ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare)
Sommario: 1. Diritto immune e governo della calcolabilità. – 2. Legal tech and co. e giustizia predittiva (il sogno proibito del positivista). – 3. L’eterno enigma del diritto. – 4. Gli usi processuali delle emozioni. – 5. Conclusioni. «Un algoritmo non si può convincere» (in difesa dell’umanità del giudicare).
1. Diritto immune e governo della calcolabilità
La storia del diritto può essere letta come il perenne (e mai compiuto davvero fino in fondo) sforzo di rendere irrilevanti le emozioni, di cautelarsi contro di esse, di renderle inoperanti, innocue, inoffensive; un tentativo di immunizzare lo scorrere dei traffici giuridici e le prassi dalla imprevedibile e irragionevole mutevolezza del sentire emotivo e quindi della volontà che ne è, spesso, espressione. Dominare l’imprevedibile: questa la immane pretesa del diritto[1].
A questo fine – si dice - non può essere in nessun caso emotivo colui che è chiamato ad applicare quelle “direttive di ragione” che sono le norme giuridiche, ossia il giudice. Il suo operato si vuole quanto più possibile meccanico, puramente sillogistico, depurato (immunizzato appunto) e non viziato da disposizioni, stati, intenzioni e da tutto ciò che si potrebbe definire un personale “senso di giustizia”. Il suo ragionamento deve essere dimostrabile, logico, e quindi esatto, controllabile oggettivamente, fondato e giustificato esclusivamente sulla ragione, che procede da premesse a conclusioni. Bruno Celano ha parlato recentemente di “anti-psicologismo” delle teorie del ragionamento giuridico, prodotto diretto dell’insegnamento kelseniano per il quale il diritto è (deve essere) «un che di impersonale, anonimo, de-psicologizzato», che gode (deve godere) «di una relativa indipendenza, o autonomia (sia concettuale, sia normativa), rispetto alle preferenze, alle intenzioni, alla volontà, alle decisioni, alle credenze (…) di coloro che vi sono soggetti; e in ciò risiede il suo carattere di oggettività»[2]
Diritto funzionale al vivere civile e ai traffici economico-sociali, razionale quindi, calcolabile, geometrico, matematico, scientifico, prevedibile, oggettivo, certo, a cui Natalino Irti ha dedicato, negli ultimi anni, importanti studi[3].
La calcolabilità (del diritto, delle decisioni) sembra essere divenuta la nuova parola chiave per capire il presente giuridico; è onnipresente, pervasiva[4]. L’uso così enfatico di questo vocabolo, come mai prima nella storia del diritto era accaduto, porta a prefigurare anche nell’universo giuridico una dittatura del calcolo, per usare la felice espressione che dà il titolo al bel libro del matematico Paolo Zellini[5].
Facendo ciò, il diritto ha quindi espunto consapevolmente dal proprio ambito “la soggettività dei soggetti”, il nostro essere uomini in carne e ossa; ha dettato regole oggettive (immuni da elementi psicologici) come se gli esseri umani non fossero, prima di tutto, esseri emotivi, o forse proprio per questa ragione; proprio per la consapevolezza, cioè, che l’uomo è un essere emotivo e che in quanto tale deve ricevere la guida del proprio agire al di fuori di sé medesimo.
Ma – parafrasando Pascal – si può ben dire che la “realtà vivente” della giustizia ha le sue ragioni, che la ragione non conosce…[6]
Infatti noi sentiamo in qualche modo vago, spesso non detto, sottaciuto, che la giustizia è una esperienza profondamente umana, e che è anzi giusto e bene che sia così. Qualsiasi cosa si intenda con queste espressioni, nella pluralità dei significati che ognuno di noi attribuisce a queste parole così vaghe (quali “umanità”, “umana”, “giustizia”), vediamo comunque essere radicata l’idea per la quale la razionalità meccanica non deve mai essere dis-umana, il dominio delle regole oggettive non deve significare insensibilità per le concrete conseguenze.
Ciò, peraltro, non sembra valere allo stesso modo per ogni ambito dell’esperienza. Possiamo discutere sul significato e l’opportunità di un giudice emotivo e del ruolo (positivo o negativo) che i processi emotivi giocano nel ragionamento giudiziale. Ma già il fatto che si avverte il senso e l’esigenza di questo dibattito è rivelatore di qualcosa di molto significativo. Ciò ci dice qualcosa. Avrebbe infatti senso chiederci se vogliamo un ingegnere emotivo? Credo di no. E, per esempio, un farmacologo emotivo? Nemmeno. Già, forse, più centrato sembrerebbe chiederci se è bene, oppure no, che un medico sia emotivo – salvo poi, molto probabilmente, convenire con una risposta tendenzialmente negativa. Perché questa differenza? Perché vediamo che l’ingegnere o il farmacologo non hanno a che fare, nel loro mestiere, con esseri umani, né governano o maneggiano, nella loro attività, esistenze e dolori, ma si occupano di costruzioni e osservazioni della realtà, e quindi delle leggi del calcolo e della natura, che prescindono dall’uomo. Il medico, invece, interagisce primariamente con esseri umani che si trovano nel momento della loro massima sofferenza e che in quanto tali sono inoggettivabili – anche se, alla fine, ci arrendiamo al fatto che la soluzione alla malattia prescinde, almeno in larga parte, dai vari atteggiamenti umani impiegati. Vorremmo quindi un ingegnere perfetto calcolatore, un farmacologo impassibile, un medico, forse, imperturbabile. Ma nulla di tutto ciò lo ritroviamo nel campo del diritto, che vede coinvolta la persona in quanto soggetto, nel momento del conflitto, che porta con sé il proprio perenne anelito trascendentale verso la giustizia – la trascendenza della giustizia, ossia la perenne possibilità per l’uomo di contestare la giustizia attuale nel nome della giustizia stessa[7]. Vorremmo, quindi, un giudice incapace di provare la minima emozione? Un giudice a-patico, nel senso deteriore del termine, svuotato della umana capacità di leggere, interpretare e tradurre la gamma delle emozioni, e però, magari, dotato di abilità eccezionali, sopra la media, nel ricordare articoli di codice, eccezioni all’operare di regole e le pronunce per intero della Cassazione su un dato argomento?
2. Legal tech and co., e giustizia predittiva (il sogno proibito del positivista)
Antoine Garapon – magistrato francese nonché uno dei più lucidi studiosi della teoria del processo - in un recente saggio dedicato alle sfide della giustizia digitale ha messo in luce come sia stato proprio questo diffuso sentire la giustizia come una impresa umana, “artigianale” quasi, a rendere più difficoltoso l’ingresso delle tecnologie e dell’intelligenza artificiale nel mondo del diritto rispetto ad altri ambiti della vita sociale (salute, benessere, educazione, ambiente, politica)[8]. Vi sarebbe stata, insomma, una certa resistenza culturale (qualcosa più di un generico sospetto) verso procedure automatizzate che mirino a sostituire l’attività del giurista, ai più diversi livelli, con il funzionamento impersonale di software e algoritmi, proprio in virtù di quella in-oggettivabilità e irriducibilità dell’esperienza umana e dei casi della vita in formule preconfezionate. Oggettivabilità e riducibilità, invece, che - va osservato - non sono altro che il “sogno proibito” del positivista radicale, il tentativo di portare alle estreme conseguenze il mito di una entità che possa davvero definirsi bouche de la loi, cioè un qualcuno o un qualcosa (giudice o software) capace di rendere una decisione-output a seguito dell’inserimento di un fatto della vita-input.
Nonostante il ritardo, concetti come legal tech, smart, digital, cyber justice sono ora espressioni consolidate. Il filo conduttore di questo vasto universo tecno-giuridico è costituito dalla “giustizia predittiva”, ossia l’esigenza che le conseguenze del nostro agire giuridico siano quanto più possibile prevedibili, pre-dicibili, e che il margine di alea sia ridotto al minimo, fino a potenzialmente scomparire – una esigenza, di nuovo, che ha radici antiche e che risale, quantomeno in questa versione, all’ideologia mitica del codice (e del codice civile in particolare) secondo la quale un libro rilegato e ordinato secondo articoli in ordine numerico avrebbe dovuto contenere la regolamentazione intera ed esaustiva, totale, completa dell’esperienza giuridica tra privati[9].
Più nello specifico, lo scopo della giustizia predittiva è quello di rendere le conseguenze delle azioni umani (per quanto qui ci riguarda, in caso di conflitto) trasparenti in anticipo attraverso l’uso dei big data, immense raccolte di informazioni non elaborabili da una mente umana per quantità e qualità del dettaglio, la cui analisi e combinazione permette di scoprire strutture e patterns di regolarità laddove prima si scorgeva solo caos, disordine e casualità. La potenza dell’algoritmo è infatti in grado di digerire e metabolizzare i dettagli e gli elementi fattuali, contestuali, e giuridici di milioni di casi già decisi in precedenza, prevedendo l’outcome della controversia con un altissimo grado di accuratezza. La creazione di modelli predittivi complessi su questa base rende così accessibile e conoscibile qualcosa che prima non lo era con mezzi umani, un nuovo livello di realtà. Dati, dati, e ancora dati. Attraverso le loro combinazioni è possibile una conoscenza sovrumana condotta scientificamente; da cui l’accusa, spesso mossa, e con buone ragioni, di “anti-umanesimo” del mondo legal tech[10].
L’uso di questi strumenti è stato confinato il più delle volte fuori dal processo vero e proprio, in chiave preventiva dello stesso, cioè per prevederne l’esito possibile. Una sorta di do-it-yourself justice[11], una “giustizia fai da te” messa in atto consultando il responso di software decisionali che anticipano i probabili (o probabilissimi) orientamenti giurisprudenziali sulla base delle precedenti statuizioni. Gli esempi sono ben noti. Si riporta che alcuni ricercatori dell’University College di Londra e dell’University of Sheffield nel 2016 hanno creato un algoritmo in grado di prevedere in anticipo l’esito di alcune controversie riguardanti i diritti umani in decisione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in particolare, sulla base degli artt. 3, 6, e 8 della relativa Convenzione) a partire dalla struttura morfologica, e quindi dall’analisi semantica, delle precedenti sentenze in casi simili; ebbene, l’algoritmo ha previsto le conclusioni dei giudici nel 79 per cento dei casi[12]. E inoltre apprendiamo di un software, Case Cruncher Alfa (il nome dice molto: in italiano suonerebbe qualcosa come “il masticatore di casi”), elaborato da alcuni studenti di giurisprudenza dell’Università di Cambridge, il quale è risultato vincitore, gareggiando contro un pool di avvocati specializzati provenienti dai migliori studi legali inglesi, nel predire le soluzioni di 750 casi riguardanti controversie in materia di assicurazioni decise dal Financial Ombudsman: mentre la percentuale “indovinata” dal software è del 88, 6 per cento, quella della squadra composta da uomini si assesta al 62,3 per cento[13]. In Francia, poi, è operativa la piattaforma Predictice, già testata presso due corti di appello e ora ampiamente utilizzata da colossi assicurativi per testare la probabilità di successo caso per caso nell’eventualità di contenzioso e di valutare conseguentemente la strategia processuale più adatta. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Nulla esclude, però, che l’uso di questi strumenti possa avvenire anche dentro al giudizio, e cioè o in funzione decisionale vera e propria o quantomeno per orientare, con varia forza, la decisione umana. In un mondo fatto così, il giudice, ove presente, sarà sempre più spinto a conformarsi passivamente alla decisione che gli viene proposta dall’algoritmo e solo se vorrà discostarsene sarà sottoposto a più intensi doveri di motivazione. Ma quanto vorrà? Già Francesco Carnelutti, sul finire degli anni ’40, si preoccupava di questo, rilevando come l’uso (acritico) da parte dei giudici delle massime giurisprudenziali li dispensasse dalla «fatica del pensare»[14].
È senza dubbio vero che, ora, paventare lo scenario del giudice-robot è nella migliore delle ipotesi prematuro, se non proprio un esercizio di fantascienza giuridica. Ciò non toglie che, filosoficamente, valga la pena vagliare l’ideologia sottostante la giustizia algoritmica, e cioè quella di ridurre, assottigliare la discrezionalità del giudice in tutte le sue ramificazioni, fino all’ideale regolatore della sua eliminazione completa – e non mi pare certo un caso che questa esigenza sia così potente e insistente proprio in questa epoca, la nostra, che ha visto il ruolo del giudice assumere un’importanza cruciale nella governance delle nostre società ai più vari livelli.
3. L’eterno enigma del diritto
La realtà è che fare giustizia è molto più difficile che applicare la legge.
Il diritto vive in bilico tra la certezza (che presuppone l’immutabilità) e il bisogno di adattamento (che comporta, per definizione, evoluzione e quindi incertezza). È questo uno dei molteplici paradossi del diritto, uno degli enigmi che ne caratterizzano il funzionamento. Questo eterno problema può anche essere declinato come dilemma tra l’esigenza di certezza e quella di giustizia[15]. Infatti, le regole che compongono il diritto richiedono adattamento al caso concreto, o richiedono una loro evoluzione e cambiamento quando la loro interpretazione o applicazione appare (è) ingiusta. Tutto si regge, si appoggia quindi sul giudizio.
Il diritto esige quindi questa contraddizione.
Nel mondo degli algoritmi, invece, un diritto troppo calcolabile è un diritto cristallizzato e cementificato. Un diritto assolutamente calcolabile è un diritto nel quale il giudice è incoraggiato a conformarsi, omologandosi, al flusso di decisioni passate, producendo automaticamente risultati sempre identici a sé stessi (effetto “performativo”). Nei casi in cui il giudice si conformi – e l’argomentazione non deve sorprendere – egli sarebbe premiato con la possibilità di motivare succintamente, o non motivare affatto, bastando il richiamo a quanto “deciso” dall’algoritmo.
Gli effetti del conformismo giudiziale non vanno affatto sottovalutati; quest’ultimo - come rileva molto opportunamente e molto criticamente ancora Antoine Garapon – «renforce la culture, l’idéologie dans le sens de Ricoeur, au détriment de l’utopie»[16]. Portare a compimento totale il miraggio positivista del giudice-robot significa null’altro che rinforzare le soluzioni dominanti, lo stato dell’arte, il “come stanno le cose” (l’“ideologia”) a scapito, ricoeurianamente, del pensiero utopico.
Non era così che dovevano andare le cose, verrebbe da dire… Il giudice, storicamente, ha sempre svolto - negli interstizi interpretativi più o meno ampi lasciati dal legislatore, nelle fessure che le parole lasciano aperte e nella misura del consentito – una attività interpretativa volta a garantire una decisione giusta, ma giusta nel senso di giusta nel caso concreto, cioè in questa ipotesi qui, irrepetibile nella sua singolarità, hic et nunc, davanti a queste, e non altre, persone. Come già rilevava sempre Carnelutti, la giustizia – se è veramente tale – è sempre giustizia del caso singolo[17].
Prendere sul serio il giudizio significa quindi destreggiarsi tra la complessa dialettica tra regole e principi, tenere conto delle esigenze e degli interessi in evoluzione e financo – di fronte a casi nuovi – il dovere di inventare (nel senso latino di invenire, cioè “trovare dopo aver cercato”, a partire dal materiale dato) una soluzione, e giustificarla[18]. Tutte esigenze che si pongono in contrasto con gli obiettivi della giustizia algoritmica. I giuristi sanno bene che gran parte dell’evoluzione del diritto avviene nel (e tramite il) giudizio, cioè attraverso l’attività interpretativa, o interpretativo-creativa, del giudice; e ciò sconfessa, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la presunta “immunità” del diritto da quel senso di giustizia che guida l’interprete, il quale, avendo di fronte a sé questo specifico caso di specie, è chiamato a decidere. E – si badi bene – questa non è solo una innegabile affermazione descrittiva di uno stato di cose, ma una affermazione normativa, nel senso che è giusto e bene che sia così.
Mi sia consentito riportare a questo proposito un bel passo di Luciana Breggia (magistrato oltre che studiosa di diritto) in un recente articolo dedicato alla prevedibilità delle decisioni e all’umanità nel diritto:
Il giudizio umano è l’unico che può valutare quel singolo fatto per dargli valore anche al di là della fattispecie espressa e, attraverso i criteri ermeneutici, può dare rilevanza ad interessi materiali non espressamente o non completamente formalizzati nella fattispecie, ma degni di tutela alla luce del complessivo sistema delle fonti e dei principi costituzionali, eurounitari e internazionali[19]. (enfasi nostra).
Torniamo al punto di partenza, e cioè che fare giustizia è cosa ben più complessa che applicare il diritto. Fare giustizia, tra le molte altre cose, significa – come recita il passo - valutare singoli fatti per attribuire loro valore anche al di là della fattispecie espressa, e dare rilevanza a interessi materiali non espressamente o completamente esplicitati nella singola disposizione normativa. Sono affermazioni importanti, che devono essere meditate[20]. Certo, tutto ciò non significa potersi muovere al di fuori dei confini del diritto. Il giudice, dando spazio ai valori di giustizia, deve operare pur sempre dentro la legalità; anzi, possiamo dire che solo così facendo la attua appieno e nella maniera più genuina possibile. Una legalità che va oltre il legalismo formalista. Dal costituzionalismo dei principi, dalla sua portata sovversiva - come ben rileva Paolo Grossi - non si torna indietro. Da qui il capovolgimento: il “vero diritto” è incerto, e non può che esserlo[21].
Senza avallare un tanto inammissibile quanto pericolo soggettivismo del giudice, ognuno vede con chiarezza la porosità dei concetti riportati nel passo citato, quali “complessivo sistema delle fonti”, “principi costituzionali” ecc. e come questi abbiano il grande pregio di saper recepire, entro i confini della legalità costituzionale, quell’in-determinabile senso di giustizia che alla fine di ogni discorso non può che ricadere sul singolo giudicante.
Senza dimenticare infine che questo benefico margine di discrezionalità non è limitato al diritto ma si esprime anche nel momento della ricostruzione delle questioni di fatto. Queste – come giustamente sottolinea ancora Luciana Breggia – devono essere ricostruite «anche in base alle narrazioni processuali dei soggetti coinvolti, cariche di percezioni, emozioni, punti di vista»[22]. Infatti, solo «l’ascolto empatico» che è «proprio dell’umano» è in grado di dare corpo e consistenza alle istante di giustizia che devono essere riempite di senso, laddove invece una macchina «riduce la discrezionalità a un calcolo probabilistico».[23]
Ecco quindi riemergere la funzione inventiva del giudizio.
Va da sé che il tema cruciale è quello dell’educazione del giudice e della formazione della sua sensibilità. Non giudici purchessia, quindi, ma giudici attenti, consapevoli, sensibili, empatici; qualità irrinunciabili per svolgere una funzione tanto terribile come quella del giudicare (cfr. già, a questo proposito, le severe parole di Salvatore Satta: «Che una persona, un uomo, possa giudicare di un altro uomo è cosa che a noi sembra naturale (…): ma se ci si pensa un momento si vede subito che questo è uno dei misteri, forse il più grande, che stanno alla base della vita sociale. (…) Ciò significa che la forza su cui il giudice si regge, la fonte della sua autorità, non è umana, ma divina, è il charisma…»[24]). La bontà e la tenuta di un sistema si regge su queste qualità che si ottengono – certo nel lungo periodo – con una preparazione universitaria eccellente, una conoscenza teorica unita da uno spiccato senso pratico e una visione quanto più possibile consapevole delle infinite complessità della realtà e di ciò che è relazione, e cioè con un pensiero critico affinato, che rifugge il semplicismo, i giudizi taglienti, l’ottusità.
Anzi, la filosofa del diritto americana Martha Nussbaum – che più di tutti ha studiato a fondo l’importanza delle emozioni nella giustizia e nella vita politica[25] – consiglia come parte integrante dell’educazione e dell’attività dei giudici la lettura delle grandi opere letterarie e dei classici senza tempo, che parlano di uomini e vicende, dolori e complessità dell’anima. Solo in questo modo sarebbe possibile fare autentica giustizia. Nonostante questo consiglio possa sembrare, a prima vista, ingenuo o suscitare un sorriso, esso rivela in realtà una grande verità. E cioè che il desiderio, che si traduce in sforzo (per certi versi lodevole), di ottenere buone sentenze a prescindere dalle qualità umane di chi giudica è una impresa votata allo scacco, al fallimento. Siamo consapevoli, infatti, che il diritto, per quanto lo si intenda in senso ampio, non è tutto, ma che, più ancora in generale, ciò che conta è la qualità del sistema civile di riferimento, del quale il diritto è solo una parte, e forse nemmeno la più importante.
4. Gli usi processuali delle emozioni
Giudicare significa quindi non essere impermeabili, ma in ascolto. Colui che giudica, anzi, deve lasciarsi muovere dalla viva esperienza nella quale è processualmente immerso. Il processo è un contesto pervaso da emozioni fortissime; il tribunale è il luogo delle emozioni forse come pochi altri della vita sociale e tutti gli attori processuali sono anche attori emotivi. Ma il punto che vorrei enfatizzare è che non solo l’emotività del giudice è un dato innegabile, ma anche che è un qualcosa che può e deve essere incanalato positivamente.
Certo, se la domanda fosse se è bene che il giudice decida secondo i propri sentimenti e le proprie emozioni, e cioè sulla base di giudizi più o meno coscienti di antipatia e simpatia, o di rabbia, ira, collera, irritazione, tristezza, affetto, turbamento, e così via, essa non avrebbe nemmeno senso di esser posta. A ciò osta l’elaborazione plurisecolare del concetto di stato di diritto e del principio di legalità. I codici processuali, poi, si premurano di garantire che un giudice, in quelle ipotesi in cui sia coinvolto emotivamente, sia privato del potere di decidere. A salvaguardia del principio di imparzialità, la disciplina dell’astensione e della ricusazione, nel processo civile (artt. 51 e 52 c.p.c.), prevede che il giudice debba astenersi (e correlativamente possa essere ricusato) in caso di «grave inimicizia», sua o del coniuge, con una delle parti o con i difensori, o in altre ipotesi tipizzate in cui il suo “portato emotivo” potrebbe condurlo a favorire l’una o l’altra parte (come nel caso di vincoli di parentela, o di particolare frequenza di contatti con le parti).
Il codice, quindi, vuole serenità di giudizio; quella serenità che deriva dal disinteresse. Ma ciò non significa affatto che il giudice non sia chiamato, nel corso del giudizio, a fare uso di quella qualità eminentemente umana che è la comprensione delle proprie e altrui emozioni, e a servirsene. Si è già fatto cenno al delicato giudizio di diritto, che chiama il giudice a prendere in considerazione e valorizzare interessi ed esigenze anche non formalizzate nelle singole disposizioni ma desumibili dai principi generali, e come questa valorizzazione coinvolga necessariamente il senso di giustizia di un buon giudice.
Questo uso intelligente della soggettività lo si ritrova anche a proposito della valutazione degli elementi fattuali. È qui che un approccio puramente calcolatore mostra, forse, il suo volto più debole.
Solo a guisa di esempio: ai sensi dell’art. 116 del c.p.c. il giudice deve valutare la prova secondo il proprio «prudente apprezzamento», espressione che codifica il principio del “libero convincimento” (il «contenitore di emozioni» del giudicante[26]), mentre l’art. 533 c.p.p. afferma il canone dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» nel riconoscimento della colpevolezza dell’imputato. Certo, saremo gli ultimi a disconoscere la essenziale necessità di criteri razionali e obiettivi nel percorso di valutazione probatoria che rendano la decisione del giudice quanto più controllabile intersoggettivamente[27]; ma di certo è difficile spingersi fino al punto di voler negare la presenza e l’importanza di un nucleo infrangibile, un segmento ultimo e insopprimibile di soggettività insito nel convincimento personale e nella valutazione della ragionevolezza o meno del dubbio circa la colpevolezza. Potremmo davvero immaginare un giudice che si trovi a condannare un imputato, in ipotesi a una pena detentiva altissima, perché “dalle carte” oggettivamente, matematicamente, emerge che non vi sono dubbi ragionevoli circa la colpevolezza, pur non credendo egli, dentro di sé, a quella ricostruzione?
5. Conclusione. «Un algoritmo non si può convincere» (in difesa dell’umanità del giudicare)
Che ne è quindi della immacolata, pura logicità controllabile, verificabile del giudizio, inteso come dover essere regolativo?
Sul carattere puramente logico del giudizio rileggiamo Carnelutti il quale - in un dimenticato e visionario saggio[28] – scrisse che credere che il giudizio dimostri qualcosa significa commettere «l’errore di confondere la sentenza con la sua motivazione» sicché bisogna invece tenere a mente che «la motivazione giustifica, non scopre la disposizione»[29]. La distinzione alla quale Carnelutti fa riferimento è quella, ben nota, tra “contesto di scoperta” e “contesto di giustificazione”, ossia tra ragioni che spiegano e ragioni che giustificano (i “buoni argomenti” veri e propri) e in definitiva tra nozione psicologica e nozione logica del ragionamento. Prima il giudizio si forma, nasce internamente in noi e poi ne vengono esplicitate le ragioni. Naturalmente – ma non c’è, forse, nemmeno necessità di ribadirlo - tutto ciò non toglie che «vi è bisogno non solo di scoprire ma di giustificare la scoperta» e che quindi «nessuno di noi giuristi è disposto ad ammettere una sentenza non motivata». Piuttosto ciò porta ad avere consapevolezza che – nel giudizio – «la logica sillogistica… era parziale» e che non è possibile scorgere nel sillogismo «l’atto logico originale»[30].
Dove risiede quindi questo atto logico originale che dà vita e corpo al giudizio?
«Il diritto (c’è ancora bisogno di dirlo?) – afferma e si chiede ancora Carnelutti - è un fatto essenzialmente spirituale». Esso, in quanto tale, non è riducibile all’insieme delle sue parti: «la norma giuridica in sé, o un complesso di norme, un codice per esempio, è un pezzo del diritto, non tutto il diritto, cioè il diritto vivo nella pienezza della sua vita» la quale «si accende (…) quando le norme sono applicate o anche siano violate». Il diritto è viva esperienza umana: «un contratto, un delitto, un processo sono degli uomini uno di fronte all’altro», e perciò «bisogna capire quegli uomini per capire il diritto». Ecco l’umanità del giudizio. Il diritto inteso nella sua umanità non solo «è materia ribelle ai numeri» ma anche – aggiunge qui Carnelutti, toccando vette inarrivabili del pensiero giuridico – «alle parole»[31]. Ma in che senso l’esperienza giuridica sarebbe ribelle alle parole? Egli intende – se ben interpreto il suo pensiero - la parola logica, escludente, categorica, che de-termina e de-finisce (cioè che stabilisce il termine e la fine, che fissa i significati), che pretende di tagliare, e quindi recintare le intere sfumature in-dicibili e inarticolabili delle esperienze umane dentro argini concettuali. Egli, invece, non si riferisce certo alla parola parlata, recitata, narrata, raccontata, viva e vissuta; quella che si manifesta nel dialogo processuale, la “oralità” intesa non solo in chiave semplificatoria (come spesso, riduttivamente, si intende oggi) ma soprattutto come veicolo per l’approdo a una soluzione giusta.
Ecco quindi la accentuata enfasi di Carnelutti sulla dimensione dialogica della giustizia. Il parlare processuale è, sotto questo aspetto, espressamente poetico, nel senso che non vede le parole nell’univocità del loro significato. «La parola – egli prosegue con un linguaggio evocativo che ci indica la giusta strada da seguire – ha da essere parlata affinché se ne esprima la musicalità. E con l’oralità affiora la eloquenza. (…) Ma l’eloquenza combina la musica con la poesia. E il segreto della musica è la pausa; mediante i suona essa riesce a far gustare il silenzio. Non basta scrivere, bisogna parlare col giudice; e non basta spesso il discorso, se non è un’orazione perché a lui s’ha da fare intendere ciò che non si può dire»[32].
Dire l’indicibile, quindi: questo il fondamento e la funzione allo stesso tempo paradossale e necessaria del giudizio.
[1] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc., 2014, 44 e seg.
[2] B. Celano, Ragionamento giuridico, particolarismo. In difesa di un approccio psicologistico, in Riv. Fil. Dir., 2017, 315 e seg.
[3] N. Irti, Nomos e lex (Stato di diritto come Stato della legge), in Riv. Dir. Civ., 2016, 590; Id., Un diritto incalcolabile, ivi, 2015, I, 1; Id., Capitalismo e calcolabilità giuridica (letture e riflessioni), in Riv. Soc., 2015, 801; Id., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Civ., 2014, 687. V. poi la raccolta di questi studi in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016.
[4] Oltre agli studi sulla (in)calcolabilità del diritto citati alla nota precedente, adde A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna, 2017, volume nel quale la studiosa ha raccolto alcune delle riflessioni svolte durante i “Seminari Leibniz per la teoria e la logica del diritto” svoltisi presso l’Accademia Nazionale dei Lincei (Roma, ottobre 2019).
[5] P. Zellini, La dittatura del calcolo, Milano, 2018.
[6] Il riferimento è, ovviamente, al celebre Pensiero «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (B. Pascal, Pensieri (1670), in B. Pascal, Pensieri, opuscoli lettere, a cura di A. Bausola, R. Tapella, Milano, 1997, 585).
[7] Questa trascendenza della giustizia è resa con viva materialità dalle parole del Calamandrei, Fede nel diritto (a cura di S. Calamandrei, con saggi di G. Alpa, P. Rescigno, G. Zagrebelsky), Roma – Bari, 2008, 64: «Giustizia? (…) Due litiganti vanno dinanzi al giudice e tutt’e due, per soverchiare l’avversario, invocano la giustizia; la parola è la stessa, ma per ciascuno di essi vuol dire l’opposto, vuol dire la propria vittoria e la rovina del suo contraddittore. Due popoli si scannano per la conquista di un regno: tutt’e due hanno scritto la parola diritto sulla propria bandiera; ma il diritto qual è, quello del vincitore o quello del vinto, quello di chi vuol mantenere le proprie leggi, o quello di chi vuole instaurare un ordine nuovo in luogo delle leggi abbattute?».
[8] A. Garapon, Les enjeux de la justice prèdictive, in La semaine juridique (éd. gén.), 9 gennaio 2017, n. 1-2.
[9] Sull’ideologia “mitica” del codice (nel senso di credenza mitologica), si vedano le notazioni di P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma – Bari, 2015 (cap. significativamente intitolato “Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto”), 51 e seg., spec. 58.; nonché nella raccolta Id., Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007.
[10] A. Garapon, op. cit., 49
[11] A. Garapon, op. cit., 51.
[12] Lo riporta E. Gabellini, La «comodità del giudicare»: la decisione robotica, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2019, 1309.
[13] E. Gabellini, op. cit., 1310.
[14] F. Carnelutti, Giurisprudenza consolidata (ovvero della comodità del giudicare), in Riv. Dir. Proc., 1949, 41 e seg.
[15] Lucidamente, F. Carnelutti, La certezza del diritto, in Riv. Dir. Proc., 1943, 81 e seg. (a margine, criticamente, del volume di F. López de Oñate, La certezza del diritto, Roma, 1942).
[16] Garapon, op. cit., 52 (che cita, in nota 11, P. Ricoeur, L’idéologie et l’utopie).
[17] Così, incisivamente, F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 138.
[18] Sul carattere radicalmente inventivo del diritto (carattere tanto spesso quanto infruttuosamente messo in ombra nella storia), nel quadro della fine delle “grandi narrazioni della modernità” e dell’avvento del costituzionalismo, P. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma – Bari, 2017. Più di recente, cfr. anche Id., Prefazione, in R. G. Conti (a cura di), Il mestiere del giudice, Milano, 2020 e Id.,
[19] L. Breggia, Prevedibilità, predittività e umanità nella soluzione dei conflitti, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 395 e seg.
[20] Ricca di significato, a questo proposito, l’intervista ai Professori Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello, e Davide Galliani, sulla dinamica tra regole e principi sopranazionali, a cura di R. G. Conti, Il giudice disobbediente nel terzo millennio, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio , e quella ai Professori Antonio Ruggieri e Roberto Bin, a cura di R. G. Conti, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna? Le risposte, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/620-2.
[21] P. Grossi, Ritorno al diritto, cit., 66: «la cosiddetta incertezza del diritto, che non si può non cogliere quale fattore negativo se si assume un angolo di osservazione prettamente legalistico, merita un capovolgimento valutativo, se la si vede come il prezzo naturale da pagare per il recupero di una dimensione giuridica che sia veramente diritto».
[22] L. Breggia, op. cit.
[23] L. Breggia, op. cit.
[24] S. Satta, La tutela del diritto nel processo (1950), ora in Il mistero del processo, Milano, 1994, 65. Sulla complessità umana del giudizio, v. anche le recenti e profonde riflessioni di un altro grande processualcivilista, V. Colesanti, Sulla legittimazione a giudicare (meditazioni su un alto pensiero «chi sono io per giudicare?»), in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 1081 e seg.
[25] M. Nussbaum, Poetic Justice: The Literary Imagination and the Public Life, Beacon Press, 1995; Id., Upheavals of Thoughts: The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, 2001; Id., Political Emotions. Why Love Matters for Justice, Harvard University Press, 2013.
[26] L. Lanza, Emozione e libero convincimento nella decisione del giudice penale, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, 2011 (online)
[27] J. Ferrer Beltran, Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004; Id., La valutazione razionale della prova, Milano, 2007.
[28] F. Carnelutti, Matematica e diritto, in Riv. Dir. Proc., 1951, 201 e seg.
[29] F. Carnelutti, ult. op. cit., 202, 203.
[30] F. Carnelutti, ibid.
[31] F. Carnelutti, ult. op. cit., 211 – 212.
[32] F. Carnelutti, ult. op. cit., 212.
Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Tredici giorni - 2. La decisione della CEDU - 3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere - 4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto.
“Mi perseguitano delle cose, non riesco a mandarle via, non c’è fuga possibile.
Affogo nella mia mente.”
da “Tutto chiede salvezza”, Daniele Mencarelli, 2020
1. Tredici giorni
A.C. è morto suicida nel carcere di Messina il 16 gennaio 2001. Aveva trent’anni, era stato riconosciuto affetto da un quadro di complessi disturbi della personalità, aveva subito ricoveri in osservazione psichiatrica, aveva posto in essere tentativi suicidiari e altri acting out autolesivi. Gli ultimi giorni della sua vita, dall’inserimento il 3 gennaio in una sezione definita come “di sosta” in cella singola, mostrano una sequenza di comportamenti di difficile gestione, la richiesta di isolarsi dagli altri compagni e l’autolesionismo. Una visita psichiatrica suggerisce l’adozione della c.d. sorveglianza a vista, e dopo due giorni la richiesta al magistrato di sorveglianza, subito accolta ex art. 112 reg. es. ord. penit., nel persistere dei sintomi e in assenza di compliance del paziente alla terapia farmacologica, di un nuovo ricovero in osservazione psichiatrica presso l’allora esistente ospedale psichiatrico giudiziario. A.C. richiede di vedere i suoi genitori e poi il suo difensore. In entrambi i casi, a seguito delle sue doglianze, riesce ad effettuare i colloqui. Si barrica nella sua camera detentiva, oscura la luce della finestra e per due giorni resta completamente al buio, al punto che i controlli si effettuano usando delle torce elettriche. Si preferisce non forzare un accesso alla stanza, per non pregiudicare ulteriormente il precario equilibrio del detenuto. Un nuovo controllo dello psichiatra conduce ad una reiterata richiesta di trovare un posto disponibile in OPG. Dopo il colloquio con il difensore, avvenuto all’interno di quella cella al buio, A.C. afferma di voler riprendere le cure e di essere disposto a ripristinare una normale condizione della stanza. Dopo nemmeno ventiquattro ore di apparente calma, si toglie la vita per impiccagione. Inutili i soccorsi, apprestati con le ulteriori difficoltà connesse alle condizioni della cella.
2. La decisione della CEDU
Il 4 giugno 2020 la I sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione (“Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge…”), in particolare perché tale disposizione non si limita a richiedere agli Stati che si astengano dal provocare la morte, ma impone invece l’adozione delle misure necessarie alla protezione della vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione. Una affermazione che diventa particolarmente cogente per le persone private della libertà personale e che la Corte circostanzia alla luce della sua giurisprudenza più recente in materia (vd. Fernandes de Oliveira c. Portogallo, 31 gennaio 2019, in cui tuttavia si parla di una persona volontariamente ricoverata presso un reparto ospedaliero psichiatrico[1]). In particolare, l’obbligo sussiste ove l’autorità disponga di elementi dai quali dedurre “un rischio reale e immediato” che l’interessato possa attentare alla propria vita. In tali casi la violazione è dimostrata se si verifica che lo Stato non ha adottato tutte le misure ragionevoli per contrastare concretamente un tale rischio. La giurisprudenza della CEDU enuncia un elenco di fattori sintomatici in tal senso, che comprendono una valutazione anamnestica dei disturbi psichici, la gravità delle patologie riscontrate, i precedenti autolesivi o addirittura i tentativi di suicidio, i malesseri fisici e psichici e l’ideazione suicidiaria riferiti.
Attraverso una disamina puntuale dei fatti solo succintamente riportati nel par. 1 di questa breve lettura, poggiando anche sui corposi atti del procedimento penale svoltosi a Messina e poi conclusosi con l’assoluzione dall’accusa rivolta ad otto persone, tra le quali l’allora direttrice dell’istituto penitenziario e lo psichiatra, di non aver impedito il suicidio di A.C., la CEDU perviene alla condanna dell’Italia.
L’amministrazione era a conoscenza delle condizioni di salute psichica del detenuto, tanto da aver posto in essere azioni specifiche al riguardo, ed era in grado di apprezzare un rischio concreto che lo stesso ponesse in atto condotte suicidiarie, già varie volte tentate in passato. Plurimi sono gli indici che quindi consegnano ai giudici di Strasburgo una fotografia che considerano di carente diligenza da parte delle autorità: troppo lungo l’intervallo di tempo trascorso tra la deliberazione del magistrato di sorveglianza, il 9 gennaio, circa la necessità del trasferimento in Opg, e la morte di A.C.; contraddittoria la decisione presa di ridurre, seppur di poco, il livello di sorveglianza previsto, da “a vista” a “grandissima sorveglianza”, con pur frequentissimo, ma non meglio specificato negli atti forniti alla Corte, controllo da parte degli operanti di polizia penitenziaria; carente la supervisione medica circa l’effettiva assunzione della terapia farmacologica; infelice la scelta di non rimuovere le barricate e gli scuri apposti dall’interessato, in preda ad una evidente acuzie patologica, pur se dettata dall’obbiettivo di evitare ulteriori traumi all’interessato; intermittente la presenza dello psichiatra, per altro non sempre lo stesso, che visitò in alcune giornate il paziente, a dispetto di quanto le Raccomandazioni, già all’epoca in vigore, del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, prevedessero circa la necessaria costanza nel controllo specialistico dei detenuti con rischio suicidiario (“sarebbe stato necessario prevedere delle consulenze psichiatriche quotidiane”).
La Corte ritiene sostanzialmente assorbita la doglianza relativa all’art. 3 CEDU, mentre rigetta la richiesta relativa alla violazione procedurale dell’art. 2, per la quale lo Stato ha l’obbligo di stabilire le cause della morte della persona e di compiere una verifica specifica circa le eventuali responsabilità anche di tipo omissivo da parte delle autorità competenti e ritiene che, nel caso specifico, il processo svoltosi, previe indagini della Procura della Repubblica di Messina, sia stato scrupoloso e basato su una ricerca di elementi effettivi sulle circostanze del decesso di A.C.
3. Ancora una condanna in materia di tutela della salute in carcere
Come noto, il diritto alla salute non trova una sua espressa formulazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e la Corte di Strasburgo ne ha dunque ricondotto, volta a volta, la tutela a quella del diritto alla vita (art. 2) , alla dignità umana (art. 3), al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). Con riferimento alle persone detenute, cui viene riconosciuta una condizione di particolare vulnerabilità in connessione con la propria condizione, il diritto alla salute è molte volte ricondotto all’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani). La CEDU affronta il tema da tempo con una giurisprudenza consolidata e illuminante, a far data dalla storica sentenza Kudla v. Poland, 26 ottobre 2000, di cui ricorre significativamente il ventennale, quasi parallelo ai tragici fatti di cui alla condanna in commento. Una detenzione in cui le condizioni di salute patologiche non siano adeguatamente e tempestivamente prese in carico aggiunge alla sofferenza che inevitabilmente discende dalla privazione della libertà un peso aggiuntivo, che può divenire intollerabile e che incide sulla stessa dignità umana. Questa breve osservazione non può avere l’obbiettivo di riprendere i molteplici filoni di censura rivolti al nostro paese che negli anni hanno riguardato questa materia e che costituiscono altrettanti insegnamenti fondamentali perché gli operatori interni possano orientare le difficili scelte che in questo campo sono chiamati a compiere. Il fattore tempo assume un rilievo essenziale, come per altro accade pure nel caso Citraro qui in commento, le cure fornite ai detenuti non possono essere inferiori a quelle offerte ai cittadini liberi, né le condizioni di sovraffollamento possono giustificare un accesso sporadico e comunque insufficiente ai servizi sanitari. Neppure è giustificabile che il ritardo sia attribuito ad eventuali rimpalli di responsabilità tra amministrazioni coinvolte.
La sentenza Citraro, in particolare, riprende principi consolidati nella drammatica materia della tutela dei soggetti con patologie psichiatriche e con pregressi tentativi suicidiari, in cui l’obbligo positivo da parte dello Stato di tutelare la vita della persona posta nella sua responsabilità durante la restrizione della libertà pone in primo piano l’art. 2 della Convenzione e, nonostante ci si muova con grande prudenza per evitare di imporre oneri oggettivamente inesigibili alle autorità, si richiede di poter individuare quali azioni credibilmente efficaci le stesse abbiano posto in essere per scongiurare il verificarsi di un evento suicidiario. In tal senso la lettura delle motivazioni ci consegna una sintesi lucida e stringente tanto degli elementi che definiscono la prevedibilità di un pericolo concreto di suicidio, valutati appunto con grande prudenza soltanto a fronte di evidenze documentali, quanto dei molteplici elementi di contraddizione che, nel caso concreto, hanno poi condotto alla condanna e che non possono che interrogare drammaticamente chi conosca la realtà del carcere, di ieri come di oggi.
4. Il tempo trascorso e i problemi ancora sul tappeto
Il suicidio di A.C. è avvenuto quasi venti anni fa. Molto è dunque cambiato, anche dal punto di vista normativo, rispetto all’epoca dei fatti. Non sono purtroppo divenuti più episodici i suicidi nel contesto penitenziario[2]. Non è meno urgente la concretizzazione di più efficaci strategie di presa in carico delle patologie psichiatriche in carcere.
Non può negarsi che si siano compiuti in seguito passi di civiltà fondamentali e plurimi tentativi di affinare l’attenzione degli operatori al problema: il complesso passaggio della sanità penitenziaria alla competenza del Ministero della Salute e delle Regioni, come accade per tutti i cittadini, completato con DPCM 1 aprile 2008; la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari con L. 81 del 30 marzo 2014, a partire dal 31 marzo 2015; gli Accordi in Conferenza Unificata in tema di prevenzione delle condotte suicidiarie; i numerosi protocolli in merito adottati nelle singole Regioni con i Provveditorati regionali e con tutti gli istituti penitenziari; le circolari reiteratamente proposte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fronte di un incessante ripetersi di casi di suicidio all’interno delle mura del carcere.
Ne emerge con chiarezza la necessità di affrontare con tempestività e capacità di organizzazione la presa in carico dei detenuti sin dal momento dell’ingresso, intercettandone il disagio psichico ed integrando gli interventi delle diverse aree coinvolte.
Parallelamente, al tema della salute mentale in carcere era stato dedicato uno spazio significativo nei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale e le Commissioni di riforma dell’ordinamento penitenziario avevano consegnato al legislatore delegato, in relazione alla delega contenuta nella legge 103/2017, soluzioni importanti per incidere in modo significativo su alcune delle più gravi criticità riscontrate, anche all’esito della citata necessaria chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
In particolare, sotto questo profilo, resta la consapevolezza che, mentre per l’esecuzione delle misure di sicurezza gli OPG hanno trovato nella presa in carico territoriale e, solo come ultima ratio, nelle REMS, le nuove soluzioni operative, per le persone affette da problematiche psichiatriche in esecuzione di pena è oggi approntato un sistema di reparti di osservazione all’interno di alcune strutture penitenziarie (cui si viene ancora inviati su disposizione dell’a.g. ex art. 112 reg. es. ord. penit.), che possono essere sovraffollate e richiedono comunque tempi di attesa prima dell’inserimento, e di c.d. “articolazioni per la salute mentale”, la cui diffusione sui territori è assai diseguale, con inevitabili conseguenze sulla virtuosa presa in carico da parte dei servizi sociali e dei centri di salute mentale che, invece, costituisce la chiave essenziale per interventi efficaci.
Come noto, soltanto in minima parte le proposte di riforma hanno trovato nei d.lgs. 123 e 124 del 2018 una loro concretizzazione e così se, ad esempio, nel nuovo testo dell’ art. 11 ord. penit. inspiegabilmente non si cita più la dotazione di almeno uno specialista in psichiatria per ogni istituto penitenziario (tragicamente quasi adattando il dato normativo ad un fatto che troppe volte accade), è però rimasto un forte richiamo, fondamentale per la tutela della salute psichica, alla necessaria continuità degli interventi sanitari e all’uniformarsi a principi di metodo proattivo, di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, di integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria (art. 11 co. 7 ult. parte ord. penit.).
La Corte Costituzionale, poi, con la sentenza 19 aprile 2019 n. 99, ha ampliato la possibilità di ricorrere alla detenzione domiciliare surrogatoria del rinvio dell’esecuzione della pena ex art. 146 – 147 cod. pen. in correlazione con le condizioni di grave infermità psichica, consentendo con ciò, in linea con quanto la Commissione di riforma aveva immaginato, una via verso l’esterno maggiormente idonea a costruire intorno al detenuto malato un progetto di cure efficaci, ad esempio all’interno di strutture territoriali adeguate.
Tuttavia, la storia di A.C. può purtroppo raccontare, senza poterla affatto archiviare come un drammatico episodio del passato, quella evitabile di altre persone detenute con problematiche psichiatriche che non incontrano ancora efficaci soluzioni di presa in carico realmente integrata all’interno del contesto penitenziario. Accade ancora che, per la difficile compatibilità di molti di loro con i loro compagni, gli stessi vengano volte posti in sezioni “di passaggio”, dove però si resta in quelle celle singole sempre additate come di peculiare rischio per l’incolumità di chi abbia mostrato intenti suicidiari. Accade che l’assistenza degli psichiatri finisca per essere sporadica, quando la CEDU la chiederebbe, almeno per chi si trova in condizioni di particolare acuzie, quotidiana, e che sia apprestata senza che lo specialista chiamato sia sempre lo stesso, impedendo in tal modo il crearsi di quell’alleanza terapeutica che è massimamente importante per garantire una migliore compliance alle cure apprestate. Accade che il rifiuto di assumere le terapie, non certo infrequente a fronte di patologie psichiatriche, possa non essere monitorato a sufficienza, mediante un intervento diretto del medico, ma rilasciato al personale infermieristico, spesso oberato dagli infiniti impegni quotidiani. Accade che queste stesse terapie finiscano per limitarsi a volte a mera sedazione, anche in supplenza di un accompagnamento psicologico e psichiatrico invece fondamentale e non fungibile. Accade che tali detenuti, spesso per altro gravati da plurime marginalità, magari stranieri od ormai privi di un sostegno emotivo familiare, non godano di quel refolo di umanità residua che viene dai colloqui visivi e dai contatti telefonici con i congiunti e che tempera il clima irrespirabile della cella.
Soprattutto vi è il rischio che la persona con problematica psichiatrica, spesso portatrice di una incapacità di rientrare nelle normali regole di convivenza, finisca per inanellare soltanto rilievi disciplinari e sanzioni, innescando un circuito vizioso che gli allontana una possibile progettualità esterna, che invece è così essenziale costruire proprio mediante un approccio multidisciplinare al problema[3]. Ora infatti, che qualche spazio normativo si è aperto, grazie all’intervento della Consulta, occorre costruire i progetti e creare nei diversi attori istituzionali la consapevolezza del contributo che ciascuno può e deve dare.
L’esperienza del magistrato di sorveglianza racconta di quanto il suicidio di una persona detenuta costituisca per l’istituto penitenziario in cui avviene un gravissimo choc negativo, che perturba drammaticamente, ed interpella senza vie di fuga, tutte le persone che fanno parte della comunità penitenziaria. Intorno alla tragedia della persona, con la sua individualità e le sue motivazioni mai fino in fondo perscrutabili, si consuma quello tutto privato dei compagni di pena, con le loro domande, a volte verbalizzate a chi si accosti a loro per condividerne l’angoscia, sul senso di quel che vivono e di quel che hanno condiviso con chi si è tolto la vita, e quello istituzionale delle diverse anime che lavorano quotidianamente perché le pene detentive mantengano la loro funzione costituzionale: dalla polizia penitenziaria, che tante volte riesce ad evitare il peggio, agli operatori giuridico-pedagogici e agli assistenti sociali, sino ai volontari, che spesso sono in grado di intercettare per primi i segnali che possono innescare un virtuoso meccanismo di rete.
Il sovraffollamento penitenziario costituisce, in questo contesto, un grave ostacolo alla realizzazione concreta degli obbiettivi che la CEDU ci chiede di mantenere e che sono alla base della copiosa produzione normativa ed amministrativa in materia. Occorre infatti che vi siano tempi e spazi adeguati per una presa in carico individualizzata delle persone detenute, nonché una formazione specifica di tutte le figure professionali chiamate in prima linea ad affrontare il problema, affinché il carcere possa non soltanto evitare che il peggio accada, ma innescare meccanismi di tutela della salute mentale che, pur a fronte della sofferenza che discende senza illusioni dalla privazione della libertà, prevengano lo slatentizzarsi delle patologie. Su questa strada sono incamminati tutti gli attori del mondo penitenziario, perché ciascuna professionalità è indispensabile e non può arretrare trincerandosi dietro riparti di competenze formali, ma è necessario che si lavori alacremente perché le risorse umane (si pensi alla drammatica carenza di accessi in carcere degli specialisti in psichiatria) e materiali siano decisamente implementate. Soltanto questo sistema potrà esonerarci dalla grave responsabilità che nel caso Citraro e Molino i giudici di Strasburgo ci hanno attribuito.
[1] Grande Chambre Cedu Fernandes de Oliveira c. Portugal, 31.01.2019, in https://hudoc.echr.coe.int/eng/#{"itemid":["001-189880"]}. Vi si legge anche la preziosa opinione, in parte dissenziente, redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, che considera necessario che allo Stato siano imposti standard più elevati di tutela quando ci si riferisca a categorie particolarmente vulnerabili di persone ospedalizzate in regimi comunque restrittivi. L’opinione si segnala anche per la domanda di concretezza che la materia impone, tanto da far definire la pronuncia della Corte come “un exercice d’appréciacion judiciaire créatif pour un pays imaginaire”.
[2] Cfr. per un quadro aggiornato e completo circa quest’ultima emergenza e le problematiche connesse alla tutela della salute mentale in carcere oggi costituiscono strumenti di approfondimento fondamentali la Relazione al Parlamento 2020 del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e la relativa Presentazione del 26 giugno 2020 in http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/
[3] E’ di questi giorni la redazione di una versione aggiornata delle Regole penitenziarie europee che, tra l’altro, insistono ulteriormente sui limiti dell’isolamento e dell’uso delle sanzioni disciplinari in genere, in particolare in correlazione con le conseguenze in tema di salute mentale. Cfr. Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules revised and amended by the Commitee of Ministers on 1 july 2020 https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectId=09000016809ee581
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Modello di bilanciamento nel procedimento sanzionatorio: efficienza e tutela dei diritti.
di Elisa Arbia
Il procedimento sanzionatorio per violazione degli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) di fronte all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) trae la propria fonte normativa nella legge 287 del 1990, nel D.P.R. 30 aprile 1998 n. 217 e, in via sussidiaria, nel regolamento europeo 1/2003. Si tratta di un procedimento che può condurre all’adozione di sanzioni particolarmente ingenti, destinate, in determinati casi, ad avere una portata particolarmente afflittiva nei confronti delle imprese. Partendo da una breve disanima della natura delle sanzioni antitrust, il presente contributo intende analizzare brevemente i modelli di enforcement presenti a livello comparato, per poi soffermarsi sulle peculiarità del modello italiano e in particolare sulle garanzie difensionali accordate alle parti, in ottemperanza ai principi espressi dall’articolo 6 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (CEDU) .
Sommario: 1. Cenni sulla natura delle sanzioni irrogate dall’AGCM - 2. Modelli di enforcement in una prospettiva comparatistica - 3. Il procedimento sanzionatorio di fronte all’AGCM e garanzie defensionali - 3.1. Garanzie strutturali: ripartizione di competenze e full judicial review - 3.2. Garanzie procedimentali.
1. Cenni sulla natura delle sanzioni irrogate dall’AGCM
Il tema della natura delle sanzioni irrogate dall’AGCM alla luce della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è da anni oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza nazionale ed europea. L’evoluzione interpretativa che ne è emersa ha portato all’estensione ai procedimenti di fronte all’AGCM delle garanzie previste dalla CEDU in materia di giusto processo.
A ben vedere, infatti, sebbene la CEDU sia concepita per proteggere "le persone fisiche dall'esercizio arbitrario o eccessivo del potere statale", secondo la tesi ad oggi prevalente, essa rappresenta uno strumento per la protezione di tutti i soggetti, persone fisiche o giuridiche, dall'arbitrario ed eccessivo esercizio del potere pubblico, ivi comprese le imprese.
In particolare, con la nota sentenza Engel[1] la Corte ha evidenziato come ai fini dell’individuazione della reale natura di una sanzione sia necessario un approccio non solo formale ma anche funzionale. La Corte infatti stabilisce quattro criteri, di natura alternativa e non cumulativa, quali: la qualificazione giuridica da parte del legislatore nazionale; gli interessi giuridici tutelati; la funzione svolta dalla sanzione; la severità delle stesse. In questo senso, sono riconducibili a natura penale quei procedimenti sanzionatori che perseguono una finalità di interesse generale, e che prevedono sanzioni contraddistinte da uno scopo preventivo e repressivo e non solo riparatorio.
Alla luce di questi criteri, la dottrina e la giurisprudenza, CEDU e nazionale, sono concordi nel considerare il procedimento sanzionatorio AGCM come un procedimento para-penale soggetto alle norme CEDU in materia di garanzie del giusto processo e tutela dei diritti di difesa. A tale conclusione è, infatti, pervenuta la Corte in due storiche sentenze, che negli ultimi anni hanno arricchito il dibattito in materia di garanzie defensionali nell’ambito dei procedimenti sanzionatori delle autorità amministrative indipendenti, e che, come si vedrà nel proseguo hanno avuto importanti ripercussioni in termini di garanzie di equo processo: il caso Menarini e il caso Grande Stevens[2].
Dall’altronde tale linee interpretativa emerge chiaramente dagli orientamenti comunitari attualmente in vigore[3] i quali militano a favore del carattere dissuasivo e repressivo delle sanzioni laddove prevedono che: “le ammende devono avere un effetto sufficientemente dissuasivo, allo scopo non solo di sanzionare le imprese in causa (effetto dissuasivo specifico), ma anche di dissuadere altre imprese dall'assumere o dal continuare comportamenti contrari agli articoli [101 e 102 del TFEU]”.
Allo stesso modo l’art. 15 Legge 287/1990, stabilisce che “l’Autorità può imporre sanzioni pecuniarie ove la condotta illecita sia qualificata da gravità. Le sanzioni antitrust non hanno “natura di misura patrimoniale civilistica (…) bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi (affini a quelli della sanzione penale)”.
2. Modelli di enforcement in una prospettiva comparatistica
È alla luce di tali premesse che deve essere vagliato il modello procedimentale dell’AGCM al fine di comprendere in che modo lo stesso sia conforme ai principi sanciti dalla CEDU[4].
A livello di teoria generale, i modelli di enforcement antitrust, possono essere distinti in base al rapporto intercorrente tra il potere di indagine e quello decisorio, e in riferimento a due aspetti essenziali: rendimento dell'agenzia e tutela del diritto di difesa. L’analisi comparatistica rileva come in alcuni paesi sia previsto un secondo grado da parte di un’autorità (giudiziale o non) che può compiere un giudizio "ex novo" mentre, in altri, l’autorità di secondo grado può solo vagliare la correttezza delle valutazioni di fatto compiute dall'agenzia. Nel primo caso, la revisione "ex novo" garantisce l'indipendenza dalla decisione, ma richiede più tempo e maggior livello di competenza. Nel secondo caso, invece, sebbene l’autorità di seconda istanza possa prendere una decisione più rapidamente, il suo giudizio è limitato e di tipo meramente estrinseco.
In particolare, si suole distinguere tra modello “biforcato giurisdizionale”, il cui esempio tipico è quello degli USA, in cui il Department of Justice (DOJ) nella sua sezione specializzata antitrust è competente per la fase di indagine, mentre la decisione finale circa l’irrogazione o meno di una sanzione è demandata agli organi di giurisdizione ordinaria, le Corti Federali; e il modello “biforcato specializzato”. Un esempio è quello del modello di enforcement presente in Sud Africa dove vi è una separazione tra poteri inquirenti e poteri decisori, demandati rispettivamente ad un’autorità specializzata e un tribunale specializzato.
Infine, modello, solo apparentemente diametralmente opposto, è quello “integrato” al quale è improntato il procedimento sanzionatorio del AGCM, dove le funzioni inquirenti e giudicanti sono entrambe attribuite ad unico organismo, sebbene con una serie di correttivi al fine di una più pregnante tutela dei soggetti sottoposti a procedimento.
Da questi brevi cenni, è possibile trarre quelli che sono i pro e i contro di ciascuno degli evidenziati modelli. A ben vedere, infatti, il modello integrato garantisce prestazioni migliori in termini generali poiché l'adozione della decisione avviene con modalità che assicurano massima efficienza, coerenza interna del procedimento, e decisioni rapide. Tuttavia, l’autorità è "giudice nel suo caso" e la decisione può essere influenzata da possibili pregiudizi investigativi.
Il modello di agenzia / tribunale biforcato garantisce una maggiore tutela dei diritti di difesa poiché la decisione è adottata da un tribunale diverso e specializzato. Tuttavia, la separazione tra le funzioni investigative e decisorie può ridurre l'efficienza, e non sempre condurre a decisioni maggiormente ponderate: i membri del tribunale non possono sviluppare una significativa esperienza, poiché spesso la disciplina antitrust rappresenta un segmento di nicchia rispetto ai settori più ampi in cui il tribunale è chiamato ad intervenire[5].
Infine, il modello giudiziario biforcato garantisce un livello molto elevato di “judicial review” poiché il giudizio della corte non è in alcun modo influenzato dal giudizio di chi ha posto in essere l’attività investigativa. Tuttavia, la mancanza di esperienza può portare a decisioni incoerenti tra loro o in parziale contrasto con i principi del diritto della concorrenza a causa dell'assenza di una corretta prospettiva economica di analisi. Infine, se il sistema giudiziario nazionale è afflitto da ritardi costanti, incardinare la competenza in materia antitrust in capo ai tribunali ordinari potrebbe peggiorare le prestazioni dell'intero sistema.
3. Il procedimento sanzionatorio di fronte all’AGCM e garanzie defensionali
Il procedimento sanzionatorio di fronte all’AGCM, come del resto quello centralizzato a livello Europeo di fronte alla Direzione Generale della Commissione Europea, è caratterizzato dalla concentrazione delle funzioni inquirenti e giudicanti in capo ad un unico organismo con una serie di garanzie per le imprese sottoposte ad investigazione, al fine di assicurare il rispetto dei principi del giusto procedimento di cui all’articolo 6 CEDU.
In particolare, sono previste garanzie di tipo “strutturale” e di tipo “procedimentale”.
3.1. Garanzie strutturali: ripartizione di competenze e full judicial review
Sotto il primo profilo è utile evidenziare che il procedimento prevede una ripartizione delle competenze all’interno dell’autorità al fine di scongiurare il rischio del c.d. presecuterial bias. In dottrina infatti è stato rilevato come vi sia una naturale inclinazione del collegio inquirente a concludere il procedimento con un provvedimento sanzionatorio. Tale pregiudizio trarrebbe origine da una serie di constatazioni: da una parte, a livello psicologico, l’ufficio inquirente sarebbe incline alla colpevolezza dell’impresa per giustificare e non vanificare le energie devolute alle indagini, facendo prevalere una lettura delle prove in senso negativo per l’impresa, dall’altra numerosi provvedimenti sanzionatori, potrebbero essere percepiti come sintomo di un alto livello di enforcement e di efficacia del sistema antitrust.
A tale fine è pertanto previsto che l’ufficio designato sia competente all’attività istruttoria, e che le decisioni di apertura del procedimento, di invio della comunicazione delle risultanze istruttorie, e di adozione delle sanzioni siano invece adottate dal collegio sulla base delle risultanze istruttorie presentate dall’ufficio.
La previsione della possibilità di impugnare le decisioni adottate dall’AGCM di fronte ad un giudice terzo e imparziale, quale il giudice amministrativo, rappresenta però la garanzia strutturale più rilevante.
Secondo quanto disposto dal codice del processo amministrativo, le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori, adottati dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (articolo 133, comma 1, lett. l, c.p.a.), la quale - a differenza della giurisdizione di merito, che conosce delle sanzione pecuniarie (articolo 134 c.p.a.) – trova il proprio limite esterno nel fatto che nell’esercizio di essa il giudice amministrativo non possa sostituirsi all’amministrazione. Ancorché esclusiva, la giurisdizione che spetta al giudice amministrativo è infatti una giurisdizione di legittimità e non sul merito. Il fatto che nella materia antitrust il potere amministrativo sia caratterizzato da c.d. discrezionalità tecnica implica però l’ammissibilità, come affermato dalla giurisprudenza più recente, di un più forte ed incisivo sindacato del giudice, orientato ad una piena ed effettiva tutela delle situazioni giuridiche soggettive dedotte in controversia. Questo “intrinseco” sindacato del giudice è stato ritenuto tale da includere anche il riesame delle valutazioni tecniche fatte dall’Autorità come pure dei principi economici e dei concetti giuridici indeterminati utilizzati, facendo ricorso e regole e conoscenze tecniche appartenenti alle stesse discipline applicate dall’amministrazione.
In particolare, nella già richiamata pronuncia Menarini[6], dopo aver riconosciuto la natura penale delle sanzioni dell’AGCM, la Corte ha precisato che le garanzie dell’equo processo, che si applicano in maniera meno stringente nel caso dei procedimenti para penali come nel caso in esame, sono rispettate alla luce della “full judicial review” esercitata da parte del giudice amministrativo italiano. In riferimento al caso in esame la Corte ha affermato che “la competenza del giudice amministrativo non si è limitata ad un semplice controllo di legittimità. I giudici amministrativi hanno potuto verificare se, in relazione alle particolari circostanze della causa, l’AGCM aveva fatto uso appropriato dei suoi poteri. Hanno potuto esaminare l’adeguatezza e la proporzionalità della misura della AGCM e anche controllarne le valutazioni di ordine tecnico. Inoltre, il controllo effettuato sulla sanzione è stato di piena giurisdizione nella misura in cui il TAR ed il Consiglio di Stato hanno potuto verificare l’adeguatezza della pena all’infrazione commessa e, ove necessario, avrebbero potuto sostituirla”. In questo senso, secondo la Corte il momento di terzietà è spostato al di fuori del procedimento in sé, attraverso una tutela aggiuntiva apprestata dalla giurisdizione amministrativa. Con la sentenza Grande Stevens[7], invece, la Corte si è espressa in materia di doppio binario sanzionatorio escludendo l’ammissibilità di una doppia punibilità mediante procedimento penale e amministrativo di una medesima condotta integrante un abuso di mercato[8].
Il Consiglio di Stato sulla scia della richiamata giurisprudenza CEDU[9], ha in varie occasioni ritenuto di poter effettuare un controllo in sede giurisdizionale dei fatti posti a fondamento dei provvedimenti sanzionatori delle Autorità indipendenti[10] ritenendo che l’accesso al fatto non possa subire alcuna limitazione anche in relazione ad ipotesi complesse, caratterizzate da particolare tecnicismo. Il giudice amministrativo è legittimato a sindacare senza alcun limite tutte le valutazioni tecniche risultando il relativo sindacato pieno e particolarmente penetrante, fino ad estendersi al controllo dell’analisi economica o di altro tipo compiuta dall’Autorità, potendo sia rivalutare le scelte tecniche compiute da quest’ultima, sia “applicare la corretta interpretazione dei concetti giuridici indeterminati alla fattispecie concreta in esame”[11]. Tale ultimo orientamento “esclude limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall’attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, individuando quale unica preclusione l’impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all’Autorità” [12].
In questo senso, dunque, questo tipo di controllo, come rilevato, è stato considerato soddisfacente dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e finisce per avere importanti ricadute, rendendo un modello, apparentemente integrato, in un modello biforcato in cui la decisione di una agenzia specializzata può essere rivista, seppure con i limiti del caso, da organo di giustizia ordinaria.
3.2. Garanzie procedimentali
Sotto il profilo “procedimentale” sono assicurati una serie di diritti in capo alle imprese oggetto del procedimento, che si sostanziano nel diritto di accesso al fascicolo istruttorio, la possibilità di depositare memorie, di essere ascoltati in audizione, di proporre impegni in contraddittorio per rimuovere il pregiudizio alla concorrenza ed evitare l’inflizione di una sanzione.
In prospettiva di maggior approfondimento il procedimento sanzionatorio antitrust prende avvio da un “provvedimento di avvio del procedimento” adottato dal collegio su proposta dell’ufficio inquirente. Tale provvedimento deve essere notificato alle parti, e ai terzi interessati che, presentando un interesse immediato e attuale, hanno denunciato i fatti nei confronti dei quali si procede. Il provvedimento deve indicare il nome del responsabile del procedimento, il termine di chiusura del procedimento, le accuse, l’ufficio presso il quale è possibile prendere visione degli atti. Come è evidente, il provvedimento di avvio risponde alla duplice finalità di assicurare un più pregnante diritto di difesa e favorire la massima collaborazione delle parti al fine di fornire all’AGCM tutti gli elementi per adottare la decisione.
La garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio è, assicurata dall’ Art. 14 della Legge 10 ottobre 1990, n. 287 che prevede che l’AGCM, nei casi di presunta infrazione, notifichi l’apertura dell’istruttoria alle imprese e agli enti interessati. I titolari o legali rappresentanti delle imprese ed enti hanno diritto di essere sentiti, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine fissato contestualmente alla notifica ed hanno facoltà di presentare deduzioni e pareri in ogni stadio dell’istruttoria, nonché́ di essere nuovamente sentiti prima della chiusura di questa.
Ad integrazione di tale disposizione il D.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 all’ Art. 7 prevede che sia assicurata la partecipazione all’istruttoria in capo a i soggetti ai quali è stato notificato il provvedimento di avvio dell’istruttoria, i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché́ le associazioni rappresentative dei consumatori, cui possa derivare un pregiudizio diretto, immediato ed attuale dalle infrazioni oggetto dell’istruttoria o dai provvedimenti adottati in esito alla stessa e che facciano motivata richiesta di intervenire entro trenta giorni dalla pubblicazione nel bollettino del provvedimento di avvio dell’istruttoria.
La partecipazione all’istruttoria permette l’esercizio di una serie di facoltà. In particolare, i soggetti che partecipano all’istruttoria possono presentare memorie scritte, documenti, deduzioni e pareri; e accedere ai documenti. I soggetti ai quali è stato notificato il provvedimento di avvio dell’istruttoria, hanno diritto di essere sentiti in ogni fase del procedimento e in ogni caso prima della chiusura dello stesso e di presentare memorie.
Due istituti concorrono poi ad assicurare un più pregnante diritto di difesa. Da una parte l’istituto dei rimedi in forza del quale che entro tre mesi dal provvedimento di avvio del procedimento le imprese possono instaurare un contradditorio sulla proposta di impegni, al fine di porre rimedio ai pregiudizi alla concorrenza individuati dall’AGCM. Dall’altro l’istituto dell’accesso agli atti disciplinato dal DPR 30 aprile 1998, n. 217 Art. 13, assicura che il diritto di partecipazione sia effettivo e consapevole.
Allo stesso tempo, da contraltare al diritto di accesso è garantita la riservatezza delle informazioni raccolte, dal momento che il diritto di accesso ai documenti formati o stabilmente detenuti dall’AGCM può essere limitato qualora i documenti contenuti nel fascicolo contengano informazioni riservate di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario, relative a persone ed imprese coinvolte nei procedimenti. In ogni caso i documenti che contengono segreti commerciali sono sottratti all’accesso, su apposita istanza delle parti interessate e qualora essi forniscano elementi di prova di un’infrazione o elementi essenziali per la difesa di un’impresa, gli uffici ne consentono l’accesso, limitatamente a tali elementi.
Le investigazioni sono condotte dall’ AGCM attraverso l’uso di una serie di strumenti: il potere di effettuare dawn raids, di chiedere l’esibizione di documenti, di presentare richieste di informazioni, alle quali l’impresa deve rispondere in modo completo e veritiero, pena l’inflizione di una sanzione. Anche in questo contesto è riconosciuto alle imprese oggetto di investigazione il diritto di riservatezza, tutelato a livello CEDU dall’articolo 8, alla luce del privilegio legale professionale, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia nel caso Akzo [13]. L’articolo 8 CEDU prevede una duplice garanzia. Da una parte la possibilità di opporre istanza di confidenzialità negli scambi con il legale esterno, dall’altra la possibilità di chiedere lo stralcio e l’oscuramento di quelle parti dei provvedimenti che possano contenere segreti di impresa.
Acquisito il materiale istruttorio l’ufficio relaziona al collegio, il quale, laddove non ritenga le allegazioni degli uffici manifestamente infondate e il materiale probatorio sufficiente a fondarle, autorizza l’invio di una CRI – comunicazione delle risultanze istruttorie, in cui viene comunicato il termine di conclusione delle indagini, e la possibilità per le imprese sottoposte al procedimento di essere ulteriormente ascoltate e di presentare memorie conclusive.
Gli uffici su approvazione del collegio adottano il provvedimento sanzionatorio, contenente l’ordine di sospendere la condotta lesiva della concorrenza, e l’irrogazione di una sanzione pecuniaria.
Si tratta di sanzioni particolarmente gravose, per la fissazione delle quali l’AGCM gode di ampia discrezionalità, nel rispetto di alcuni parametri stabiliti dalla legge, a garanzia di una maggior certezza del diritto. In questo senso le linee Guida sulle modalità̀ di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’AGCM in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/1990, dettano dei canoni precise.
[1] Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi; e Corte Europea dei diritti dell’uomo, 21 febbraio 1984, Ozturk e altri c. Germania.
[2] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics Srl c. Italia; Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia.
[3] Guidelines on the method of setting fines imposed pursuant to Article 23(2)(a) of Regulation No 1/2003 (Text with EEA relevance), Gazzetta Ufficiale C 210, 1.9.2006, p. 2–5
[4] Sul punto si rinvia a A. Jones and B. Sufrin, EU Competition Law Text Cases and Materials, Oxford University Press 2014; A. Andreangeli, Towards an EU competition Court: “Article-6-Proofring” Antitrust Proceedings before the Commission?, World Competition 4/2007, 595; A. Andreangeli, EU Competition enforcement and Human rights, Edward Elgar 2008.
[5] Si rinvia a E. Fox, e M.J Trebilcock, The Design of Competition law institutions, Oxford University Press 2013.
[6] Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics Srl c. Italia.
[7] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia.
[8] F. Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, (Dike 2018); W. Wills, The Increased Level of Antitrust Fines, Judicial Review, and the European Convention on Human Rights, World Competition, 33(1)/2010, 5
G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, (Cedam 2012)
[9] In particolare, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 26 marzo 2015, n. 1596, ha ritenuto che “nei casi in cui, come accade negli ordinamenti di molti Stati membri, il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, allora l’art. 6, par. 1 CEDU postula che l’interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell’accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato del potere di esercitare un sindacato di full jurisdiction. Il sindacato di full jurisdiction implica, secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale”.
[10] Consiglio di Stato sentenza del 6 maggio 2014, n. 2302; Consiglio di Stato sentenza del 24 febbraio 2016, nn. 743 e 744; Consiglio di Stato sentenza del 2 ottobre 2015, n. 4616.
[11] Consiglio di Stato sentenza del 8 febbraio 2007, n. 515; Consiglio di Stato sentenza del 29 settembre 2009, n. 5864, ove si è dato atto che la giurisdizione amministrativa di ultima istanza “…ha inteso abbandonare la terminologia, utilizzata in precedenza, “sindacato forte o debole”, per porre l’attenzione unicamente sulla ricerca di un sindacato, certamente non debole, tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere in materia antitrust, ma di verificare – senza alcuna limitazione – se il potere a tal fine attribuito all’Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato”
[12] Da ultimo Cassazione Sezione Unite, Ordinanza n. 11929 del 07 maggio 2019, “Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, pur non estendendosi al merito con conseguente sostituzione di un proprio provvedimento con quello impugnato, comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento dell'atto e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentino un oggettivo margine di opinabilità nel qual caso il sindacato è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell' Autorità Garante”.
[13] Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 14 settembre 2010, Causa C-550/07 P, Akzo Nobel Chemicals Ltd v. Commissione.
Notifica degli atti giudiziari a mezzo di poste private ante L. 124/2017 (nota a Cass., sez. un., 10/01/2020, n. 299)
di Francesco Viggiani
La notifica è nulla ma non inesistente e, pertanto, sanabile. Il richiamo al diritto unionale può salvare la notifica, ma solo se ricevuta tempestivamente
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La vicenda, i precedenti giurisprudenziali e l’ordinanza di rimessione alle SS.UU. 2.1. Riepilogo dei fatti di causa portati all’attenzione delle SS.UU. 2.2. Quadro normativo ed i precedenti giurisprudenziali. 2.3. L’ordinanza di rimessione. - 3. L’iter argomentativo della pronuncia delle SS.UU. e le sue conclusioni. 3.1. Ricostruzione della disciplina interna ed il ritardo nell’adeguamento alla normativa unionale. 3.2. Le conclusioni ed il principio di diritto affermato. - 4. Rilievo del principio di diritto affermato dalle SS.UU. 4.1. Casistica in materia processualtributaria. 4.1.a) notifica operata ante 2017 e pervenuta al destinatario prima dello spirare del termine decadenziale per l’impugnazione. 4.1.b) notifica operata ante 2017 e pervenuta al destinatario oltre lo spirare del termine decadenziale per l’impugnazione. 4.1.c) notifica operata post 2017 per il tramite di licenziatario privato sprovvisto di licenza. 4.2. Rilevanza del principio in materia di notifica degli atti impositivi. 4.3. Portata del principio fuori dai confini della materia tributaria. - 5. Conclusioni.
1. Introduzione
La Suprema Corte, nel suo massimo consesso, si pronuncia sul tema della natura del vizio della notifica effettuata, nell’ambito del processo tributario, a mezzo del gestore di posta privata in costanza della vigenza dell’esclusiva riservata al gestore del servizio universale.
La sentenza assume notevole rilevanza per molteplici ragioni. In primo luogo, poiché interviene in senso contrario a quella che era, sino a quel momento, la granitica giurisprudenza delle sezioni semplici le quali, si può anticipare sin d’ora, si erano negli anni costantemente espresse nel senso della inesistenza della notifica, con consequenziale inapplicabilità di qualsivoglia sanatoria.
A ciò si aggiunga che le argomentazioni esposte per pervenire a tale mutamento di indirizzo affondano nella normativa e nella giurisprudenza unionale, le quali consentono di affermare che la notifica attraverso operatore privato, sebbene difforme dalla normativa interna vigente non ancora adeguata ai precetti europei, non si pone in completa esorbitanza dallo schema generale degli atti di notificazione tanto da poterne ricavare l’inesistenza giuridica dalla stessa.
Da ultimo, ma non meno importante, la pronuncia appare di notevole interesse poiché, sebbene abbia ad oggetto il tema della notifica nel processo tributario, esprime principi che ben possono essere traguardati oltre, alla disciplina di atti sostanziali tributari e processuali non tributari.
2. La vicenda, i precedenti giurisprudenziali e l’ordinanza di rimessione alle SS.UU.
2.1. Riepilogo dei fatti di causa portati all’attenzione delle SS.UU.
La vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte prendeva le mosse dalla notifica di un ricorso avverso un avviso di liquidazione effettuata, nel 2008, a mezzo di servizio postale privato. Nel giudizio di primo grado innanzi la Commissione tributaria provinciale, nel quale alcuna eccezione veniva sollevata dalla convenuta Agenzia delle Entrate circa la regolarità della notifica, il ricorso del contribuente veniva accolto.
In sede di gravame l’Amministrazione sollevava, per la prima volta, l’eccezione d’inammissibilità del ricorso introduttivo per tardività. Il ricorso infatti, sebbene consegnato al servizio postale privato tempestivamente, era pervenuto al destinatario oltre lo spirare del termine per l’impugnazione dell’atto impositivo.
La Commissione tributaria regionale respingeva l’appello dell’Agenzia e, in merito all’eccezione di inammissibilità, giudicava la stessa tardiva poiché sollevata per la prima volta in grado di appello.
Contro tale pronuncia l’Agenzia delle Entrate spiegava ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 21, I comma e 22, II comma del D.Lgs. 31 dicembre 1992, 546.
Le disposizioni citate prevedono rispettivamente che il ricorso sia proposto mediante notifica nel termine di sessanta giorni, che nel successivo termine di trenta giorni dalla proposizione il ricorrente provveda ad iscrivere la causa a ruolo e che la violazione dei predetti termini conduce all’inammissibilità del ricorso introduttivo, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e non sanabile dalla tempestiva costituzione della parte resistente.
La quesitone giuridica evocata riguardava quindi la -non- conformità della spedizione a mezzo del gestore di posta privata al modello legale previsto per le notifiche, difformità dalla quale discenderebbe la inammissibilità del ricorso proposto dal contribuente.
2.2. Quadro normativo ed i precedenti giurisprudenziali
Le attività di notifica a mezzo posta, come del resto tutte le altre attività postali, sono state storicamente ritenute una prerogativa dello Stato[1], esercitata per il tramite dell’amministrazione delle poste.
Questo assetto si è preservato pressoché intatto nella sua sostanza sino alla fine degli anni Novanta quando, grazie all’impulso venuto dall’Unione europea, si avviò una prima apertura al mercato dei servizi postali.
Fu infatti la direttiva europea 97/67/CE ad imporre l’avvio del processo di liberalizzazione. La disciplina europea lasciò però ampi margini di discrezionalità al legislatore interno nell’individuare servizi da riservare al fornitore del servizio universale riconoscendo che la riserva, in quanto principale canale di funzionamento in condizione di equilibrio finanziario, era funzionale all’esistenza stessa del servizio universale.
In Italia la Direttiva venne attuata con il D.Lgs. 2 luglio 1999, n. 261 il quale all’art. 4 prevedeva, sin dalla sua formulazione originaria, la riserva al fornitore del servizio universale di “invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.
Negli anni a seguire la spinta alla liberalizzazione iniziò a farsi più pressante e, con una nuova direttiva, la 2008/6/CE, il legislatore europeo intervenne a modificare la precedente direttiva 97/67/CE, prevedendo testualmente che “gli Stati membri non concedono né mantengono in vigore diritti esclusivi o speciali per l'instaurazione e la fornitura di servizi postali”[2].
Il diritto unionale diventava così di ostacolo al riconoscimento di diritti speciali o esclusivi in capo ad un operatore postale, trovando quale unica deroga a tale principio giustificate esigenze di ordine pubblico o sicurezza pubblica.
Ed è in questo spiraglio che il legislatore italiano, adeguandosi alla nuova direttiva soltanto con il D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 58, si insinuò per continuare ad affidare al fornitore del servizio universale i servizi concernenti la notificazione di atti giudiziari.
Il novellato art. 4 del D.Lgs. 261/1999, riformato appunto dal D.Lgs. 58/2001, prevedeva quindi la riserva al fornitore del servizio universale delle notificazioni a mezzo posta di atti giudiziari e di verbali di violazione al codice della strada, legittimando tale riserva con una non meglio precisata esigenza di ordine pubblico.
La norma, nella sua nuova formulazione, rimase in vigore sino al 2017, quando il legislatore, con la L. 4 agosto 2017, n. 124, completò il percorso avviato nel 1997 e, con l’abrogazione del citato art. 4, liberalizzò integralmente il settore.
A fronte di tale quadro normativo la giurisprudenza di legittimità aveva più e più volte affermato l’inesistenza della notifica effettuata per il tramite di poste private[3].
Le argomentazioni esposte muovevano dal dato testuale della previsione di cui all’art. 4 per affermare che l’interesse pubblico sotteso alla riserva in favore del fornitore del servizio universale risiedesse nella fede privilegiata che solo questi era in grado di garantire operando quale pubblico ufficiale.
Si affermava infatti che le formalità finalizzate a dare certezza alla spedizione dell'atto ed al suo ricevimento da parte del destinatario costituivano una attribuzione esclusiva degli uffici postali e degli "agenti" ed "impiegati" addetti, i quali soltanto potevano godere della qualifica di pubblici ufficiali. Al contrario, la consegna e la spedizione in raccomandazione non affidate al fornitore del servizio universale non erano assistite dalla medesima funzione probatoria in quanto l'incaricato di un servizio di posta privata non rivestiva, a differenza dell'agente del fornitore servizio postale universale, la qualità di pubblico ufficiale e, conseguentemente, gli atti dal medesimo redatti non godevano di alcuna presunzione di veridicità fino a querela di falso.
L’utilizzo di un’agenzia privata di recapito veniva quindi giudicato conforme al modello legale solo ove lo stesso si collocasse a valle o a monte dell’intervento del fornitore del servizio postale universale.
Così era stata ritenuta conforme al modello legale la notifica da parte del fornitore privato “utilizzato” da parte dell’Ente Poste[4] o il caso in cui l’agenzia di posta privata avesse provveduto ad affidare al fornitore del servizio universale la spedizione, operando in sostanza solo quale intermediario[5].
Più di recente e anche in vigenza del regime seguente alla completa liberalizzazione del 2017, la Suprema Corte ha affermato l’inesistenza della notifica effettuata a mezzo posta privata in assenza delle licenze individuali in capo alle agenzie private[6] e rilevato come la novella, non avendo natura interpretativa, non avesse alcuna efficacia retroattiva, potendo così dispiegare effetti solo dopo la sua entrata in vigore[7].
Un tassello verso la liberalizzazione, nel senso della limitazione dei servizi riservati al fornitore del servizio postale universale, è stato invece offerto dalla pronuncia sulla notifica delle sanzioni amministrative non derivanti da violazioni al codice della strada[8]. Per tali fattispecie infatti, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato che il provvedimento di ordinanza-ingiunzione emanato dall'autorità amministrativa competente ha natura di atto amministrativo e non giudiziario né tantomeno concernente violazioni al Codice della strada e, pertanto, è escluso dalla riserva dell’art. 4 D.Lgs. 261/1999, risultando pertanto legittima la relativa notificazione a mezzo servizio di posta privata.
2.3. L’ordinanza di rimessione
Pur a fronte di un quadro apparentemente granitico, la Sezione remittente ha ritenuto opportuno un intervento chiarificatore delle SS.UU.
Gli argomenti esposti con l’ordinanza di rimessione si concentrano in primo luogo sulla disciplina processualtributaria, notando il contrasto tra la tesi dell’inesistenza della notifica a mezzo del licenziatario privato e la possibilità, ammessa nel processo tributario, di notifica mediante consegna diretta all’ente impositore. Si interroga infatti l’ordinanza di rimessione su quali differenze possano individuarsi fra la consegna da parte dell’operatore postale privato e quella operata direttamente a mani proprie dal ricorrente o da suo incaricato.
Si rileva poi come la tesi dell’inesistenza contrasti con la giurisprudenza in tema di notifica di atti sostanziali tributari[9], secondo la quale la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza dell’atto, ma una condizione integrativa di efficacia, così che la sua inesistenza o invalidità non ne determina in via automatica l'inesistenza ogni qualvolta ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l'esercizio del potere dell'Amministrazione finanziaria.
L’ordinanza di rimessione nota ancora come la recente giurisprudenza delle SS.UU.[10] abbia affermato che le forme processuali sono prescritte al fine esclusivo di conseguire lo scopo ultimo del giudizio, consistente nella pronuncia sul merito della soluzione controversa; che il principio del giusto processo impone di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire tale finalità e che, in virtù dell'assetto strumentale delle forme degli atti processuali, può ravvisarsi "inesistenza" esclusivamente laddove l'attività svolta sia priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, mentre ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale deve ricadere nella categoria della nullità. La Sezione remittente richiama poi la giurisprudenza penale la quale invece, ha ritenuto ammissibile l’impugnazione proposta a mezzo raccomandata spedita tramite il servizio di recapito privato[11].
3. L’iter argomentativo della pronuncia delle SS.UU. e le sue conclusioni
Le Sezioni unite, con la pronuncia in commento, preliminarmente dichiarano ammissibile il ricorso dell’Agenzia sebbene l’eccezione di tardività del ricorso introduttivo del contribuente fosse stata sollevata per la prima volta solo in appello, considerando che la decadenza del contribuente dal diritto di agire in giudizio è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado in quanto materia sottratta alla disponibilità delle parti.
Ancora, sempre preliminarmente la Corte afferma che le notifiche a mezzo raccomandata postale dei ricorsi in materia tributaria rientrano nell’ambito della riserva di cui al già citato art. 4 D.Lgs. 261/1999.
Ciò premesso, prima di entrare nel merito della questione è la medesima sentenza notare come la stessa ecceda i confini del processo tributario, coinvolgendo il più generale tema della libertà di concorrenza e graduale eliminazione degli ostacoli al mercato unico e ricavando da ciò la necessità di coordinare la giurisprudenza nazionale con quella unionale, di segno prevalente rispetto alla prima.
3.1. Ricostruzione della disciplina interna ed il ritardo nell’adeguamento alla normativa unionale
Riepilogato il quadro normativo e giurisprudenziale interno, la pronuncia in commento esordisce affermando che la descritta giurisprudenza nazionale non tiene adeguato conto della normativa e della giurisprudenza unionali.
A seguito della direttiva n. 2008/6/CE il diritto unionale è di ostacolo al riconoscimento di diritti speciali o esclusivi a un operatore postale, sicché non può essere riconosciuta ad un operatore una tutela particolare idonea a incidere sulla capacità delle altre imprese di esercitare l'attività economica consistente nell'instaurazione e nella fornitura di servizi postali nello stesso territorio.
Tale divieto può trovare eccezione soltanto in ragioni di ordine pubblico o pubblica sicurezza che, proprio in quanto eccezioni al principio generale, devono essere specificamente individuate.
Le ragioni di ordine pubblico addotte dall’ordinamento interno invece, non esplicitate dalla norma ed individuate dalla giurisprudenza nella capacità di attestare la veridicità dell’apposizione della data, si risolvono in una tautologia che giustifica l’interesse di ordine pubblico con il privilegio attribuito agli operatori del servizio postale universale.
Per altro verso emerge invece chiaramente da diversi “indizi” normativi[12] come alla base della riserva non vi sia alcuna concreta ragione di ordine pubblico se non l'esigenza di finanziare il servizio postale universale con un modus operandi espressamente escluso dalla Corte di giustizia la quale, testualmente citata dalle Sezioni unite, afferma che "il fatto che uno Stato membro riservi un servizio postale, che questo rientri o no nel servizio universale, a uno o a più fornitori incaricati del servizio universale costituisce un modo vietato per garantire il finanziamento del servizio universale"[13].
Afferma quindi la Cassazione che l'obbligo di adeguamento al diritto unionale così imposto era già incluso tra i principi del diritto nazionale in forza della direttiva europea del 2008 e, con esso, la generale potenziale idoneità dell'operatore di poste private a compiere l'attività di notificazione di atti processuali.
3.2. Le conclusioni ed il principio di diritto affermato
L’iter argomentativo prospettato dalla pronuncia circa il rilievo dei principi unionali nell’ordinamento interno conduce la Suprema Corte ad affermare che la astratta possibilità che l’operatore postale privato possa, in forza delle disposizioni europee, avere accesso al settore delle notifiche degli atti giudiziari, rende di per sé riconoscibile nel caso in esame la fattispecie della notificazione.
Non vi è, affermano quindi le Sezioni unite, quella completa esorbitanza dallo schema generale degli atti di notificazione che ne sostanzia l'inesistenza giuridica perché l'attività svolta appartiene al tipo contemplato dal complessivo sistema normativo. La notificazione effettuata a mezzo dell’operatore privato resta in ogni caso difforme dalla regolazione interna vigente, ma tale violazione configura un caso di nullità, non di giuridica inesistenza, con la conseguenza che la notificazione resta sanabile.
Approdata a tale conclusione la Corte si occupa di individuare il dies a quo al quale la notificazione può ritenersi sanata.
Sotto tale profilo la Corte ribadisce che all’operatore postale privato è precluso di attestare la data di spedizione dell’atto per la notifica e, pertanto, è impossibile ancorare con certezza la proposizione del ricorso alla data di spedizione del plico. Ciò comporta che la sanatoria possa ritenersi avvenuta solo nel momento di effettiva ricezione da parte dell’ente impositore del ricorso notificato.
In forza di tali considerazioni la Corte giudica, nel caso posto alla sua attenzione, il ricorso introduttivo inammissibile poiché pervenuto al destinatario quando ormai il termine per l’impugnazione era inutilmente spirato.
Vengono quindi affermati i seguenti principi di diritto: "In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall'operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l'entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla L. n. 124 del 2017".
"La sanatoria della nullità della notificazione di atto giudiziario, eseguita dall'operatore di poste private per raggiungimento dello scopo dovuto alla costituzione della controparte, non rileva ai fini della tempestività del ricorso, a fronte della mancanza di certezza legale della data di consegna del ricorso medesimo all'operatore, dovuta all'assenza di poteri certificativi dell'operatore, perché sprovvisto di titolo abilitativo".
4. Rilievo del principio di diritto affermato dalle SS.UU.
4.1. Casistica in materia processualtributaria
Dalla sentenza in commento si possono in primo luogo trarre indicazioni utili riguardo la disciplina processualtributaria.
Il decisum della Corte consente infatti di affermare che la notifica del ricorso a mezzo posta privata operata ante 2017, in quanto nulla, possa essere sanata dalla tempestiva costituzione della parte resistente. Quanto agli effetti di tale sanatoria, occorre però operare alcune distinzioni.
a) notifica operata ante 2017 e pervenuta al destinatario prima dello spirare del termine decadenziale per l’impugnazione
Nel caso in cui la notifica operata a mezzo del servizio di posta privata prima del 10 settembre 2017, data di entrata in vigore della L.n. 124/2017, sia pervenuta al destinatario entro il termine decadenziale per la proposizione del ricorso questa potrà, nel caso di tempestiva costituzione del resistente, essere giudicata nulla ma sanata, rendendo ammissibile il ricorso.
I primi interventi dottrinari sul punto parrebbero in verità di senso contrario[14], interpretando la pronuncia delle Sezioni unite nel senso che in ogni caso la mancata capacità di attestare la data di consegna da parte dell’operatore privato precluderebbe la possibilità di una convalidazione per oggettivo raggiungimento dello scopo, non essendo idonea a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni. Ed effettivamente il secondo dei principi di diritto affermati dalla pronuncia in commento potrebbe essere interpretato in tal senso laddove afferma che la sanatoria non rilevi ai fini della tempestività del ricorso.
Raccordando però il principio di diritto affermando con la parte motiva della pronuncia emerge però che nel caso esaminato l’inammissibilità derivi dalla impossibilità di valorizzare il momento di consegna dell'atto all'agente notificatore a fronte del sicuro, nella specie, pervenimento dell'atto al destinatario quando il termine di decadenza dall'impugnazione era ormai inutilmente spirato.
Da ciò si può ragionevolmente argomentare che, nel caso in cui alla costituzione del resistente si accompagni il riconoscimento della tempestiva ricezione del ricorso, sebbene notificato in modo non conforme all’ordinamento, la sanatoria possa rilevare ai fini della tempestività dello stesso.
D’altra parte, interpretare l’enunciato principio di diritto nel senso che la sanatoria della notifica nulla non possa mai condurre alla tempestività del ricorso priverebbe la sanatoria di qualsiasi rilievo pratico, negando la portata sistemica che invece il legislatore le attribuisce[15].
In conclusione, appare più coerente interpretare il decisum della Corte nel senso che ai fini della tempestività della notifica non può rilevare l’attestazione della data di presa in carico effettuata dall’operatore privato, il quale, come detto, rimane sprovvisto di alcun potere certificativo ma, al contrario, si può senz’altro valorizzare la data di ricezione dell’atto da controparte.
Sorge quindi l’esigenza di interrogarsi su come individuare correttamente la data di ricezione dell’atto o, in altri termini, sull’efficacia probatoria da attribuire all’avviso di ricevimento formato dal gestore privato.
Verosimilmente tale avviso recherà il timbro dell’amministrazione resistente, la sottoscrizione di un funzionario e la data di consegna. In tali circostanze l’avviso, sebbene non possa assurgere a quella “certezza pubblica” propria degli atti facenti fede fino a querela di falso, costituisce senz’altro documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che la notificazione è pervenuta nella sfera di conoscenza del destinatario.
In tal senso depone l’orientamento giurisprudenziale formatosi sul valore probatorio della c.d. ricevuta di avvenuta consegna in materia di notifiche a mezzo pec[16]. La Cassazione ha infatti affermato che la ricevuta di avvenuta consegna generata automaticamente dal sistema informatico del gestore di posta elettronica certificata è sprovvista di fede privilegiata, in quanto il gestore di posta elettronica certificata resta un soggetto privato ma, ciò nonostante, costituisce prova dell’avvenuta consegna del messaggio nella casella del destinatario.
Analogamente, nel caso delle notifiche operate a mezzo del servizio postale privato, l’attestazione di avvenuta consegna, pur priva di pubblica fede, potrà costituire prova della ricezione dell’atto, onerando la parte resistente della eventuale prova contraria.
Pur ipotizzando poi di voler negare qualsiasi rilevanza probatoria dell’avviso di ricevimento formato dal gestore privato, la tempestività del ricorso potrebbe in ogni caso emergere dagli atti di causa.
Anche in tale circostanza soccorre la giurisprudenza di legittimità[17] che, in materia di tempestività del ricorso per cassazione, ha più volte affermato che qualora il ricorrente alleghi che la sentenza impugnata è stata notificata in una certa data oppure genericamente che è stata notificata, ma non produca copia autentica della sentenza stessa con la relata della sua notificazione il ricorso dev'essere considerato procedibile ove risulti che la sua notificazione è avvenuta entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza. Da tale orientamento si può desumere il principio che la tempestività può essere verificata aliunde, anche prescindendo dalla produzione della relata di notifica.
Traslando tale principio per la questione qui di interesse si può affermare che, anche negando qualsivoglia valore probatorio all’attestazione di avvenuta consegna generata dal gestore privato, la tempestività potrà essere dedotta dagli atti di causa.
Così potrà essere, ad esempio, nel caso in cui l’amministrazione resistente costituendosi affermi l’avvenuta ricezione del ricorso in una data che risulti essere tempestiva.
Ancora, a titolo di esempio, nel caso in cui nella costituzione di parte resistente non vi sia alcun riferimento alla data di ricezione da parte della resistente ma il ricorso risulti iscritto a ruolo nel termine per l’impugnazione, dovendo necessariamente dedurne che lo stesso sia stato notificato in data antecedente.
In tutte queste circostanze, anche prescindendo dal pur innegabile valore probatorio da attribuire alla attestazione di avvenuta consegna generata dal gestore privato, il ricorso dovrà in ogni modo ritenersi tempestivo.
b) notifica operata ante 2017 e pervenuta al destinatario oltre lo spirare del termine decadenziale per l’impugnazione
Contrariamente, laddove, l’atto venga consegnato al destinatario oltre lo spirare del termine previsto per l’impugnazione, il ricorso va verosimilmente incontro ad una pronuncia di inammissibilità per tardività. La sanatoria della notifica nulla opererebbe infatti dalla data di ricezione della notifica da parte del destinatario, con consequenziale decadenza del ricorrente dall’impugnazione.
In tali circostanze il ricorrente potrebbe -arditamente- provare a fronteggiare l’eccezione di inammissibilità per tardività sollevata dalla controparte proponendo istanza di rimessione in termini. Fulcro della questione diventerebbe quindi la non imputabilità della causa che ha condotto alla decadenza.
Pur nella consapevolezza che l’errore di diritto è escluso dal novero delle casistiche legittimanti la rimessione[18], provando a valorizzare alcuni passaggi della pronuncia si potrebbe argomentare che la parte sia incorsa in decadenza a causa del mancato tempestivo adeguamento da parte del legislatore interno al diritto unionale.
Non ricorrerebbe di certo nel caso in esame un’ipotesi tipica di overruling come qualificata dalla giurisprudenza di legittimità[19]. Non saremmo infatti di fronte ad una preclusione o decadenza maturata in virtù del mutamento di una precedente interpretazione giurisprudenziale ma, ciò nonostante, si potrebbe senz’altro argomentare sul legittimo affidamento della parte. Il ricorrente potrebbe dedurre di aver confidato incolpevolmente nella portata precettiva non già di un semplice orientamento giurisprudenziale, bensì delle norme europee alle quali il diritto interno si sarebbe dovuto uniformare.
Fuori da questa ipotesi, che ad oggi resta solo di scuola, il ricorso notificato a mezzo dell’operatore privato e pervenuto oltre i termini di decadenza va incontro, alla luce della sentenza in commento, ad una pronuncia di inammissibilità per tardività.
c) notifica operata post 2017 per il tramite di licenziatario privato sprovvisto di licenza
Resta poi da analizzare la sorte delle (non poche) notifiche effettuate a mezzo del licenziatario privato dopo la novella del 2017 ma prima del rilascio delle prescritte licenze.
Anche per questa fattispecie, la sentenza in commento offre uno spunto, confermando che la mancanza della licenza non consente di riconoscere la forza di atto pubblico all’attestazione della data di consegna dell’operatore privato. Ciò dovrebbe condurre a ritenere che i principi affermanti per il periodo antecedente al 2017 possano continuare a trovare applicazione sino al rilascio delle licenze agli operatori postali privati.
Tuttavia, il ritardo che il legislatore ha accumulato nella disciplina delle modalità di accesso alla licenza e nell’effettivo rilascio delle stesse lascia immaginare possibili sviluppi diversi, soprattutto per quelle fattispecie in cui l’operatore privato abbia ottenuto sì la licenza, ma in un momento successivo alla notifica contestata.
4.2. Rilevanza del principio in materia di notifica degli atti tributari
I principi affermati dalla Suprema Corte sono destinati a spiegare poi i propri effetti non solo con riguardo al processo tributario ma, senza ombra di dubbio, anche in materia di notifica degli atti sostanziali tributari.
Molteplici sono state, nel corso degli ultimi anni, le questioni sorte sulla notifica di atti impositivi a mezzo di operatore postale privato. Tali questioni avevano visto confermare l’orientamento esposto in materia di notifica di atti processuali tanto in sede di merito quanto innanzi la Corte di Cassazione[20].
Alla luce del principio di diritto affermato con la sentenza in commento non si potrà invece più dubitare della (mera) nullità della notifica dell’atto tributario effettuata a mezzo dell’operatore di posta privata e, anche in questo caso, le conseguenze dovranno essere valutate in relazione ai termini decadenziali previsti per l’azione impositiva.
L’orientamento delle Sezioni unite è destinato a spiegare i suoi effetti con maggiore rilevanza in materia di notifica di atti sostanziali perché, a differenza dei ristretti termini decadenziali previsti per la notifica degli atti processualtributari (sessanta giorni), gli atti sostanziali soggiacciono a termini decadenziali ben più estesi.
Basti pensare al termine per la notifica delle cartelle di pagamento derivanti da controllo automatizzato ex art. 36 bis D.P.R. 600/1973, fissato nel 31 dicembre del terzo anno successivo alla presentazione della dichiarazione o, ancora, al termine previsto per la notifica degli avvisi di accertamento, oggi fissato al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione.
Da ciò discenderà che la sanatoria della nullità degli atti sostanziali tributari notificati a mezzo del servizio postale privato troverà grande spazio, se non per quegli atti consegnati per la notifica a ridosso del lungo termine decadenziale previsto dal legislatore.
Più difficilmente potrà invece trovare applicazione, in materia di notifica di atti sostanziali tributari, il già citato orientamento formatosi in materia di notifica di atti amministrativi[21].
Come anticipato affrontando il quadro giurisprudenziale antecedente la sentenza in commento, le Sezioni unite avevano stabilito nel 2019 che, stante la limitazione delle materie riservate al gestore del servizio universale alle sole notificazioni di atti giudiziari e di sanzioni da violazioni al codice della strada, è consentita la notifica di atti amministrativi di natura diversa da questi ultimi anche a mezzo del servizio postale privato.
Per valutare l’applicabilità di tale principio alla notifica degli atti sostanziali tributari si deve però avere riguardo al quadro normativo all’interno del quale si è sviluppata l’argomentazione della Corte.
In quell’occasione oggetto di giudizio era la legittimità della notifica, operata a mezzo di operatore postale privato, di un provvedimento sanzionatorio non derivante da violazioni al codice della strada.
La pronuncia, dopo aver affrontato il noto tema della riserva prevista dall’art. 4, D.Lgs. 261/1999, passa in rassegna la disciplina prevista per la notifica dell’ordinanza-ingiunzione[22], constatando come la stessa prevede quale mera facoltà, un “ulteriore strumento” nelle parole della Corte, la notifica con le modalità previste per la notificazione a mezzo posta di atti giudiziari.
Tale argomento, sommato alla constatazione che la riserva non riguarda tutti gli atti amministrativi in toto, ma solo quelli concernenti le violazioni al codice della strada, conduce la Corte ad affermare la legittimità della notifica del provvedimento sanzionatorio operata a mezzo del gestore privato.
A differenza di quanto previsto in materia di sanzioni amministrative, la notifica degli atti sostanziali tributari non prevede alternative, salve alcune marginali peculiarità, al ricorso agli strumenti previsti per gli atti giudiziari[23].
Come i provvedimenti sanzionatori amministrativi oggetto della pronuncia della Corte del 2019, anche gli atti sostanziali tributari non ricadono direttamente nella sfera della riserva prevista per il gestore del servizio universale, la natura di atto amministrativo non derivante da violazioni al codice della strada infatti conduce entrambe le tipologie fuori da quel perimetro.
Tuttavia, gli atti tributari, contrariamente ai provvedimenti sanzionatori amministrativi, rientrano nell’ambito della riserva in via mediata atteso che la normativa di settore ne prescrive la notifica nelle sole forme previste per gli atti giudiziari, senza possibilità di alternativa.
Concludendo, la notifica di atti sostanziali tributari operata a mezzo del gestore di posta privata, pur non potendosi dichiarare conforme al modello legale, potrà essere dichiarata nulla con ampie possibilità di sanatoria alla luce dei lunghi termini di decadenza dal potere impositivo.
4.3. Portata del principio fuori dai confini della materia tributaria
Come anticipato è la medesima pronuncia in commento che, spiegando che la questione eccede i confini del processo tributario, riconosce come le statuizioni alle quali giunge hanno portata che va ben oltre la materia fiscale.
La casistica delle questioni nelle quali il principio affermato dalla sent. 299/2020 è potenzialmente rilevante emergere dalla stessa giurisprudenza della Corte.
Così, ad esempio, può divenire rilevante in materia di deposito innanzi al Giudice di Pace del ricorso avverso sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada.
Tanto nella sua precedente formulazione, disciplinata dall’art. 204 bis C.d.S. (a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 10 marzo 2004, n. 98) quanto nell’odierna formulazione disciplinata dall’art. 7 del D. lgs. 1° settembre 2011, n. 150 viene infatti previsto che il ricorso possa essere depositato a mezzo del servizio postale. La questione, affrontata dalla Corte, era stata risolta, con una pronuncia che si può ritenere oggi superata, nel senso dell’inammissibilità del ricorso depositato a mezzo di posta privata[24].
Ancora, in materia di termine per la proposizione dell’opposizione allo stato passivo, la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare che l'art. 97, comma 2 L. fall. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte nel 2012), là dove prescriveva che la comunicazione in questione "sia data tramite raccomandata con avviso ricevimento", facesse implicito riferimento al disposto del D.Lgs. n. 261/1999, art. 4. Da ciò faceva discendere la tempestività della proposizione di un’opposizione oltre il termine di trenta giorni assumendo che la comunicazione resa a mezzo del servizio di posta privata non offrisse valida prova in ordine alla consegna della comunicazione[25]. Anche tale statuizione può oggi ritenersi superata.
Il principio affermato con la sentenza in commento è destinato ad incidere inoltre in tutta quella casistica di vizi delle notifiche effettuate a mezzo pec, ridimensionando fortemente le eccezioni formali che oggi trovano grande spazio, con alterne fortune, nei gradi di merito.
5. Conclusioni
In conclusione, la pronuncia in commento si pone come innovativa rispetto alle precedenti decisioni delle sezioni semplici sul punto, ma in continuità con i principi di salvaguardia del diritto di azione e del fine ultimo del processo, finalizzato ad ottenere una pronuncia di merito, diritto ben contemperato con le esigenze di certezza presidiate dalla previsione di termini decadenziali e di modalità predeterminate di proposizione dell’azione.
[1] L. 5 maggio 1862, n. 604, Testo Unico 24 dicembre 1899, n. 501, r.d. 27 febbraio 1936, n. 645.
[2] Art. 7 Direttiva 97/67/CE così come sostituito dall’art. 1 della Direttiva 2008/6/CE.
[3] Cfr. Cass. 30/9/2016, n. 19467; Cass. ord. 19/12/ 2014, n. 27021; Cass. ord. 23/3/ 2014, n. 5873; Cass. 30/01/2014, n. 2035; Cass. 17/2/ 2011, n. 3932; Cass. 7/5/2008, n. 11095.
[4] Cass. 6/6/2012, n. 9111.
[5] Cass. 21/7/2015, n. 15347; Cass. 12/04/2016, n. 7156; Cass. 13/9/ 2017, n. 21251.
[6] Cass. 11/10/2017, n. 23887.
[7] Cass. 8/1/2018, n. 234.
[8] Cass. 26/3/2019, n. 8416.
[9] Cass. 24/8/2018, n. 21071; Cass. 30/1/2018 n. 2203; Cass. 24/4/2015, n. 8374; Cass. 15/1/2014, n. 654.
[10] Cass. 20/7/2016, nn. 14916 e 14917, in Foro it., 2017, parte I, col. 690, con nota di M. Adorno; Cass. 13/2/2017, n. 3702; Cass. 7/6/2018, n. 14840; Cass. 8/3/ 2019, n. 6743.
[11] Cass. pen. 22/01/2014, n. 2886.
[12] Ad es. l’art. 10 D.Lgs. n. 261 del 1999, continua a stabilire, anche dopo la novella del 2011, che il fondo di compensazione, che è volto a garantire l'espletamento del servizio postale universale, è alimentato nel caso in cui il fornitore del predetto servizio non ricavi "dalla fornitura del servizio universale e dai servizi in esclusiva di cui all'art. 4 entrate sufficienti a garantire l'adempimento degli obblighi gravanti sul fornitore stesso"
[13] Corte giust. in causa C-545/17, Pawlak.
[14] R. Metafora, Nulla (e non inesistente) la notifica degli atti processuali effettuata prima del 2017 tramite operatore di posta privata pivo di licenza, in GiustiziaCivile.com.
[15] In tal senso A. Proto Pisani, Note sulle sanatorie retroattive nel processo civile, in Foro it., 2011, parte V, col. 313.
[16] Cass. 21/07/2016, n. 15035; Cass. 21/10/2019, n. 26705.
[17] Cass. 15/10/2019, n. 25939; Cass. 10/07/2013, n. 17066.
[18] Ex multis Cass. 21/02/2020, n.4585; Cass.08/08/2019, n. 21207; Cass. 12/02/2019, n.4135.
[19] Cass. 11/07/2011, n. 15144.
[20] Cass. 08/01/2018, n.234.
[21] Cfr Nota 8.
[22] Art. 18, VI comma, L. 24/11/1981, n. 689.
[23] Art. 60, D.P.R. 29/09/1973, n. 600, richiamato, in materia di notifica delle cartelle di pagamento, dall’art. 26 D.P.R. 29/09/1973, n 602.
[24] Cass. 31/01/2013, n. 2262.
[25] Cass. 01/06/2017, n. 13870.
Maria Alessandra Sandulli
Cognita causa*
Sommario. 1. Premessa. 2. Il d.l. 11 dell’8 marzo: il rischio del deficit di contraddittorio per effetto della sospensione dei termini a ritroso. 3. Il d.l. 18 del 17 marzo: la tutela cautelare monocratica ex lege. 4. Il “contraddittorio cartolare coatto” e le asimmetrie difensive della disciplina della discussione da remoto. 5. La sospensione “mutilata” dei termini nel d.l. 23 dell’8 aprile. 6. Conclusioni.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto salutare e ringraziare tutti i cari amici e studiosi del gruppo di Modanella per la loro partecipazione a questo e agli altri webincontri che, a partire da quello del 24 aprile[1] (ascoltabile su youtube), abbiamo dedicato alla nostra giustizia in tempo di Covid e per il costante e appassionato apporto che, con i loro scritti e monitoraggi, hanno cercato di dare alla lettura e alla sistematizzazione dello tsunami di norme da cui, come ampiamente ricordatoci dai relatori di ieri, siamo stati travolti nella sconvolgente emergenza pandemica che ci ha colpiti nei primi mesi dell’anno[2].
L’inimmaginabile e sconvolgente emergenza pandemica che, partendo dalla Cina, ha colpito l’Italia e molti altri Paesi dell’Europa e del mondo dai primi mesi del 2020, significativamente qualificata come apocalisse, tsunami, catastrofe, guerra mondiale, ci ha costretto a subire fortissime perdite e impensabili limitazioni nelle sfere più importanti delle nostre vite: affettive, sociali, economiche e, inevitabilmente, giuridiche.
L’assoluta priorità che, in incalzante progressione, dalla fine di febbraio all’8 di marzo, ha inevitabilmente avuto lo sforzo di fermare, o quantomeno rallentare, l’inesorabile attacco di un nemico straordinariamente aggressivo, totalmente sconosciuto e assolutamente imprevedibile, ha giustificato la compressione di diritti inviolabili della persona umana, come quelli al lavoro e ai correlati mezzi di sostentamento, alla circolazione, al contatto fisico con i propri familiari e congiunti, al rientro nelle proprie abitazioni, e, purtroppo, nelle zone più drammaticamente colpite, alle stesse cure e, dunque, alla stessa vita.
E non sto a menzionare l’impossibilità di celebrare eventi come matrimoni e funerali o quella di frequentare le aule scolastiche e universitarie.
Tra le “vittime” del Covid-19 si annovera tristemente anche la giustizia. Con modalità e conseguenze diverse, tutti i nostri processi hanno subito sospensioni, rinvii, rimodulazioni. E tutti le abbiamo, dapprima accettate, poi tollerate e, progressivamente, man mano che l’emergenza si riduceva, combattute.
Come per altri settori e per altri temi, l’intelligenza umana ci consente e ci impone però di trarre lezioni anche dagli eventi più negativi e trovarvi spunti di riflessione utili al progresso del sistema, facendo tesoro di questa atroce esperienza per migliorare ulteriormente il nostro processo.
Riprendo anche io, come ha già fatto la Presidente della Corte costituzionale in una recente intervista[3], una riflessione di Arendt sulla crisi che appare particolarmente adatta a questa gravissima congiuntura. “Una crisi ci costringe a tornare alle domande ed esige da noi risposte nuove o vecchie purché scaturite da un esame diretto e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà e a utilizzare quell’occasione per riflettere che la crisi stessa costituisce”[4] .
Le norme processuali che si sono vertiginosamente inseguite dall’8 marzo[5] al 4 maggio 2020 per cercare di adattare il sistema processuale amministrativo alla situazione emergenziale e per non “fermare” la nostra giustizia ci hanno indotto a riflettere su alcuni dei suoi temi centrali. Abbiamo parlato ieri del ruolo del giudice amministrativo: argomento che come sapete mi è particolarmente caro e del quale abbiamo molto discusso in questi anni anche nelle nostre Giornate di studio sulla giustizia amministrativa.
Il tema su cui ho ritenuto però opportuno concentrare oggi la mia attenzione e sul quale, soprattutto, vorrei stimolare la riflessione dell’autorevole uditorio, è quello dell’irrinunciabilità che, anche, se non soprattutto, nel processo amministrativo assume la garanzia di una decisione assunta “cognita causa”, ovvero all’esito di una piena ed effettiva conoscenza dei fatti di cui si controverte e di una reale consapevolezza delle posizioni e degli argomenti delle diverse parti. È stato più volte sottolineato, anche ieri, a partire dalla relazione introduttiva di Fabio Francario, che il fine del processo non è evidentemente quello di emettere, al più presto, una qualunque decisione, ma quello di emettere, nel tempo ragionevolmente necessario, una decisione “giusta”. E ciò vale a maggior ragione per il giudice amministrativo, che, come da diversi decenni tengo in ogni occasione a rimarcare, non è chiamato soltanto a dirimere conflitti, ma anche e prima di tutto ad assicurare la giustizia nell’amministrazione. A questi fini, il principio dispositivo è come noto temperato dal metodo acquisitivo, e la legislazione e la giurisprudenza, come ben ricordato in varie circostanze dallo stesso Presidente del Consiglio di Stato, stanno progressivamente rafforzando l’accesso al fatto e erodendo i limiti al sindacato sulla discrezionalità. E a questi fini, il nostro Codice processuale ha previsto un’articolata scansione delle produzioni difensive, introducendo le memorie in replica per l’udienza di merito e calibrando i termini della fase cautelare in modo da contemperare gli interessi di tutte le parti, ivi compreso quello del giudice a “studiare” adeguatamente il fascicolo, sia pure nei limiti richiesti per una decisione tendenzialmente sommaria. Nella stessa ottica, è stato poi rafforzato il legame tra la fase cautelare e quella di merito[6], di cui sono espressione la clausola di improcedibilità dell’istanza cautelare in assenza dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito, l’obbligo del giudice cautelare di dichiarare preliminarmente la propria competenza e di fissare la trattazione del merito nell’eventuale ordinanza di accoglimento, la previsione (purtroppo non rispettata) della trattazione in fase cautelare delle istanze istruttorie: il tutto al fine di garantire che i giudizi non restino sostanzialmente definiti in modo sommario, ma siano, in un tempo ragionevolmente breve, oggetto di una valutazione più consapevole e ponderata sui diversi profili sostanziali e processuali della controversia, avendo peraltro espressamente cura di garantire un contraddittorio effettivo anche sulle questioni eventualmente rilevate d’ufficio.
Il rischio di indebolire la garanzia della decisione assunta cognita causa si è presentato nella legislazione Covid-19 e nella sua attuazione sotto diversi profili, facilmente rilevabili nei suoi effetti sul contraddittorio, sulla collegialità e sull’oralità, ma più ampiamente conseguenti, sia pure in termini meno immediatamente evidenti, al vero e proprio ginepraio di norme processuali, che ha inevitabilmente attratto e concentrato l’attenzione delle parti processuali, già alterata dalla preoccupazione di fondo per la pandemia, sottraendola all’approfondimento delle questioni controverse. Il Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma ha “pesato” 8 kg di decreti, ordinanze, linee guida, circolari, faq e simili sui diversi processi e per il solo processo amministrativo si contano cinque decreti legge (2 marzo 2020 n. 9; 8 marzo 2020 n. 11; 17 marzo 2020 n. 18; 8 aprile 2020 n. 23; 30 aprile 2020 n. 28) ai quali va aggiunta almeno la legge di conversione 24 aprile 2020 n. 27). Tutti noi, come emerso chiaramente anche dalle relazioni di ieri, abbiamo avuto e ancora abbiamo il timore di compiere errori di ricostruzione del sistema di volta in volta applicabile e/o errori di lettura delle nuove regole, di perdere l’ennesimo termine per presentare istanze, opposizioni, brevi note, note sostitutive della discussione, e quant’altro. E sappiamo che anche per i giudici il compito di orientarsi tra le diverse disposizioni e raccomandazioni non sia stato e non sia tuttora facile.
Passo comunque a focalizzarmi sui tre profili più specifici sopra indicati: contraddittorio, collegialità e oralità. I problemi si sono diversamente configurati a seconda delle fasi emergenziali e del tipo di tutela, cautelare e/o di merito.
2. Il d.l. 11 dell’8 marzo: il rischio del deficit di contraddittorio per effetto della sospensione dei termini a ritroso
Nella primissima fase di lockdown (le mitiche due settimane dall’8 al 22 marzo gradualmente dilatatesi in due mesi) il Governo ha – primariamente e giustamente – cercato di assicurare la tutela delle esigenze cautelari. Il primo decreto, il noto d.l. 11 dell’8 marzo[7], all’art. 4, nel sospendere, fino al 22 marzo appunto, la decorrenza dei termini processuali, ha quindi fatto salvi, come nel periodo feriale, quelli della fase cautelare e, nel sospendere, nel medesimo periodo, la celebrazione delle udienze, questa volta anche quelle cautelari (ed escludere comunque, salvo, all’epoca, espressa richiesta, la discussione orale fino al 31 maggio), ha fatto, naturalmente, salva la cautela monocratica prevista dall’art. 56 cpa, con effetto fino alla prima camera di consiglio utile dopo quella che si ipotizzava (o che, almeno, veniva presentata come) la fine della sospensione. Il modello di cautela di estrema urgenza disegnato dal codice garantiva, per un verso, la tutela del ricorrente da pregiudizi effettivamente intollerabili nelle more dell’udienza collegiale e, dall’altro, la “giusta” precarietà e temporaneità che devono caratterizzare una decisione resa in assenza di contraddittorio orale e in deroga al principio di collegialità che permea il processo amministrativo. Il sistema funzionava, come funziona nel periodo feriale e in quello natalizio e nei tribunali in cui (penso, in particolare, alla Val d’Aosta), le udienze cautelari si celebrano a distanza di tre o quattro settimane. La disciplina poteva in ogni caso essere, se del caso, limata e meglio adattata alla sospensione Covid-19 in sede di conversione in legge.
Cominciava però a emergere il problema degli effetti del Covid-19 sulla garanzia del contraddittorio. Il testo della norma – e la logica – non lasciavano per la verità margini di dubbio sulla regola, pacificamente valevole per il periodo feriale, che la sospensione operasse anche per i termini a ritroso, con la conseguenza che molti di essi dovevano ritenersi ope legis retroattivamente scaduti il 7 di marzo e non vi fosse dunque altra strada che quella di ricalendarizzare le udienze in modo da consentirne l’integrale garanzia. Le, pur comprensibili, preoccupazioni organizzative indussero tuttavia la Commissione Speciale appositamente istituita presso il Consiglio di Stato ad esprimere un parere che, inopinatamente, sosteneva la tesi opposta[8], che, evidentemente, si traduceva in una ingiusta limitazione del diritto di difesa e, per l’effetto, del diritto/dovere del giudice di decidere cognita causa. Ricordo, infatti, in proposito, che la giurisprudenza ha, proprio in quest’ottica, affermato la inderogabilità e non transigibilità dei termini a ritroso dall’udienza, sottolineando come essi operino anche a garanzia del giudice.
La questione è stata, come noto, opportunamente e correttamente risolta e superata dal d.l. 18 del 17 marzo, che, a distanza di soli 10 giorni dal d.l. 11, e nelle more della scadenza del primo periodo di sospensione, è pesantemente reintervenuto sulla disciplina del processo amministrativo nella cd fase 1 dell’emergenza Covid-19.
La protrazione del lockdown al 15 aprile ha invero determinato un ulteriore intervento legislativo d’urgenza anche sulla tutela giurisdizionale.
Ne è nata, per quanto interessa la giustizia amministrativa, la complessa e farraginosa disciplina dell’art. 84 del d.l. 18, che ha temporaneamente rivisitato anche la disciplina della fase cautelare[9].
Nell’estendere la sospensione delle udienze e dei termini fino al 15 aprile, con gli unici limiti indicati dall’art. 54, comma 3, cpa per il periodo feriale (ovvero quelli per la trattazione delle domande cautelari e la proposizione degli appelli cautelari), la novella ne ha chiarito espressamente l’operatività per “tutti” i termini processuali, riconoscendo, conseguentemente, a ciascuna parte, il diritto a chiedere il rinvio dell’udienza che ne precludesse in via retroattiva il rispetto, in modo da poter fruire del l’intero arco temporale individuato dalla legge come necessario per un pieno ed effettivo esercizio del diritto di articolare e comprovare le proprie difese al fine di dare al giudice una congrua rappresentazione dei fatti e delle questioni controverse (art. 8, comma 5). L’urgenza ha impedito alcune opportune limature del testo, come avrebbe potuto essere l’espressa attribuzione alle parti della facoltà di riconoscere reciprocamente la validità dei depositi (divenuti ex lege retroattivamente inammissibili) eventualmente effettuati in vista dell’udienza di merito nel periodo di sospensione: la mancanza della discussione orale toglieva infatti rilievo alla loro (sopravvenuta) tardività ai fini della piena cognizione del giudice in fase di decisione, dal momento che quest’ultima avrebbe potuto essere più facilmente rinviata a una successiva camera di consiglio. Il sistema, almeno per questa parte, non ha comunque dato problemi sotto il profilo specificamente ad oggetto di questo intervento.
3. Il d.l. 18 del 17 marzo: la tutela cautelare monocratica ex lege.
L’effetto negativo del Covid sulla garanzia di una decisione assunta cognita causa si è manifestato tuttavia nello stesso periodo sub specie di deficit di collegialità nella fase cautelare.
Preoccupato di garantire, comunque, anche la tutela cautelare ordinaria, il legislatore dell’emergenza ha costruito un sistema “ibrido”, che, pur (opportunamente) rispettando le garanzie temporali stabilite – a tutela delle parti e dei giudici – dall’art. 55, comma 5, del codice processuale[10], ha trasformato ex lege la tutela collegiale in tutela monocratica, aggiungendo così alla privazione del contraddittorio orale anche quella della decisione basata su una – quantomeno teoricamente, più piena – cognizione collegiale.
Il terzo periodo dell’art. 84, comma 1, stabiliva infatti che “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”.
Per il periodo di sospensione delle udienze (operante - fatto salvo quanto stabilito dal comma 2 per il cd periodo pasquale - fino al 15 aprile compreso e, per il solo processo amministrativo, non ulteriormente prorogato, anche se le udienze si celebrano ancora solo da remoto), tutte le domande cautelari, a prescindere dalla gravità dell’urgenza e dalla rappresentazione di una specifica esigenza di tutela nelle more della riapertura delle udienze collegiali, sarebbero state dunque decise ope legis in forma monocratica, per essere poi ri-valutate – con massima sollecitudine – in sede collegiale al termine del periodo di sospensione.
Grazie anche alle interlocuzioni con la dottrina, il successivo periodo precisava peraltro, come accennato, che, ferma restando la possibilità di continuare a utilizzare lo strumento della cautela di estrema urgenza di cui all’art. 56, comma 1, primo periodo, il decreto monocratico sostitutivo dell’ordinanza collegiale avrebbe dovuto essere comunque emanato nel rispetto dei termini di cui all’art 55, comma 5, c.p.a. (i c.d. “termini a difesa” delle altre parti):
Con specifico riferimento all’oggetto di questa relazione, come anticipato, il sistema architettato dalle riferite disposizioni, pur apparentemente offrendo la massima tutela cautelare compatibile con la fase emergenziale in atto, garantendo comunque il miglior contraddittorio scritto, legittimava tuttavia, per il solo fatto della monocraticità, una decisione fisiologicamente meno ponderata e fondata su una conoscenza meno completa e approfondita. Se a ciò si aggiunge che la decisione monocratica, non esonerando comunque dalla successiva trattazione collegiale, non evitava neppure la formazione dell’arretrato cautelare, c’è da chiedersi quanto il sacrificio della collegialità in assenza di una effettiva urgenza fosse realmente proporzionato e il modello della cautela a due se non a tre (e talvolta addirittura a quattro momenti, con conseguente moltiplicazione degli scritti difensivi) non abbia invece costituito un inutile aggravio processuale, ponendo peraltro il delicato problema del rapporto tra decisione monocratica derogatoria e decisione collegiale.
La magistratura non ha dato una risposta omogenea al nuovo modello. Ciò che si è nei fatti verificato è che molti giudici hanno assunto un atteggiamento fortemente prudenziale, tendenzialmente concependo le decisioni monocratiche ex lege Covid come quelle ex art. 56 cpa e, conseguentemente, valutando l’istanza sulla base della mera gravità e irreparabilità del pregiudizio rispetto alla ri-trattazione dell’istanza cautelare in sede collegiale e non, come previsto per la tutela cautelare ordinaria ex art 55 cpa e richiesto dall’art. 84, sul fumus e sul periculum rispetto al “tempo necessario alla decisione del ricorso” all’esito dell’udienza di merito.
Da un monitoraggio delle prime decisioni monocratiche curato da alcuni giovani studiosi che collaborano alla mia cattedra[11] è emerso invero che, privilegiando un’interpretazione restrittiva dal dato normativo formale, la giurisprudenza monocratica si è mossa per lo più nel senso di respingere le istanze che non apparissero giustificate da un’urgenza tale da non poter attendere la decisione collegiale, che, peraltro, dove possibile, alcuni decreti fiduciosamente calendarizzavano, per i casi più urgenti, subito dopo il 15 aprile, mentre altri rinviavano, disattendendo quanto prescritto dall’art. 84, a udienze più lontane. Sono stati, dunque, rarissimi i casi di remand e le richieste di adempimenti istruttori, mentre i giudici di appello hanno in vari casi rinviato al Collegio anche la decisione sulle istanze di mera sollecita fissazione del merito. Alcuni Presidenti hanno poi apprezzabilmente favorito una interlocuzione tra il magistrato delegato (tendenzialmente coincidente con quello designato come relatore) e il Presidente del Collegio. Altri hanno invece informalmente bypassato la fase monocratica e direttamente calendarizzato la trattazione delle istanze di cautela collegiale non accompagnate da specifiche richieste di urgenza a udienze successive al 15 aprile.
Proprio la risposta data dalla magistratura amministrativa all’introduzione del descritto meccanismo ne ha però confermato la probabile inutilità, tanto più che, come è stato ampiamente ricordato anche dai relatori di ieri, lo stesso art. 84, introducendo un periodo transitorio nella fase transitoria, aveva rimesso ai presidenti la possibilità di anticipare ai giorni pre e post “pasquali” (dal 6 al 15 aprile) la trattazione collegiale delle istanze cautelari accolte in sede monocratica e aveva direttamente rimesso all’accordo delle parti la possibilità di far definire, senza discussione (ma comunque collegialmente), le questioni di cui era già calendarizzata la trattazione in udienze da celebrare nello stesso periodo[12]: ciò che lasciava ben sperare nella possibilità di riprendere almeno le trattazioni collegiali (eventualmente da remoto e senza discussione orale) anche qualora, come purtroppo all’epoca si temeva e si è in parte verificato, il termine del lockdown fosse ulteriormente slittato.
Tornando allo spirito di queste riflessioni, nella direzione della migliore garanzia della decisione assunta cognita causa, ciò che mi premeva comunque soprattutto sottolineare è che il modello cautelare coniato per l’emergenza non possa essere considerato come un esperimento per un eventuale percorso verso la riduzione della tutela collegiale.
Senza nulla togliere alla serietà, all’impegno e alla capacità di ciascun singolo magistrato, il Collegio garantisce invero, per sua intrinseca natura, se non altro per il valore costruttivo di qualsiasi confronto dialettico, un livello di cognizione, di riflessione e di ponderazione evidentemente superiore a quello della tutela monocratica, e la giustizia amministrativa, per il suo ruolo, non vi può e non vi deve rinunciare.
4. Il “contraddittorio cartolare coatto” e le asimmetrie difensive della disciplina della discussione da remoto.
Il terzo – e forse il peggiore – effetto del lockdown è stato, come emerso anche dalle relazioni di ieri, la sospensione della possibilità di discussione orale, cui si sono correlate altre, gravi, asimmetrie difensive.
Lo stesso art. 84 del d.l. 18, come noto, ha disposto (comma 5) che, sempre in deroga alle previsioni del cpa, “successivamente al 15 aprile e fino al 30 giugno 2020”, tutte le controversie fissate per la trattazione, tanto in udienza pubblica, quanto in udienza camerale, salvi naturalmente eventuali rinvii d’ufficio o su richiesta di parte, passassero “in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati”: un grave limite al diritto di difesa, solo apparentemente temperato dalla “facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”.
Solo la discussione, anche da remoto, consente invero alle parti una piena rappresentazione dei fatti e un effettivo diritto di replica ad affermazioni “a sorpresa” delle loro controparti. Lo dimostra l’incertezza che, in mancanza dell’espressa previsione di perentorietà del termine, un’autorevole dottrina togata ha rappresentato nel webinar del 24 aprile sulla possibilità di ammettere la produzione ad libitum di note difensive “a catena”, per replicare a quelle delle altre parti[13]. L’esperienza di questi mesi ha del resto dimostrato che, mai come in questo periodo, gli avvocati si sono affrettati a replicare, anche nei giorni e nelle ore normalmente dedicate al riposo, agli scritti delle altre parti, caricando il fascicolo telematico di atti difensivi dell’ultima ora.
Il problema della replica è stato vieppiù aggravato se si considera che il termine per chiedere il rinvio delle udienze al fine di recuperare i termini di deposito di documenti e memorie scaduti nel periodo di sospensione è stato fatto inopportunamente coincidere con quello per la presentazione delle brevi note sostitutive della discussione, sicché chi rinunciava ad avvalersi del rinvio rischiava di perdere ogni possibilità di replica a tale forma “straordinaria” di difesa scritta, che, evidentemente, a maggior ragione se la sospensione aveva “bruciato” i termini per la produzione delle memorie e delle repliche, poteva contenere eccezioni e controdeduzioni tali da rendere imprescindibile la garanzia di un adeguato contraddittorio, consentendo alle controparti di valutare cognita causa l’esigenza di chiedere il rinvio necessario a esercitare in modo effettivo il fondamentale diritto di replica.
Abbiamo letto e apprezzato in quest’ottica le ordinanze con cui, a partire dalle note pronunce gemelle emesse il 21 aprile dalla VI sezione, il Consiglio di Stato (con ordinanze della III e della V sezione)[14] ha stigmatizzato il “contraddittorio cartolare coatto”, pur correttamente rappresentando l’esigenza di un equo contemperamento tra il diritto alla discussione orale e quello, delle eventuali controparti, ma spesso anche generale, alla sollecita definizione di un giudizio con fisiologici risvolti pubblicistici (si pensi, in via meramente esemplificativa, alla decisione su un importante concorso o su un appalto strategico).
L’estrema delicatezza del tema e l’importanza della discussione orale sono state del resto autorevolmente messe in risalto anche dalla Presidente della Corte costituzionale, che, nella richiamata intervista, a proposito degli effetti del lockdown sulla giustizia costituzionale e della scelta di rinviare le attività pubbliche della Corte, ivi comprese le udienze, salva espressa e concorde richiesta delle parti di far passare la causa in camera di consiglio senza trattazione orale, ha evidenziato che “l'udienza pubblica può essere molto importante sia per non comprimere il contraddittorio sia per non sacrificare la pubblicità della trattazione di quelle cause che abbiano particolare rilievo pubblico”, sicché il Presidente può comunque disporre il rinvio della trattazione per garantirne il contraddittorio e/o la pubblicità: l’argomento, sia pure con tratti meno evidenti, è valido anche per il processo amministrativo, fisiologicamente attinente a un ambito (l’esercizio del potere amministrativo) su cui il sistema chiede sempre maggiore trasparenza (essenziale a garantire un effettivo controllo democratico), e nel quale peraltro, diversamente da quanto accade in quello costituzionale, l’udienza non è visionabile in streaming.
Il tema del deficit di contraddittorio provocato dalla mancanza del confronto orale riporta anche alle perplessità destate dalla previsione, nell’art. 84 del d.l. 18/2020, della possibilità che, in deroga all’art. 60 del codice processuale, il giudice cautelare definisca immediatamente il giudizio anche nel merito, con sentenza semplificata, “omesso ogni avviso” alle parti. In sede di primo commento alla novella, segnalavo quindi ai potenziali lettori l’opportunità di rappresentare eventualmente per iscritto al Collegio (e alle altre parti) le eventuali ragioni ostative alla definizione immediata della controversia (in primis, la presentazione di motivi aggiunti o ricorsi incidentali). Significativamente, nel richiamato webinar del 24 aprile sugli effetti delle norme Covid sul processo amministrativo, autorevoli presidenti di sezione hanno condiviso le criticità della disposizione, sottolineando l’ingiusta e ingiustificata limitazione che essa creava al diritto di difesa e alla possibilità delle parti di rappresentare le ragioni per le quali ritenevano che la causa non fosse ancora matura per una decisione consapevole (cognita causa appunto). Non si deve infatti dimenticare che la decisione in forma semplificata anticipata nella fase cautelare deve restare un’eccezione nei limiti in cui ricorrano le condizioni di manifesta inammissibilità, improcedibilità, fondatezza o infondatezza di cui all’art. 74. Io stessa ho in più occasioni criticato la previsione che le decisioni di merito sull’affidamento di appalti e concessioni debbano essere sempre assunte in forma semplificata: proprio in una materia oggettivamente complessa e delicata una tale disposizione è infatti totalmente illogica e denota una scarsa attenzione all’esigenze e al ruolo della giustizia amministrativa. Lo dimostra del resto chiaramente il fatto che, opportunamente, la giurisprudenza tende a obliterarla, mostrando anzi ritrosia anche sulla immediata pubblicazione del dispositivo.
Sempre nell’ottica delle riflessioni pro futuro, con riferimento al turbinio di proposte di riforma sui contratti pubblici, queste considerazioni ostano a ogni ipotesi di anticipazione generalizzata della decisione di merito alla fase cautelare, o a possibili limitazioni a quest’ultima fase delle decisioni con effetto caducatorio. E, conseguentemente, fanno guardare con grande preoccupazione anche alle voci di proposte nel senso che, in assenza di sospensione dell’aggiudicazione, le parti non potrebbero decidere di rinviare la stipula del contratto alla definizione della controversia nel merito[15].
Il problema del contraddittorio orale è stato in parte ridimensionato, ma sicuramente non ancora superato e risolto, dall’art. 4 del d.l. n. 28 del 30 aprile, che, nel prorogare (dal 1 luglio) al 1 agosto il momento della “riapertura” fisica delle udienze, ha introdotto, a partire dal 30 maggio (sabato!), un intricato sistema per consentire, a determinate e complicate condizioni, la discussione da remoto. Come segnalato anche dal presidente Patroni Griffi e, ieri, dalla presidente Panzironi, è innegabile differenza tra il confronto fisico, che consente una compartecipazione completa e globale di gesti e di espressioni tra avvocati e collegio, valorizzando al massimo la prossemica, e quello da remoto, in cui manca persino la visione del relatore. Se l’approccio alle modalità telematiche può essere utile a riorganizzare la gestione delle istanze preliminari, vi è quindi massima esigenza di tornare quanto prima alla normalità per le discussioni.
Nell’ottica di queste riflessioni devo peraltro insistere anche nelle critiche, già peraltro vanamete espresse in un commento a prima lettura[16] cui per brevità rinvio, sulle incertezze e le problematiche create dalla novella, e sui riflessi negativi che esse esplicano su una piena cognizione della controversia.
Si prevede che la discussione venga chiesta con apposita “istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito”: il che significa che deve essere presentata prima che la parte istante abbia piena e adeguata contezza delle avverse difese. Il suo accoglimento, poi, è tutt’altro che certo, dal momento che il legislatore lo condiziona, non soltanto alla disponibilità di adeguati mezzi tecnici e informatici e alla compatibilità con i “limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”, ma anche all’accordo di tutte le altre parti costituite.
Se, come sopra rimarcato, la discussione è momento fondamentale del contraddittorio non soltanto per una interlocuzione diretta col giudice, ma anche per consentire un effettivo diritto di replica alle difese delle altre parti, l’asimmetria è evidentissima. Come può essere effettivamente garantito un contraddittorio che vede prevalere la posizione di chi impedisce alle altre parti l’esercizio di un loro diritto?
Sembra dunque che, come stava per accadere con i decreti monocratici ex lege (per i quali la bozza del dl 18 obliterava il rispetto dei termini a difesa previsti dall’art. 55 cpa) e come accaduto per la cd “proroga mutilata della sospensione dei termini processuali” dal 15 aprile al 3 maggio, inspiegabilmente circoscritta dal dl 23 alla notifica dei ricorsi (su cui v. infra), al legislatore dell’emergenza sia sfuggita un’attenta considerazione delle esigenze del contraddittorio, pur ampiamente curate dal codice processuale.
È stato così rimesso ai presidenti (e alla loro sensibilità, inevitabilmente condizionata dall’affollamento dei ruoli e dalle esigenze organizzative) operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e accogliere o meno l’istanza alla luce del comportamento (semplicemente inerte, più o meno giustificatamente, contrario, o, magari, anche tardivamente adesivo) delle “altre parti”.
Conosciamo e apprezziamo il lavoro svolto dal Presidente del Consiglio di Stato e dalle Associazioni forensi per cercare di riportare il caos a sistema, ma sappiamo anche che le loro indicazioni non hanno alcun valore cogente e in materia processuale l’incertezza non è tollerabile.
La lettura degli ulteriori passaggi della novella non offre purtroppo elementi di conforto.
La legge non fissa alcun termine, né per la presentazione di eventuali opposizioni, né per la comunicazione alle parti della decisione, rimessa peraltro al solo presidente, sulla possibilità, o eventuale necessità, della discussione[17]. Il tema è di massima importanza, giacché, come avevo evidenziato in sede di primo commento, il dl 28 non abroga la disposizione con cui l’art. 84, co. 5, del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazione di “brevi note”, che, secundum legem, le parti cui non viene concesso discutere devono dunque avere un tempo adeguato per redigere e, in teoria, presentare (per darne adeguata contezza a tutte le parti, giudici compresi), entro due giorni liberi prima dell’udienza.
È quindi inconferente, a tal fine, l’avviso che la segreteria deve dare almeno un giorno prima della trattazione (in caso già disposta), dell’ora e delle modalità di collegamento”. A parte la vaghezza e l’incertezza della formula “almeno un giorno prima”, la comunicazione riguarda invero soltanto le modalità organizzative, ma presuppone, evidentemente, una decisione già assunta e che, per quanto detto, dovrebbe essere già stata resa nota alle parti.
La confusione è aggravata dalla previsione che “in alternativa” alla discussione – si presume, già disposta – le parti possono comunque depositare richiesta scritta di passaggio diretto in decisione o “note di udienza” fino alle 9 della mattina dell’udienza stessa. Le altre parti dovrebbero quindi eventualmente replicare a eccezioni o rilievi di cui il giudice, impegnato nell’udienza, non avrebbe potuto ancora avere contezza.
È agevole cogliere una scarsa sistematicità e un conseguente rischio di sovrapposizione e confusione tra le “brevi note” di cui all’art. 84, dl 18 e queste “note d’udienza” (prive, oltretutto, entrambe, di ogni limite contenutistico o criterio dimensionale). Ieri i colleghi Greco e Gallo, nella logica propositiva della dottrina scientifica, facevano congetture su eventuali limiti di questi atti, ma desta sincera perplessità il fatto che, nonostante il problema fosse stato già sollevato, il legislatore, anche nella meno concitata sede della conversione in legge, abbia totalmente evitato di definirli.
L’incidenza negativa di questo complesso e intricato meccanismo sulla “piena conoscenza” della controversia è di assoluta evidenza.
Il tema, come ho già avuto occasione di segnalare, è di notevole importanza dal momento che, come ricordato, l’art. 84 del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazione di “brevi note”, che le parti devono dunque avere il tempo di predisporre e, in teoria, presentare entro due giorni liberi prima dell’udienza.
Il giudice rischia di essere sommerso dagli atti e il contraddittorio ne esce pesantemente sconfitto. Come detto, le criticità sono state solo parzialmente ridotte dalle Linee Guida del Presidente del Consiglio di Stato e dal Protocollo stilato con le Associazioni degli Avvocati[18]: non sono fonti e, non avendo carattere vincolante, non possono dare certezza. Penso, ad esempio, alla raccomandazione di presentare le note entro le 12 del giorno precedente all’udienza. Qual è la sanzione per chi non la rispetta e presenta magari uno scritto di 30 pagine alle 9 del mattino dell’udienza? Il collegio non potrà esimersi dal valutarle, ma non potrà certo ascoltare e valutare “cognita causa” le eventuali repliche, a questo punto necessariamente soltanto orali, che le altre parti saranno state costrette frettolosamente ad approntare e che, oltretutto, saranno tendenzialmente costrette a contenere in un tempo non rapportabile a quello che il collegio potrà, se lo ritiene, dedicare alla – tranquilla – lettura delle note scritte. Né è ragionevolmente ipotizzabile che la produzione in limine di una ponderosa difesa scritta possa essere utilizzato come comodo strumento per implicare il rinvio dell’udienza.
Fortunatamente, o almeno tutti ce lo auguriamo, Il problema è limitato nel tempo, ma, come osservavo nelle premesse di questa relazione, la crisi deve essere anche un’occasione per riflettere e i modelli utilizzati, come ipotizzavano anche il presidente Montedoro e il collega Gallo, potrebbero costituire spunto per future riforme del sistema processuale o semplicemente per una riorganizzazione della gestione e celebrazione delle udienze. Non ho tempo per affrontare anche io di tutti i profili che gli stessi hanno autorevolmente trattato: mi limito solo a condividere i rilievi del primo sul contributo unificato (tema sul quale ho del resto ampiamente scritto) e quelli del secondo sull’esigenza di definire il termine ultimo di costituzione delle parti diverse dal ricorrente, che potrebbe però a mio avviso già essere individuato per analogia con quello di presentazione dell’atto di intervento, ovvero il termine per la presentazione delle memorie in vista dell’udienza.
Quello che non deve assolutamente ripetersi è, per un verso, la descritta situazione di incertezza delle regole processuali, che, con l’aiuto degli esperti, devono essere più attentamente ponderate e definite (banalmente, ad esempio, ogni volta che si inseriscono termini, va chiarito se sono perentori o meramente ordinatori, se valgono per l’intera giornata o fino alle 12 e se valgono per tutti i riti o sono soggetti a dimidiazione) e, per l’altro, la scarsa attenzione che il legislatore dell’emergenza ha ingiustificatamente e incomprensibilmente rivelato per la parità delle armi tra le diverse parti del processo e per un effettivo contraddittorio, aprendo il fianco a forti rischi di asimmetria.
5. La sospensione “mutilata” dei termini nel dl 23 dell’8 aprile.
Prima di chiudere non posso a tale proposito non menzionare l’irragionevole limitazione della proroga della sospensione dei termini processuali alla notificazione dei ricorsi[19].
Un processo che sia davvero tale deve consentire a tutte le parti una effettiva possibilità di rappresentare e documentare le proprie posizioni. La sospensione dei soli termini dell’azione, che evidentemente presuppone la consapevolezza del Governo della oggettiva difficoltà di costruire e comprovare una linea difensiva in tempo di Covid-19, ha gravemente violato questo principio, inaccettabilmente disconoscendo al diritto di eccezione, di controdeduzione e di replica nei giudizi instaurati, senza i problemi della pandemia e del lockdown, nel periodo ante Covid, le stesse garanzie riconosciute al diritto di intraprendere nuove azioni.
Ciò che, come ho già scritto, sottopone inutilmente a seri rischi di illegittimità costituzionale le decisioni assunte senza tenerne conto.
6. Conclusioni.
Chiudo allora con la conferma del monito che la redazione delle norme processuali sia accompagnata da una più attenta riflessione sulle conseguenze che esse possono avere sul ruolo del giudice e sui diversi profili su cui poggia l’assunzione di una decisione cognita causa. Perché, come sottolineava ieri Paola De Cesare, richiamando la lezione di Salvatore Satta ne “Il mistero del processo”, per dare buone regole “bisogna comprendere il sistema”.
***
*Lo scritto costituisce la rielaborazione, ampliata e corredata di note, del testo della Relazione al webinar Modanella 2020 su L’emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro, svoltosi nei giorni 30 giugno e 1 luglio 2020 nell’ambito delle Giornate di Studio sulla Giustizia amministrativa organizzate da F. Francario e M.A. Sandulli.
[1] Il processo amministrativo e il Covid-19 (introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di F. Francario, M. Lipari, L. Maruotti, G. Montedoro, G. morbidelli, P.L. Portaluri, M. Ramajoli, C. Saltelli, S. Santoro, R. Savoia, G. Severini e M.R. Spasiano), ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=qv33zNnY6I8
A questo primo incontro sono poi immediatamente seguiti, il 29 aprile, un webinar organizzato dall’AIPDA su Poteri del giudice amministrativo e efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti, coordinato da C. Barbati e introdotto da interventi di R. Cavallo Perin, M. Clarich, G. de Giorgi Cezzi, G. Morbidelli, F.G. Scoca, L. Torchia e G. Tropea sul dibattito apertosi sul tema tra G. della Cananea, M. Dugato, A. Police e M. Renna e G. Corso, F. Francario, G. Greco, M.A. Sandulli e A. Travi, ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=HZhPESkwTD8 e, il 30 aprile, un webinar su Emergenza sanitaria, diritto e (in)certezza delle regole, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di V. Antonelli, R. Balduzzi, F. Basilico, C. Bottari, B. Caravita di Toritto, S. Cogliani, M. D'Amico, L. Giani, M. Gola, A. Pioggia e F. Risso, https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw
[2] Richiamo, per comodità di ricerca, in ordine cronologico, i miei commenti sulle disposizioni in tema di processo amministrativo susseguitesi tra l’8 marzo e il 4 maggio 2020:
-Vademecum di prima lettura sulle misure urgenti per la giustizia amministrativa e comunicato ufficio stampa giustizia amministrativa, 9 marzo 2020, in lamministrativista.it e in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it;
-Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, 10 marzo 2020, ibidem;
-Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del decreto "Cura Italia", 17 marzo 2020, ibidem;
-I “primi chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul "Decreto cura Italia", 20 marzo 2020, ibidem;
-Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, 31 marzo 2020, in federalismi.it;
-Il “D.l. credito” proroga la sospensione dei termini del procedimento amministrativo e, un po’, anche quelli dei giudizi amministrativi, 9 aprile 2020, in lamministrativista.it;
-Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, in federalismi.it, 9 e 10 aprile 2020;
-Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, 1 maggio 2020, in lamministrativista.it; Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, 4 maggio 2020, in giustiziainsieme.it;
-L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo, in Il Dubbio, 6 maggio 2020.
Per una riflessione più ampia sulle problematiche riproposte dall’emergenza Covid-19 in riferimento alla giustizia amministrativa, mi si consenta il rinvio al saggio Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss. (leggibile anche in www.giustizia-amministrativa-it) e ivi ulteriori richiami, e, con specifico riferimento alla questione della (in)ammissibilità di una tutela meramente risarcitoria in materia di contratti pubblici, gli scritti La nuova tutela giurisdizionale in tema di contratti pubblici (note a margine degli artt. 244-246 del Codice de Lise), Il processo amministrativo superaccelerato e i nuovi contratti ricorso-resistenti e Nuovi limiti alla tutela giurisdizionale in materia di contratti pubblici in federalismi.it, nn. 21/2006, 5/2009 e 15/2016.
[3] M. Cartabia, La Corte costituzionale non si ferma davanti all’emergenza, in giustiziainsieme.it, 27 marzo 2020.
[4] H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano 1991, 229.
[5] Il riferimento è alla prima disposizione generale: si ricorda peraltro che l’art. 10 del d.l. n. 9 del 2 marzo aveva inizialmente sospeso i termini del processo amministrativo, analogamente a quanto disposto per gli altri processi, fino al 31 marzo (con espresso richiamo alla possibilità di rimessione in termini per errore scusabile dei termini scaduti nel periodo dal 23 febbraio al 2 marzo) per le sole “zone rosse” di cui all. 1 al d.P.C.M. 1 marzo 2020.
[6] Cfr. le considerazioni svolte in M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[7] Su cui v. il mio primo Vademecum richiamato alla nota 2 e il contributo di F. Francario, L’emergenza Coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, 11 marzo 2020.
[8] In lamministrativista.it del 10 marzo 2020, con mia news critica, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve, ma aumenta l’insicurezza.
[9] Per un commento a prima lettura delle modifiche introdotte si vedano, oltre a M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid 19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del Decreto Cura-Italia, e I primi “chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto Cura-Italia”, citt. supra, alla nota 2, F. Patroni Griffi, Prot. Int. 1454 del 19 marzo 2020. in www.giustizia-amministrativa.it; C. Saltelli, La tutela cautelare dell’art. 84 d.l. n. 18 2020, ivi, 24 marzo 2020; F. Francario, Il L'emergenza coronavirus e la cura per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo in Osservatorio emergenza Covid19, federalismi.it e Il non - processo amministrativo nel diritto dell'emergenza Covid 19; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Osservatorio emergenza Covid19, federalismi.it, 6 aprile 2020. i
[10] Non vi erano infatti ragioni per giustificare una compressione del diritto di difesa e di effettivo contraddittorio anche sotto tale profilo, men che mai nella gravissima congiuntura che si stava attraversando e con le evidenti difficoltà che ne conseguivano, anche in termini di rapporti con i clienti e con i collaboratori, di svolgimento dell’attività di ricerca e di organizzazione del lavoro.
[11] Contributi di V. Sordi, T. Cocchi e B. Gargari, leggibili su giustamm.it e sull’Osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, Foro amm., n. 2/2020.
[12] L’art. 84 disponeva infatti al comma 2 che, “in deroga a quanto previsto al comma 1 [e dunque, è da ritenere, rinunciando a fruire della sospensione dei termini processuali anche per i depositi], dal 6 al 15 aprile, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale, sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite”. E, a parziale temperamento di quanto disposto dal comma 1, il terzo periodo dello stesso comma 2 disponeva che “nei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato un decreto monocratico di accoglimento, totale o parziale, della domanda cautelare”, la trattazione collegiale è fissata, “ove possibile, nelle forme e nei termini” di cui all’art. 56, comma 4, c.p.a., a partire dal 6 aprile 2020 ed è definita secondo quanto previsto dal medesimo art. 84, comma 2, del decreto. La possibilità sarebbe stata dunque valutata dai singoli presidenti. Veniva comunque fatto espressamente, “salvo” il caso (per vero abbastanza difficile) in cui, entro due giorni liberi prima della trattazione “una delle parti su cui incide la misura cautelare” (ovvero che ne fosse pregiudicata) depositasse un’istanza di rinvio. In tal caso, la trattazione collegiale era “rinviata a data immediatamente successiva al 15 aprile e segue le regole ordinarie previste dal comma 5”.
[13] C. Saltelli.
[14] Cfr. ordd. sez. VI, 21 aprile 2020 nn. 2538 e 2539, sez. III, 8 maggio 2020 nn. 2918 e 2919, sez. V, 7 maggio 2020, nn. 2887-2891, su cui, inter alia, V. Sordi, Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid-19, in giustiaziainsieme.it, 27 maggio 2020; F. Saitta, Da Palazzo Spada un ragionevole no al «contraddittorio cartolare coatto» in sede cautelare. Ma il successivo intervento legislativo sembra configurare un’oralità…a discrezione del presidente del collegio, in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 5 maggio 2020 e S. Tarullo, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. 28 del 2020, in federalismi.it, 13 maggio 2020.
[15] Il tema sarà ampiamente affrontato nella relazione di M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, leggibile su lamministrativista.it, 3 luglio 2020.
[16] Cfr. i contributi del 1 e del 4 maggio e l’intervista su Il dubbio del 6 maggio citati alla nota 2. Per una valutazione positiva delle nuove regole, cfr. però G. Veltri, Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”, in www.giustizia-amministrativa.it, 2 maggio 2020.
[17] La norma infatti – opportunamente – prevede che, anche in assenza di istanza di parte, il presidente possa disporre, “con decreto”, la discussione orale da remoto, ma neppure in questo caso stabilisce un termine entro il quale le parti devono essere rese edotte della decisione assunta.
[18] Facilmente consultabili sul sito istituzionale della giustizia amministrativa.
[19] Il riferimento è all’art. 36 del dl 23 dell’8 aprile, su cui rinvio alle più ampie considerazioni svolte in M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è “riservata” alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al “pieno” contraddittorio difensivo”, in federalismi.it del 9 aprile, con Postilla del 10 aprile 2020. Analogamente, in senso critico, F. Francario, Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19, in www.giustiziainsieme.it, 14 aprile 2020 e Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 15 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più speciale”, in lamministrativista.it e in giustamm.it; M. Lipari, L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma, in federalismi.it del 29 aprile. Per una difesa delle nuove regole (su cui sono poi puntualmente arrivate le Direttive del Presidente del Consiglio di Stato: prot. n. 7400 del 20 aprile 2020, in www.giustizia amministrativa.it) v. invece R. De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia in Osservatorio emergenza Covid-19, federalismi.it, 15 aprile 2020.
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