeguata e sufficiente rispetto ai presupposti sostanziali che erano stati presi in valutazione. Nel rinnovare il giudizio, l’Amministrazione deve sottrarsi al sospetto di elusione mediante la ricerca di un’addizione motivazionale sostitutiva, da applicare a una decisione sostanziale che resta in realtà già preacquisita: addizione semplicemente surrogatoria di quella precedente dichiarata illegittima e dunque venuta meno. Con ciò obliterando che – specie dopo l’innovazione dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, che ha elevato il vizio di motivazione a violazione di legge, vale a dire a difetto di un elemento strutturale del provvedimento – la motivazione compone una caratteristica fondativa e intrinseca dell’atto, perché esterna il plausibile ragionamento che ha mosso e condotto l’amministrazione alla scelta: e con cui l’amministrazione esprime, a giustificazione e trasparenza del proprio operato, la scelta fatta che incide sui destinatari della sua azione. Questo significa che non è legittimo, nel caso di intervenuto annullamento giurisdizionale per un vizio di motivazione, semplicemente sostituire una motivazione con un’altra del tutto nuova che, in surroga dell’illegittima, automaticamente conduca al medesimo risultato pratico, quasi si tratti di elementi estrinseci e aggiuntivi all’atto, fungibili o intercambiabili. Al contrario, occorre ripercorrere l’intero ragionamento alla base delle valutazioni già fatte, espungendone quanto accertato illegittimo e valutando quanto residua di ciò che era stato acquisito: che è ciò di cui l’amministrazione era adeguatamente a conoscenza e responsabilmente stimava rilevante al momento delle sue determinazioni. Vero è che l’annullamento giurisdizionale cassa l’atto illegittimo: ma ciò avviene per specifiche e circoscritte ragioni di accertata illegittimità, che verrebbero vanificate se all’amministrazione fosse dato – come fosse stata introdotta una tabula rasa - di dismettere la considerazione della rilevanza da essa già responsabilmente data agli altri, non illegittimi, elementi che aveva assunto da ponderare ai fini decisori, per sostituirli con altri e nuovi elementi, dando luogo ad una banalizzazione, potenzialmente ad infinitum, del vizio di motivazione definitivamente accertato in giustizia»[19].
D’altro canto, come noto, con una molto discutibile sentenza, si è ritenuto che in sede di ottemperanza a un giudicato di annullamento di incarico direttivo, il giudice amministrativo non possa ordinare al CSM di provvedere alla nomina “ora per allora” essendovi la impossibilità fattuale che il nominato prendesse servizio[20]. In quel caso le Sezioni unite ritennero esservi una particolare ipotesi di travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione allorché il giudice amministrativo conformi l’agire della pubblica amministrazione in un contenuto «impossibile» essendo la vicenda ormai «chiusa» con il definitivo accertamento dell'illegittimità del provvedimento annullato in sede di cognizione e non sussistendo più le condizioni perché la pubblica amministrazione possa provvedere ancora sicché la tutela dell'interesse legittimo violato, non più realizzabile nella forma (specifica) dell'ottemperanza, è indirizzata verso quella compensativa e risarcitoria.
Tale decisione, comunque, appare oggi nettamente smentita dalla rigorosa, e condivisibile, presa di posizione di Corte cost., n. 6/2018, in tema di ambito dei limiti “interni” ed “esterni” della giurisdizione, ed inoltre, nel merito, si pone in contrasto con la giurisprudenza maggioritaria che riconosce ampi margini di persistenza dell’interesse, morale e/o risarcitorio, nonostante il sopravvenuto pensionamento del ricorrente.
Il caso in esame è comunque inverso, posto che il collocamento a riposo ha riguardato l’appellato e non già l’appellante.
Sicché il problema non si pone.
Questo non significa che, quanto all’ottemperanza, non restino aperte delle importanti questioni. Si è già detto della mancata conversione del d.l. n. 90/2014 in punto di sindacato sull’eccesso di potere “manifesto”. Si deve qui rammentare, però, che la l. n. 114/2014 ha introdotto delle modifiche all’art. 17, co. 2, l. n. 195/1958, determinando un notevole temperamento dei poteri del giudice dell’ottemperanza in relazione ai provvedimenti di conferimento ai magistrati ordinari degli uffici direttivi e semidirettivi.
In particolare, si stabilisce che il giudice amministrativo, nel caso di azione di ottemperanza, qualora sia accolto il ricorso, ordina l’ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lett. a) e c) dell’art. 114, c. 4, c.p.a. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. a), c.p.a., implica che il giudice amministrativo, nell’ordinare l’ottemperanza, non possa esercitare il potere direttamente sostitutivo con la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. c), specifico per le sentenze non passate in giudicato, implica che il giudice non possa determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano.
Si tratta di disposizioni di dubbia costituzionalità, sia sotto il profilo della parità di trattamento che del buon andamento dell’amministrazione, che non tengono conto della sopra riportata evoluzione della giurisprudenza costituzionale, la quale non si è limitata (già nel lontano 1968) a ritenere conforme a Costituzione l’impugnabilità degli atti del CSM, ma si è più di recente spinta ad affermare che gli organi di rilevanza costituzionale, al pari di ogni altro soggetto di diritto, sono tenuti al rispetto della legge e che i principi di legalità dell’azione amministrativa e di effettività della tutela giurisdizionale «comportano esplicitamente l’assoggettamento dell’amministrazione medesima a tutti i vincoli posti dagli organi legittimati a creare diritto, fra i quali, evidentemente, gli organi giurisdizionali»[21].
In conclusione la sentenza commentata dimostra come il giudice amministrativo abbia in materia raggiunto un equilibrato dosaggio fra esigenze in parte collidenti, spingendo avanti il proprio sindacato e nel contempo rispettando l’autonomia dell’organo di autogoverno. Nel contempo poco dice, per ragioni banalmente legate alle peculiarità e allo stato del contenzioso, sui persistenti problemi – teorici e normativi – relativi all’ottemperanza delle statuizioni di annullamento dei conferimenti di incarichi del CSM.
Partita tuttora aperta, quest’ultima, che si gioca sul delicato crinale della teoria generale del processo, toccando l’effetto conformativo in caso di sentenza di annullamento sulla motivazione del giudizio di comparazione, e del diritto positivo, con riguardo alla costituzionalità dell’attuale portata della limitata applicabilità in materia dell’art. 114 c.p.a.
[1] B. Latour, La fabbrica del diritto. Etnografia del Consiglio di Stato, trad. it., Troina, 2007, 45.
[2] S. Cassese, Il contributo dei giudici allo sviluppo del diritto amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2020, 342.
[3] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.giustizia-amministrativa.it, 9 novembre 2019, 3.
[4] Corte cost., n. 44/1968.
[5] Corte cost., n. 435/1995.
[6] Cfr. F. Cuocolo, Ancora sulla sindacabilità delle deliberazioni del C.S.M., in Giur. Cost., 1968, 681 ss.; U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ibidem, 690 ss.
[7] G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Id., Lo Stato senza Principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005, 88 ss.
[8] Tra i tanti precedenti richiamati v. Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 2020, n. 192.
[9] Sul rilievo dell’autovincolo dell’amministrazione per l’ampliamento del sindacato del giudice, in dottrina v. A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997; in giurisprudenza v. Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321.
[10] Tema sul quale può utilmente rinviarsi a F.F. Pagano, Il sindacato giurisdizionale sulle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura di conferimento degli uffici direttivi alla luce delle recenti modifiche normative, in www.federalismi.it, n. 2/2016.
[11] Cfr. V. Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra «atti politici» e atti di «alta amministrazione», in Dir. pubbl., 2009, 123 ss.
[12] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, cit., 4.
[13] Per tale ragionamento v. L.R. Perfetti, Cerbero e la focaccia al miele, in pubblicazione sulla rivista Il processo; in chiave monografica B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013.
[14] Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[15] Corte cost., ord. N. 92/2015.
[16] Sia consentito il rinvio a G. Tropea, Motivazione e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.
[17] Cass., sez. un., 8 marzo 2012 n. 3622; Id., 5 ottobre 2015 n. 19787.
[18] Per casistica in merito v. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, spec. 95 ss.
[19] Cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 2019 n. 108.
[20] Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302, in Dir. proc. amm., 2012, 127 ss., con nota critica di G. Mari.
[21] Corte cost., 15 settembre 1995 n. 435; Id., 8 settembre 1995 n. 419.
Esternalizzazione della frontiera e finanziamento degli accordi con la “Libia” contro i diritti fondamentali dell’Uomo
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. La politica di esternalizzazione della frontiera nel Mediterraneo tra Stati e Unione europea - 2. Gli accordi dell’Italia con la “Libia” e le missioni militari per assistere la Guardia costiera “libica” - 3. Il voto del Parlamento sul finanziamento della missione italiana in “Libia” - 4. Gli accordi tra Italia e “Libia” davanti alla giurisdizione interna - 5. L’invenzione della zona SAR ( Search and Rescue) “libica” e la delega delle operazioni di respingimento collettivo - 6. Riconoscimento dei diritti fondamentali della persona migrante o crimini contro l’umanità ? Le indagini della Corte Penale internazionale - 7. Conclusioni.
1. La politica di esternalizzazione della frontiera nel Mediterraneo tra Stati e Unione europea
In tempi in cui la pandemia da Covid-19 ha ridefinito il concetto di frontiera e di mobilità umana su scala globale si continua a ragionare, ed a praticare scelte politiche e giuridiche, come se non fosse cambiato nulla, come se le attività di controllo o di limitazione della libertà personale e di circolazione, le prassi di respingimento, o di espulsione, fossero praticabili con le stesse modalità adottate negli anni passati. La collaborazione con i paesi terzi rimane ancora basata sul contrasto dell’immigrazione irregolare, che altri definiscono ancora come “clandestina”, piuttosto che sulla riduzione di quel divario sempre più ampio tra paesi ricchi e paesi poveri, sul sostegno nelle campagne sanitarie, sulla lotta alla corruzione e sul ripristino di condizioni minime di rispetto dei diritti umani. Sarebbe il tempo per un riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali delle persone, ma sembra invece che la cd. “ripartenza”, dopo il lockdown imposto dal COVID-19, sia caratterizzata da un accresciuto disvalore della vita e della dignità di chi è costretto a mettersi in viaggio senza avere risorse e documenti regolari. Persone, esseri umani come noi, ma ai quali si appiccica addosso anche l’etichetta di untori, da respingere a qualunque costo, anche a costo di vederli galleggiare per giorni in balia delle onde.
Gli eventi di soccorso in mare, normati dalle Convenzioni internazionali, come la Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il soccorso in mare (SAR), tendono ad essere considerati come “eventi migratori”[1], così si legge in un recente comunicato della Centrale operativa della guardia costiera italiana (IMRCC). Le finalità di difesa dei confini nazionali sembrano prevalere sulla salvaguardia della vita umana in mare e della dignità della persona, ovunque essa si trovi e qualunque sia il suo stato giuridico. Per rendere esplicito questo capovolgimento di prospettiva, relativamente recente, se si pensa alle missioni di soccorso in acque internazionali seguite alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 tra Lampedusa e Malta, si fa ricorso alla esternalizzazione delle frontiere, definizione riassuntiva che rappresenta il coinvolgimento degli stati terzi (rispetto all’Unione Europea) nelle attività di blocco e di respingimento dei migranti che cercano di raggiungere le frontiere europee. Si tratta di politiche migratorie che sono state ampiamente collaudate nel tempo, nel Mediterraneo centrale a partire dai Protocolli operativi stipulati tra Italia e Libia nel dicembre del 2007 (governo Prodi), poi recepiti dal Trattato di amicizia concluso da Berlusconi con Gheddafi nel 2008, seguiti dagli accordi stipulati con la Libia da Maroni nel 2009, e poi da altri governi nel 2011, nel 2012 e infine dal governo Renzi nel 2017 con il Memorandum d’intesa tra l’Italia e il governo di Tripoli. Ancora lo scorso anno il Parlamento nazionale su proposta del governo rinnovava per un ulteriore triennio gli accordi contenuti nel Memorandum d’intesa firmato nel 2017.
Mentre l’Unione Europea ha gestito (e finanziato) in modo unitario, seppure sempre a livello di cooperazione intergovernativa, l’accordo con Erdogan concluso nel 2016 per “chiudere” la rotta balcanica e sigillare i passaggi verso la Grecia, con gli effetti che tutti oggi potrebbero verificare, se solo avessero la voglia di informarsi, con Malta, Italia e Spagna si è preferito lasciare l’iniziativa ai singoli stati, arrivando semmai a finanziare una parte degli accordi bilaterali contro l’immigrazione irregolare, soprattutto sotto il profilo delle missioni aeree di tracciamento delle imbarcazioni che trasportano migranti, e poi per le procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato, procedure che oggi risultano assai rallentate proprio per effetto della pandemia, che colpisce in modo ancora virulento molti dei paesi di origine dei migranti, come ad esempio il Bangladesh.
2. Gli accordi dell’Italia con la “Libia” e le missioni militari per assistere la Guardia costiera “libica”
Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare [2] cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione con la sentenza n. 112, 16 gennaio 2020 [3], “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività SAR, o attendere dopo i primi soccorsi l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi, come in diverse occasioni è stato affermato dal ministro dell’interno Lamorgese [4].
Ritenere che la Libia possa costituire un “luogo sicuro”, e che questa circostanza possa essere percepita dai migranti già prima dell’imbarco, o ancora in caso di respingimento o di ritorno su mezzi della sedicente Guardia costiera libica, contrasta ancora oggi, come contrastava già nel 2018, con la realtà dei fatti e con il combinato disposto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Eppure, nelle dichiarazioni dei principali rappresentanti dell’attuale governo, malgrado i propositi di discontinuità proclamati al momento dell’insediamento, come ripete il ministro dell’interno Lamorgese, si continua poi ad invocare la solidarietà concreta dell’Europa ed un meccanismo di ricollocamento obbligatorio dei migranti che sbarcano. “Abbiamo inviato a Bruxelles – afferma la ministro dell’interno – idee e proposte con l’obiettivo di superare il principio di responsabilità” del Paese di primo approdo e promuovere regole per gli Stati bandiera cui dovrebbero attenersi le navi private”. Come ricorda l’ANSA, per Lamorgese, “la scommessa, riguardo quest’ultimo punto, è varare una sorta di Codice per le ong: le navi dovranno avere dotazioni adeguate ed equipaggi formati, gli interventi devono essere coordinati dal Centro marittimo competente, nel caso anche quello libico; gli Stati di bandiera dovranno indicare il porto sicuro ed impegnarsi ad accogliere i migranti che sbarcano in un altri Paesi”[5].
Tanta attenzione nei confronti delle navi delle Organizzazioni non governative, ormai bloccate, se non allontanate dal Mediterraneo centrale con il ricorso alla pratica dei fermi amministrativi disposti dalle Capitanerie di porto dopo ispezioni tecniche particolarmente “mirate”, non ha trovato riscontri dall’Unione Europea e non è valsa però a ridurre le partenze dalla Libia, e dalla vicina Tunisia, nella quale si sono probabilmente trasferiti anche trafficanti provenienti dalla Libia. Sono sempre più numerosi i cosiddetti “sbarchi autonomi”, sulle coste di Lampedusa o della Sicilia meridionale. Come si ripetono episodi di abbandono in mare, in acque internazionali, come quello verificatosi in occasione della “strage di Pasquetta” il 13 aprile 2020, sulla quale è stato depositato un esposto presso la Procura di Roma [6].
Si è intanto intensificata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, tanto da parte delle autorità maltesi, che da parte delle autorità italiane, che hanno inviato dal 2018, nel quadro della missione NAURAS, una nave della Marina militare nel porto militare di Tripoli ( Abu Sittah) con compiti di assistenza tecnica, formazione del personale e coordinamento operativo. Questa missione, che si inserisce nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro,[7] ha visto l’avvicendamento delle unità Caprera e Gorgona, e non è stata ritirata da Tripoli neppure nei giorni nei quali i bombardamenti lambivano il porto ed alla periferia della città infuriava la battaglia tra le milizie fedeli al premier riconosciuto dalla comunità internazionale Serraj ed il Libyan National Army (LNA) del generale Haftar, sostenuto da egiziani e russi.
Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso alla Convenzione di Amburgo che costituisce parte integrante della convenzione sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare defatiganti trattative tra stati al fine della ripartizione dei naufraghi, se non respingimenti collettivi.
Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo in mare . Le parti sono invitate a coordinare i loro servizi e mezzi nazionali, creando dei centri e sottocentri di coordinamento (RCC e RSC), questi ultimi dotati di mezzi per telecomunicazioni con le unità navali ed aeree e con gli RCC e RSC adiacenti. Il terzo capitolo dell’Annesso alla Convenzione SAR prevede il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso di ciascun Paese con quelle dei Paesi vicini. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Il bene primario da salvaguardare è la vita delle persone.
3. Il voto del Parlamento sul finanziamento della missione italiana in Libia.
Dopo il Senato anche la Camera dei deputati ha approvato - con il voto favorevole del centrodestra - la risoluzione sulle missioni internazionali [8]. A causa delle divisioni interne sugli interventi in favore del governo di Tripoli e della sedicente guardia costiera “libica” , il testo è stato votato per parti separate: la prima votazione, che ha escluso il capitolo del finanziamento alla missione in Libia, ha ottenuto 453 sì, nessuno voto contrario e 9 astenuti. La seconda votazione, relativa agli interventi sulla Libia, ha registrato 401 sì, 23 no e un’astensione [9].
All’indomani del voto in Senato, il 16 luglio, la ministro dell’interno Lamorgese si è recata a Tripoli dove ha incontrato il premier Serraj, il vicepresidente del Consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro dell'Interno Fathi Bashagha e quello degli Esteri Mohamed T.H.Siala. Lamorgese ha concordato con i libici l’intensificazione dei rapporti di collaborazione in campo economico [10] e sul fronte del contrasto dell’immigrazione “clandestina”, sottolineando però con una sua dichiarazione la “"necessità di attivare operazioni di evacuazione dei migranti presenti nei centri gestiti dal Governo libico attraverso corridoi umanitari organizzati dalla UE e gestiti dalle agenzie dell'Onu: Oim e Unhcr". Al centro dei colloqui con i libici è stata comunque “l'esigenza di gestire il controllo delle frontiere e i flussi dell'immigrazione irregolare sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare e in terra", come ha dichiarato la ministro dell’interno italiana, che auspica che la visita serva ad "imprimere un'accelerazione a tutte le attività di collaborazione" tra Italia e Libia con "una nuova e più stringente tabella di marcia" per prevenire l'immigrazione irregolare. A questo proposito sarebbe stata "condivisa l'esigenza di perfezionare la cooperazione tra le forze di polizia, attraverso progetti di formazione, anche al fine di rafforzare le capacità operative nella lotta contro le reti di trafficanti di migranti e la criminalità transnazionale". Risultati da raggiungere "anche attraverso un partenariato strategico in grado di sostenere l'azione del governo libico che ha già conseguito importanti risultati"[11]. Evidente il riferimento implicito della Lamorgese all’elevato numero di migranti intercettati in acque internazionali dalle motovedette libiche assistite dalla Marina militare italiana ( Missione Nauras) e riportati sulle coste libiche.
L’obiettivo dichiarato dal governo italiano sarebbe addirittura replicare con la “Libia” l’intesa raggiunta nel 2016 tra gli stati europei e la Turchia, in modo da contenere le partenze verso l’Europa. Un obiettivo che, alla luce dell’attuale situazione di guerra civile in Libia, appare assai difficile da conseguire, il governo di Tripoli non sembra infatti in grado di controllare il proprio territorio come può permettersi Erdogan in Turchia. Mentre è provato da numerose indagini giornalistiche [12], rimaste prive però di un tempestivo risc0ntro giudiziario, l’elevato “grado di coesione” tra le milizie che sostengono il governo Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e le organizzazioni di trafficanti, basate soprattutto a Zawia [13]ed a Sabratah [14], i principali punti di partenza dei barconi diretti verso le coste italiane.
4. Gli accordi tra Italia e Libia davanti alla giurisdizione interna
Una recente sentenza della Corte di Appello di Palermo [15] ha “ribaltato” la precedente decisione del Tribunale di Trapani che lo scorso anno ha dichiarato nulli gli accordi esistenti tra l’Italia e le autorità libiche, assolvendo con il riconoscimento dell’esimente della legittima difesa due migranti accusati nel 2018 di avere “dirottato” nel Canale di Sicilia un rimorchiatore battente bandiera italiana, il Vos Thalassa, al fine di evitare, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali, di essere ricondotti in Libia. La quarta sezione della Corte di Appello di Palermo ha così stabilito una condanna a 3 anni e 6 mesi per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina, a carico di due dei 67 migranti raccolti a bordo della Vos Thalassa, che in realtà sarebbe meglio definire naufraghi, e non “clandestini”, come li definisce la sentenza, che erano stati soccorsi l’8 luglio 2018 in zona Sar libica da questo rimorchiatore, e poi trasbordati sulla nave Diciotti della Guardia costiera italiana, con la quale erano giunti a Trapani. Lo sbarco in porto a Trapani, fortemente contrastato dall’ex ministro dell’interno Salvini, avveniva soltanto dopo un intervento del Presidente della Repubblica [16].
Secondo quanto deciso dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani il 23 maggio 2019, “il potere della autorità libiche di impartire a quelle italiane direttive in vista del rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese…deriva dall’accordo stipulato tra Italia e Libia nel 2017”, che però, in assenza di una approvazione parlamentare ai sensi dell’art.80 della Costituzione, sarebbe “giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.
La sentenza del Tribunale di Trapani forniva una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10, co. 1 Cost., secondo cui "l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement". Inoltre, secondo lo stesso giudice trapanese, “se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro” (…)
La sentenza della Corte di Appello di Palermo, adottata nel mese di giugno di quest’anno, “ribalta” questa impostazione, ed è stata pubblicata con ampi stralci sul Corriere della Sera [17], che all’epoca dei fatti aveva seguito con particolare attenzione la vicenda, dando anche spazio alle dichiarazioni dell’armatore della nave che escludeva qualsiasi “dirottamento” da parte dei naufraghi [18].
Secondo la Corte di Appello di Palermo, “l’assoluzione dei due migranti dirottatori (definiti dai giudici di appello come «clandestini») deriverebbe da un «approccio ideologico», e costituirebbe una interpretazione addirittura «criminogena» del concetto di «legittima difesa applicata al diritto del mare», che potrebbe «creare pericolose scorciatoie”, ammettendo «condotte dotate di grande disvalore penale ai limiti dell’ammutinamento»: al punto che «chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare da una unità italiana, sicuro di potere minacciare impunemente l’equipaggio qualora esso dovesse disobbedire a un ordine impartito dalla Guardia Costiera di uno Stato» (la Libia) «che, piaccia o no, è riconosciuto internazionalmente». Per la Corte di Appello di Palermo dunque, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché “i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione”.
Come aveva affermato il giudice di primo grado, invece, sembra evidente che la possibilità di configurare un respingimento collettivo in contrasto con il diritto internazionale e dell’Unione europea incide direttamente sulla possibilità di configurare la legittima difesa, in quanto “incide sul presupposto della sussistenza del diritto violato, rispetto al quale gli imputati avrebbero opposto una legittima resistenza”. Eppure su questo punto decisivo, nella sentenza di appello non si rinvengono argomentazioni in grado di smentire l’articolato quadro di ricostruzione gerarchica delle fonti normative, sovranazionali ed interne, proposto dal Tribunale di Trapani. Un esame che avrebbe dovuto svolgersi anche con riferimento alla sentenza di condanna dell’Italia pronunciata nel 2012 da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Hirsi. Perché quando si nega l’ingresso in porto di una nave che ha effettuato soccorsi in acque internazionale non si può eludere il tema dei respingimenti collettivi disciplinato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU,( ma anche dall’art.33 della Convenzione di Ginevra), e della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito sia dall’art. 3 della CEDU che dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Al di là della configurabilità, o dell’esclusione della esimente della legittima difesa, si rileva da questa recentissima sentenza il riconoscimento degli accordi di collaborazione stipulati dal governo italiano con il governo di Tripoli e con la Guardia costiera che vi fa riferimento, articolata secondo le varie città territoriali nelle quali si trovano le basi delle motovedette, in gran parte donate dall’Italia, in esecuzione del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e dei precedenti accordi e protocolli operativi stipulati da diversi governi a partire dal dicembre del 2007. Da anni, tuttavia, come si ricava da rapporti ben documentati delle Nazioni Unite [19], costituisce fatto notorio la sorte dei naufraghi intercettati in mare dalla sedicente Guardia costiera “libica” e riportati a terra. Come del resto costituiva, e costituisce ancora oggi, fatto notorio la circostanza che il governo di Tripoli non riesce ad esercitare la sovranità sull’intero paese, diviso tra diverse milizie che si combattono tra loro con l’appoggio di Stati come l’Egitto, la Russia, la Turchia, e gli Emirati Arabi. Per effetto di questi combattimenti [20], la condizione della popolazione libica e dei migranti in transito in quel paese, nel quale fino allo scorso anno potevano ancora svolgere attività lavorative, prima che il generale Haftar sferrasse la sua offensiva nel Fezzan e nella Tripolitania, fino ad arrivare alla periferia di Tripoli, si è ridotta alla condizione di totale deprivazione dei diritti fondamentali che le Convenzioni internazionali riconoscono alle persone, in quanto tali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto di non subire trattamenti inumani o degradanti.
Rimane da chiedersi a questo punto se i migranti che, per salvarsi dagli abusi e dalle violenze subite in Libia, sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per raggiungere le coste europee, quando vengano soccorsi in acque internazionali, da un mezzo privato di uno stato dell’Unione Europea, siano ancora portatori di un nucleo minimo di diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita ed dal diritto di non subire respingimenti collettivi e quindi trattamenti inumani o degradanti vietati dalle Convenzioni internazionali.
Ancora oggi non sembra che il governo di Tripoli, che è stato più volte visitato in questo periodo da esponenti del governo italiano ( prima il ministro degli esteri Di Maio, poi la ministro dell’interno Lamorgese) possa garantire una effettiva tutela alle persone migranti, ed ai suoi stessi cittadini che si trovano nei territori che comunque controlla, affidandosi a milizie che sono sospettate di essere colluse proprio con quelle organizzazioni di trafficanti che si vorrebbero combattere. Si tratta adesso di vedere come la penseranno i giudici della Corte di Cassazione, che con la sentenza pubblicata il 20 febbraio 2020 [21], relativamente ad un caso di soccorso in acque internazionali nei quali si era anche pretesa una collaborazione con le autorità libiche, hanno chiaramente indicato la necessità di rispettare il principio di gerarchia delle fonti e dunque il carattere sovraordinato del diritto internazionale, come previsto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, rispetto agli accordi bilaterali tra Stati.
5. L’invenzione della zona SAR ( Search and Rescue) “libica” e la delega delle operazioni di respingimento collettivo
La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. L’obbligo di ricerca e soccorso a carico delle autorità statali ricorre anche nel caso in cui tali attività debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.
Gli Stati di bandiera non possono ritenersi competenti a coordinare operazioni di ricerca e salvataggio a migliaia di chilometri di distanza dalla sede delle Centrali operative di coordinamento (MRCC) e comunque le responsabilità possono essere difficili da individuare data la distinzione tra quelle navi che hanno una chiara relazione con la bandiera in base alla quale navigano e quelli che operano con il sistema di registro chiamato delle “bandiere di comodo”. Non sembra neppure che i governi possano applicare il diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana ed il diritto dei rifugiati a seconda della appartenenza della nave soccorritrice, in ipotesi ad una ONG, o a un vettore commerciale, o a seconda della diversa nazionalità del suo armatore.
Quando le autorità italiane individuano la responsabilità SAR “libica”, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, sono state segnalate alle autorità italiane, e dunque ricadono già sotto la giurisdizione italiana, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono impegnati nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.
Il Mediterraneo centrale è ormai affollato di navi militari, ben oltre la fallimentare missione europea IRINI, anche per il conflitto civile in Libia, ma le persone che fuggono da quel paese, in preda alla guerra civile, rimangono per giorni abbandonate in alto mare, perchè si attende l’arrivo dei guardia coste libici. Per questo motivo, qualsiasi ritardo negli interventi, magari in attesa che intervengano i libici o i maltesi, come il silenzio sulle effettive modalità dei soccorsi, sulla loro esatta ubicazione, sulla nazionalità dei naufraghi e sull’intervento di assetti militari di altri paesi, che finiscono per agevolare respingimenti in Libia, costituisce una grave complicità dei governi nei gravi crimini che continuano ad essere commessi in mare ed in territorio libico ai danni delle persone migranti. . Non si riesce ancora ad imporre agli Stati il tempestivo avvio delle attività di ricerca e soccorso in alto mare che sarebbero imposte dalle Convenzioni internazionali. Basta incrociare i tracciati dei voli degli aerei di Frontex con i rilevamenti sui luoghi nei quali avvengono i soccorsi, meglio, le intercettazioni, da parte della Guardia costiera libica, per rilevare il grado di collusione tra le autorità militari europee e le milizie libiche. La situazione di emergenza sanitaria indotta dalla pandemia da COVID 19 ha indotto Italia e Malta a dichiarare i propri porti “non sicuri” [22] non nell’interesse dei migranti, però, bensì allo scopo di salvaguardare la tenuta del sistema sanitario nazionale.
Non sembra dunque che le dichiarazioni sul rispetto dei diritti umani in Libia rilasciate dalle autorità di Tripoli agli esponenti del governo italiano abbiano margini di credibilità, alla luce del fatto che si ripetono da anni, senza che la situazione dei migranti bloccati in Libia alla mercè delle milizie colluse con i trafficanti, sia significativamente migliorata. La situazione di degrado e violenza che subiscono i naufraghi riportati indietro dalla sedicente Guardia costiera “libica” è confermata e documentata nei più recenti rapporti delle Nazioni Unite [23] ancora operanti in Libia in alcuni punti di sbarco e nei pochi centri di detenzione che riescono a visitare. Per le Nazioni Unite non ci sono dubbi sulla sorte delle persone intercettate in acque internazionali nella cd. zona SAR “libica” e riportate in Libia dalla sedicente Guardia costiera libica. Questo il tenore di un recente comunicato congiunto di tutte le agenzie ONU presenti in Libia [24]:“Siamo anche consapevoli delle affermazioni secondo cui le chiamate di soccorso ai pertinenti centri di coordinamento per il salvataggio marittimo sono rimaste senza risposta o sono state ignorate, il che, se vero, mette seriamente in discussione gli impegni degli Stati interessati a salvare vite umane e rispettare i diritti umani. Nel frattempo, la Guardia costiera libica continua a riportare le navi sulle sue coste e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani. Queste strutture sovraffollate sono ovviamente ad alto rischio di essere attaccate dal COVID-19”.
Chiunque continua ancora a rappresentare la realtà dei soccorsi nel Mediterraneo centrale con il richiamo ad una zona SAR “libica” nega la realtà dei fatti, perché non esiste una intera zona di mare sotto il controllo di una unica centrale di coordinamento nazionale (MRCC) in Libia [25], e soprattutto perché la sedicente Guardia costiera libica, per quanto assistita dalla agli assetti italiani ed europei, non ha le capacità operative per garantire la salvaguardia della vita umana in mare nella vastissima zona che le si è assegnata.
Cosa si attende da parte delle Nazioni Unite, per sospendere il riconoscimento effettuato dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare) nel giugno del 2018, che pure è un organismo delle stesse Nazioni Unite, di una zona SAR “libica” che da tempo costituisce l”escamotage” per legittimare i respingimenti collettivi delegati alle motovedette donate al governo di Tripoli e coordinate da assetti aerei e navali italiani ed europei ?
Diverse associazioni, tra le quali Statewatch, hanno sottoscritto una lettera aperta con cui si invita l’IMO a revocare la zona di ricerca e salvataggio libica (SAR), a causa del suo status irregolare e delle prassi che subordinano il diritto marittimo, il diritto internazionale e i diritti dei migranti agli obiettivi della politica sull’immigrazione. Nella lettera [26]si denuncia il riconoscimento di zone SAR esclusive, riservate ad un singolo stato, al fine di ritardare i soccorsi, per consentire respingimenti e suggerire che la nazionalità degli equipaggi delle navi di salvataggio possa essere utilizzata come motivo valido per ostacolare il completamento dei soccorsi. Inoltre, secondo la denuncia, questo riconoscimento di una competenza “esclusiva” dei libici viene utilizzato per punire i cittadini europei per aver salvato persone che altrimenti sarebbero state abbandonate al loro destino. Da tempo l’Imo, che ha sede a Londra, non risponde a queste denunce e gli stati che si avvalgono della finzione di una zona Sar libica si guardano bene dal sollecitare un diverso atteggiamento di questo organismo. Anche su questo si registra solo silenzio oppure disinformazione per non mettere in discussione le politiche migratorie che si basano sulla esternalizzazione dei controlli di frontiera.
6. Riconoscimento dei diritti fondamentali della persona migrante o crimini contro l’umanità? Le indagini della Corte Penale internazionale sulla sedicente Guardia costiera libica
Un atto di accusa assai documentato è stato depositato alla Corte Penale Internazionale[27], che stava già indagando sulla sedicente Guardia costiera libica, per denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale ed europeo commesse dagli stati e dall’Agenzia europea FRONTEX nel Mediterraneo centrale a partire dalla fine imposta all’operazione italiana di soccorso in acque internazionali MARE NOSTRUM, conclusa nel dicembre del 2014 [28].
La denuncia sostiene che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi… e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione (in Libia) dove vengono commessi crimini atroci”. Secondo l’atto di accusa inoltrato al Tribunale penale internazionale, “I funzionari dell’Unione europea e degli Stati membri avevano una conoscenza precoce e piena consapevolezza delle conseguenze letali della loro condotta”.
La Corte Penale internazionale, che sta ancora indagando sui crimini commessi in Libia a partire dal 2011 dopo la caduta di Gheddafi [29], impiegherà molti anni per arrivare ad una sentenza. Per questa ragione occorre valorizzare anche davanti ai giudici nazionali la imponente documentazione che è stata raccolta dagli avvocati internazionalisti che hanno presentato il ricorso alla Corte dell’Aja. Si tratta di una documentazione, e di testimonianze, che possono avere uno specifico rilievo penale, anche alla luce del diritto interno, e dunque di materiali che potrebbero rientrare in indagini condotte da una magistratura italiana che voglia ripristinare il principio di legalità e lo stato di diritto, rilevanti anche nelle relazioni internazionali a partire dalla valenza degli accordi con i libici e dalle prassi attuative che vedono direttamente coinvolte autorità italiane che dunque ricadono sotto la competenza della giurisdizione nazionale, anche se gli effetti dei loro atti si producono al di fuori dei confini italiani. Come riporta l’Avvenire, venerdì 17 luglio “per la prima volta in Italia ci sarà un processo con l’accusa di avere eseguito un respingimento di massa illegale verso la Libia: 101 migranti e potenziali richiedenti asilo tra cui minori non accompagnati. La procura di Napoli ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per il comandante della nave Asso 28 e per un rappresentante dell’armatore che nel luglio 2018 avevano riconsegnato ai libici decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali. Come riferisce Nello Scavo, “a disposizione dei magistrati, oltre alle indagini svolte dalla capitaneria di porto di Napoli, ci sono anche le registrazioni audio delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave Open Arms”.
Come è documentato da una importante intervista di Flore Murard Yovanovitch all’avv. Ousman Noor, “il Centre Suisse pour la Défense des Droits des Migrants (CSDM), un’organizzazione no profit fondata nel 2014 e con sede a Ginevra, Svizzera, ha inviato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura una richiesta di indagine formale ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti concernenti la condotta dell’Italia nel Mediterraneo centrale, che attraverso l’addestramento e l’equipaggiamento della Guardia costiera libica sta portando alla tortura di massa, lo stupro e alla riduzione in schiavitù migliaia di rifugiati e migranti ricondotti in Libia. 50.000 persone per l’esattezza, dall’inizio del Memorandum of Understanding con la Libia del 2017”. Secondo l’avvocato Ousman Noor, “ormai sono anni, che esistono le prove documentate della sistematica tortura in Libia di migliaia di profughi ricondotti in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli (rapporti Nazioni Unite e gruppi di diritti umani). L’Unhcr, l’Oim e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno anche chiesto di interrompere immediatamente la collaborazione con i libici. Affidando i respingimenti alla Guardia costiera libica, l’Italia viola gli impegni assunti con la Convenzione contro la tortura. La cooperazione dell’Italia con la Libia facilita, infatti, gli orribili abusi di migliaia di persone in cerca di sicurezza e rifugio, e la loro tortura da parte di attori libici. Sia i funzionari del governo italiano che di altri paesi europei hanno anche riconosciuto pubblicamente quanto sta accadendo. Nella nostra richiesta d’inchiesta dimostriamo che riconducendo i migranti in Libia, la Guardia costiera libica agisce per conto dell’Italia”. L’avvocato dell’organizzazione svizzera aggiunge che “ci sono anche lì prove schiaccianti che su imbarcazioni affollate, respinte e alle quali è stato vietato di sbarcare nei porti di Malta o d’Italia, inutili sofferenze fisiche – mancanza di cibo, di acqua, bruciature, ecc… – e psicologiche, sono inferte su persone vulnerabili e già esposte per giunta alla tortura in Libia. Pratiche che sono riconducibili alla tortura, ed è un aspetto che, dopo questo caso, vogliamo portare avanti con il Csdm”.
Oggi paghiamo le conseguenze delle politiche migratorie incentrate sula criminalizzazione dei soccorsi umanitari e dell’allontanamento delle ONG, che lo scorso anno venivano indicate sulle prime pagine di tutti i giornali come gli unici soggetti che avrebbero tratto profitto dai soccorsi, quando non fossero colluse con i trafficanti. Accuse infamanti che non hanno trovato alcun riscontro in sede dibattimentale davanti ai giudici. Non saranno certo i processi penali o lo schieramento dell’esercito a difendere la collettività da un nemico subdolo come il virus Covid-19, che sta dilagando in, adesso, tutto il mondo senza subire alcun freno alla sua diffusione dal regime di chiusura delle frontiere che quasi tutti gli Stati hanno stabilito e progressivamente inasprito. Adesso che per ragioni economiche le frontiere si vanno riaprendo, con gli attuali dati dei casi nel mondo globalizzzato, i rischi maggiori per una seconda ondata di contagi non provengono certo dalle rotte marine dei migranti che riescono ancora a fuggire dalla Libia, o che partono dalla Tunisia, un paese in ginocchio per la crisi economica seguita alla pandemia, ma con un sistema sanitario improntato a standard europei.
Le proposte che fanno i governi per il ritorno alla “normalità” ripropongono, attraverso gli accordi bilaterali con governi poco inclini al riconoscimento dei diritti umani, come quello di Tripoli, i vecchi strumenti della chiusura delle frontiere e della clandestinizzazione della forza lavoro migrante. La crisi, prima sanitaria, poi economica e presto anche politica, scaturita in seguito al diffondersi del Covid-19, sembra restare invece qualcosa a sé stante, imprevedibile nel suo futuro svolgersi, lontana da tutti i modelli che abbiamo conosciuto in passato. Il carattere di unicità e la trasversalità dell’impatto che essa ha avuto sul mondo, ha spiazzato gli esperti e i politici, interessati unicamente alla caccia del consenso elettorale, che non sono ancora capaci di andare oltre le logiche di chiusura delle frontiere e di respingimento collettivo, delegato alle autorità militari dei paesi terzi.
7. Conclusioni
Non si può accettare che la situazione di progressiva erosione dei diritti umani riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, determinata dai condizionamenti imposti dagli stessi soggetti politici che poi sfruttano le immagini di abbandono e desolazione che derivano dalle loro politiche, possa continuare ancora ad aggravarsi nella lunga fase di “convivenza” con la pandemia da COVID-19. Senza una netta separazione tra realtà dei fatti e propaganda politica le decisioni continueranno ad essere prese su un piano inclinato che potrebbe portare presto alla negazione dei diritti fondamentali di tutti, migranti e cittadini.
Occorre una proposta complessiva e coraggiosa di svolta politica sui temi dell’immigrazione e del soccorso in mare, dal punto di vista legislativo e quindi delle prassi applicate, che segnino una vera discontinuità con quanto finora avvenuto, e che si continua a verificare, malgrado il parziale cambio di governo. Lo stato di emergenza proclamato in occasione della pandemia da COVID-19 rischia di subordinare i diritti umani dei migranti e la libertà di azione di chi li soccorre e presta loro assistenza, ad un astratto interesse generale di carattere sanitario che si presta come grimaldello per scardinare i diritti fondamentali che vanno riconosciuti a qualunque persona quale che sia la sua nazionalità o il suo stato giuridico (come ricorda l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998).
La società civile e le organizzazioni non governative, per quanto oggetto di pesanti attacchi, proseguiranno nel loro lavoro quotidiano di denuncia. anche con riferimento ai casi di segnalazione di imbarcazioni in difficoltà in alto mare, non soccorse con la dovuta tempestività, o di persone riportate in Libia e scomparse o sottoposte ad altri abusi.
[1] http://www.mediterraneocronaca.it/2020/07/14/trovata-la-barca-che-nessuno-ha-soccorso-54-sbarcati-a-lampedusa-foto-e-video/
[2] I. Panicolopulu, G. Baj, Controllo delle frontiere statali e respingimenti nel diritto internazionale e nel diritto del mare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2020, pp. 42-47.
[3] https://www.giurisprudenzapenale.com/2020/02/21/le-motivazioni-della-cassazione-sulla-mancata-convalida-dellarresto-carola-rackete-nella-vicenda-sea-watch-3/
[4] https://www.ilmessaggero.it/politica/migranti_lamorgese_piano_ong_regolamentazione-4900910.html
[5] https://www.open.online/2019/12/05/migranti-lamorgese-rispolvera-il-codice-di-condotta-per-le-ong-la-protesta-non-serve-basta-il-diritto-internazionale/
[6] http://nuovidesaparecidos.net/?p=3589
[7] https://www.iltaccoditalia.info/2020/05/22/inchiesta-marina-militare-dirottati-fondi-per-navi-libiche-destinate-al-contrasto-del-traffico-di-esseri-umani/
[8] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-orrori-e-vergogna-migranti?fbclid=IwAR2mYLikryrbRyuaXSk552y5shTFVngQrGthkIG_af5J1_ORa26z0pmoWx0
[9] https://www.huffingtonpost.it/entry/la-camera-approva-il-rifinanziamento-della-missione-in-libia-23-no-dalla-maggioranza_it_5f101fa5c5b6d14c33635840?ncid=other_facebook_eucluwzme5k&utm_campaign=share_facebook&fbclid=IwAR1w9L7R-FKjgLRBANIpqHQAnrchd1_kthlRClNgEZxW6wgLkifwD1Ydllg
[10] https://www.libyaobserver.ly/news/al-sirraj-lamorgese-review-procedures-return-italian-firms-libya?fbclid=IwAR0SlBeyiSq9SkYuMJ8wubJztu-HtAfTsI843sdFRc2xLoEXnUUegeWw7VY
[11] https://www.ansa.it/sito/notizie/flash/2020/07/16/-lamorgese-a-sarrajevacuare-migranti-da-centri-libici-_47cd9a00-9f9a-4e67-a366-b1849c0f4b0a.html?fbclid=IwAR0OlzHi3KEiA_giCIRn55bYBixzspiB-o3XX1mwAyBfDeG0sD3X39UPsuU
[12] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migranti-trafficante-libico-pagato-da-europa
[13] https://espresso.repubblica.it/inchieste/2019/10/25/news/chi-e-bija-1.340267
[14] https://www.corriere.it/video-articoli/2020/04/16/libia-trafficante-esseri-umani-ammou-torna-sabratha-le-forze-sarraj/f67340f0-7fee-11ea-8804-717fbf79e066.shtml
[15] https://www.a-dif.org/2020/07/12/dopo-la-sentenza-della-corte-di-appello-di-palermo-sul-caso-vos-thalassa-quale-tutela-per-i-diritti-fondamentali-nel-mediterraneo-centrale/
[16] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/13/nave-diciotti-dopo-intervento-del-colle-sbarcati-67-migranti-di-maio-rispettare-le-decisioni-di-mattarella/4489366/
[17] https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20200710/281741271713095
[18] https://www.corriere.it/politica/18_luglio_12/caso-diciotti-parla-manager-vos-thalassa-noi-circondati-minacciati-ma-nessun-dirottamento-717cfa3e-8613-11e8-b570-8bf371a11210.shtml
[19] https://www.refworld.org/docid/5b8d02314.html
[20] https://www.repubblica.it/esteri/2020/07/15/news/gli_usa_in_libia_i_mercenari_russi_vicini_a_putin_hanno_lasciato_migliaia_di_trappole-bomba_-262029184/?fbclid=IwAR2o4McWBJgdKdKtoo_Ufqx3HLa9G6350O24H_J_ugP9ecfX8LKnakZ6V9s
[21] https://www.sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-sea-watch-illegittimo-larresto-di-carola-rackete
[22] https://www.questionegiustizia.it/articolo/lo-stato-di-emergenza-sanitaria-e-la-chiusura-dei-porti-sommersi-e-salvati_21-04-2020.php
[23] https://www.iom.int/news/migrants-missing-libya-matter-gravest-concern
[24] https://www.unhcr.it/news/dichiarazione-congiunta-sulla-libia-unhcr-ocha-unicef-unfpa-wfp-oms-oim.html?fbclid=IwAR17i6eT-wgZS_UxQ3Af65ZndmT7hxeIxHNLivxIc45Xy-6CMY12wmE9tNY
[25] http://www.tempi-moderni.net/2020/03/31/esposto-allimo-per-demolire-lalibi-della-zona-sar-libica/
[26] https://docs.google.com/document/d/1XBW_nWU6kbF7nkzxeMRWjO5a4W7Cp4KR8EYR-_PuGMU/edit
[27] https://dossierlibia.lasciatecientrare.it/dalla-francia-nuovo-esposto-allaja-contro-litalia-i-politici-responsabili-di-crimini-contro-lumanita/
[28] https://euobserver.com/migration/145071
[29] https://nena-news.it/libia-migranti-schiavi-inchiesta-dellaia/
La “decadenza” del processo amministrativo
(Nota a Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, 25 giugno 2020, n. 466)
di Filippo D’Angelo
1. L’ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana n. 466 del 25 giugno 2020 ha sollecitato l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in funzione di nomofilachia per una “esatta interpretazione dell’art. 114, c. 1, c.p.a.” (punto 7 dell’ordinanza di rimessione) e per una “riflessione aggiornata sulla natura del termine decennale alla stregua anche delle caratteristiche nuove che, nel tempo, ha assunto il giudizio di ottemperanza” (punto 7.2 dell’ordinanza di rimessione).
In particolare le ha deferito i seguenti quesiti tra loro collegati:
- se il termine decennale per esercitare l’azione di ottemperanza abbia natura decadenziale o prescrizionale
- se, nel secondo caso, il decorso dell’ipotetica prescrizione si interrompa solo con l’esercizio dell’azione di ottemperanza o anche con atti di natura stragiudiziale (come, ad esempio, una diffida rivolta all’amministrazione)
- se, ancora, l’eventuale prescrizione riguardi il diritto di azione processuale o il titolo giuridico riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato.
2. Quanto alla prima questione, il giudice del rinvio è dell’avviso che il termine decennale previsto dall’art. 114, co. 1 c.p.a. operi “nella sostanza, come un termine di decadenza” (punto 8, lett. c) dell’ordinanza di rimessione), oltrepassando il dato letterale della norma per cui la “azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza”.
Il giudice siciliano ha fatto leva su due argomenti, uno sistematico e l’altro “sostanziale”.
Rispetto al primo ha notato che tutti i termini per esercitare le azioni davanti al giudice amministrativo sono “ordinariamente perentori” (punto 7.5, lett. g) dell’ordinanza di rimessione), ivi compresi quelli propri dell’azione risarcitoria o di quella di nullità, e che non vi è pertanto ragione di escludere da tale regola l’azione di ottemperanza. Una diversa soluzione sarebbe “del tutto eccentrica e distonica rispetto al sistema delle azioni nel processo amministrativo” (punto 7.5, lett. a) dell’ordinanza di rimessione).
Quanto al secondo argomento ha invece rilevato che parlare di prescrizione o di decadenza nel caso dell’azione di ottemperanza a “poco rileva”, mentre conta la sostanza (punto 7.5, lett. d) dell’ordinanza di rimessione).
Importa cioè l’effettivo esercizio dell’azione processuale che deve avvenire entro il decennio dal passaggio in giudicato della sentenza ineseguita dall’amministrazione.
L’ordinanza di rimessione indugia sulla natura giuridica del termine per esercitare l’azione di ottemperanza e giunge ad una conclusione che ritiene “armonica” con la struttura del processo amministrativo (punto 8, lett. c) dell’ordinanza di rimessione).
Lascia perplessi la disinvoltura nel ritenere superata all’interno del processo amministrativo della distinzione tra i concetti di ‘decadenza’ e di ‘prescrizione’ in nome di un non meglio precisato criterio sostanziale, ma è tema che non può essere esaurito nella spazio della presente annotazione.
Al di là della specificità del caso dell’ottemperanza, non pare si possa infatti negare in assoluto che anche nell’ambito del processo amministrativo vi siano azioni a tutela di diritti proponibili nei termini di prescrizione.
3. Secondo quesito. Se in ogni caso la prescrizione si interromperebbe solo con l’esercizio dell’azione di ottemperanza o anche con atti di natura stragiudiziale.
Qui il Consiglio di giustizia sembrerebbe richiamare recenti orientamenti della giurisprudenza civile che hanno già sottolineato la “possibilità di interrompere il corso della prescrizione esclusivamente mediante l’atto di esercizio dell’azione, vale a dire con la proposizione della domanda giudiziale, e non anche con ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore” (così Cass., Sez. lav., 20 aprile 2017, n. 10016).
Con riferimento al ricorso per l’ottemperanza al giudicato amministrativo il giudice rimettente ritiene infatti che l’unico modo per impedire il decorso infruttuoso del termine decennale che attiene al “diritto di azione processuale” è “l’esercizio dell’azione stessa” (punto 7.5, lett. d) dell’ordinanza di rimessione).
A suo giudizio la progressione del termine processuale non può essere incisa da atti stragiudiziali preliminari, come una diffida indirizzata all’amministrazione inerte, che “non hanno effetto interruttivo” (punto 7.5, lett. f) dell’ordinanza di rimessione).
Diversamente la vicenda processuale verrebbe rimessa alla disponibilità di una sola parte in causa, cioè il privato, e si perverrebbe al “paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito” con possibili profili di illegittimità costituzionale (punto 7.5 dell’ordinanza di rimessione).
Ne discende la conclusione che “non è concepibile un atto stragiudiziale interruttivo del termine del diritto di azione processuale” (punto 7.5 dell’ordinanza di rimessione).
Nel caso del giudizio d’ottemperanza, l’art. 114 c.p.a. non impone più al privato di notificare una previa diffida all’amministrazione (l’obbligo è infatti caduto con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo), ma concede una semplice facoltà in tal senso: “l’azione si propone, anche senza previa diffida, con ricorso notificato alla pubblica amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal lodo della cui ottemperanza si tratta” (co. 1).
Se ne deduce che la diffida non ha rilevanza ai fini dell’ammissibilità del ricorso in ottemperanza, diversamente dai casi in cui l’esercizio dell’azione dev’essere necessariamente preceduto da una diffida indirizzata all’amministrazione resistente, come ad esempio nell’ipotesi di cui all’art. 3, co. 1 del d.lgs. 198/2009 che precisa che il ricorrente, prima di iniziare la ‘class ction’ amministrativa, “notifica preventivamente una diffidaall’amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati”. Casi in cui la diffida opera come condizione di procedibilità dell’azione e non vale certo a interrompere il relativo termine di esercizio.
Dal disposto dell’art. 114 c.p.a. si deduce invece che la diffida del privato, ove proposta, persegue altri scopi: da un parte stimolare l’amministrazione ad adempiere spontaneamente al giudicato ed evitare lo scontro giudiziario; dall’altra manifestare l’inequivocabile volontà di far valere il titolo giuridico sancito dalla sentenza di accoglimento e interrompere così il decorso della relativa prescrizione ove prevista dalla legge.
A fronte di ciò l’esigenza di trovare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del privato che può agire in giudizio nell’arco di una decade e quelle dell’amministrazione che non può essere condizionata oltre misura dall’iniziativa giudiziaria della controparte.
Anche di questo aspetto si dovrà occupare l’Adunanza plenaria.
4. Terza e ultima questione (in realtà al primo posto nell’ordinanza di rimessione dei quesiti). Se in ogni caso la prescrizione riguarderebbe il diritto di azione processuale o il titolo giuridico riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato
Il collegio remittente non si sofferma particolarmente sulla motivazione ma si limitata praticamente ad asserire che l’art. 114, co. 1, c.p.a. si “riferisce chiaramente alla prescrizione dell’azione e non del diritto sottostante” (punto 7.5, lett. b) dell’ordinanza di rimessione).
L’Adunanza plenaria dovrà pronunciarsi anche sotto questo profilo.
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