ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ieri conferito alla signora Rosa Oliva l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, alla quale si deve l'iniziativa giudiziaria, patrocinata dall''Avvocato Costantino Mortati, di impugnare il diniego di partecipazione al concorso per accedere alla carriera prefettizia.
Fu grazie a quel ricorso che il Consiglio di Stato sollevò questione di legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nella legge n.1176 del 1919 che impedivano l'accesso agli impieghi pubblici delle donne. Divieto che la storica sentenza della Corte costituzionale n.33 del 1960 sradicò dal sistema.
Lo stesso Presidente della Repubblica, in occasione della celebrazione al Quirinale della Giornata internazionale della donna, ha sottolineato che proprio quel ricorso "...di una donna tenace e coraggiosa, Rosa Oliva, a provocare la cancellazione di una norma ingiusta e discriminatoria, in palese contrasto con la Costituzione. Per sanare una ferita così grave sul piano dei diritti intervenne la Corte costituzionale, non il Parlamento: una circostanza che fa riflettere e fa comprendere quanti ritardi e resistenze culturali abbiano costellato la via dell'effettiva parità".
A chiusura delle moltissime iniziative accademiche e culturali che anche quest'anno hanno ricordato quell'evento, Giustizia insieme offre nuovamente ai suoi lettori, con le parole di Antonietta Carestia, la testimonianza ed il ricordo di Ruth Bader Ginsburg, donna che può essere presa ad essemplo di quanto la società, la cultura e il mondo del diritto abbiano bisogno estremo di essere alimentati dalle donne e da un'effettiva parità di genere.
I dissent, la voce dissenziente di Ruth Bader Ginsburg
di Antonietta Carestia
Giustizia Insieme rivolge un particolare ringraziamento ad Antonietta Carestia, direttore responsabile della Rivista on line giudicedonna, per avere tracciato un profilo magistrale della Giudice Ruth Bader Ginsburg.
1. “Ero ebrea, ero donna, ero madre”, così Ruth Bader Ginsburg, in una intervista alla BBC, si raccontava e spiegava il perché dei pregiudizi e delle discriminazioni che ancora attraversavano nel profondo la società americana e che avevano condizionato le sue prime scelte di vita professionale.
Nata a New York nel 1933 da ebrei immigrati russi, Ruth Bader dopo il diploma di scuola superiore si laureò in diritto, con il massimo dei voti, alla Cornell University, usufruendo di una borsa di studio, e successivamente nel 1956, dopo il matrimonio e la nascita della sua prima figlia, si iscrisse alla Harvard Law School, entrando poi nel comitato di redazione della Harvard Law Review, che per la prima volta vedeva una donna tra i suoi componenti.
Ma proprio nella prestigiosa Harvard Ruth Bader Ginsburg si scontrò con diffusi pregiudizi e stereotipi culturali; come ha più volte ricordato, pur rientrando nel ristretto numero delle studentesse di legge, complessivamente nove rispetto agli oltre cinquecento uomini, a tutte in un incontro conviviale fu richiesto dal preside di esplicitare le ragioni di una scelta così impegnativa per una donna, di fatto togliendo il posto ad un uomo.
Un episodio che rivela l’ambiente di ostilità culturale che non risparmiava neppure una delle più accreditate Law School americane, una ostilità diffusa nella società e che più tardi impedì alla giovane e brillante laureata in legge, con studi di perfezionamento ai più alti livelli, di inserirsi in uno dei tanti studi legali contattati.
Ripeteva spesso che l’essere ebrea e donna aveva costituito un grave ostacolo al suo ingresso nel mondo dell’avvocatura, ma che fu soprattutto il suo essere madre di una figlia in tenera età a motivare sostanzialmente il rifiuto che ripetutamente le fu opposto.
Per niente demotivata da tali chiusure, ma anzi rafforzata nei suoi propositi di combattere contro le disuguaglianze sociali e le discriminazioni di genere, la Ginsburg partecipò ad un importante progetto di ricerca della Columbia University in diritto processuale comparato e si dedicò poi all’insegnamento presso una piccola università, la Rutgers Law School, cercando di nascondere la sua seconda maternità con larghi camicioni per timore di perdere l’incarico di docenza per il quale aveva accettato una retribuzione più bassa rispetto a quella dei colleghi.
Ma non distolse mai lo sguardo dalla sua originaria vocazione e prima come volontaria e poi come corresponsabile dell’A.C.L.U. - American Civil Liberties Union seguì alcuni casi di norme discriminatorie , tra i quali nel 1971 il caso Reed v. Reed (404.US 71- 1971) [1] che segnò la sua prima grande vittoria presso la Corte Suprema.
Trattasi di una decisione storica, come da tutti riconosciuto, perché per la prima volta la Corte Suprema stabilì che la clausola di uguale protezione contenuta nel quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti vieta un trattamento differenziato fondato sul sesso.
Il caso riguardava la richiesta avanzata da entrambi i genitori di un figlio deceduto, tra di loro in conflitto per la nomina ad amministratore dei beni caduti in successione; in tutti i gradi di giudizio erano prevalse le ragioni del padre in base al diritto successorio dello Stato dell’Idaho che, nel caso di più soggetti legittimati, stabiliva la regola preferenziale a favore degli uomini rispetto alle donne.
La Ginsburg, quale corresponsabile dell’A.C.L.U., collaborò con un ruolo preminente alla stesura della memoria per la ricorrente Sally Reed, sostenendo che i trattamenti differenziati per il sesso costituivano una violazione del quattordicesimo emendamento e che era necessario depurare il diritto e la sua concreta applicazione da antichi pregiudizi che alimentavano i processi di esclusione delle donne dai luoghi della responsabilità all’interno della famiglia e nella società.
La pronuncia della Corte Suprema ebbe un forte impatto, spingendo ad una revisione delle leggi statali e federali che recepivano il criterio preferenziale del sesso; la stessa Ginsburg, nel frattempo divenuta direttrice dell’A.C.L.U., potè avviare nel 1972 il piano d’azione Women’s Rights Project, con l’obiettivo di curare la difesa di casi emblematici in grado di far emergere le gravi discriminazioni di genere che operavano nel sistema.
2. La grande intuizione della Ginsburg, che ne fece l’antesignana del moderno femminismo, fu quella di decostruire il dato normativo che era attraversato, sia a livello federale che statale, da forti discriminazioni sessiste, per restituire la norma alla sua funzione regolatrice dei conflitti, nel segno della parità di tutela applicabile a tutti gli individui in quanto persone.
Non dunque una battaglia per costruire un nuovo ordine femminile separato e contrapposto a quello maschile, come pure teorizzato da alcune filosofe del femminismo, soprattutto in Europa, ma un ordine neutrale incentrato sulla persona, ricomponendosi in tal modo la dualità uomo-donna mediante il riconoscimento e la pratica del principio della parità di protezione ( equal protection under the law) contenuto nel quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, che richiama espressamente la clausola del giusto processo ( due process of law) contemplata dal quinto emendamento.
Forte dell’affermazione professionale ottenuta con il caso Reed v. Reed, la Ginsburg diede impulso al Progetto A.C.L.U. approntando la difesa in numerosi casi di discriminazione di genere e privilegiando strategicamente le cause promosse da uomini o che riguardavano posizioni nelle quali il campo di operatività delle discriminazioni fondate sul sesso era molto ampio, per gli effetti dannosi prodotti e che di fatto coinvolgevano sia gli uomini che le donne, al di là dell’apparente previsione.
E’ il caso Frontiero c. Richardson [2] del 1973, in cui la Ginsburg è intervenuta per l’A.C.L.U., come amicus curiae.
La ricorrente, in servizio presso l’Air Force degli USA , aveva chiesto i benefici dell’indennità di alloggio e delle prestazioni mediche per il coniuge, ma la richiesta era stata respinta perché i benefici erano previsti per la moglie in quanto soggetto a carico, indipendentemente dalla effettiva dipendenza economica dal marito, mentre nell’ipotesi inversa era necessario fornire la prova che il marito era economicamente dipendente dalla moglie per oltre la metà delle sue necessità, e nella specie tale prova non era stata fornita.
La Corte Suprema, accogliendo la tesi sostenuta dalla difesa, affermò che la normativa applicata violava la clausola del giusto processo del quinto emendamento della Costituzione americana, in quanto poneva solo a carico della donna l’onere di provare la dipendenza economica del marito.
Fu un successo anche la difesa sostenuta nel caso Weinberger v. Wiesenfield [3] , in cui la Corte, rigettando all’unanimità il ricorso proposto dalla Pubblica Amministrazione, confermò che l’attribuzione di prestazioni previdenziali solo a favore dei figli nel caso di morte della madre lavoratrice, con esclusione del marito rimasto vedovo, integrava un trattamento discriminatorio in violazione del diritto alla parità di protezione garantito dal quinto emendamento, in quanto per la vedova non era prevista alcuna preclusione di carattere sostanziale o processuale.
La motivazione offre un quadro dell’acceso dibattito svoltosi all’interno del collegio giudicante, con specifico riferimento alle argomentazioni sostenute dalla Ginsburg, lì dove si afferma che la disposizione denunciata, a parità di contributi previdenziali versati dalle donne, produceva meno protezione per le loro famiglie.
Numerosi i casi di cui continuò ad occuparsi nella veste di difensore o come amicus curiae o semplicemente collaborando al Progetto dell’A.C.L.U., avendo nel frattempo lasciato la Rutgers Law School per un incarico di docente di primo livello alla Columbia University.
Svolse la sua ultima difesa come avvocato dinanzi alla Corte Suprema nel caso Duren v. Missouri[4], deciso il 9 gennaio 1979 con una pronuncia di accoglimento del ricorso che recepiva le tesi difensive della Ginzburg, la quale aveva sostenuto la illegittimità del criterio di selezione e formazione della giuria per violazione del sesto e quattordicesimo emendamento , in quanto nel Missouri la partecipazione delle donne era per legge meramente facoltativa, il che, oltre a svalutare la loro presenza e il servizio reso nelle giurie, costituiva anche una discriminazione in danno degli uomini, cui non era consentita analoga facoltà.
Fu l’addio all’avvocatura, che pure era stata la sua grande passione, ma la Ginsburg continuò ad occuparsi di diritto e di giustizia prima come giudice della Corte d’appello degli Stati Uniti per il distretto della Columbia ( nomina del 1980) e poi come giudice della Corte Suprema, nominata nel giugno 1993 dal presidente Bill Clinton dopo iniziali incertezze dovute ad alcune posizioni conservatrici in materia di aborto erroneamente attribuitele: in sede di audizione al Senato la giudice chiarì che non era affatto contraria alla legalizzazione dell’aborto e che di diverso tenore erano le critiche a suo tempo mosse alla sentenza con la quale la Corte Suprema, nel gennaio 1973, aveva ritenuto incostituzionale la regolamentazione restrittiva dell’aborto in vigore nello Stato del Texas ( caso Roe v. Wad - 410 US 113 - 1973 ).
3. Nei ventisette anni di permanenza alla Corte Suprema la Ginsburg , avvalendosi della non comune preparazione e dell’esperienza acquisita nei lunghi anni di insegnamento e di avvocatura, ha rivoluzionato il mondo del diritto e della giustizia, battendosi apertamente per il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona e per la eliminazione di quelle arretratezze culturali e incrostazioni del sistema giudiziario che continuavano ad operare sul fronte dell’uguaglianza dei diritti e della parità di trattamento, con l’effetto di ridurre per tutti, non solo per le donne, gli spazi di libertà e di autodeterminazione necessari per una piena cittadinanza.
Storiche alcune decisioni relative a casi di discriminazioni di genere che segnarono punti di non ritorno nella storia del difficile cammino delle donne per l’uguaglianza e la parità dei diritti.
Tra le più significative la decisione United States v. Virginia 518 US 515[5] del 1996, con la quale la Corte Suprema a maggioranza ( con il voto favorevole della Ginsburg) ribaltò la decisione di appello con la quale era stata ritenuta non discriminatoria la esclusione delle donne dall’Istituto VMI ( Virginia Military Institute ) sul rilievo che le opzioni educative di genere costituivano un obiettivo legittimo e che nella specie lo Stato della Virginia aveva realizzato altra struttura similare riservata alle donne (VWIL - Virginia Women’s Institute for Leadership), con opportunità educative sufficientemente comparabili.
La Corte ritenne violato il quattordicesimo emendamento perché, come scriveva la Ginzburg, estensore della motivazione, “una legge o una politica che nega alle donne, semplicemente perché donne, piena cittadinanza, pari opportunità di aspirare, raggiungere, partecipare e contribuire alla società in base ai loro talenti individuali e capacità” è in contrasto con il principio costituzionale della parità di protezione.
Un’esposizione puntuale dei fatti, un’argomentazione serrata, una ricostruzione storica della lunga esclusione delle donne americane dal godimento di diritti civili e politici fanno di questa motivazione un documento di studio in molte università.
Più di recente, determinante è stato il suo apporto e il suo voto nel caso Obergefell v. Hodges n. 14.556 [6] - 2015 , in cui la Corte con una maggioranza di cinque voti a favore e quattro radicalmente contrari ha affermato che : 1) “ il diritto di sposarsi è un diritto fondamentale inerente alla libertà della persona … e le coppie dello stesso sesso non possono essere private di tale diritto e di tale libertà “; 2) il rifiuto di uno Stato di riconoscere un legittimo matrimonio omosessuale contratto in un altro Stato non ha alcuna base legale.
La copertura costituzionale è data sempre dai principi della parità di protezione e del giusto processo, applicabili non tanto in chiave antidiscriminatoria, in relazione al diverso orientamento sessuale, ma piuttosto come riconoscimento della libertà e dignità delle persone omosessuali. Un orizzonte dunque più ampio che ci riporta ai diritti fondamentale della persona, non coercibili e non negoziabili.
4. L’apporto della Ginsburg alla elaborazione di questi temi, sia sul piano del riconoscimento dei diritti che della loro tutela, è stato ampio ed importante, ma altrettanto importante è stata la sua capacità di dialogare con le altre istituzioni e di comunicare con i cittadini per richiamare l’attenzione e sollecitare il dibattito pubblico sulle questioni affrontate dalla Corte.
Un dialogo che la dissenting opinion prevista nel sistema americano, con la non segretezza del voto e delle relative motivazioni, ha reso possibile ed anzi ha promosso, consentendo non solo alla Corte ma anche ai singoli componenti di svolgere un ruolo incisivo per il cambiamento della società e delle sue regole di convivenza; peraltro, il dissenso può riguardare anche la sola motivazione, in tutto o in parte, dando vita in tal caso alla cd. concurring opinion.
Trattasi di istituto estraneo al nostro sistema[7], che alimenta da tempo un acceso dibattito anche nella società americana, perché proietta all’esterno una visione politicizzata della Corte, con una conseguente perdita di autorità morale delle decisioni, anche se rende più trasparente l’esercizio del potere giudiziario e promuove la discussione pubblica, sollecitando eventuali interventi legislativi di modifica o integrazione delle norme esistenti.
Alla dissenting opinion la Ginsburg ha fatto ampio ricorso, dissentendo non solo per iscritto, ma talvolta anche nella forma del dissenso orale (dissent from the bench) per sottolineare la erroneità della decisione e richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica.
E’ quanto avvenuto nel caso Ledbetter v. Goodyear Tire & Rubber Co. (2007) [8], in cui la Corte con una maggioranza di 5 a 4 rigettò il ricorso della Ledbetter che, dopo il pensionamento nel 1998, aveva agito per ottenere le differenze salariali e il risarcimento dei danni per il trattamento discriminatorio subito rispetto ai colleghi maschi con identiche mansioni, con riferimento all’intera durata del rapporto di lavoro che aveva avuto inizio nel 1979.
La decisione favorevole di primo grado era stata ribaltata in sede di appello, sul rilievo che, in base alle disposizioni del titolo VII del Civil Rights Act del 1964, la denuncia di atti discriminatori doveva essere presentata nel termine di 180 giorni dalla conoscenza della discriminazione praticata dal datore di lavoro, termine che nella specie era ampiamente decorso alla data di presentazione della denuncia (marzo 1998) , in quanto gli aumenti salariali erano stati decisi dalla Goodyear molto tempo prima dell’iniziale decorrenza del termine di legge.
La dissenting opinion [9] della Ginsburg, sostenuta anche oralmente con argomentazioni che dimostravano non solo padronanza tecnica ma anche sensibilità al tema delle discriminazioni salariali di cui le donne erano vittime, ebbe grande risonanza perché, oltre a dissentire aspramente con le conclusioni cui era giunta la maggioranza, sollecitò il Congresso ad intervenire per correggere la riduttiva lettura del titolo VII da parte della Corte Suprema.
Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama, fu approvata dal Congresso una modifica della legge sui diritti civili, che anche nel titolo richiamava il caso Ledbetter (Lilly Ledbetter Fair Pay Act, approvata il 29.1.2009) e disciplinava compiutamente la materia delle discriminazioni salariali, fissando tempi congrui per il recupero delle somme non ricevute per effetto della pratica di lavoro illegale.
5. La reazione emotiva e la partecipazione corale da parte di più generazioni di donne e di uomini alla sua morte, avvenuta all’età di 87 anni, dà la misura di quanto la Ginsburg fosse una interprete dei tempi difficili e complessi della modernità e di come la sua visione fosse largamente anticipatrice di una esigenza sempre più diffusa di costruire una società di uguali, senza le discriminazioni di razza, di sesso e di censo che ancora inquinano il tessuto civile e i sistemi politici ed economici a qualsiasi latitudine nel mondo.
La sua irripetibile esperienza di vita come avvocata e giudice della Corte Suprema, già oggetto di documentari, film e saggi biografici, continuerà a fornire occasioni di approfondimento e di studio per l’alto valore teorico e professionale di tutta la sua attività. La sua morte, avvenuta in una delicata fase di elezioni presidenziali che si terranno a breve scadenza, riapre la difficile questione dell’equilibrio dei poteri nel sistema americano, sollevando seri interrogativi sull’autonomia del potere giudiziario.
Ancora un tema di diritto costituzionale sul quale la Ginsburg ci chiama a riflettere.
[1] https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/404/71
[2]https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/420/636.html
[3] https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/411/677.html
[4] https://supreme.justia.com/cases/federal/us/439/357/
[5] https://www.law.cornell.edu/supct/html/94-1941.ZO.html
[6] https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/14-556
[7] Sulla introduzione in Italiadelle opinioni dissenzienti nella giustizia costituzionale V. Sabino Cassese, Lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quaderni di diritto costituzionale n. 4/2009; Silvia Niccolai, Dissenso e diritto costituzionale. Appunti per una riflessione, in Questione Giustizia n. 4/2015; G.Zagrebelsky, V. Marcenò, "Giustizia costituzionale", Il Mulino, Bologna, 2012.
L’effettività della tutela ambientale nel rapporto tra procedimento di screening e V.I.A.
(nota a Cons. Stato, sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379)
di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Inquadramento. - 2. Le (differenti) soluzioni adottate nei due gradi di giudizio. - 3. La natura del provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A. e il preavviso di rigetto.
* * *
1. Inquadramento
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5379/2020 offre importanti precisazioni in merito al rapporto tra procedura di verifica di assoggettabilità (c.d. screening) e valutazione di impatto ambientale. Le soluzioni adottate divergono da quelle cui si perviene all’esito del primo grado di giudizio[1], pur muovendo entrambe le pronunce dai medesimi presupposti riguardanti l’autonomia e, in senso lato, l’identità d’oggetto – l’impatto ambientale[2] – di tali procedimenti[3].
Le divergenze sono percettibili sotto due diversi, benché connessi, aspetti che suggeriscono altrettante linee di sviluppo: la prima concernente la natura della verifica di assoggettabilità e, nello specifico, il livello di approfondimento delle questioni ambientali nella fase di screening; la seconda relativa alle modalità di espletamento del contraddittorio procedimentale, con particolare riguardo all’applicabilità delle previsioni dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 sul preavviso di rigetto, in detta fase.
Giova premettere che la normativa presupposta dalla sentenza in nota, quale risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 128/2010[4] ratione temporis applicabili alla fattispecie, ha subito interpolazioni in seguito all’emanazione del decreto Semplificazioni (d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modifiche in l. 11 settembre 2020, n. 120). Le nuove previsioni dell’art. 19 del d.lgs. n. 152/2006, già novellate dal d.lgs. n. 104/2017[5], configurano tempi istruttori più celeri onde addivenire al provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A., ma non ne intaccano la natura.
Si prevede ora che il proponente trasmetta lo studio preliminare ambientale, redatto in conformità all’allegato IV-bis alla parte II del d.lgs. n. 152/2006 in formato elettronico con annessa copia dell’avvenuto pagamento del contributo di cui all’art. 33, all’autorità competente, la quale, entro cinque giorni dalla ricezione dello studio, verifica la completezza e l’adeguatezza della documentazione. Ove necessario, per una sola volta, si possono richiedere chiarimenti e integrazioni che il proponente provvede a trasmettere all’autorità entro i successivi quindici giorni[6], pena la reiezione della domanda e la conseguente archiviazione.
Chiunque sia interessato può presentare le proprie osservazioni in merito allo studio preliminare ambientale e alla relativa documentazione entro il termine di quarantacinque giorni dalle avvenute comunicazioni e pubblicazioni di cui all’art. 19, comma 3; osservazioni che l’autorità sarà tenuta a valutare, sulla base dei criteri enunciati dall’allegato V alla parte II del d.lgs. n. 152/2006[7], ai fini dell’emanazione, nei successivi quarantacinque giorni, del provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A. Detto termine può essere prorogato una sola volta, per non più di venti giorni, dall’autorità competente “in casi eccezionali, relativi alla natura, alla complessità, all’ubicazione o alle dimensioni del progetto”, secondo quanto disposto dall’art. 19, comma 6.
Gli oneri motivazionali menzionati dai successivi commi 7 e 8 non subiscono modifiche e, del pari, viene confermato il carattere perentorio dei termini per il rilascio del suddetto provvedimento, con l’ulteriore specificazione che, in caso di omessa conclusione del procedimento, il titolare del potere sostitutivo nominato a norma dell’art. 2 della l. n. 241/1990, acquisito, ove la Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale non si sia pronunciata, il parere dell’ISPRA entro il termine di trenta giorni, provvede al rilascio entro i successivi trenta giorni (art. 19, comma 11).
Le novità introdotte dal decreto Semplificazioni confermano che la complessità e la delicatezza delle questioni ambientali non possono, comunque, precludere correttivi deputati a snellire e rendere più celere l’azione amministrativa[8]. Del resto, è opinione diffusa che l’interesse ambientale debba sempre essere valutato in concreto[9], non apparendo di ostacolo a una simile lettura la trama dei principi generali rilevanti in materia e, in particolare, il principio di integrazione che l’art. 37 della Carta di Nizza pone accanto allo sviluppo sostenibile al fine di promuovere un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità.
I rilievi che saranno svolti nel corso del presente contributo, dunque, sono perfettamente spendibili de iure condito. Essi muovono dall’essenzialità del ruolo della p.a. in materia ambientale, dove la necessità di prevenire danni spesso d’inestimabile valore impone specifici obblighi di valutazione ex ante che, d’altro canto, rendono imprescindibile la partecipazione del pubblico interessato ai processi decisionali.
La necessità di esaminare contestualmente molteplici elementi connessi al tipo di intervento da realizzare, da un lato, consente di mettere a fuoco la natura delle valutazioni inerenti l’impatto ambientale, connotate da ampi margini di discrezionalità amministrativa[10], dall’altro, poiché non assumono rilievo mere verifiche tecniche, intercetta significativi profili di partecipazione procedimentale che non possono essere adombrati a garanzia degli interessi, non soltanto economici[11], in gioco.
2. Le (differenti) soluzioni adottate nei due gradi di giudizio
La vicenda contenziosa origina dalla domanda di annullamento di una determina dirigenziale che disponeva di sottoporre a valutazione d’impatto ambientale un progetto relativo alla realizzazione di una centrale fotovoltaica di potenza Kw 4.999. Si tratta di un intervento riconducibile all’allegato IV alla parte II del d.lgs. n. 152/2006 (screening di competenza regionale) e, nello specifico, alla categoria degli “impianti industriali non termici per la produzione di energia, vapore e acqua calda con potenza complessiva superiore a 1 MW”[12].
Ad avviso della società ricorrente in primo grado, nell’adozione dell’impugnato provvedimento, la Regione si sarebbe pronunciata per la sottoposizione a V.I.A. non già in virtù degli effetti negativi e significativi dell’intervento, quanto, piuttosto, per l’asserita necessità di approfondire alcuni aspetti del progetto in linea alle indicazioni contenute nel parere del Servizio valutazione del territorio e tutela del paesaggio, tecnologie dell’informazione e del Servizio risorse idriche e rischio idraulico. In tale prospettiva, tuttavia, l’amministrazione avrebbe impartito vere e proprie prescrizioni circa l’utilizzo del territorio, benché imposte sotto specie di criteri per integrare la documentazione progettuale, come in effetti riconosciuto dall’appellata sentenza, la quale ha evidenziato come l’atto conclusivo della procedura di screening consista unicamente nel giudizio sui riflessi ambientali dell’intervento, non potendo anche dettare prescrizioni estranee al fine procedimentale e al contenuto tipico del provvedimento finale[13].
Su tali basi, il giudice di prime cure ha accolto le ulteriori censure concernenti, per un verso, l’illegittimità degli atti procedimentali che, in luogo di valutare la necessità di procedere a V.I.A., avrebbero “impropriamente suggerito una serie di integrazioni progettuali”, per altro verso l’assenza di contraddittorio da instaurare ai sensi dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990, a maggior ragione esigibile in virtù delle integrazioni richieste dai pareri del Servizio geologico e sismico (una parte dell’impianto ricadeva in area di frana quiescente), del Servizio qualità dell’ambiente, gestione rifiuti e attività estrattive (per l’estensione del progetto si potevano creare impatti visuali) e del Servizio risorse idriche e rischio idraulico (non erano previste misure per la raccolta delle acque meteoriche).
I suddetti argomenti, ad avviso del Consiglio di Stato, appaiono destituiti di fondamento.
Ad avviso del Collegio, non si può pretendere nella fase di screening un livello di approfondimento simile a quello che connota la V.I.A., della quale altrimenti non si comprenderebbe l’utilità. Questo significa che la verifica di assoggettabilità può concludersi con l’emanazione di un provvedimento improntato a ragioni di massima cautela, seppur adeguatamente motivate in relazione a fattori di oggettiva pericolosità desunti alla stregua degli indici di cui all’allegato V alla parte II del d.lgs. n. 152/2006[14].
La discrezionalità di cui dispone l’amministrazione nel formulare il giudizio d’impatto ambientale[15] è tanto più rilevante – prosegue il Collegio – con riferimento a una fase “connotata da una sostanziale sommarietà” e, di conseguenza, ispirata a “più rigorose esigenze di cautela: in pratica, la soglia di negatività e incisività dell’impatto può paradossalmente essere ritenuta superabile con margini più ampi in sede di delibazione preliminare, proprio perché di per sé non preclusiva degli esiti della successiva V.I.A.”.
In base a tali presupposti, il Consiglio di Stato riconosce la fondatezza della censura diretta a sostenere l’esaustività della motivazione del provvedimento impugnato, il quale si regge sui tre pareri sopra richiamati che, a vario titolo, hanno messo in luce criticità idonee a giustificare l’indicata necessità di assoggettare a V.I.A. il progetto presentato dalla società.
Ciò, peraltro, non implica che all’esito della valutazione d’impatto ambientale vera e propria si vieti l’autorizzazione per la realizzazione della centrale fotovoltaica in questione; il che assume un rilievo decisivo, nell’economia del ragionamento condotto, per escludere l’applicazione dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 in sede di screening, data l’assenza di un esito finale negativo. In altri termini, con riguardo alla verifica di assoggettabilità, non potrebbe trovare spazio la norma sul preavviso di rigetto stante la mancanza di un vero e proprio provvedimento di diniego.
Se il procedimento può risolversi solo nella decisione di sottoporre a V.I.A. un determinato progetto[16], la pur riconosciuta autonomia della procedura di screening non è comunque idonea a snaturarne la fisionomia. Ciò che assume rilievo, infatti, è “un (eventuale) passaggio intermedio verso la V.I.A. completa, al cui interno verranno recuperate tutte le necessarie istanze partecipative e gli apporti contributivi che la parte vorrà addurre, in quanto essa sì risolvibile in un atto di diniego”[17]. L’ammissibilità di osservazioni preordinate a scongiurare verifiche più approfondite a tutela dell’ambiente, allora, non soltanto determinerebbe una lesione del divieto di aggravare il procedimento, essa non terrebbe neppure conto della specialità e della natura sommaria che caratterizza lo screening.
Per comprendere appieno la portata di simili affermazioni e coglierne i profili di criticità, è opportuno ricostruire con maggiore impegno esplicativo il rapporto tra procedimento di screening e V.I.A. e, in seconda battuta, soffermarsi sul preavviso di rigetto ponendo in adeguato risalto il ruolo della partecipazione dei privati ai procedimenti amministrativi.
3. La natura del provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A. e il preavviso di rigetto
Sotto il primo aspetto, è bene rimarcare che le procedure di screening e di V.I.A. sono sempre state considerate, sin dal loro ingresso nell’ordinamento, dotate di autonomia in quanto proiettate a garantire l’interesse sensibile ambientale. Di conseguenza, gli atti conclusivi di tali procedimenti di valutazione dell’impatto ambientale[18] sono stati ritenuti immediatamente impugnabili dai soggetti interessati[19].
Attraverso detta valutazione, come è stato osservato, la pubblica amministrazione mette in campo una strategia strutturata di controllo del rischio[20]. La direttiva 85/337/CEE, s.m.i., che ne costituì il primo riferimento a livello europeo, rappresenta una delle principali espressioni della politica ecologica sviluppatasi intorno ai primi tre programmi comunitari di azione in materia ambientale adottati in accoglimento delle sollecitazioni provenienti dal vertice di Parigi del 1972, quando si riconobbe la necessità di contemperare la crescita economica con la salvaguardia del patrimonio naturale.
I principi enunciati nei primi tre programmi, in particolare quelli di prevenzione e di responsabilità per chi inquina, saranno ripresi e perseguiti in occasione del quarto programma che accompagna l’adozione dell’Atto unico europeo[21] e l’introduzione di importanti novità: da un lato l’estensione delle competenze comunitarie individuate dal Trattato di Roma a nuovi settori e la previsione di un apposito Titolo (VII costituito dagli artt. 130R, 130S, 130T) dedicato alla politica ambientale, dall’altro il riconoscimento che le esigenze connesse alla salvaguardia dell’ambiente costituiscono una componente essenziale delle altre politiche comunitarie e l’affermazione, nel quinto programma, del principio dello sviluppo sostenibile[22].
Fin dalle origini, la normativa comunitaria[23] ha distinto progetti assoggettati obbligatoriamente a V.I.A. e progetti che – in base a caratteristiche, localizzazione e impatto potenziale – richiedono una previa verifica di assoggettabilità[24]. Nello specifico, la procedura di screening si sostanzia nella previsione di sottoporre determinati interventi astrattamente idonei a cagionare un rilevante impatto sull’ambiente a una verifica preliminare al fine di accertare la sussistenza dei presupposti per l’espletamento della V.I.A.[25]. In tal senso, la verifica di assoggettabilità attualizza l’opportunità della valutazione d’impatto in base alla ritenuta sussistenza prima facie dei relativi presupposti.
A tale stregua, la sentenza in nota ha evidenziato le peculiarità dello screening quale “giudizio di necessità di sostanziale approfondimento”, donde la possibilità di configurare il rapporto tra procedure di verifica di assoggettabilità e V.I.A. “in termini di cerchi concentrici caratterizzati da un nucleo comune rappresentato dalla valutazione della progettualità proposta in termini di negativa incidenza sull’ambiente, nel primo caso in via sommaria e, appunto, preliminare, nel secondo in via definitiva, con conseguente formalizzazione del provvedimento di avallo o meno della stessa”.
Non si può, a stretto rigore, affermare che lo screening sia un subprocedimento della V.IA., poiché le categorie progettuali da esso riguardate corrispondono con quelle per cui la V.I.A. è eventuale, e, per le medesime ragioni, solo con i necessari adattamenti si può parlare di procedimento preliminare alla V.I.A. Ciò, d’altro canto, non si vede come possa inficiare l’autonomia dello screening e obliterare la fisionomia di una procedura caratterizzata dalla partecipazione dei soggetti interessati, anzitutto del proponente che trasmette lo studio preliminare ambientale, destinata a concludersi con un atto avente natura provvedimentale, soggetto a pubblicazione e immediatamente impugnabile. La parte, in questi casi, mira a ottenere dall’autorità competente una risposta negativa, secondo la formula del “vero che non”.
Ci troviamo al cospetto di un procedimento a iniziativa di parte in cui il privato adduce a sostegno della propria istanza ragioni per escludere la necessità di sottoporre il progetto a V.I.A.; ed allora, nel riconoscere i presupposti per tale sottoposizione, la pubblica amministrazione esercita un potere che si traduce nel sostanziale rigetto della domanda presentata. In altri termini, il provvedimento di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale si configura come diniego[26].
Il Consiglio di Stato fa leva sui principi di precauzione e prevenzione per giustificare la ritenuta opportunità di posticipare ulteriori adempimenti istruttori a tutela dell’ambiente alla successiva fase di V.I.A. Un simile approccio, pur mettendo in risalto esigenze di tutela ambientale, tuttavia, rischia di sminuire l’autonomia del procedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A., specie sotto il profilo delle garanzie partecipative che, si badi, consentono all’amministrazione di avere una conoscenza più completa della vicenda. Nel momento in cui il destinatario della funzione[27] si adopera per rappresentare fatti o interessi che contraddicono le conclusioni provvisoriamente elaborate dall’organo procedente, tale soggetto coopera per il miglior esercizio della funzione medesima[28].
Quand’anche si riconoscesse all’amministrazione la facoltà e non l’obbligo di richiedere chiarimenti e integrazioni al proponente, ai sensi dell’attuale art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, resterebbe la necessità di mettere l’istante nella condizione di contraddire in base alle disposizioni dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990 che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
Una simile chiave di lettura risulta avvalorata dalle recenti modifiche introdotte dal d.l. n. 76/2020, convertito con modifiche in l. n. 120/2020, rispetto all’art. 10-bis della l. n. 241/1990. Nei procedimenti a istanza di parte, il contraddittorio successivo alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, infatti, si colloca in una situazione di sospensione – non più di interruzione – dei termini per la conclusione del procedimento. Si prevede, inoltre, che nei casi di annullamento giudiziale del provvedimento preceduto dal preavviso di rigetto, nel riesercizio del potere, la pubblica amministrazione non possa addurre per la prima volta motivi ostativi emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato[29]. Simili previsioni non mirano solo a garantire il legittimo affidamento del cittadino riguardato dall’esercizio della funzione, esse costituiscono riprova del fatto che la decisione amministrativa è frutto di una dialettica tra le parti interessate[30].
Un’applicazione adeguata dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990[31], se da un lato aumenta le chances del cittadino di ottenere dalla p.a. quanto pretende[32], dall’altro, evitando “provvedimenti a sorpresa”[33], assolve una funzione di deflazione del contenzioso davanti al giudice amministrativo[34]. Tale norma, dunque, veicola un’estensione della partecipazione procedimentale che risponde a una finalità composita[35].
La decisione di negare l’operatività dell’istituto del preavviso di rigetto nel corso della procedura di screening, ancorchè si inserisca nell’ambito di una pronuncia ispirata da apprezzabili esigenze di tutela ambientale, trascura detta finalità e, con essa, la natura del provvedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A.
* * *
[1] Tar Umbria, sez. I, 26 aprile 2012, n. 152.
[2] Ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 152/2006, per “impatti ambientali” si intendono gli “effetti significativi, diretti e indiretti, di un piano, di un programma o di un progetto, sui seguenti fattori: popolazione e salute umana; biodiversità, con particolare attenzione alle specie e agli habitat protetti in virtù della direttiva 92/43/CEE e della direttiva 2009/147/CE; territorio, suolo, acqua, aria e clima; beni materiali, patrimonio culturale, paesaggio; interazione tra i fattori sopra elencati. Negli impatti ambientali rientrano gli effetti derivanti dalla vulnerabilità del progetto a rischio di gravi incidenti o calamità pertinenti il progetto medesimo”. La lettura di simili previsioni consente di intuire le difficoltà sottese alla elaborazione di una nozione giuridica di “ambiente”: sul punto cfr. F.G. Scoca, Tutela dell’ambiente: impostazione del problema dal punto di vista giuridico, in Quad. reg., 1989, 563. G. Morbidelli, Profili giurisdizionali e giustiziali nella tutela amministrativa dell’ambiente, in S. Grassi - M. Cecchetti - A. Andronio (a cura di), Ambiente e diritto, vol. II, Firenze, 1999, 310, rileva che l’ambiente possiede “una valenza dinamica, in quanto si muove e si modifica secondo il mutare di elementi esterni: nuove scoperte, nuove acquisizioni, impiego di nuove tecniche, evidenziazione di effetti dannosi prima non riscontrati”. La non omogeneità dell’oggetto della tutela è stata posta da M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss. (v. anche A. Predieri, Paesaggio, in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, 1981, 507 ss.), all’origine dell’impossibilità di elaborare una nozione unitaria di ambiente, sebbene la dottrina abbia da tempo, a vario titolo, insistito sull’importanza di accedere a una simile nozione (cfr. G. Pericu, Ambiente – tutela dell’ – nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., vol. I, Torino, 1987, 190 s.).
[3] “Anche l’oggetto dello screening è, sostanzialmente, ridetto ‘impatto’ o ‘alterazione’ dell’ambiente lato sensu inteso: solo che esso svolge una funzione preliminare per così dire di ‘carotaggio’, nel senso che ‘sonda’ la progettualità e solo ove ravvisi effettivamente una significatività della stessa in termini di incidenza negativa sull’ambiente, impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura; diversamente, consente di pretermetterla, con conseguente intuibile risparmio, sia in termini di costi effettivi, che di tempi di attuazione. Lo screening, dunque, data la sua complessità e l’autonomia riconosciutagli dallo stesso Codice ambientale (…), è esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale” (Cons. Stato, sez. II, n. 5379/2020).
[4] Il riferimento è all’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006 come modificato dal d.lgs. n. 128/2010.
[5] Di attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati
[6] Ai sensi dell’art. 19, comma 3, contestualmente alla ricezione della documentazione, laddove ritenuta completa, o dei chiarimenti e delle integrazioni, l’autorità competente pubblica lo studio preliminare nel proprio sito istituzionale – nel rispetto della tutela della riservatezza di eventuali informazioni industriali o commerciali indicate dal proponente – in ossequio alla disciplina sull’accesso del pubblico alle informazioni ambientali. Inoltre, l’autorità comunica contestualmente per via telematica a tutte le amministrazioni e a tutti gli enti territoriali potenzialmente interessati l’avvenuta pubblicazione della documentazione nel proprio sito internet.
[7] Come sostituito dall’art. 22 del d.lgs. n. 104/2017.
[8] Nella prospettiva delle valutazioni di impatto ambientale, per osservazioni volte a evidenziare che la delicatezza degli interessi in gioco non può, comunque, precludere l’introduzione di elementi di semplificazione, v. M.A. Sandulli, Tutela dell’ambiente e sviluppo economico e infrastrutturale: un difficile ma necessario contemperamento, in Riv. giur. edil., 2000, 3 ss.
[9] In tale apparato concettuale, A. Rallo, Funzioni di tutela ambientale e procedimento amministrativo, Napoli, 2000, 41, rileva che l’interesse ambientale “deve far valere in concreto – e di volta in volta – le ragioni del suo esistere (e del suo eventuale giusto prevalere): senza che mai possa essere pretermesso, ma senza che neppure possa presumere una considerazione astrattamente superiore a quella degli altri obiettivi di interesse pubblico”.
[10] Sia consentito rinviare agli approfondimenti svolti nel volume a cura di R. Dipace - A. Rallo - A. Scognamiglio, Impatto ambientale e bilanciamento di interessi. La nuova disciplina della Valutazione di impatto ambientale. Raccolta degli Atti del Convegno Nazionale Associazione Italiana di Diritto dell’Ambiente 2018 (Campobasso, 13 aprile 2018), Napoli, 2018.
[11] Sul rapporto tra libertà economiche e tutela dell’ambiente, v. M. Mazzamuto, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà economiche, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, 1598, che mette in luce “un confronto assai impervio, poiché, in linea di principio, tutte le esigenze imperative di interesse generale, compreso dunque l’ambiente, in quanto deroghe alle libertà di circolazione, dovrebbero atteggiarsi come eccezioni, e dunque esser soggette ad interpretazioni restrittive e al vaglio del principio di proporzionalità”.
[12] Punto 2, lett. b), a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 22 del d.lgs. n. 104/2017. All’epoca dei fatti, la categoria progettuale in questione era individuata dal punto 2, lett. c), come modificata dall’art. 27, comma 43, lett. a), della l. n. 99/2009.
[13] Tar Umbria, sez. I, n. 152/2012, che sul punto richiama Tar Puglia, Bari, sez. I, 22 aprile 2010, n. 1483; Tar Toscana, sez. II, 12 gennaio 2010, n. 17.
[14] Si tratta di molteplici criteri preordinati ad assicurare un elevato livello di tutela ambientale nell’ottica, comunque, di non gravare di inutili oneri il soggetto interessato alla realizzazione dell’intervento. Essi spaziano dalle intrinseche caratteristiche del progetto (dimensioni, cumulo con altri progetti, utilizzazione delle risorse naturali, produzione di rifiuti, inquinamento e disturbi ambientali, rischi di gravi incidenti e/o calamità in base alle conoscenze scientifiche, rischi per la salute umana), alla sua localizzazione, occorrendo considerare “la sensibilità ambientale delle aree geografiche che possono risentire dell’impatto dei progetti”, alle caratteristiche dell’impatto potenziale, avuto particolare riguardo alla portata dell’impatto, alla natura e alla probabilità di accadimento dell’impatto, al cumulo tra l’impatto del progetto in questione e quello di altri progetti esistenti e/o approvati, alla possibilità di ridurre l’impatto in modo efficace. Per ulteriori approfondimenti, fra i molti, A. Milone, Le valutazioni ambientali, in R. Ferrara - M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente, tomo II, Milano, 2014, 141 ss.
[15] In ordine all’individuazione della natura del potere e all’ampia latitudine della discrezionalità amministrativa, giustificata in ragione dei valori primari e assoluti coinvolti, v. ulteriormente Cons. Stato, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36; Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4611; C. giust., 25 luglio 2008, C-142/07; Corte cost., 7 novembre 2007, n. 367.
[16] In tal senso v. Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 30 marzo 2017, n. 536; Tar Puglia, Bari, sez. I, 10 luglio 2012, n. 1394.
[17] Così sempre Cons. Stato, sez. II, n. 5379/2020.
[18] Le procedure di screening e di V.I.A. vera e propria condividono lato sensu il medesimo oggetto, rappresentato dall’ “impatto ambientale”. Non è, dunque, errato ascrivere lo screening ai procedimenti di valutazione dell’impatto ambientale, benché si tratti di una procedura caratterizzata da un grado di complessità minore.
[19] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2009, n. 1213.
[20] R. Ferrara, La valutazione di impatto ambientale fra discrezionalità dell’amministrazione e sindacato del giudice amministrativo, in Foro amm. Tar, 2010, 3181. Sulla natura preventiva dei procedimenti di valutazione di impatto ambientale si è espressa, anche in tempi recenti, la giurisprudenza costituzionale. In particolare, Corte Cost., 14 novembre 2018, n. 198, ha rilevato che la V.I.A. “ha rappresentato, sin dalle sue origini, uno strumento per individuare, descrivere e valutare gli effetti di un’attività antropica sulle componenti ambientali e, di conseguenza, sulla stessa salute umana, in una prospettiva di sviluppo e garanzia dei valori costituzionali, [che] ha giuridicamente una struttura anfibia: per un verso, conserva una dimensione partecipativa e informativa, volta a coinvolgere e a fare emergere nel procedimento amministrativo i diversi interessi sottesi alla realizzazione di un’opera ad impatto ambientale; per un altro, possiede una funzione autorizzatoria rispetto al singolo progetto esaminato”. Alla stregua dei principi comunitari e nazionali, la giurisprudenza amministrativa riconosce che la V.I.A. “non concerne una mera e generica verifica di natura tecnica circa l’astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma deve implicare la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull’ambiente del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare in concreto – alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. ‘opzione zero’ – il sacrificio imposto all’ambiente rispetto all’utilità socioeconomica perseguita”: così Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1230. In senso analogo v. Cons. Stato, sez. V, 6 luglio 2016, n. 3000; Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2012, n. 3254; Cons. Stato, sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3107, con nota di F. Fonderico, Valutazione d’impatto ambientale e amministrazione precauzionale, in Giorn. dir. amm., 2012, 70 ss., il quale sottolinea l’esigenza di “spostare maggiormente l’attenzione sui procedimenti di formazione dei pareri e delle valutazioni tecniche ambientali” in ossequio ad una concezione del principio precauzionale ispirata alle regole della “razionalità limitata” (v. M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente. Come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, 358 ss., secondo cui la V.I.A. “assurge in breve ad arena di una verifica di sostenibilità, su scala locale, che si atteggia a processo”).
[21] Firmato il 17 febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987.
[22] Cfr. F. López Ramón, Caracteres del derecho comunitario europeo ambiental, in RAP, num. 142, 1997, 54 ss. Sul principio dello sviluppo sostenibile, per tutti, F. Fracchia, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Napoli, 2010; Id., Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in P. Dell’Anno - E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente, vol. I, Padova, 2012, 559 ss.; Id., Il principio dello sviluppo sostenibile, in M. Renna - F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 433 ss.
[23] Il riferimento si intende effettuato alla già menzionata direttiva 85/337/CEE del Consiglio del 27 giugno 1985, come modificata dalla direttiva 97/11/CE del Consiglio del 3 marzo 1997.
[24] R. Ferrara, La valutazione di impatto ambientale fra discrezionalità dell’amministrazione e sindacato del giudice amministrativo, cit., 3182, fa riferimento al dibattito “in qualche misura persino inatteso e quasi paradossale” sorto nella prima fase di trasposizione della direttiva 85/337/CEE intorno alle opere, progetti e interventi di cui all’allegato II, in relazione ai quali “la comune quanto interessata regia di tutti i paesi membri dell’Unione europea spingeva nella direzione di sottrarli all’obbligo della previa valutazione di impatto ambientale, quasi che per essi fosse stato disposto un regime di piena facoltatività”. Una simile impostazione è stata censurata dalla giurisprudenza comunitaria: cfr. C. giust., 3 luglio 2008, C-215/06; C. giust., 21 settembre 1999, C-392/96; C. giust., 16 settembre 1999, C-435/97, con nota di R. Ferrara, Valutazione di impatto ambientale e principi della giurisprudenza comunitaria: è solo un problema di ragionevolezza, in Foro it., IV, 2000, 265 ss.
[25] Cons. Stato, sez. IV, n. 1213/2009. Cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2403.
[26] Così, infatti, Tar Veneto, sez. III, 23 maggio 2013, n. 747. Contra Tar Puglia, Bari, sez. I, 10 luglio 2012, n. 1394, e, ancor prima, Tar Puglia, Bari, sez. I, 15 settembre 2011, n. 1332, secondo cui “il preavviso di rigetto non è obbligatorio nell’ambito della procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale. Detta pronuncia, infatti, non comporta un vero e proprio rigetto dell’iniziativa progettuale, ma solo la necessità di un rinvio della stessa alla procedura ordinaria di v.i.a., ove potrà essere effettuata una più ampia istruttoria in ragione della rilevanza delle questioni sottese” (in senso analogo v. Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 20 agosto 2007, n. 1959). Merita ricordare che la suddivisione in fasi del procedimento amministrativo, tipica di un approccio strutturale, risale ad A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940.
[27] Intesa secondo l’insegnamento di F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 118 ss., cui adde F. Ledda, Problema amministrativo e partecipazione al procedimento, in Dir. amm., 1993, 133 ss.
[28] In tal senso si esprime A. Police, Autorità e libertà: riflessioni marine su un conflitto antico, in F. Manganaro - A. Romano Tassone (a cura di), Persona ed amministrazione. Privato, cittadino, utente e pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, 217. In senso analogo v. E. Casetta, Profili della evoluzione tra cittadini e pubblica amministrazione, in Dir. amm., 1993, 3 ss. Anche V. Caputi Jambrenghi, Procedimento “efficace” e funzione amministrativa giustiziale, in Studi in onore di Gustavo Vignocchi, Modena, 1992, 319 ss., si sofferma sull’importanza della partecipazione al procedimento nell’ottica dell’amministrazione democratica e dell’amministrazione produttiva, osservando che “basterebbe considerare il risvolto squisitamente pubblicistico di un’istruttoria finalmente approfondita e concretamente utile agli interessi stessi dell’amministrazione”. Sul ruolo della partecipazione al procedimento, da ultimo, si veda A. Zito, Il procedimento amministrativo, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2019, 193 ss. (anche per ulteriori riferimenti bibliografici).
[29] Si registra così un’estensione del c.d. principio di preclusione (cfr. D. Vaiano, Il preavviso di rigetto, in M.A. Sandulli, a cura di, Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 640 ss.) relativo alla impossibilità per l’autorità procedente, quando assume la decisione finale, di svolgere ulteriori considerazioni fondate su informazioni o valutazioni che non siano diretto sviluppo delle produzioni documentali e osservazioni formulate dal privato.
[30] Così V. Cerulli Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/1990 - II Parte, in www.giustamm.it, 2005. Risale nel tempo, del resto, la coscienza dell’importanza assunta durante l’iter procedimentale dal clare loqui, ossia il dovere della pubblica amministrazione di informare in modo completo e trasparente il cittadino riguardato dall’esercizio del potere (cfr. U. Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 289).
[31] Sul punto cfr. Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2019, n. 1705, secondo cui l’art. 10-bis della l. n. 241/1990 “esige non solo l’enunciazione nel preavviso di provvedimento negativo delle ragioni che si intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le stesse siano integrate, nella determinazione conclusiva ancora negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione”. In senso analogo v. Cons. Stato, VI, 27 settembre 2018, n. 5557; Cons. Stato, sez. III, 5 giugno 2018, n. 3396; Cons. Stato, sez. VI, 2 maggio 2018, n. 2615.
[32] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2007, n. 4828. Si veda, inoltre, G. Mastrodonato, La motivazione del provvedimento nella riforma del 2005, in www.lexitalia.it, n. 10/2005.
[33] In altri termini, provvedimenti “che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili” (Cons. Stato, sez. VI, 10 aprile 2020, n. 2372). F. Trimarchi Banfi, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, 353, osserva che il preavviso di rigetto “corregge, anche se solo in parte, una manchevolezza del sistema istruttorio considerato dal punto di vista del metodo del contraddittorio”.
[34] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2504; Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2007, n. 6325, secondo cui il preavviso di rigetto assolve una “funzione di deflazione del contenzioso, attraverso la introduzione di uno specifico contraddittorio fra amministrazione e interessato sulle ragioni che ostano all’accoglimento della domanda, al fine di comporre o superare nel procedimento tali ragioni, o quantomeno affinché il provvedimento finale, pur negativo, tenga conto anche delle osservazioni formulate su tali punti dall’interessato”.
[35] Come ha rilevato S. Tarullo, Art. 10 bis, in N. Paolantonio - A. Police - A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 215. Si veda, inoltre, P. Lazzara, Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, 382 ss. Scettici in ordine all’effettiva utilità del preavviso di rigetto, tra gli altri, F. Francario, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche ed integrazioni recate dalla legge n. 15/2005 alla legge n. 241/1990), in www.giustamm.it, 2005; S. Toschei, Le nuove tecniche di diluizione procedimentale del potere delle P.A. dopo la legge 11 febbraio 2005, n. 15: prime riflessioni sulle nuove regole, in Cons. Stato, 2005, II, 229 ss.
La Cassazione civile vista dai suoi giudici - Recensione di Ernesto Lupo a “La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana” (terza edizione, Bari 2020), a cura di Acierno, Curzio e Giusti
Intervista di Franco De Stefano ad Ernesto Lupo
Il Primo Presidente emerito della Corte suprema di cassazione, Ernesto Lupo, ha concesso a Giustizia Insieme un’intervista sul testo a più mani sulla Cassazione civile, giunto alla sua terza edizione e curato dai Colleghi Maria Acierno, Pietro Curzio (nel frattempo divenuto Primo Presidente) e Alberto Giusti, che raccoglie le lezioni sul rito di legittimità civile degli stessi giudici della Corte.
Il libro recensito è un’interessante esperimento di autoformazione, lanciato già nel 2010, in occasione dell’immissione in possesso nella Suprema Corte di decine di nuovi consiglieri e con l’intento di mettere a loro disposizione in chiave pratica ed immediatamente fruibile una guida operativa ed un orientamento da parte dei colleghi più anziani, alla luce soprattutto della loro esperienza concreta.
In un’analoga ottica ed in più complessivo disegno, il Presidente Lupo aveva già meritoriamente avviato un’importante riflessione sul ruolo della motivazione nel giudizio di cassazione civile, istituendo un gruppo di lavoro che era giunto, a sostegno della sua innovazione della motivazione semplificata dei provvedimenti, a stilare una serie di regole operative mirate alla razionalizzazione delle risorse di collegi e singoli consiglieri nella gestione della mole di contenzioso crescente, sempre più fuori controllo e non in linea con una moderna Corte suprema.
L’intervista costituisce l’occasione di una puntuale disamina dei punti di forza e delle criticità dell’opera, senza evitare un franco confronto con le prime perplessità di parte della dottrina e, soprattutto, somministrando spunti acuti ed interessanti sul ruolo stesso, in un complicato contesto ordinamentale multilivello e nella società che cambia, della Cassazione civile oggi.
A questo riguardo, il Primo Presidente emerito non si esime dal mettere in luce alcune delle criticità non tanto dell’opera in sé considerata, quanto piuttosto della funzione attesa dalla Corte, dal suo modo concreto di estrinsecazione e, anche, di alcuni eccessi applicativi del rito di legittimità, come via via evolutosi nel corrente secolo, sotto la spinta di un carico di lavoro obiettivamente abnorme.
Su tutte le sollecitazioni che il Primo Presidente emerito ha colto nell’opera recensita occorrerà avviare una riflessione, iniziando con l’approfondimento sulle ragioni delle linee di tendenza dell’attuale rito di legittimità civile, sulla temperie culturale in cui questo si è trasformato e in cui quegli eccessi hanno allignato …
Sarà utile abbandonare posizioni di sterile contrapposizione tra gli operatori del diritto, nella consapevolezza dell’ineludibilità di un impegno comune e condiviso verso una Cassazione civile che, nel rispetto del quadro rinfrancante ed impegnativo della nostra Costituzione, sia al passo con i tempi, armoniosamente inserita nella nostra moderna società democratica ed utile e funzionale ai suoi obiettivi.
Presidente Lupo, che ne pensa del metodo di lavoro di un libro che raccoglie le “lezioni dei magistrati della Corte” sul processo civile di legittimità? Come accolse l’iniziativa al tempo della sua prima edizione? Quali i punti di forza e le criticità del metodo e dell’approccio?
Risposta: Confesso che sono affezionato al libro di cui mi si chiede, perché la sua prima edizione (nel 2011) ebbe vita nel periodo in cui ho presieduto la Cassazione. Quando i tre coordinatori, all’epoca magistrati della Corte incaricati dal CSM anche della formazione decentrata all’interno della Corte stessa, mi parlarono della iniziativa, colsi subito l’originalità e l’utilità della pubblicazione, che apprezzai poi nel concreto contenuto, tanto che aderii con entusiasmo agli inviti a partecipare ad incontri dedicati, in diverse città, alla presentazione del volume, incontri che costituirono anche l’occasione di utili dibattiti sul funzionamento della Cassazione civile. Ricordo che la dottrina elogiò la pubblicazione, sia in interventi orali, sia in recensioni pubblicate, delle quali ho recentemente riletto quella, molto analitica, di Federico Carpi, apparsa sulla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile (2012, fasc. 1, p. 208-211).
Il punto di forza e l’originalità della pubblicazione derivano dalla occasione da cui essa ha avuto origine e dalle correlate finalità con essa perseguite. Nella circostanza dell’accesso in Cassazione di un gruppo numeroso di nuovi consiglieri, la struttura della Corte addetta alla formazione organizzò diverse lezioni sul giudizio di legittimità, svolte da magistrati già esperti. Si pensò di raccogliere e pubblicare i testi scritti di queste lezioni, redatti dagli stessi magistrati che le avevano tenuto verbalmente. Si conservava così memoria del lavoro compiuto, in funzione dello svolgimento di analoghi corsi futuri, e si creava, più in generale, uno strumento di conoscenza del processo di cassazione usufruibile anche da avvocati e studiosi.
Si trattava di lezioni, come opportunamente precisa il sottotitolo del volume. Caratteristiche di esse dovevano, quindi, essere: da un lato, la sintesi (la lezione non ha l’ampiezza e l’approfondimento di un saggio di dottrina), dall’altro, la chiarezza necessaria perché si raggiunga il risultato formativo. Le lezioni erano, però, destinate a magistrati che avevano già una non breve esperienza giudiziaria; quindi il loro livello doveva essere ben superiore, come strumento di analisi e di informazione anche pratica, a quello di lezioni universitarie o per giovani laureati.
Il non facile risultato può ritenersi raggiunto. La pubblicazione si è rivelata molto utile, non solo come strumento di formazione dei nuovi consiglieri della Corte. Giuliano Scarselli l’ha considerata, addirittura, come “l’unico volume sulla cassazione civile che meritasse di essere letto” (recensione alla terza edizione, apparsa su Iudicium, 2020).
Si è così giunti alla più recente edizione del libro, resa necessaria dalla evoluzione normativa, perché la precedente edizione del 2015 non poteva tenere conto delle modifiche del giudizio di legittimità intervenute nel 2016 (decreto legge 31 agosto n. 168, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre n. 197), modifiche, come si dirà, tanto importanti quanto discusse.
La terza edizione non contiene soltanto un attento aggiornamento della precedente, ma ne costituisce un miglioramento sotto più aspetti.
Oggi l’opera si presenta pressoché completa nell’esame della materia trattata: nelle precedenti edizioni mancavano lezioni dedicate ai motivi del ricorso per cassazione previsti dal n. 1 (motivi attinenti alla giurisdizione) e dal n. 4 dell’art. 360 (nullità della sentenza o del procedimento). Le lacune sono ora colmate dagli scritti, rispettivamente, dell’autore di questa intervista e di Adriana Doronzo. Costituisce, poi, un utilissimo arricchimento l’aggiunta di un capitolo iniziale intitolato Viaggio all’interno della Corte, nel quale Pietro Curzio, in meno di venti pagine, illustra, con semplicità e chiarezza esemplari, il percorso che può fare il ricorso, nelle sue possibili alternative. Il lettore è così posto in grado di percepire, con uno sguardo generale, il modus procedendi della Corte, sensibilmente innovato dall’intervento legislativo del 2016; e questa conoscenza gli faciliterà la lettura delle successive lezioni.
È migliorata anche la sistematicità della pubblicazione. La trattazione, ora, può essere facilmente divisa in quattro parti, correlate alla ripartizione adottata dal codice. Una parte che può considerarsi introduttiva è costituita dalle prime due lezioni (che, nel libro, non sono numerate, onde la numerazione è compiuta soltanto qui per comodità espositiva): la citata lezione di Curzio e lo scritto di Renato Rordorf – anche esso ammirevole per sintesi e chiarezza – su Fatto e diritto nel giudizio di cassazione, che è il tema-problema clou della Cassazione. Fanno seguito una parte prima dedicata ai “provvedimenti impugnabili e ricorsi” (lezioni 3-11) ed una parte seconda relativa ai “procedimenti e provvedimenti” (lezioni 12-15). Completa una parte finale, idonea a contenere le eterogeee materie trattate nelle lezioni 16-19 (rapporti con le due Corti europee, il processo telematico in Cassazione, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo, il palazzo della Corte).
Quali le “criticità” menzionate nella domanda? Esse non riguardano, a mio avviso, il metodo seguito. Bruno Capponi, nella recensione all’ultima edizione del volume (in Giustizia Insieme, 2020, reperibile all'URL https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1179-recensione-di-bruno-capponi-a-la-cassazione-civilehttps://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1179-recensione-di-bruno-capponi-a-la-cassazione-civile, on line dal 20/06/2020, ultimo accesso 24/09/2020), rileva che in esso “mancano le voci della Procura Generale, dell’Accademia, dell’Avvocatura”, onde l’impressione dell’extraneus è quella di osservare “una realtà chiusa in sé stessa che parla soltanto per il suo interno”. Ritengo che la limitazione degli autori degli scritti ai magistrati che operano nella Corte sia una caratteristica essenziale dell’opera, perché con essa si intende mettere a disposizione della intera collettività degli interessati l’esperienza concreta dei giudicanti e del formarsi degli orientamenti giurisprudenziali. “Cosa vi può essere di più utile per il processo?” si è domandato, retoricamente, Federico Carpi, nella già citata recensione. La limitazione criticata da Capponi è mossa da finalità di trasparenza sulle modalità di esercizio del proprio potere da parte degli addetti alla Istituzione; non certo da arroganza o da autoreferenzialità. Ciò è stato ben percepito da chi, dopo avere riferito che “il libro, già nelle precedenti edizioni, è divenuto un punto di riferimento per chi voglia studiare la Suprema Corte e il suo procedimento”, ha rilevato in esso la presenza di “considerazioni spesso problematiche e, talora, apertamente critiche nei confronti di orientamenti della Cassazione … anche attuali” (recensione di Paolo Biavati, in Questione Giustizia, 2020, reperibile all'URL https://www.questionegiustizia.it/articolo/recensione-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana, on line dal 27/06/2020, ultimo accesso 24/09/2020).
Le criticità sono ravvisabili nella applicazione del metodo indicato. Qualche scritto incluso nel volume ha le dimensioni ed il contenuto di un saggio dottrinale, apprezzabile per il suo valore scientifico, ma non coerente con le caratteristiche di una lezione. La difformità rispetto alla generalità degli altri testi risalta maggiormente nella più recente edizione dell’opera, poiché essa è cresciuta enormemente: 612 pagine, rispetto alle 375 pagine della prima edizione. Uno strumento formativo, creato per essere letto e studiato nella sua completezza, non può avere le dimensioni normalmente assunte da pubblicazioni destinate ad essere consultate in relazione al singolo problema da affrontare (a tale scopo, mezzo migliore è costituito dalle rassegne di giurisprudenza e di dottrina, da tempo disponibili). Occorrerà, pertanto, nella preparazione delle successive edizioni che auguriamo al volume, una maggiore attenzione dei suoi curatori alla coerenza di tutte le lezioni con le caratteristiche dell’opera, al fine di ridurne le dimensioni, mantenendole nei limiti di un libro che può essere agevolmente letto nella sua interezza.
A tal fine potrà essere utile anche una più efficace opera di coordinamento del contenuto delle diverse lezioni per evitare parziali duplicazioni nella trattazione di alcuni istituti, sostituendole con richiami interni quando esse non sono giustificate da una diversa interpretazione del disposto normativo. Posso indicare, a titolo esemplificativo, le esposizioni, oggi contenute in più lezioni, della disciplina del ricorso del Procuratore generale nell’interesse della legge (art. 363) ovvero delle cause di inammissibilità del ricorso previste dall’art. 360-bis.
A Suo giudizio, quale impostazione può trarsi dai contributi degli Autori in merito alla struttura odierna ed alla funzione del giudizio di legittimità civile? Come valuta la declinazione dei principi di fondo che ne può trasparire in tema di ruolo della forma e struttura della motivazione, nell’incessante riproporsi della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris e dinanzi a rinnovate e sempre più incalzanti esigenze di speditezza e concretezza? Quali delle critiche della dottrina pensa di condividere?
Dalla lettura delle lezioni raccolte nella terza edizione della pubblicazione in discorso desumo una maggiore consapevolezza degli autori sulla priorità che la legge attribuisce alla funzione di nomofilachia della Cassazione (in civile come in penale). Questa priorità, per il giudizio civile, costituisce una chiara scelta del legislatore di questo secolo, realizzatasi a partire dalla legge 14 maggio 2005 n. 35, che ha delegato il Governo a disciplinare il processo di cassazione “in funzione nomofilattica”, delega poi attuata con le modifiche apportate al codice di rito dal d. lgs. 2 febbraio 2006 n.40. La scelta politica di privilegiare la funzione di nomofilachia è proseguita con la legge 18 giugno 2009 n. 69, che ha valorizzato i “precedenti” della Corte (art. 360-bis), prevedendo a tal fine l’istituzione di una apposita sezione (poi qualificata come sesta civile), e soprattutto con la legge 7 agosto 2012 (di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83), che ha ridotto i motivi di ricorso per cassazione concernenti l’accertamento di fatto del giudizio di merito, ripristinando il testo originario dell’art. 360 n. 5 (più restrittivo, nel codice del 1942, della formulazione approvata poi nel 1950) ed escludendo, più radicalmente, la deducibilità di tale motivo in alcuni casi (art. 348-ter).
Per effetto di questi tre interventi legislativi si è avuto quello che, nella lezione di Giovanni Amoroso e Mario Rosario Morelli, viene chiamato “rafforzamento” della funzione nomofilattica attraverso i tre istituti ivi illustrati (p. 476-489): la generalizzazione della prescritta enunciazione del principio di diritto (art. 384), il principio di diritto nell’interesse (esclusivo) della legge, formulato su impulso del Procuratore generale presso la Cassazione o anche d’ufficio anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile (art. 363), la previa verifica di ammissibilità del ricorso (art. 360-bis). E si è realizzato, altresì, il restringimento del sindacato della Corte sulla motivazione in fatto del provvedimento giurisdizionale impugnato, illustrato nella lezione di Camilla Di Iasi, anche con l’opportuno richiamo all’intento in tal senso esplicitamente espresso dal legislatore del 2012 (p. 381-382).
Con il quarto e più recente intervento (decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016 n. 197) il legislatore “ha sostanzialmente cameralizzato il giudizio civile di cassazione”, prevedendo come regola la trattazione in camera di consiglio, conclusa con ordinanza, e solo come eccezione l’udienza pubblica, conclusa con sentenza (lezione di Antonello Cosentino, p. 401). A questa ultima si procede soltanto nei casi in cui essa “sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale (la Corte) deve pronunciare” (art. 375, secondo comma). Questa “particolare rilevanza” esprime la valenza nomofilattica della questione di diritto, alla quale pertanto si è riservato, in linea di principio, il rito della udienza pubblica. Le modifiche codicistiche del 2016 hanno tratto, sul piano del rito procedimentale, le conseguenze del rafforzamento della funzione di nomofilachia realizzato dai precedenti tre interventi legislativi, instaurando un collegamento tra i ricorsi la cui decisione esprime tale funzione ed il procedimento da seguire per la decisione stessa.
Può allora ravvisarsi una linea unitaria di riforma della Cassazione civile realizzatasi in questo secolo, per effetto della quale si è pervenuti al risultato di configurare, secondo l’espressione impiegata da Natalino Irti, “due Cassazioni civili” (in Contratto e impresa, 2017, 11, ove peraltro il “primo momento della riforma” è dall’Autore individuato nella legge del 2009, con l’ingiustificata pretermissione dell’iniziale e fondamentale intervento legislativo del 2005-2006): la “Cassazione dei casi singoli”, che controlla la motivazione adottata dal giudice del merito, in cui la Corte svolge una funzione che, con termine forse più chiaro, viene in Francia chiamata “disciplinare”, e la “Cassazione dei principi di diritto”, che persegue l’unità della giurisprudenza e quindi la funzione di nomofilachia rivolta non al passato del caso singolo da decidere, ma essenzialmente al futuro dei casi analoghi da definire. La prima si esprime normalmente con ordinanze che decidono sui ricorsi che censurano la motivazione (degli accertamenti di fatto) o che pongono questioni di diritto la cui soluzione non implica l’esercizio della nomofilachia; la seconda pronunzia, invece, le sentenze attraverso le quali si esprime questa ultima funzione.
La linea di riforma del giudizio civile di cassazione seguita dal legislatore di questo secolo, attraverso i quattro interventi legislativi indicati, è coerente con l’art. 111 della Costituzione, che ammette “sempre” il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in esso indicati, ma limitatamente alla “violazione di legge”, onde il giudizio di cassazione è dal Costituente configurato come giudizio di legittimità, e non come ulteriore giudizio di merito. La limitazione costituzionale del parametro dell’intervento della Cassazione corrisponde all’interesse tutelato da questa istituzione, secondo l’art.65 dell’ordinamento giudiziario del 1941, in cui ha trovato espressione legislativa la concezione di Piero Calamandrei, poi sostanzialmente recepita dal Costituente, come è confermato anche dai lavori preparatori della stessa. Di recente la Corte costituzionale (n. 119/2015) ha affermato che la funzione nomofilattica della Cassazione è “espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo, in quanto volta a realizzare l’interesse generale dell’ordinamento all’affermazione del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto” (§ 2.4 della motivazione). Ed è soltanto di diritto oggettivo nelle ipotesi previste dall’art.363, in cui, come dispone l’ultimo comma, “la pronunzia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.
In sintesi, il legislatore recente è intervenuto, sia pure in modo non organico, nel senso di limitare la “ambiguità” della Istituzione, rilevata alla fine del secolo scorso da Michele Taruffo, il quale osservava che la Cassazione “si muove erraticamente tra vari modelli, … comportandosi talvolta da Corte Suprema e più spesso da giudice della terza istanza, talvolta da custode della legittimità e più spesso da giudice del caso concreto” (Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, p. 25).
La scelta legislativa di privilegiare la funzione di nomofilachia della Cassazione ha incontrato, però, difficoltà ad essere accettata culturalmente ed applicata in concreto. Due sono state le principali strade culturali percorse per sostanzialmente contestarla e tentare di renderla non operativa.
La prima ha carattere meramente normativo. Si è partiti dalla constatazione che lo stesso art. 111 della Costituzione impone la motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali. Consegue che le censure concernenti la motivazione di una decisione deducono una violazione di legge e implicano un controllo di legittimità. Si è sostenuto, perciò, che i vizi di motivazione, già previsti dal vecchio testo dell’art. 360 n. 5, sono ora deducibili come causa di nullità della sentenza rilevante a norma dell’art. 360 n. 4. Questa tesi non tiene conto che i precedenti tre vizi di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sono stati sostituiti dalla unica ipotesi di omesso esame circa un fatto decisivo, onde permane soltanto la previsione della omissione sostanziale di motivazione, mentre hanno perso rilevanza il vizio di insufficienza e quello di contraddittorietà che non sia così totale ed assoluta da privare la decisione di una ratio decidendi. Si tratta di conclusione a cui sono pervenute le Sezioni unite della Corte e bene illustrata nelle lezioni in discorso, ma che non sempre mi sembra seguita dalle singole decisioni delle sezioni semplici, poiché i ricorrenti cercano di forzare i rigidi limiti posti dalla modifica dell’art. 360 n. 5, invocando appunto il dovere costituzionale di motivazione, ed il loro tentativo ha qualche volta successo.
La seconda strada attiene alla teoria generale del diritto. Le moderne concezioni sulla interpretazione giuridica tendono a negare la possibilità di distinguere tra giudizio di diritto e giudizio di fatto, ritenendo che ogni principio di diritto sia correlato, o addirittura limitato, alla singola fattispecie decisa, la quale pertanto non può non assumere rilievo anche nel giudizio di legittimità. Al riguardo può obiettarsi che la dipendenza del significato della disposizione normativa anche dalle caratteristiche della fattispecie concreta su cui si svolge il giudizio non comporta l’impossibilità di isolare, in tale giudizio, la quaestio iuris in astratto, quale si pone sulla base del fatto come accertato dal giudice del merito. In tal senso è illuminante l’esperienza delle sezioni unite che normalmente decidono un contrasto o una questione di massima sulla base di un quesito di diritto, elaborato in astratto e ritenuto rilevante per la decisione del singolo ricorso e quindi del caso concreto. Anche la Corte di giustizia europea, nel rispondere ai quesiti interpretativi dei giudici nazionali, si limita ad interpretare le disposizioni dell’Unione europea, oggetto di una astratta quaestio iuris che prescinde dalle caratteristiche di fatto del caso concreto, sulla cui soluzione le disposizioni europee sono rilevanti, secondo le valutazioni del giudice nazionale.
Le moderne teorie interpretative, che sottolineano il collegamento tra fatto e diritto, con il c.d. circolo interpretativo tra l’uno e l’altro, per cui l’interpretazione delle disposizioni normative dipende dalle caratteristiche del caso concreto (con la conseguente unificazione tra interpretazione ed applicazione del diritto), assumono rilievo al fine di segnalare l’indubbia necessità di mantenere il collegamento tra principio di diritto seguito nella soluzione della quaestio iuris ed il fatto in relazione al quale quel principio è stato affermato. Da qui l’esigenza che la massima della pronunzia della Cassazione non prescinda, in linea tendenziale, dalla fattispecie concreta che l’ha determinata.
Le visioni culturali contrarie al rafforzamento della funzione di nomofilachia della Cassazione hanno rallentato l’operatività della scelta legislativa. Debbo qui ricordare che non ebbe ampia accoglienza il provvedimento-invito che, come Primo Presidente della Corte, emanai il 22 marzo 2011 per l’adozione, da parte dei singoli collegi civili decidenti, di una motivazione “semplificata” delle decisioni di “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia o che sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla Corte e condivisi dal collegio” (in Foro it., 2011, V, c. 183). Per questi tipi di ricorsi (che sono la maggioranza di quelli proposti) la motivazione delle decisioni si indirizza essenzialmente alle parti ed ai loro difensori, onde essa può avere un contenuto ridotto anche perché può dare per presupposto ciò che rientra già nella conoscenza dei destinatari. Diversi e più ampi devono essere il contenuto e l’argomentazione delle decisioni che, costituendo esercizio della funzione di nomofilachia, hanno anche una prospettiva futura che supera la definizione del caso singolo, e quindi devono essere persuasive sulla loro fondatezza nei confronti di una comunità indeterminata di interessati alla soluzione di casi da definire (ma vanno comunque evitate le c.d. sentenze-trattato, che pretendono di occupare uno spazio riservato alla dottrina, con uno spreco di energie che possono essere impiegate nella riduzione delle enorme pendenze, con maggiore utilità per il servizio giustizia).
L’adozione, per i casi ora indicati, della forma della ordinanza, imposta dal legislatore del 2016, ha reso obbligatoria una differenziazione dell’impegno motivazionale in relazione al contenuto del ricorso, che già poteva trarsi, in via conseguenziale, dalla riforma del 2005-2006.
La differenza di forma e di struttura della motivazione non direi che esprima una contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris. Come osserva Calamandrei, la funzione di controllo sulla decisione del caso singolo (rivolta al passato) e la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo (in prospettiva futura) sono due aspetti dello stesso scopo (il primo negativo ed il secondo positivo) che si combinano ed unificano (La Cassazione civile, II, in Opere giuridiche, Napoli, 1979, VII, p. 91 s.). Si tratta, piuttosto, di adeguare il tipo e l’impegno argomentativo alle questioni poste dal ricorso. La motivazione è necessaria anche nelle ordinanze, pur se con struttura diversa da quella delle sentenze. È significativo che Natalino Irti, il quale, come si è visto, ha recepito, forse con la maggiore lucidità, il senso dei recenti interventi legislativi, ha intitolato lo scritto già citato Le due Cassazioni civili (a difesa della motivazione), affermando che “la Cassazione delle ordinanze non è il luogo delle decisioni senza motivazione” (p. 20).
Le modifiche legislative apportate in questo secolo al giudizio civile di cassazione sono state indotte e giustificate dalla constatazione dell’aumento enorme del numero dei ricorsi annualmente presentati alla Corte (n. 38.725 nel 2019; sempre inferiore a n. 5.000 sino al 1972) e dall’esigenza di indicare alla Corte la funzione da assolvere in via prioritaria. Occorre, però, osservare che esse sono dirette a consentire una migliore decisione dei ricorsi, più adeguata al contenuto ed alla natura delle censure con essi proposte. Sempre che l’organizzazione della Corte sia tale da sfruttare le opportunità offerte al buon funzionamento della Istituzione dalle differenze di lavoro tra le due Cassazioni; il che implica la sua capacità di distinguere correttamente tra le stesse e quindi di adeguare la propria attività alle caratteristiche del singolo ricorso.
Ovviamente il numero impressionante dei ricorsi costituisce un ostacolo enorme al raggiungimento dell’obiettivo. Si spiegano, così, le frequenti critiche della dottrina sulla qualità delle pronunzie della Corte e le lamentele della collettività sui tempi normalmente troppo lunghi del giudizio di legittimità.
In ordine alle posizioni critiche della dottrina, vanno distinte quelle – da me non condivise – che si indirizzano contro la scelta legislativa del rafforzamento della nomofilachia. Tale, per esempio, quella, radicale, di Bruno Sassani (La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, p. 43), che la considera una “mitologia” e che non ne accetta neanche il termine, qualificato come “sgraziato” (p. 63). È noto che la parola trova origine nel nominativo del magistrato di varie città della antica Grecia (nomofilace) che custodiva in un archivio il testo ufficiale delle leggi e assicurava la stabilità della legislazione. Ma non tutta la dottrina è su questa posizione. Sempre a titolo esemplificativo, lo scritto di Sassani è direttamente seguito, nella stessa rivista, da quello di Laura Salvaneschi (L’iniziativa nomofilattica del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione nell’interesse della legge, ivi, p.65), la quale auspica una applicazione larga dell’art. 363, frutto anche di una sua interpretazione estensiva.
Condivido, al contrario, le critiche della dottrina e dei difensori contro alcuni indirizzi formalistici della Cassazione. È emblematico l’ampio ricorso alla c.d. autosufficienza del ricorso, istituto creato dalla giurisprudenza addirittura come principio generale, su cui fa chiarezza l’equilibrata lezione di Alberto Giusti, il quale segnala “l’inaugurazione di un nuovo corso” da parte delle Sezioni unite, la cui sentenza n. 8077/2012 segna “una netta presa di distanza dalle degenerazioni formalistiche fondate sull’obbligo di integrale trascrizione” (p. 230). Gli “eccessi di formalismo”, soprattutto nell’interpretazione ed applicazione della legge processuale, sono criticati anche nella lezione di Enzo Vincenti dedicata ai rapporti tra la Cassazione e le Corti europee, critica che trova chiaro e fermo fondamento negli indirizzi di queste ultime Corti (p. 552).
Condivido anche le critiche rivolte alle eccessive limitazioni del contraddittorio nelle procedure camerali, in cui il legislatore ha escluso ogni possibilità di intervento orale dei difensori. La scelta molto restrittiva del legislatore del 2016 può accettarsi soltanto come modalità utile a fare percepire agli operatori (magistrati ed avvocati), in modo evidente, la diversità tra i ricorsi da trattare in udienza pubblica (perché implicano l’esercizio della nomofilachia) ed i ricorsi da definire con procedura camerale (che interessano soltanto il caso concreto). Ma raggiunta questa immediata finalità didascalica, dovrebbe pervenirsi ad un ampliamento del contraddittorio anche nella procedura camerale (dando la possibilità ai difensori di essere sentiti), ferma la differenza delle procedure da seguire in relazione al contenuto del ricorso.
Presidente Lupo, come ritiene che ne esca disegnata l’istituzione Cassazione civile dal punto di vista di quei magistrati sul cui lavoro quella opera?
Non credo che il rafforzamento della funzione di nomofilachia della Cassazione sia mal vista dalla maggioranza dei giudici di merito. La stabilità degli orientamenti interpretativi è destinata a facilitare il lavoro del giudice del merito, sia quando egli, ritenendoli convincenti, li recepisce nella sua attività, sia quando, non condividendoli, li prende a chiaro punto di riferimento di una propria motivata decisione contraria. Ed infatti, nella mia esperienza giudiziaria, anche se non più recentissima (essendo cessata nel 2013), mi sono spesso trovato di fronte a magistrati che lamentavano l’incertezza e la pluralità sincronica degli orientamenti del giudice di legittimità, mentre raramente ho avvertito critiche nei confronti del fatto che questioni dibattute erano state portate alle sezioni unite (a prescindere dalla valutazione sulla bontà o meno della soluzione dalle stesse adottata).
Ma la nomofilachia non può essere intesa esclusivamente come attività interpretativa che viene dall’alto, poiché essa sarà tanto più persuasiva quanto più terrà conto degli orientamenti e delle esperienze dei giudici di merito, i quali sono a più immediato contatto con la realtà sociale che il diritto è destinato a regolare. La funzione nomofilattica richiede perciò anche un flusso informativo che dal basso vada verso l’alto. Esso non può essere costituito soltanto dalle sentenze che vengono impugnate in cassazione. Occorre affiancare sedi e meccanismi di confronto tra giudici di legittimità e giudici di merito, ove le diverse esperienze giudiziarie, nei diversi settori di attività, possano essere scambiate. Qualche iniziativa in tal senso è avvenuta, ad opera prima del CSM e poi della Scuola della magistratura, sul tema della motivazione delle pronunzie giudiziarie. Ma il confronto tra i magistrati interessati dovrebbe essere ben più esteso e trovare strumenti appositamente predisposti.
Come tema generale dei rapporti tra Cassazione e giudici di merito, ci tengo a sottolineare un punto che ho sempre tenuto fermo come giudice di legittimità (prima in civile per circa 17 anni e poi in penale per circa 8 anni): un atteggiamento di self restraint per quanto attiene alle valutazioni di merito del giudizio. Il giudice di cassazione ha il privilegio di dire la parola definitiva per quanto attiene alla interpretazione-applicazione del diritto. Questo potere trova il proprio limite nel rispetto dell’accertamento e degli apprezzamenti di fatto correttamente compiuti dal giudice del merito. Ho ritenuta affetta da presunzione l’opinione che i fatti possano essere accertati meglio attraverso l’esame delle carte ed ho preferito recepire gli accertamenti e le valutazioni rientranti nel merito della causa, se corredati di corretta motivazione. Se si considera il processo nella sua interezza, l’ordinamento prevede un equilibrio tra i poteri del giudice del merito e quelli del giudice di legittimità, equilibrio che occorre rispettare con particolare cura. Alcune volte, nel giudicare su una sentenza emanata dal giudice di rinvio in seguito a cassazione della precedente sentenza di merito, ho dovuto constatare che la Corte di legittimità aveva compiuto valutazioni rientranti nelle attribuzioni del giudice del merito, determinando, in qualche caso, le giustificate critiche espresse nella pronunzia del giudice di rinvio e, soprattutto, problemi in ordine alla giusta definizione della causa.
Presidente, quali le prospettive del giudizio civile di legittimità al giorno d’oggi e, in generale, di una istituzione quale la Corte di cassazione, inserita in un contesto ordinamentale a plurimi livelli ed in un panorama sovranazionale ed internazionale in tumultuoso cambiamento sociale e tecnologico, nel quale è ancora da definire l’evoluzione del ruolo del potere giudiziario e dei suoi vertici?
Una volta che sia stata riconosciuta la priorità attribuita dal legislatore di questo secolo alla funzione di nomofilachia della Cassazione (da non separare, in linea tendenziale, dalle fattispecie concrete in relazione alle quali il principio di diritto è stato affermato), le prospettive della Corte sono quelle da individuarsi in relazione a detta funzione, assegnata dall’ordinamento in via istituzionale alla Cassazione
Sulla funzione nomofilattica al giorno d’oggi mi sono soffermato in una recente relazione (in Cass. pen., 2020, p. 911, spec. 916-919). Mi limito qui a riprendere le ragioni attuali che hanno accresciuto la necessità di questa funzione. Oggi si vanno sempre più accentuando i difetti della legislazione: leggi complesse, tecnicamente insoddisfacenti, rapidamente mutevoli. Questa situazione è uno dei motivi per cui si va sempre più affermando il c.d. diritto giurisprudenziale, il quale trova, altresì, un forte fondamento nelle teorie moderne sulla interpretazione normativa, che riconoscono un maggiore spazio all’interprete, e quindi alla interpretazione giurisprudenziale idonea a formare il c.d. diritto vivente, che si affianca al diritto vigente. Quest’ultimo, a sua volta, ha visto l’accrescersi delle sue fonti di produzione, che non sono più soltanto nazionali, ma internazionali e sovranazionali. L’insieme di questi mutamenti, che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, produce un ordinamento sempre più complesso, onde si accresce il bisogno di certezza delle regole giuridiche e di prevedibilità dell’esito delle decisioni giudiziarie.
Questa esigenza richiede che, almeno a livello di giudice di legittimità, sia garantito un minimo di stabilità delle regole. Va qui richiamato il principio del processo equo che siamo tenuti a rispettare per effetto dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte di Strasburgo, il processo non è equo quando si verificano e permangono orientamenti interpretativi contrastanti all’interno di una giurisdizione suprema che ha la funzione di risolverli. I contrasti giurisprudenziali sono connaturali nell’ambito dei giudici di merito, ma essi devono essere evitati all’interno della Cassazione attraverso la previsione di meccanismi idonei a tale risultato (Corte eur. dir. uomo, 30 luglio 2015, Ferreira Santas Pardal c. Portogallo, ove sono citati anche i precedenti conformi).
A questo orientamento del giudice europeo si riconduce anche il rafforzamento del ruolo delle sezioni unite della Cassazione, realizzato con il terzo comma dell’art. 374, introdotto nel 2006, attraverso l’ipotesi di rimessione obbligatoria in esso prevista, di cui ho sostenuto, nella relazione citata, la conformità a Costituzione (la disposizione è stata ora estesa al processo penale: art. 618 c.p.p., come modificato dalla legge n. 105/2017).
Mi sembra, con uno sguardo di sintesi, che l’inserimento della Cassazione in un contesto non più soltanto nazionale (l’art. 65 ord. giud. configura un “diritto oggettivo nazionale”), se l’ha privata della posizione di Corte suprema (le sue decisioni sono oggetto di esame indiretto da parte della Corte di Strasburgo e possono essere fonte di responsabilità civile dello Stato e dei magistrati giudicanti nei casi di inosservanza della pregiudiziale eurounitaria), ha accresciuto il suo ruolo indispensabile per l’unità del diritto, che è oramai anche europeo. Ed infatti da più voci si è parlato di funzione della Cassazione di assicurare la nomofilachia europea, considerato che le decisioni della Corte di Lussemburgo e della Corte di Strasburgo pongono questioni giuridiche spesso complesse ed opinabili, che possono trovare una soluzione uniforme e stabile soltanto a livello del giudizio di legittimità.
Si è condivisibilmente affermato che la presenza di un organo giurisdizionale di legittimità si rende indispensabile “oggi ancor più di ieri” (Renato Rordorf, A cosa serve la Corte di cassazione, in Magistratura giustizia società, Bari, 2020, p.329. Gli scritti della parte IV di questa raccolta di interventi dell’Autore, dedicata a Corte di cassazione e nomofilachia, vanno inclusi tra gli studi recenti più interessanti sulla tematica, la cui lettura è senz’altro consigliabile ad integrazione delle Lezioni qui considerate).
Ma il legislatore pecca anche di incoerenza, perché compie scelte che non facilitano l’esercizio della funzione di nomofilachia. Ciò si verifica quando viene soppresso il giudizio di appello e si prevede la sola impugnazione in cassazione della pronunzia di primo grado, come è stato recentemente disposto in materia di immigrazione. Questa scelta legislativa elimina il riesame del giudizio di fatto compiuto in primo grado, finendo con l’ampliare l’ambito del giudizio di legittimità e rendendo più difficile l’atteggiamento di self restraint che, come si è detto, dovrebbe essere assunto dai giudici della Cassazione.
Rimane, comunque, il già menzionato ostacolo fondamentale all’esercizio della funzione di nomofilachia: l’enorme numero dei ricorsi. Una volta constatata l’impossibilità di porre in via legislativa filtri esterni alla proponibilità della impugnazione di legittimità (incompatibili con il “sempre” dell’art.111 Cost.), strumento utile potrebbe rivelarsi, probabilmente, un intervento sui difensori legittimati a proporre ricorso per cassazione. È nota la proposta, menzionata anche nel volume di Lezioni in discorso (p.404), di limitare il loro numero e nello stesso tempo accrescere la loro specializzazione, attraverso l’introduzione di una opzione obbligatoria tra il patrocinio in sede di legittimità e quello in sede di merito.
Come può constatarsi, le Lezioni, pur essendo dirette ad illustrare la disciplina attuale del giudizio civile di cassazione, coerentemente con l’obiettivo perseguito dalla pubblicazione, possono rivelarsi utili anche per chi, conoscendo le enormi difficoltà in cui si trova oggi l’Istituzione, intenda acquisire elementi per la formulazione di proposte idonee a migliorare la situazione, consapevole, peraltro, dei limitati effetti di ogni innovazione che concerna esclusivamente la normativa processuale (v., al riguardo, la lezione di Maria Acierno, p. 80-81).
La risoluzione delle liti tra consumatori e professionisti oltre le corti ordinarie: un fugace sguardo all’Europa (anche a quella vissuta fino al 23 giugno 2016)
di Mario Serio
La ricerca si concentra sui progressi compiuti nel territorio del diritto comunitario dalla nozione di risoluzione in forma alternativa delle controversie appartenenti al domain consumeristico. Vengono così passati in rassegna i vari provvedimenti normativi comunitari succedutisi fino al 2013 allorché fu adottata la direttiva n.11. Essa è stata, a sua volta, trasposta nei vari Stati membri, tra i quali, prima del fatidico 23 giugno 2016, anche la Gran Bretagna. In quell'ordinamento, peraltro, permane, a dispetto della fuoriuscita dall'Unione Europea a causa del voto referendario, salda e radicata una scelta di politica legislative e giudiziaria di netto e chiaro favore nei confronti di ADR e ODR ,ossia di sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, anche on line. Lo sguardo comparatistico adottato porta conclusivamente a difendere motivatamente questo nuovo criterio di definizione di contese e di affermazione di diritti individuali o di gruppo dalla diffidenza circolante nei confronti dell'abbandono delle tradizionali forme di amministrazione della Giustizia.
Sommario: 1. La tutela europea del consumatore come obiettivo da perseguire anche nella fase processuale - 2. Gli interventi dell'Unione Europea a protezione del consumatore nella prospettiva processuale - 2.1. a) il regolamento 2006/2004 - 2.2. b) la direttiva 2009/22 - 2.3. c) la direttiva 2013/11 - 2.4. d) il Regolamento UE 524/2013 - 2.5. e) contenuti richiami alla normativa italiana - 3. I regolamenti inglesi n. 542 e n. 1392 del 2015 di trasposizione della direttiva 2013/11 e le proposte di riforme processuali civili - 4. Brevi osservazioni conclusive.
1. La tutela europea del consumatore come obiettivo da perseguire anche nella fase processuale
Questa breve ricerca si prefigge di fornire un ritratto, dalla ristretta rappresentazione descrittiva ma dal più largo orizzonte materiale, della riconfigurazione delle modalità di accesso alla giustizia nella dimensione europea, soffermandosi, soprattutto attraverso la visione per l'ultima volta in tale contesto geografico proveniente dalla Gran Bretagna, piuttosto che sulle specifiche forme di inveramento dei fenomeni cosiddetti alternativi (sui quali, pertanto, si sorvolerà), sul significato e sulle ragioni giustificatrici di essi. Il peculiare campo di indagine consisterà, per i motivi che verranno ad emersione nel prosieguo, nel riferimento, necessitato dal rilevante spazio occupato e dalla primogenitura in materia, all'esteso panorama della litigiosità intercategoriale riconducibile alla serrata dialettica tra il mondo dei consumatori e gli autori delle operazioni professionali giuridicamente rilevanti.
E' sempre più spiccata la tendenza nazionale e transnazionale europea a fissare come indeclinabile l'obiettivo della effettività della tutela dei diritti, soprattutto di quelli riconosciuti come fondamentali nella duplice cornice ordinamentale. Uno dei contrassegni più netti di questa essenziale caratteristica di tutela risiede anche nella sua capacità di soddisfare, ancora una volta in un contesto di salvaguardia di situazioni soggettive di rango fondamentale e con specifico riguardo alla previsione precettiva dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1950, l'aspirazione di chi si rivolga ad un organo o ad un'autorità in vista della risoluzione di una controversia a vederla definita in un tempo ragionevole. Insomma, l'attributo dell'effettività in termini di piena realizzazione dell'interesse protetto è ormai ritenuto non disgiungibile dal suo conseguimento celere, scorgendosi nella rapidità della decisione un segmento rafforzativo ineliminabile della completezza della tutela[1].
Si tratta di un silenzioso, e benemerito, riconoscimento dell'intramontabilità dell'idea Sattiana[2] che vuole inconcepibile la nozione di diritto soggettivo se non munita del suo predicato processuale, ossia della sua naturale attitudine ad essere oggetto di un'azione giudiziale diretta all' accertamento ed alla concretizzazione della posizione individuale[3].
Si trascina inalterato nel tempo e nello spazio il dibattito incentrato sulle vie da intraprendere per garantire lo svolgimento del giudizio, teatro di confronto tra posizioni in conflitto, in modo veloce, ragguagliandosi la velocità all'idoneità della decisione a non frustrare l'interesse del titolare del diritto all'integrità della tutela ed alla capacità della stessa di intervenire in forma corrispondente, nella misura giudizialmente determinata, alla pretesa fatta valere in quanto reputata esatta sovrapposizione concreta della fattispecie umana sull'astratta previsione di legge.
Volgendo lo sguardo ad alcune qualificate esperienze europee, a partire da quella comunitaria, si avverte la grande e giustificata attenzione riservata ad una specifica area, assunta a paradigma dell'esigenza di coniugare effettività e celerità nella definizione delle controversie che vi appartengono. E', infatti, il settore del diritto dei consumatori, e del corteo litigioso che ne discende, quello nel quale, nel prendere atto delle difficoltà incontrate in più ordinamenti dall' obiettivo della speditezza quale presupposto dell'effettività della tutela attribuita a tale categoria soggettiva, è andata prendendo organicamente corpo una visione del sistema di amministrazione delle controversie in materia che affianca al tradizionale circuito giurisdizionale statale un sistema cosiddetto alternativo, nel senso di pervenire al medesimo risultato risolutivo e decisorio in modo più rapido e mediante l'intervento di apparati organizzativi, determinati per legge, dotati della identica capacità di soddisfare le esigenze di giustizia di chi vi si rivolge e con pari efficacia pratica.
2. Gli interventi dell'Unione Europea a protezione del consumatore nella prospettiva processuale
Mentre alcuni diritti nazionali, quale quello italiano con la legge 89 del 2001, si sono attrezzati con disposizioni rivolte a convertire in concrete misure lo scultoreo richiamo del citato art.6 CEDU in punto di “speedy trial”, è stato l'ordinamento comunitario, sin dai primi anni di questo secolo, a configurare un plesso normativo coerente e dovizioso, tutto puntato al divisamento di metodi alternativi di risoluzione delle controversie riguardanti i consumatori in grado di garantire l'effettività di tutela, districandole dai lacci temporali propri dell'ambito giurisdizionale tradizionale. Già con raccomandazione del 30 marzo 1998 la Commissione Europea aveva fatto sentire la propria stentorea voce di sostegno ed apertura verso i principii applicabili per la risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di consumo: e ciò come precipitato diretto della fondamentale direttiva 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
E' da segnalare che, nel generale perimetro dell'attenzione dell'Unione Europea al tema delle misure concretamente atte a consentire una protezione estesa ed effettiva della classe dei consumatori, si considera in dottrina incluso[4] ogni spazio sanzionatorio e protettivo dedicato a tale categoria soggettiva, sia giurisdizionale sia amministrativo, in quanto concorrente al conseguimento del risultato dell'effettività.
2.1. a) il regolamento 2006/2004
Il regolamento 2006 del 27 ottobre 2004, intitolato al “Regolamento sulla cooperazione per la tutela dei consumatori” e riguardante la “cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell'esecuzione della normativa che tutela i consumatori” ha posto al centro del proprio impianto un fine ed un mezzo chiaramente scanditi. Il primo è lapidarimente costituito dalla proclamata necessità di fornire adeguata tutela agli interessi dei consumatori, spesso minacciata da infrazioni alla normativa che, in vari contesti, è chiamata a preservarli. E ciò in conseguenza della mancanza di un'efficace esecuzione della normativa nelle controversie transfrontaliere, che permette a venditori e fornitori di sottrarsi ai controlli spostando le loro attività nella Comunità (v. Considerando 2). Il mezzo è individuato proprio nella cooperazione tra le autorità nazionali competenti in materia sicchè possa raggiungersi il coordinamento tra le rispettive azioni (v. Considerando 18). Obiettivo tendenziale di questa congiunta opera di cooperazione e coordinamento è quello di contrastare le infrazioni intracomunitarie della legislazione comunitaria sulla tutela degli interessi di cui si discute (v. Considerando 5).
Ora, il provvedimento in questione ha generato l'effetto di spronare gli stati membri a guardare oltre il traguardo della cooperazione e del coordinamento, essendosi trasformato in spinta, successivamente conclamata anche in sede comunitaria, alla predisposizione di sistemi di definizione delle controversie consumeristiche esterni alla giurisdizione in senso proprio. Ed infatti, la comune percezione è stata che i fini prefissati dal regolamento in parola dovessero poggiare su una solida base nazionale, a propria volta radicata sull'effettività anche in senso cronologico della tutela.
2.2. b) la direttiva 2009/22
Più incisiva e di diretta discendenza dal regolamento 2006/2004 si rivela la direttiva 2009/22 relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori.
Ed infatti, con essa si è trascorsi dal piano declamatorio dell'esigenza cooperativa e di coordinamento a quello strettamente strumentale alla realizzazione della commendevole aspirazione. Il dato che dà impulso al testo è il realistico riconoscimento nel Considerando 3 che “i meccanismi attualmente esistenti per assicurare il rispetto di tali direttive[5] a livello sia nazionale che comunitario non sempre consentono di porre termine tempestivamente alle violazioni che ledono gli interessi collettivi dei consumatori”[6]. Questa disfunzione viene esplicitamente addebitata a disomogeneità applicative tra gli Stati membri ed al conseguente, astuto trasferimento del luogo d'origine di una pratica illecita[7]. La direttiva esibisce utile spirito di realismo laddove, al Considerando 7, identifica la via che conduce alla tutela effettiva ed omogenea nell'Unione europea della posizione dei consumatori: “ravvicinare in una certa misura le disposizioni nazionali che consentono di far cessare dette pratiche illecite, a prescindere dallo Stato membro in cui la pratica illecita ha prodotto i suoi effetti”.
Posto questo lucido preambolo ricognitivo di una situazione frustrante lo scopo di tutela in astratto perseguito, la direttiva si preoccupa di offrire agli Stati membri specifiche ed attuabili alternative rivolte in direzione della cessazione delle ricordate pratiche illecite diffuse trasversalmente. Si prevede, infatti, ai Considerando 9 e 10, la possibilità per gli Stati membri di avvalersi di organismi pubblici collettivi a tutela degli interessi anch'essi di natura collettiva dei consumatori, con attribuzione ad essi del diritto di ricorso ed azione, ovvero di permettere l'esercizio di tali diritti alle organizzazione destinate a tutelare gli interessi collettivi della categoria soggettiva in questione secondo le legislazioni nazionali.
Il cambio di passo dell'apparato normativo comunitario è palpabile ed inequivoco. Si dà implicitamente ma inequivocamente atto che i vuoti di tutela non si apprezzano tanto a livello di diritto sostanziale, ossia di disposizioni rivolte al consolidamento delle posizioni soggettive dei consumatori, quanto in termini di effettiva assicurazione della dovuta protezione lungo l'itinerario che si diparte dal momento litigioso per violazione di norme comunitarie per approdare all'attribuzione al singolo consumatore o al gruppo di consumatori esattamente il bene della vita atteso in ragione della previsione di legge, nazionale o comunitaria. Ed il momento litigioso viene concepito come oggetto di possibile devoluzione, in forma alternativa rispetto all'ordinario percorso giurisdizionale, ad organismi specializzati ed a vocazione consumeristica.
2.3. c) la direttiva 2013/11
L'opzione in senso combinatorio del livello sostanziale e di quello processuale, derivante dal conferimento espresso del diritto di azione o di ricorso, effettuato nella direttiva del 2009 trova compiuto svolgimento nella successiva, la 2013/11 dedicata alla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, che modifica il regolamento 2006/2004 e la direttiva 2009/22 appena discussa.
L'ultima direttiva in ordine di tempo si è proposta un ambizioso progetto, quello di conciliare il più fluido e libero funzionamento del mercato interno con la facilitazione dell'accesso dei consumatori a mezzi facili, rapidi ed a basso costo per risolvere le controversie nazionali o transfrontaliere derivanti da contratti di vendita o di servizi (Considerando 4). Tali mezzi vengono scorti, secondo il successivo Considerando, nella risoluzione alternativa delle controversie[8], criterio che offre una soluzione semplice, rapida ed extragiudiziale delle controversie tra consumatori e professionisti pur non essendosi ancora sviluppato in maniera sufficiente e coerente nell'ordinamento dell'Unione Europea. Con riguardo alla fissazione della nozione di consumatore è significativo, quale sintomo certo di continuità sistematica nel diritto comunitario, il rinverdimento, eseguito attraverso il Considerando 18, di quella racchiusa nella direttiva 93/13[9] che ingloba nel proprio raggio le persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla loro attività commerciale, industriale, artigianale e professionale. La direttiva 2013/11 non solo recupera concetti ormai largamente e proficuamente accolti nelle legislazioni nazionali degli stati membri[10] ma promuove l'ADR al rango di risolutore tipico esterno al circuito giurisdizionale delle controversie facenti capo all'universo consumeristico. A questa bisogna provvede la previsione illustrata nel Considerando 11 secondo cui sono necessari un'infrastruttura ADR per le controversie dei consumatori ed un quadro integrato di risoluzione delle controversie on line (ODR). L'interesse comunitario alla coltivazione di questo filone di definizione delle controversie conseguenti ai tipi contrattuali prima indicati e caratterizzati dal punto di vista soggettivo dalla presenza di un consumatore si struttura attraverso una pluralità di raccomandazioni implementative del modello alternativo di risoluzione delle liti in questione indirizzate agli Stati membri con la nitida aspirazione di perseguirne la diffusione e di codificarne le modalità pratiche di costituzione e funzionamento. Ed infatti, il Considerando 24 ricorda che gli stati nazionali debbano garantire che le controversie cui va applicato il regime alternativo possano presentarsi ad un organismo ADR conforme ai requisiti da esso stabiliti ed inseriti in apposito elenco. Si disegna, inoltre, nel Considerando 26, un tragitto di garanzia transnazionale ai professionisti[11] stabiliti in uno stato membro di adire un organismo ADR istituito in altro Stato membro. Vi è poi l'articolata rete di requisiti e condizioni destinati a regolare l'attività degli organismi alternativi di risoluzione delle controversie tra consumatori e professionisti e a disciplinare la cooptazione e la nomina dei componenti. Si mira nel Considerando 31 a garantire che le controversie ADR siano risolte in modo equo, pratico e proporzionato. Quanto al procedimento in sé riguardato esso deve salvaguardare l'accessibilità e la trasparenza, auspicabilmente permettendone la fruizione gratuita da parte del consumatore[12]. Alla professionalità dei componenti gli organismi presta rilievo il Considerando 33 per il quale le persone fisiche incaricate di farne parte devono essere imparziali, libere da indebite pressioni e competenti, sebbene non necessariamente qualificate esercenti l'attività forense. Il regolamento del 2004 e la direttiva del 2009 citate nei precedenti paragrafi vanno modificati nel senso di ospitare nei rispettivi allegati il riferimento alla direttiva in parola[13],e ciò in coerenza con la previsione del Considerando 19 che stabilisce la preminenza della direttiva stessa nel caso di conflitto con altre disposizioni comunitarie.
Traendo la linea conclusiva e contraddistintiva della direttiva 2013/11 può arguirsi un duplice orientamento. L'uno, di carattere sostanziale, che consacra il soddisfacente risultato ricercato, ossia quello, cristallizzato nella parte finale del Considerando 1 letto in connessione con l'art.18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, del conferimento di un livello elevato di protezione dei consumatori. L'altro, di carattere procedurale, e, quindi, di maggior interesse nella prospettiva di questo studio, che acclara l'abbraccio del modello ADR, almeno in campo consumeristico, come sistema efficiente, affidabile e veloce di definizione delle controversie giudicate ed in una cornice di effettività della tutela riservata alla parte che vi faccia ricorso.
Ed allora, ben può dirsi che il diritto comunitario, con il fascio di provvedimenti qui trattati, del tutto in traiettoria di continuità con una netta svolta consumeristica, ci ha reso testimoni di un processo, verosimilmente irreversibile nella materia di cui ci si occupa, di riorientamento delle categorie e dei mezzi deputati alla definizione di particolari ordini di controversie, con marcata declinazione agevolatrice degli itinerari esterni a quello giurisdizionale operante nel domain statale.
Non è questa la sede per affrontare la questione dei riflessi dogmatici del parziale e limitato abbandono del modello statuale quale naturale teatro per porre fini a conflitti ed affermare il diritto oggettivo con riguardo ad una pretesa o ad un diniego soggettivi. Ciò che preme sottolineare è che se verso altre forme di amministrazione delle controversie si rivolge lo sguardo ciò è accaduto per la non nascosta dichiarazione di naufragio dei sistemi tradizionali rispetto al precetto temporale statuito all'art.6 CEDU quale presidio di realizzazione del giusto processo.
Ma questa constatazione non dovrebbe condurre né a nostalgie né a rimpianti nella stretta misura nella quale, comunque attribuita alla giurisdizione statale la decisione di questioni afferenti a posizioni soggettive fondamentali o esibenti speciali profili di interesse, il generale paradigma procedimentale, che assicura garanzie di equità di giudizio ed alterità e terzietà del giudicante, continua ad essere attinto presso il modello pubblicistico, inderogabile nelle prescrizioni atte a preservare la pienezza del contraddittorio e del diritto di difesa.
2.4. d) il Regolamento UE 524/2013
Il Regolamento UE 524 del 2013 si è ripromesso, assecondando l'opzione della direttiva del medesimo anno prima illustrata, di prestare particolare interesse alle controversie afferenti ad operazioni negoziali on line, promuovendo la creazione di una piattaforma ODR per la risoluzione in forma alternativa delle relative controversie disciplinata da norme comuni[14].
Il proponimento, scolpito dall'art. 1, è stato quello, insieme al corretto funzionamento del mercato interno ed in particolare della sua dimensione digitale, di raggiungere al pari della direttiva 2013/11,un livello elevato di protezione dei consumatori. Nella piattaforma ODR, accessibile attraverso il portale “ La tua Europa”[15], dovrebbe consentire l'interscambio sicuro di dati con gli organismi ADR[16], senza per questo giungere a sostituire le procedure giudiziali o a privare i consumatori o i professionisti del loro diritto di rivolgersi ai Tribunali[17].
2.5. e) contenuti richiami alla normativa italiana
La ventata europea, soffiata per molti anni in cornice cumulativa consumeristica-processuale, non ha provvidenzialmente trovato l'Italia impreparata né distratta: con il decreto legislativo n.130 del agosto 2015, infatti, si è prontamente provveduto, in attuazione della direttiva 2013/11, ad apportare al codice dei consumi le necessarie modifiche adeguatrici e puntualmente rispettose degli intendimenti europei.
Del resto, vi erano stati precedenti, importanti segnali di comune tendenza tra il nostro Paese e la politica europea in tema di consumo e connesse controversie.
Esempio di robusto rilievo è dato dall'istituzione, a decorrere dal primo gennaio 2009, dell'Arbitro Bancario Finanziario, competente per le controversie tra clienti ed intermediari secondo predeterminati limiti di valore e materiali, in attuazione dell'art.128 bis del Testo Unico Bancario introdotto dalla legge 262 del 2005 e della deliberazione n.275 adottata il 29 luglio 2008 dal Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio che aveva stabilito i criteri per lo svolgimento delle procedure di risoluzione stragiudiziale delle controversie bancarie ed affidato il compito, fino ad oggi egregiamente svolto, di curarne l'organizzazione ed il funzionamento alla Banca d'Italia.
Il nostro ordinamento si è così posto, in una delicatissima e sentitissima congerie sociale, quale quella facente capo ai rapporti bancari, per definizione involgenti un sensibile divario di forza contrattuale tra le parti, in piena linea di continuità con il rinnovato impulso riequilibratore degli “unconscionable bargains” duramente repressi dalla giurisprudenza inglese già dalla metà degli anni '70 del ventesimo secolo[18].
3. I regolamenti inglesi n. 542 e n. 1392 del 2015 di trasposizione della direttiva 2013/11 e le proposte di riforme processuali civili
Il punto di osservazione qui scelto per cogliere le diramazioni sul terreno dei diritti nazionali della normativa comunitaria è dato dal diritto inglese, intervenuto con due regolamenti del 2015, il 542 ed il 1392, per disciplinare i procedimenti di risoluzione in forma alternativa delle controversie concernenti la categoria dei consumatori. Di essi, nel quadro connettivo delle riflessioni dottrinarie, ci si occuperà per quanto occorra nella parte che segue.
Gli Statutory Instruments citati, succedutisi tra il marzo ed il giugno 2015, risentono positivamente di un clima interno che, non essendo stato ancora espresso il voto referendario dell'anno dopo a favore della fuoriuscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, appare orientato favorevolmente nei confronti delle rilevanti innovazioni provenienti dall'ordinamento comunitario ed animato da sincero spirito conformativo.
Ed infatti, le note esplicative di entrambi i regolamenti rendono palese l'estensione adeguatrice delle disposizioni interne, attente a disciplinare minuziosamente il procedimento di selezione, formazione e funzionamento degli organismi designati per la risoluzione in forma alternativa delle controversie riguardanti i consumatori.
Nel dar conto degli emendamenti apportati al regolamento di pochi mesi precedente, la nota esplicativa di quello recante il numero 1392 del 2015, illustra il quadruplice scopo delle disposizioni: a) completare il percorso traspositivo nel diritto interno delle previsioni comunitarie diramate attraverso gli atti (regolamenti e direttive) ripercorsi nelle parti anteriori di questa ricerca; b) accentuare tale percorso traspositivo in modo da conferire il carattere della vincolatività interna a tutti gli obblighi previsti nelle disposizioni oggetto di recepimento; c) modificare alcune norme introdotte con il primo dei due regolamenti del 2015; d) posticipare al successivo primo ottobre 2015 l'entrata in vigore delle norme del primo dei due regolamenti interni contenute nelle parti 4 e 5 riguardanti le controversie in materia di commercio ed impresa.
Come si è prima detto, l'atteggiamento del governo inglese che precedette il referendum del 2016 fu assolutamente cooperativo e solidale con il progetto europeo ed attento, perfino nei dettagli, ad incarnarne le finalità sociali e politiche: il legato rimane anche oggi che la situazione è drammaticamente mutata e l'esperienza continentale volge per i cittadini britannici ad un amaro epilogo.
Anche la dottrina coeva o immediatamente successiva non ha mancato di avvertire gli effetti benefici causati dall'allineamento delle istituzioni inglesi ai pressanti provvedimenti comunitari miranti alla definitiva costruzione di un edificio multipiano in cui ospitare l'intera vicenda della contrattazione, stipulazione, risoluzione dei conflitti riferibili ai rapporti negoziali, soprattutto di vendita e servizi, inseriti nell'universo popolato da categorie soggettive ormai consolidate a livello giuridico, sociologico, economico, quali quelle dei consumatori e dei professionisti. E questo non appare casuale, bensì frutto della interiorizzazione e dell'accettazione dell'idea di una collettività la cui sfera d'azione nei contatti sociali sia polarizzata attorno all'esercizio o meno di attività professionali interferenti con quelle, a proiezione e concezione individuale o meno, prive del contrassegno della professionalità. Il che costituisce, in sostanza, il più luminoso segno dell'impronta che, pur davanti alla lacerante fuoriuscita britannica dall'Unione Europea, scelte comunitarie riflettenti una cultura ed un sentire latitudinalmente diffusi hanno saputo lasciare intatte.
Entusiastici echi rispetto all'estensione dei procedimenti alternativi di risoluzione delle controversie al settore on line, provengono da chi[19] annovera una molteplicità di pregi nella complessa sequenza di provvedimenti comunitari lungo una traiettoria decennale tracciata agli inizi del ventunesimo secolo.
In primo luogo si sottolinea la indilazionabilità di coordinati interventi indirizzati a superare la perdurante e pericolosa stagnazione del mercato europeo[20]. Osservazione, questa, di pretto ed indiscutibile stampo europeistico, a conferma dell'intrisione di spirito unionistico, riscontrabile appena un quinquennio addietro e ad onta del futuro, diverso avviso elettorale, della letteratura giuridica inglese: spirito che difficilmente potrà essere espunto del tutto a danno di menti e coscienze libere solo per effetto di perentori ed irreversibili mutamenti di scenari politici interni. Ed ancora, viene positivamente registrata, come testimonianza di partecipazione ad un processo paneuropeo di razionalizzazione dei sistemi di risoluzione delle controversie consumeristiche e di riaffermazione del principio di effettività della tutela collegata a posizioni soggettive di matrice comunitaria, l'adesione alla piattaforma ODR, già raccomandata nel 2010 dall'UNCITRAL in sede mondiale[21]. Alla scelta comunitaria viene persuasivamente associata anche una funzione dissuasiva della litigiosità, discendente dal timore di un giudizio di rapida conclusione, realizzabile attraverso i congiunti sistemi ADR e ODR[22]. Ma anche dal punto di vista dell'efficacia dei rimedi restitutori/risarcitori/compensativi[23] si coglie l'utilità della partecipazione alla concezione alternativa di risoluzione delle particolari categorie di controversia di cui ci si occupa del disegno europeo, che manifesta, altresì, l'attitudine a creare un incentivo alla propagazione di una cultura propensa ad uscire dagli storici confini della giurisdizione statale[24]. In via conclusiva si osserva fondatamente, con specifico riguardo ai sistemi di risoluzione on line ODR, che si contribuisce tramite essi all'incremento dei flussi comunicativi tra le parti in lite, così eliminando o diminuendo i rischi intrinseci a fraintendimenti o carenze informative[25] e spingendo verso un rafforzamento del mercato europeo e della fiducia in esso dei cittadini[26].
Non si può tacere un articolato sentimento di nostalgia e rimpianto per queste parole che lasciano intendere quanto grandi fossero le opportunità comuni ai principali stati europei, secondo l'assetto presente fino alla metà degli anni 10, che la legislazione comunitaria riservava con reciprocità di vantaggi.
Sentimento esacerbato dall'analisi condotta con eguale equilibrio e lungimiranza in altro scritto dottrinario inglese dedicato alla generale prospettiva delle forme alternative di risoluzione delle controversie[27].
Sebbene lo studio esibisca uno spettro di analisi più ampio e si concentri sulla proficuità in genere del sistema ADR in termini di accesso alla giustizia e di efficacia per gli utenti della relativa risposta, non può porsi in dubbio che il favorevole giudizio pronunciato nei confronti del sistema ben possa riverberarsi sui provvedimenti, quali quelli comunitari e degli Stati-membri traspositori, che ne hanno tratto ispirazione.
In effetti, la riflessione che viene offerta si propone una riedizione della nozione di “successo” normalmente accreditata all'esito fruttuoso (ossia di concreta definizione della controversia) dei procedimenti ADR. Si sostiene, infatti, che tali sistemi generino risultati utili, e vadano, pertanto, giudicati come sintomatici di esiti positivi, anche laddove la definizione non venga raggiunta immediatamente ma vengano gettate solide basi per il conseguimento anche in futuro di una simile prospettiva[28].
E' profonda ed ideale la ragione addotta per esternare la netta preferenza per il modello “alternativo” di accesso alla Giustizia ed al corredo di aspettative che ne germogliano in testa ai fruitori. Viene in rilievo un apparato il cui scopo è di riorientare l'opinione[29] comune verso l'eliminazione, attraverso, appunto, il ricorso all'alternatività procedimentale e decisoria, dei costi, puramente economici e non, visibili o occulti, legati all'utilizzazione del circuito tradizionale[30] di amministrazione della Giustizia. Tra le utilità marginali e collaterali ottenibili al di fuori dall'incanalamento strettamente giurisdizionale viene collocato lo sprone verso una nuova concezione del cosiddetto “case management”[31], ed in particolare verso l'introiezione da parte dei Giudici professionali del messaggio di incoraggiamento rivolto alle parti onde si avvalgano degli strumenti, interni o esterni alla giurisdizione, di mediazione, conciliazione, risoluzione per così dire incruenta delle liti. Ampio risalto viene giustamente dato alle conclusioni del rapporto finale, redatto nel dicembre 2013, da Lord Briggs sulla Chancery Modernisation Review, su cui si tornerà immediatamente, nonchè all'opinione espressa nella High Court nel 2003 dal Giudice Blackburn circa il conferimento alle corti ordinarie inglesi del potere di ordinare alle parti di definire la disputa mediante ricorso all'ADR[32].
L'adeguamento alla normativa comunitaria effettuato nel 2015 da un governo inglese non ancora roso dal tarlo antieuropeo e sedotto, anzi, dalla prospettiva di esternalizzare una consistente quota di cause atte ad appesantire il fardello della giustizia civile rappresenta un buon ed affidabile banco di prova per approfondire la questione relativa al grado di penetrazione nel tessuto della cultura giuridica inglese della concezione “alternativa” dei modi per decongestionare i carichi di lavoro giudiziario.
Viene generalmente riconosciuto che le istanze promotrici dell'adozione di modelli ADR nell'ordinamento inglese sono basate su saldi principii, quali la possibilità di mantenere ancora viva la fiammella del dialogo tra le parti in contesa[33], la maggior flessibilità di forme, la possibilità di dar vita a soluzioni “creative” a fini decisori[34].
Non è possibile dimenticare che un primo possibile contributo alla recezione del sistema “alternativo” nel common law inglese era stato dato nel 1998 dal rapporto di Lord Woolf sulla Civil Procedure Reform, al cui interno si previde la facoltà dei giudici ordinari di incoraggiare le parti ad adire l'ADR, in perseguimento dell' “overriding objective” di devolvere al circuito giurisdizionale statale casi che possano essere decisi in modo oculato e con costi proporzionati.
Su questa scia si inserì con autorevolezza e seguito di consensi Lord Briggs[35] sia con il rapporto interlocutorio del dicembre 2015 (e, quindi, dopo l'entrata in vigore degli Statutory Instruments di recepimento della Direttiva 2013/11 prima studiati) sia con la relazione finale del luglio dell'anno successivo sulla Civil Court Structure Review, che, tra l'altro, propone, in chiara risposta al messaggio comunitario, l'istituzione di Online Courts[36]. In questo approccio di vicinanza alla ADR la riforma di Lord Briggs si è palesata del tutto conforme alle proposte di Lord Woolf[37]. Anche il Presidente del tempo della Supreme Court, Lord Neuberger, si espresse nella sua allocuzione del 2015 davanti al Civil Mediation Council per il riconoscimento della preminenza del modello “mediatorio” rispetto a quello della sentenza come mezzo di risoluzione delle controversie, ascrivendo a merito del primo la circostanza che, in esito ad esso, nessuna delle parti si considera soccombente[38].
Lo stesso Lord Briggs, nella sua funzione giudiziale nella Court of Appeal nel caso PGF II SA v OMFS Company 1 Limited[39] , enumerò i vantaggi potenziali, nel senso della compressione dei costi e della delimitazione dei temi della futura decisione, desumibili dall'utilizzazione del modello alternativo, seppur non coronato da successo, nel senso di inidoneo alla definizione in via di conciliazione o di mediazione della lite, accreditando alla ADR l'utile risultato di perseguire una politica di “proportionality” tra costi e benefici del sistema.
In stretta continuità con tale ponderata decisione, Lord Briggs, nel suo Final Report del luglio 2016[40] propone l'obbligatorietà del ricorso alla Online Court in tutti i casi in cui la stessa sia competente per materia.
Nè la giurisprudenza inglese in genere, come già visto, ha trascurato di seguire questo percorso agevolativo della definizione delle pretese minori, come traspare dall'opinione espressa dal giudice Jackson, sempre della Court of Appeal, nel caso Thakkar and Another v Patel[41], che confermò il capo della sentenza di primo grado di condanna alle spese processuali del convenuto che aveva irragionevolmente respinto la proposta dell'altra parte di avvalersi della procedura mediatoria.
La dichiarata prevalenza del favore giurisprudenziale ai sistemi alternativi si è spiegabilmente trasferito nella classe forense[42], che ha acquisito la necessaria consapevolezza della novità circolante, sì da orientare le proprie scelte processuali alla migliore difesa degli interessi delle parti assistite, anche alla luce delle esperienze e delle prassi transnazionali, sposando il promettente e comunemente accettato cambiamento culturale auspicato dallo stesso Lord Briggs nella sua Chancery Modernisation Review[43], anticipatrice di quella di tre anni successiva di cui sin fin qui discusso.
In conclusione, lo sguardo d'insieme donato dal diritto inglese nella sua declinazione principalmente processuale si rivela pienamente concorde con gli indirizzi comunitari in direzione di quell'approdo agevolatore di efficienti decisioni e di effettive tutele per le parti che vi tendono.
L'esperienza inglese è, insomma, avviata verso un destino consonante a quello dei principali sistemi giuridici continentali, quanto alla propensione per il criterio alternativo: e l'influenza comunitaria si percepisce, a questo proposito, chiaramente e fortunatamente al riparo da ondate antieuropee.
4. Brevi osservazioni conclusive
L'adozione di una prospettiva comparatistica nell'affrontare problemi che travagliano i sistemi ordinamentali interni esibisce questo di vantaggioso, in perfetta coerenza con l'intramontabile lezione di Gorla: regala materiali conoscitivi su cui elaborare giudizi informati da applicare all'ordinamento di partenza, non già e non necessariamente per emularne le soluzioni o meccanicamente trapiantarle, quanto per allargare i confini dei dati cognitivi e critici e, quindi, facilitare la ricerca delle più acconce scelte, anche alla stregua del comprovato successo, o del suo contrario, di una determinata opzione straniera. La comparazione serve anche a rimuovere false credenze, demolire miti, sottoporre a revisione critica tendenze dogmatiche consolidate, acquistare nuovi slanci culturali liberandosi da provincialistiche chiusure mentali: e ciò con il solo limite di non indulgere a preferenze verso il nuovo ed il diverso accordate per partito preso o per miopi vedute esterofile. E' proprio la Gorliana misurazione di analogie e differenze interordinamentali il cuore pulsante ed il sale che insaporisce la ricerca comparatistica. In questo ordine ideale l'acclimatamento con fenomeni giuridici di provenienza transnazionale o sovranazionale, come, nel caso qui esaminato, quello attinente alla propensione verso un sistema di amministrazione delle fattispecie litigiose non più celebrato nelle austere aule di giustizia o attraverso forme procedurali gravose e rigide è ritagliato sull'obiettivo di vincere antiche diffidenze e prevalere su retaggi impeditivi di autentiche innovazioni, benefiche per vaste platee di cittadini.
Del resto, per rimanere nei confini segnati dal rapporto finale di Lord Briggs[44], va osservato che lo stesso autore del pregevolissimo progetto di riforma, interrogandosi sulla generale adottabilità nel campo delle controversie civili del sistema dall'acronimo MIAM (Mediarion, Information and Advice Meeting), chiarisce come, relativamente alle liti di maggior valore, lo scarto tra giurisdizione ordinaria ed ADR debba rimanere inalterato a favore della prima.
Portare fuori dalle Corti ordinarie la decisione di plessi determinati e circoscritti di liti non contrasta di per sè con la tipica funzione statale attrattiva a sé della disciplina dei rapporti interindividuali in conflitto. E ciò in quanto la avulsione dal circuito tradizionale avvenga e si svolga, come si è in questo studio visto, in primo luogo, nell'ambito finalistico della protezione di diritti umani fondamentali (e tra di essi quello allo svolgimento del processo in tempi ragionevoli) ed in quello oggettivo della tutela di posizioni individuali o di gruppo gravitanti nell'orbita della bisecazione tra categorie economiche e giuridiche ormai normativamente definite, quali quelle dei consumatori e dei professionisti. Le giuste cautele che circondano i procedimenti per la definizione in vie e forme alternative di questo genere di contese appaiono presìdi necessari e sufficienti per preservare il sistema dal pericolo di strappi ingiustificabili e, per quel che riguarda il diritto italiano, della lesione del principio di tutela diffusa che sta alla base dell'art.113 della Costituzione. Ed invero, come ha osservato con lungimiranza e buon senso pratico e giuridico Lord Briggs nella propria opera conditoria di nuove stagioni e regole processuali, “l'impegno fattivo alla partecipazione ad un procedimento scandito come ADR può condurre ad una pluralità di direzioni alternative, ognuna delle quali può far risparmiare alle parti ed alle corti ordinarie tempo e risorse[45]”. E, non è eccentrico aggiungere, può contribuire ad avvicinare i lembi delle distanze sociali, economiche, giuridiche tra parti di differente peso.
Abstract in English: The tendency to resolve civil litigation through ADR, i.e. methods not implying the deployment of Courts of justice, has largely affirmed itself over the last few years thanks to numerous pieces of European Union legislation. The essay deals with these normative acts, culminating in the adoption of Directive 2013/11which has committed all State-members to availing themselves of mechanisms for the resolutiono of disputes arising out of the relationship between consumers and professionals universally known as alternative dispute resolution (out of Court). The example set in Europe has been thoroughly followed by pre-Brexit Great Britain. Here, the many ways to implement this dramatic change of attittude, both via Statutory Instruments and judicial decisions,are scrutinized with a view to show they are not inferior in this field of legal relations, in terms of efficiency and efficacy, to the traditional system of settling disputes within the traditional Courts of justice. A comparative overlook serves to overcome ancient doubts and fears among scholars and within the legal profession.
[1] Sul punto si può vedere Serio, Il danno da irragionevole durata del processo, Napoli 2009.
[2] Irradiatasi nelle memorabili pagine su “Giurisdizione (nozioni generali )” in Enciclopedia del diritto, XIX, senza data ma 1970, 218 ss. ed in particolare 220 ss. dove si affronta il concetto di giurisdizione indicandone una maggior latitudine rispetto al recinto della legge o del diritto oggettivo ed adombrando il riferimento al fenomeno giuridico come fatto esperienziale: su questa spinosa questione, si veda il toccante ricordo di Bernardo Abanese, costante interlocutore di Satta, anche del Satta autore del capolavoro intitolato “Il giorno del giudizio”, scritto dal suo allievo Raimondo Santoro.
[3] Ius agendi configurato non soltanto come immanente complemento del diritto soggettivo, ma osservato anche nella sua dimensione storica e pratica rivolta a far ottenere - questa volta è l'insuperato lessico di Chiovenda ad imporsi -esattamente quel bene della vita la cui difesa è assicurata proprio dall'azione.
[4] Cafaggi, Rimedi e sanzioni nella tutela del consumatore: l'attuazione del new deal, in Giustizia Insieme, 17 settembre 2020, pag 1 ss., on line, che trae spunto dalla direttiva 2019/2161
[5] In materia di tutela degli interessi dei consumatori.
[6] Per tali si intendono “gli interessi che non sono la mera somma degli interessi lesi da una violazione”: ibidem.
[7] Allo scopo di “essere al riparo da qualsiasi forma di applicazione della legge”: Considerando 5.
[8] Il diffuso acronimo in lingua inglese ADR sta ad indicare le forme di Alternative Disputes Resolution.
[9] Su cui si vedano Serio, Profili comparatistici delle clausole vessatorie, in Europa e Diritto Privato, 1998, 78 ss.; Id. Il contract e l’Europa, in C. Castronovo, S. Mazzamuto (a cura di), Manuale di Diritto Privato Europeo, Milano, 2007, II, 643 ss.; Smorto, Clausole abusive e diritti dei consumatori. Raffronti comparatistici, Padova, 2001; Petruso, Le clausole abusive nei contratti con il consumatore nella giurisprudenza della Corte europea di giustizia, in P. Cerami, M. Serio (a cura di), Scritti di comparazione e storia giuridica, II, ricordando Giovanni Criscuoli, Torino, 2013, 412 ss.; Conti, La Corte CE a tutto campo sulla nozione di consumatore e sulla portata della dir. 93/13/CEE in tema di clausole abusive, in Il Corriere giuridico 2002, 448 ss.
[10] L’attuazione in Italia della direttiva 93/13 ha avuto inizio con l’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (“Legge comunitaria per il 1994”), che ha inserito, nel titolo II del libro IV del codice civile, il capo XIV-bis (artt. da 1469-bis a 1469-sexies), rubricato “Dei contratti del consumatore”. Nel Regno Unito gli obblighi traspositivi sono stati adempiuti con l’approvazione dell’Unfair Terms in Consumer Contracts Regulations 1994.
[11] In assenza di innovazioni normative la relativa definizione va ancora una volta fatta risalire a quella consolidatasi nella direttiva 93/13.
[12] Considerando 39.
[13] Considerando 57 e 58.
[14] Considerando 34.
[15] Considerando 21.
[16] Considerando 20.
[17] Considerando 26.
[18] V. Lloyds Bank Ltd v Bundy [1974] EWCA 8. Per una ricostruzione del tema della diseguaglianza di forze contrattuali nel common law inglese, dei rimedi e delle relative condizioni, si può vedere Serio, La struttura del contract, in C. Castronovo, S. Mazzamuto (a cura di), Manuale di Diritto Privato Europeo, Milano, 2007, II, 684 ss.
[19] Cortes, A new regulatory framework for extra-judicial consumer redress:where we are and how to move forward, in Legal Studies, 2015, pag.114 ss.
[20] Cortes cit., pag.114.
[21] Op. ult. cit., pag.122 ss.
[22] Op.cit., pag.127.
[23] A mio avviso in questa trivalente e funzionale fraseologia può condensarsi la portata del termine “redress” utilizzato nel lavoro qui in commento: v, in particolare, pag.13 ss.
[24] Op.cit., pag.132 ss.
[25] Op.cit., pag. 140.
[26] Cortes, pag.141.
[27] Ahmed, An investigation into the nature and role of non-settled ADR ,in International Journal of Procedural Law, 2017 pag. 216 ss.
[28] Ahmed, cit., pag. 245 ss.
[29] Op. cit., specialmente pag. 222 ss.
[30] O come l'Autore, provocatoriamente lo designa, “orthodox”.
[31] Qui inteso nell'accezione riferibile alla generale organizzazione del lavoro giudiziario secondo criteri di efficienza, razionalità, speditezza, prossimità alle istanze della collettività.
[32] Shirayama Shokusan Company Ltd v Danovo Ltd (2003) EWHC 3306 (Ch).
[33] A nota 20, pag .223 del lavoro Ahmed ricorda che il giudice Brookes della Court of Appeal espresse la convinzione nel caso Dunnett v Railtrack (2002) EWCA Civ 303 che spesso una delle parti in giudizio si accontenterebbe, per chiudere la causa, delle scuse dell'altra.
[34] Op.ult.cit., pag. 223.
[35] Dall'ottobre 2017 nominato alla United Kingdom Supreme Court ed antecedentemente giudice della Court of Appeal.
[36] Da lui giudicate come “il più radicale ed importante mutamento strutturale di cui la riforma si sia occupata”.
[37] Ahmed,op.cit., pag. 226.
[38] Ahmed, pag. 234.
[39] (2013) EWCA Civ 1228.
[40] Pag. 118 , paragrafo “Online Court”.
[41] (2017) EWCA Civ 117.
[42] Ahmed, op. cit. pag. 244 vede come ineliminabile questa transizione di mentalità.
[43] Final Report del dicembre 2013 (n.13), par. 5.3.3.
[44] Pag.112 ,paragrafo intitolato “Civil and ADR”.
[45] “A positive engagement with an invitation to participate in ADR may lead in a number of alternative directions, each of which may save the parties and the court time and resources”.
Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598)
Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa. – 2. La fattispecie e i “dubbi” europei delle Sezioni unite. – 3. La posizione della Cassazione e i precedenti europei. Alcune perplessità. – 4. Verso una nuova stagione per i controlimiti?
1. Premessa
In chiusura di un recente scritto in materia di ricorso incidentale escludente[1] osservavo che il tema dell’omessa pronuncia ultimamente è stato visto come la strada da battere alla ricerca di una soluzione considerata dalla Cassazione come maggiormente appagante in termini di effettività della tutela, più “giusta” e paritaria, ma distonica rispetto ai capisaldi del processo amministrativo nazionale (su tutti la teoria delle condizioni dell’azione e il loro rapporto col merito). Allo stesso modo si è cercato di trovare nuove strade attraverso l’incerta nozione di “grave violazione” del diritto europeo, come ulteriore grimaldello per forzare interpretazioni del giudice amministrativo giudicate insoddisfacenti.
Mi spingevo, quindi, ad una previsione, ritenendo che dopo la nota sentenza della Corte cost. n. 6/2018 (in tema di impugnazioni per “motivi inerenti alla giurisdizione”) questa stagione fosse al tramonto, o comunque vivesse una grande crisi.
L’ordinanza delle Sezioni unite qui annotata dimostra che mi sbagliavo.
2. La fattispecie e i “dubbi” europei delle Sezioni unite
Nell’ambito di una gara da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la Stazione appaltante fissa una soglia di sbarramento alle offerte tecniche, per cui non sarebbero stati ammessi al prosieguo della gara i concorrenti il cui progetto fosse stato valutato con un punteggio inferiore. Due offerte raggiungono tale punteggio, e così la terza impugna sia la propria esclusione che la procedura di gara.
Il Tar rigetta le eccezioni relative alla legittimazione di parte ricorrente e, esaminando tutti i motivi di ricorso, li rigetta nel merito.
In appello il Consiglio di Stato si limita invece a rigettare il motivo del ricorso principale con cui l’impresa terza classificata contesta l’attribuzione alla propria offerta di un punteggio insufficiente per superare la “soglia di sbarramento”, e non esamina nel merito gli altri motivi di ricorso (con cui si contestano, ad es., i criteri di valutazione delle offerte, la composizione della commissione, etc.), considerando l’appellante priva di legittimazione, essendo stata esclusa.
Avverso tale pronuncia la società soccombente propone ricorso in Cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., ritenendola viziata da diniego di giurisdizione, e contraria al diritto europeo ed alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (Fastweb, Puligienica, Lombardi) nonché a quella della Cassazione[2].
A questo punto le Sezioni unite prendono atto che tale possibilità è oggi ostacolata da una prassi interpretativa nazionale, che ha preso le mosse dalla sentenza della Corte cost. n. 6/2018, la quale si è espressa in senso opposto. In particolare, le Sezioni unite hanno espressamente escluso il riferimento alla «ipotesi estrema» del contrasto con sentenze della Corte di giustizia come ipotesi di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione[3].
Ciò nonostante prospettano un nuovo percorso interpretativo[4], volto a superare la barriera eretta dalla Consulta. Le sentenze del Consiglio di Stato che risultino «incompatibili» con disposizioni del diritto dell’Unione, come interpretate dalla Corte di Giustizia, sarebbero manifestazione di difetto assoluto di giurisdizione, per avere il giudice amministrativo «compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale», censurabile per cassazione come motivo inerente alla giurisdizione.
A venire in rilievo in questo caso, quindi, sarebbe l’obbligo degli Stati di dare leale attuazione al principio secondo cui il giudice nazionale è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giudiziario di grado superiore qualora esso ritenga che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione» (es. sentenza Puligienica).
Base esplicitata di tale esegesi è l’esposizione degli organi giurisdizionali dello Stato a responsabilità, nonché una visione grandemente dequotata del principio di autonomia procedurale degli Stati. In buona sostanza, la giurisprudenza che ritiene inammissibile il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, in fattispecie come quella in esame, sembra alle Sezioni unite non in linea con i principi di equivalenza e di effettività della tutela giurisdizionale.
Sulla base di tali premesse argomentative viene posto alla Corte di giustizia un primo quesito sulla compatibilità dell’esegesi restrittiva di Corte cost. n. 6/2018 con gli articoli 4, par. 3, 19, par. 1, del TUE e 2, parr. 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
In seconda battuta viene censurato l’orientamento attuale della Cassazione[5], secondo il quale va esclusa la censurabilità mediante ricorso per cassazione (per motivi inerenti alla giurisdizione) dell’omissione immotivata del rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato in materia disciplinate dal diritto dell’Unione. Anche in questo caso si ritiene che il giudice nazionale non possa omettere senza motivare il rinvio alla Corte di giustizia, e decidere la causa interpretando direttamente le norme non chiare del diritto dell’Unione.
Infine, e qui si entra nella questione riguardante il tema della legittimazione e dell’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, la Cassazione dubita della conformità eurounitaria della tesi volta ad equiparare la posizione del concorrente ad una gara di appalto che, contestando la propria esclusione, proponga censure miranti ad ottenere la ripetizione della gara con quella dell’operatore che non abbia mai partecipato alla gara, almeno fino a quando non si sia formato il giudicato sulle ragioni della sua impugnazione.
3. La posizione della Cassazione e i precedenti europei. Alcune perplessità
Parto dalla terza, e ultima, questione.
Gran parte delle argomentazioni della impresa terza classificata ruotano attorno al richiamo alla giurisprudenza europea in tema di ricorso incidentale escludente e interesse strumentale: il noto trittico che va da Fastweb del 2013 a Lombardi del 2019, passando per Puligienica del 2016.
Tuttavia, nella vicenda scrutinata da ultimo dalla Cassazione sussiste il problema della legittimazione dell’escluso, depurata dalla presenza di un ricorso incidentale “paralizzante” del controinteressato.
Sul tema la giurisprudenza della Corte di giustizia può grossomodo sintetizzarsi così.
Nella sentenza 19 gennaio 2003 in causa C-249/01 Hackermüller si afferma che il concorrente deve essere legittimato a contestare la propria esclusione, anche se poi si precisa che ove detta contestazione sortisca esito negativo l’impugnativa del risultato della gara deve essere respinta «in quanto tenuto conto di tale circostanza egli non è stato o non rischia di essere leso dalla violazione da lui denunciata».
Più di recente la sentenza 21 dicembre 2016 in causa C-244/14 BTG ritiene che l’offerente escluso da un provvedimento definitivo dell’amministrazione non può considerarsi «offerente interessato» ai sensi dell’art. 2-bis della direttiva ricorsi e pertanto la normativa europea non osta a che gli sia negato di ricorrere sostenendo che pure l’offerta dell’aggiudicatario doveva essere esclusa.
In tale caso la Corte ha dichiarato di non volersi discostare dalla sentenza Fastweb, in quanto in quella vicenda il ricorrente non era stato escluso dell’amministrazione; sennonché l’assunto non tiene perché in Fastweb risulta confermata l’equivalenza di esclusione disposta da parte dell’amministrazione e da parte del giudice[6].
Veniamo così alla sentenza 11 maggio 2017 in causa C-731/16 Archus, che, a differenza di questi due precedenti, viene espressamente richiamata dalla Cassazione a sostegno delle proprie argomentazioni. In una gara con due concorrenti, un’impresa impugna congiuntamente la propria esclusione e la contestuale aggiudicazione all’altra, assumendo che la prima in graduatoria avrebbe dovuto essere esclusa. La sentenza stabilisce che il concorrente escluso che ha impugnato sia la propria esclusione sia l’aggiudicazione all’altro offerente è legittimato ad agire in giudizio vuoi per ottenere l’aggiudicazione vuoi in vista della rinnovazione della gara.
Si è osservato come Fastweb, Puligienica, BTG, per quanto richiamate, non c’entrino nulla, non essendo dubbio che l’impresa esclusa possa ricorrere contro il provvedimento di aggiudicazione sostenendo che avrebbe dovuto essere ammessa, deducendo sia censure che, ove accolte, le consentirebbero di vincere la gara, sia censure miranti alla rinnovazione della gara, a tutela dell’interesse strumentale[7].
Peraltro nel caso di specie, molto simile a quello oggetto di cognizione della Sezioni unite, il discrimine tra il riconoscimento e il disconoscimento del diritto del ricorrente allo scrutinio della doglianza relativa all’omessa espulsione dell’aggiudicatario risiede in un fatto fortuito, consistente nell’essere ancora sub judice o meno la propria esclusione allorquando sopraggiunga la sentenza sull’aggiudicazione all’altro operatore.
La nostra giurisprudenza riflette tali ambiguità, ingenerando incertezze.
Così in un caso si è ritenuta sussistente: «la legittimazione e l’interesse in capo al ricorrente, originariamente escluso, e la cui esclusione sia stata ritenuta dal giudice immune dalle censure dedotte, a far valere con motivi aggiunti la mancata esclusione della ditta aggiudicataria, al fine di ottenere la riedizione della gara»[8]; al contrario, in un altro, in cui il Consiglio di Stato aveva confermato la legittimità di un’esclusione, si è ritenuta priva di legittimazione l’impresa che impugnava in un secondo tempo l’altrui aggiudicazione, lamentando la sussistenza di cause di esclusione, non scrutinate dal giudice di primo grado in quanto l’originaria impugnazione contro l’altrui ammissione (ai sensi dell’abrogato mini-rito) era stata considerata improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, stante l’accertata legittimità dell’esclusione[9].
Sicché, si contesta fermamente l’idea di una legittimazione al ricorso contro l’altrui aggiudicazione che funzioni «ad intermittenza», a seconda di come vengano ad atteggiarsi fattori accidentali e neutri come la lunghezza del giudizio che verte sull’esclusione, il lasso di tempo tra l’esclusione e l’aggiudicazione all’altro operatore, la proposizione di motivi aggiunti, etc. Profonda e irriducibile appare, quindi, la contraddizione tra le sentenze BTG e Archus[10].
E fra le due è la prima a meritare apprezzamento, nella misura in cui Archus, sulla scia di Fastweb, determina l’impropria soppressione, ai fini dell’accesso alle procedure di ricorso, della qualità di soggetto leso o che rischia di esserlo a causa dell’illegittimità denunciata (art. 1, par. 3, dir. 92/13/CEE), qualifica confermata dall’introduzione, con la dir. 2007/66/CE, della nozione normativa di «offerenti interessati»[11]. Tale chiara disposizione smentisce «la tesi che a livello europeo esisterebbe quale situazione giuridica soggettiva protetta l’interesse ad una corretta competizione a tutela del rispetto della concorrenza»[12].
Se si condividono queste premesse, allora pare molto dubbio sostenere, come fanno le Sezioni unite, che il Consiglio di Stato abbia esercitato un potere giurisdizionale di cui sarebbe privo «per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale – censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione».
Il giudice amministrativo nostrano si è limitato, invece, proprio a dare una corretta interpretazione della norma europea vigente, mentre l’attività veramente creativa, sia in punto di individuazione delle posizioni legittimanti, che di (ri)perimetrazione della nozione di “motivi inerenti alla giurisdizione”, appare quella compiuta dalla Cassazione.
La quale, disattendendo le nette indicazioni di Corte cost. n. 6/2018, si avvale, in punto di regolamentazione del dialogo fra le corti, delle perplesse indicazioni di Puligienica, che ha finito per disapplicare l’art. 99 c.p.a. in tema di poteri dell’Adunanza plenaria, e in punto di posizioni legittimanti dell’altrettanto discutibile sentenza Archus.
Non deve passare sotto traccia un aspetto dell’annotata ordinanza, particolarmente significativo nella misura in cui mostra le “voci di dentro” dei giudici di Piazza Cavour. Al punto n. 44 della motivazione si osserva, tra l’altro, come i limiti all’autonomia procedurale degli Stati non subirebbero deroghe in considerazione della natura amministrativa della materia (l’aggiudicazione degli appalti), poiché essa non è riservata al giudice amministrativo, ma è ripartita tra questi e il giudice ordinario, secondo criteri spesso discrezionali e variabili nel tempo, che producono l’effetto di limitare il sindacato della Cassazione ai motivi inerenti alla giurisdizione[13]. Aleggia in questa emblematico passaggio il fantasma del Calamandrei dell’Assemblea Costituente[14].
L’attività creativa, in conclusione, è semmai delle Sezioni unite, non del giudice amministrativo. Per quanto discutibili possano essere le norme sulla giurisdizione, modificare la loro portata non spetta ad un giudice, nonostante collocato al vertice del sistema giudiziario. In questo senso l’enfatizzazione della incerta nozione di “violazione delle norme europee” appare un ulteriore tentativo di aggirare tale ineluttabile ostacolo[15], ed a poco vale, se non ad indebolire ulteriormente l’argomentazione, spostare il focus dal concetto di rifiuto di giurisdizione (espressamente sconfessato dalla Consulta) al preteso difetto assoluto di potere giurisdizionale[16].
4. Verso una nuova stagione per i controlimiti?
La specialità del giudice amministrativo, quindi, viene nuovamente messa in dubbio. Torna la questione “istituzionale”, lo scontro si riaccende, seppure in maniera apparentemente felpata.
Si riapre la partita, e la parola a questo punto passa al giudice europeo.
La Cassazione alza la posta e prende di mira l’esegesi fornita dalla Consulta nel 2018 sulla nozione di motivi inerenti alla giurisdizione, contenuta nell’art. 111, ultimo comma, Cost.
Prima di tutto bisognerebbe chiedersi se la Corte di giustizia sia legittimata a perimetrare il concetto di giurisdizione ex art. 111, ultimo comma, Cost., o se si tratta di una nozione che resta affidata all’autonomia procedura degli Stati. In tal senso ha statuito recentemente proprio la stessa Cassazione[17], che ora però ripropone al giudice europeo la questione.
Ove la Corte di giustizia decida di riperimetrare nuovamente i confini del suo apprezzamento anche nei rapporti con le Corti supreme degli Stati, come già con la sentenza Puligienica è sembrata prefigurare, probabilmente la questione sarà destinata a tornare in Corte costituzionale[18].
Anche su questo punto mi tocca correggere il tiro, rispetto all’idea, recentemente espressa, che vicende di questo tipo difficilmente possano portare all’attivazione dei controlimiti, come nel caso Taricco[19].
Se infatti i giudici del Lussemburgo prenderanno una posizione contro l’esegesi della Corte costituzionale il problema si porrà, almeno sotto due concorrenti profili.
Il primo riguarda il modello oggettivo di giurisdizione che la giurisprudenza europea in materia (Fastweb, Puligienica, Lombardi, Archus) configura. Esso pare contrastare con un modello costituzionale di tutela dell’interesse legittimo (artt. 24, 103 e 113 Cost.) che non è di regola al servizio di interessi mancanti di «un solido collegamento» con l’anelato bene della vita, la cui protezione finirebbe per tradursi in un malcelato «espediente per garantire la legalità in sé dell’azione amministrativa»[20].
Il secondo riguarda la attualità istituzionale del giudice amministrativo nel nostro ordinamento e la idoneità dell’art. 111, ultimo comma, Cost., e soprattutto dell’art. 25 Cost. in tema di precostituzione per legge del giudice naturale, ad ergersi come principi fondamentali, controlimiti rispetto al Golem europeo evocato di nuovo dalla nostra Cassazione, che sembrava invece aver spento la vita della sua creatura, come il rabbino Loew con quella sfuggita al suo controllo.
Tutto ciò in un contesto generale in cui si assiste al prepotente ritorno sulla scena dei «cavalieri dell’apocalisse»: «Servizio giustizia, ragionevole durata, abuso del processo», che contribuiscono da svariati anni all’invasione di campo delle Sezioni unite, proprio assieme all’annosa questione della legittimazione nel contenzioso in materia di appalti; tematica, quest’ultima, fors’anche decettiva, nella misura in cui tale contenzioso, fatto da operatori sostanzialmente privati, porta il giudice amministrativo lontano dalla sua profonda ragion d’essere[21].
Se tale questione dovesse giungere nuovamente fino alla Consulta, dopo l’intervento del giudice europeo, sarebbe un’occasione preziosa per fare il punto sulla situazione generale e sulla reale portata, oggi, del principio di cui all’art. 25 Cost., da anni sottoposto a un processo di costante erosione, spesso in via “creativa” giurisprudenziale, a causa di una rinnovata idea di fondo di “giurisdizione”, non più percepita come questione di ordine pubblico processuale[22].
Vero è che le sentenze della Corte sulle quali è stato richiamato il parametro dell’art. 25, comma 1, Cost. sono quelle in cui forse maggiormente è intervenuto un bilanciamento con altri valori, primo fra tutti quello di un’efficiente organizzazione del “servizio giustizia”[23], ma forse a questo punto, entrando in gioco anche gli artt. 24, 103, 111, ultimo comma, Cost. e 113 Cost., sarebbe un’altra storia.
[1] G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. proc. amm., 2019, 1124-1125.
[2] Cass., Sez. un., 6 febbraio 2015, n. 2242; Id., 29 dicembre 2017, n. 31226, che si occupa di una situazione simile a quella scrutinata dalla Cassazione con la pronuncia in commento: la Cassazione ha, infatti, cassato con rinvio una sentenza del Consiglio di Stato che avrebbe negato tutela alla società ricorrente, ritenendo insussistenti legittimazione e interesse al ricorso in ragione della ravvisata legittimità della esclusione dalla gara.
[3] Cfr. Cass., Sez. un., 6 marzo 2020, n. 6460.
[4] Con riguardo alla possibilità di far valere il rifiuto di giurisdizione, dopo la sentenza della Consulta, osserva F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Treccani, Libro dell’Anno del Diritto 2019, e in Id., Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019: «una cosa è voler censurare l’interpretazione evolutiva della figura, altra negarne l’esistenza in assoluto» (308-309), con espresso richiamo al classico di M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 197. Poi aggiunge: «In tal senso sembrerebbe si stiano del resto già orientando la Sezioni Unite successivamente alla sentenza n. 6/2018, laddove hanno affermato che “merita convinta adesione” la giurisprudenza maggioritaria della Corte di cassazione che, pur disattendendo l’impostazione fondata su di un concetto evolutivo o dinamico o funzionale della giurisdizione, nondimeno ritiene sindacabile l’aprioristico diniego di giustizia, soprattutto in caso di violazione di norme sovranazionali con l’esito di preclusione dell’accesso alla tutela giurisdizionale» (313, in nota 9 la menzione di Cass., Sez. un., 30 luglio 2018, nn. 20168 e 20169).
[5] Cfr. Cass., Sez. un., 15 novembre 2018, n. 29391; Id., 17 dicembre 2018, n. 32622, secondo la quale: «la non sindacabilità ex art. 111, comma 8, Cost., delle violazioni del diritto dell’Unione europea e del mancato rinvio pregiudiziale ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali (nella specie, il Consiglio di Stato), è compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato ad esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione».
[6] R. Villata, La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., 2018, 347.
[7] R. Villata, op. e loc. ult. cit.
[8] Tar Lazio, sez. II-ter, 8 aprile 2019, n. 4517.
[9] Tar Calabria, sez. I, 10 gennaio 2020, n. 15.
[10] L. Bertonazzi, La giurisprudenza europea in tema di ricorso incidentale escludente, in Dir. proc. amm., 2020, 543.
[11] L. Bertonazzi, op. ult. cit., passim.
[12] R. Villata, op. ult. cit., 341.
[13] Interpretazioni “creative” di questo genere si susseguono, mostrando l’attuale persistente incertezza in tema di riparto di giurisdizione. Si pensi alla recente giurisprudenza della Cassazione che ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nelle vicende relative all’esecuzione del rapporto di concessione, ribaltando un consolidato diverso orientamento. Cfr. Cass., Sez. un., 8 luglio 2019, n. 18276, in Dir. proc. amm., 2020, 506, con nota critica di C.E. Gallo, La giurisdizione esclusiva in materia di concessioni ridisegnata dalla Corte di Cassazione, il quale osserva: «è evidente … che il giudice non può obliterare il dettato normativo e che l’orientamento giurisprudenziale è una conseguenza del dettato normativo non un elemento alternativo al medesimo» (511), prospettando altresì il sospetto che questo nuovo orientamento della Cassazione sia «una sorta di risposta all’intervento della Corte costituzionale … che ha escluso la possibilità per la Corte di Cassazione di sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale» (518).
[14] Sul punto mi permetto di rinviare a G. Tropea, La specialità del giudice amministrativo, tra antiche criticità e persistenti insidie, in Dir. proc. amm., 2018, 889 ss.
[15] A. Travi, Pronunce della Corte di Strasburgo e revocazione delle sentenze: un punto fermo della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2017, 1271.
[16] Che si ha, sempre secondo Corte cost. n. 6/2018: «quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento)» (punto 15 della motivazione in diritto).
[17] Cfr. Cass., Sez. un., 17 dicembre 2018, n. 32622, cit., secondo la quale, fra l’altro: «la previsione di un limite al sistema di impugnazioni è funzionale al principio di certezza del diritto (Cass. Sez. U. 27/12/2017, n. 30994; Cass. Sez. U., ord. 11/04/2018, n. 8984), cardine dell'ordinamento giuridico anche Eurounitario, siccome teso a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia (Corte Giustizia, 03/09/2009, in causa C-2/08, Olimpiclub; Corte Giustizia, 30/09/2003, in causa C224/01, Kobler; Corte Giustizia 16/03/2006, in causa C-234/04, Kapferer)».
[18] Sulle possibili modalità di intervento della Consulta, se in via incidentale o in sede di conflitto di attribuzioni, v. P. Tomaiuoli, L’altolà della Corte costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2016), in www.giurcost.org, 24 gennaio 2016.
[19] G. Tropea, op. ult. cit., 1120.
[20] Corte cost., 13 dicembre 2019, n. 271, richiamata da L. Bertonazzi, op. ult. cit., 552.
[21] R. Villata, La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai «cavalieri dell’apocalisse»?, in Riv. dir. proc., 2017, 111.
[22] Si v., per tutti, G. Verde, La Corte di Cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Dir. proc. amm., 2013, 367 ss.
[23] Cfr. N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2014, 210.
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