ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sul destino dell’Europa – Parte seconda. Intervista di Marco Dell’Utri a Roberta De Monticelli, Donatella Di Cesare, Luisa Passerini e Marina Sereni
di Marco Dell’Utri
Sommario: 1. Le domande - 2. La scelta del tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus ?
4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
2. La scelta del tema
Marco Dell’Utri Non più di tre mesi fa, questa rivista ritenne opportuno sollecitare una riflessione a più voci sul destino dell’Europa.
L’iniziativa, in larga misura, traeva motivo dall’osservazione, in piena crisi pandemica, dell’ennesima dimostrazione di incapacità, dei diversi governi europei, di reagire, nei termini di una spontanea solidarietà, attraverso l’adozione, se non di comuni politiche, di strategie o azioni coordinate, destinate a far fronte alle nuove e improvvise difficoltà dei paesi maggiormente colpiti dalla violenza dell’epidemia.
Sembrava, allora, che l’istinto egoistico o conservativo che aveva accompagnato le reazioni politiche delle classi dirigenti continentali alla crisi economica del 2008, alle sempre più diffuse insofferenze nei confronti delle istituzioni europee (fino all’abbandono della Gran Bretagna) o, ancora, alle vicende dell’immigrazione africana e mediorientale nei territori europei, fosse tornato a prevalere su quell’antico disegno di integrazione politica che aveva animato le visionarie prospettive dei governanti europei usciti dalle macerie della seconda guerra mondiale.
Una riflessione meno frettolosa, o emotiva, sulle odierne difficoltà del progetto politico europeo – scrivevamo – avrebbe potuto agevolare una comprensione più adeguata delle cause del (prefigurabile?) fallimento del disegno dell’Unione continentale, invitando a ricercarne le eventuali origini in una più radicale crisi dell’intera cultura o della civiltà occidentale, presa tra gli istinti predatori o distruttivamente nichilistici che animano (o rianimano) gli egoismi neocapitalistici, e le (pur sostenute) declamazioni dei diritti di emancipazione delle persone e delle comunità politiche.
Su queste premesse, ritenemmo utile sollecitare una riflessione sui riconoscibili limiti dell’originario progetto eurounitario del secondo dopoguerra, o sulle eventuali carenze delle classi dirigenti del secondo Novecento.
Nel quadro del discorso che coinvolge l’impegno culturale del giurista – provavamo a interrogarci – sembrava non ozioso domandarsi se l’orizzonte di un nuovo inizio avrebbe potuto individuarsi in un percorso inverso a quello originariamente avviato negli anni ‘50: ossia in un cammino che, lungi dal muovere dall’alto (da una preliminare ‘ingegneria’ delle istituzioni del potere), sapesse porre al centro del progetto europeo il valore ‘sovrano’ della persona e delle sue prerogative di elaborazione delle istanze di senso, capaci di valorizzarla fuori da una mortificante prospettiva politica ‘difensiva’, ridotta a una mera gestione amministrativa della sua sola sopravvivenza biologica.
Una prima parte di questa riflessione collettiva è stata pubblicata su questa rivista domenica 3 maggio 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), attraverso la proposizione degli interventi di Giuliano Amato, di Massimo Cacciari, di Virgilio Dastoli e di Walter Veltroni.
A distanza di breve tempo, gli eventi che si sono andati succedendo, di settimana in settimana, hanno via via incoraggiato, da un lato, l’adozione di letture più ottimistiche sul senso di realtà del sentimento eurounitario (l’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE; la predisposizione di una linea di credito agevolata e senza condizionalità nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; la messa a punto del c.d. SURE per il sostegno dei lavoratori; la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund, di recente definita in seno al Consiglio europeo) ma, dall’altro, la riaffermazione di prese di posizione di segno contrario, inclini a negare alcuna adeguata giustificazione all’assunzione di politiche di finanziamento o di sostegno economico ai singoli paesi europei maggiormente colpiti dalle sopravvenienze, al di fuori dei parametri di equilibrio già negoziati, o comunque in assenza di adeguate garanzie di corrispettività (la ferma opposizione dei c.d. ‘paesi frugali’ al Recovery Fund, la decisione del Tribunale costituzionale tedesco sulla dimensione dell’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE).
Permane, dunque, la sensazione che le linee del confronto politico, nel quadro delle istituzioni di vertice dell’Unione, non divergano in ragione della diversa lettura dei percorsi di realizzazione degli interessi europei, bensì della stessa configurabilità di un interesse europeo distinto e assorbente rispetto all’egoistico perseguimento degli interessi dei singoli attori nazionali.
Nel ‘limbo’ della condizione attuale – che appare più simile a uno ‘stallo’, che a una fase di procedimento politico – si collocano le riflessioni proposte da quattro donne diversamente coinvolte dalle responsabilità civili e politiche del nostro tempo: Roberta De Monticelli e Donatella Di Cesare, entrambe impegnate nell’approfondimento degli studi e nella diffusione del pensiero filosofico, non solo sul piano accademico, ma anche al più generale livello del dibattito della società civile; Luisa Passerini, storica della cultura e studiosa sensibile e attenta alle vicende della storia europea e, infine, Marina Sereni, politica a tutto tondo, attualmente responsabile sul piano istituzionale, quale Viceministra degli Affari Esteri italiani.
3. Le risposte
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
Roberta De Monticelli Lo hanno visto tutti: proprio mentre non ci speravamo più, una grande opportunità si è riaperta con la fase Post-COVID19. Questo inaspettato evento, vale a dire un impegno nuovo in direzione di una più vera unione fiscale, è stato promosso sostanzialmente da parte dei due paesi leader, su iniziativa della Francia di Macron e con una sorprendente nuova disponibilità da parte della Germania di un’Angela Merkel che passerebbe alla storia se le cose andassero avanti nel modo giusto. Purtroppo noi italiani facciamo ancora in tempo a sabotarlo o ad azzopparlo nella sua grande portata – materiale e simbolica. Perché troppo a lungo è prevalsa da noi una nozione sbagliata di “solidarietà europea”. Insisto: quella vera è quella che va in direzione di un’unione fiscale, una delle unioni ancora non realizzate – che comporterebbe un’autorità fiscale comune, e alla lunga quindi una comune politica fiscale, come del resto ha recentemente suggerito addirittura Christine Lagarde, invitando l’UE a darsi degli strumenti fiscali comuni, perché non tutto si può fare attraverso il controllo della moneta. Vorrei più tardi riprendere il tema dell’idea sbagliata di solidarietà, ma intanto terrei a sottolineare quanto la circostanza che la svolta di oggi sia dovuta all’iniziativa di due capi di Stato o di Governo riproduca il modo in cui quasi sempre sono avvenute le grandi svolte nel processo di integrazione europea, avviato idealmente con la fondazione del Movimento Federalista Europeo e materialmente col Mercato Comune e le Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Le grandi svolte sono in generale rese possibili dalle decisioni politiche nazionali – perché è ancora a quel livello che il potere politico si esercita: ma tutto, poi, dipende dalla giustezza delle idee e dall’efficienza delle istituzioni sovranazionali esistenti (esistono, eccome!) – e quindi dalla preparazione di chi le anima e anche del supporto che esse hanno al livello sovranazionale. Del resto, come sempre avviene, le decisioni politiche sono essenzialmente risposte a eventi non previsti: e qui sembra si stia avverando una specie di profezia emessa da Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, in occasione dell’entrata dell’Italia nell’Euro, nel dicembre 2001: “Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Questo è politicamente impossibile proporlo ora. Però un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti verranno creati” (cit. in G. Costa 2018, Giacomo Vaciago in Search of a Soul for Europe, “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, 2018, n. 4, pp. 359-376).
Donatella Di Cesare L’ideologia dell’antiutopismo, che si è andata affermando dopo il crollo del Muro di Berlino, ha provocanti enormi danni. Anzitutto sulla politica che, priva di una visione del futuro e di un afflato filosofico, si è ridotta a mera governance amministrativa. Come se il suo compito si riducesse semplicemente a risolvere, più o meno bene, i problemi urgenti che di volta in volta si pongono. Così si è imposta l’idea che non ci sarebbe alternativa – there is no alternative. Questo modo svilente di intendere la politica, che non può immaginare vie diverse dal capitalismo, ha avuto effetti nocivi per l’Europa, quel grande sogno che non sogniamo più. Anziché elevare lo sguardo, abbiamo abbassato gli occhi, assecondando così i nuovi sovranismi. Le frontiere sono state rafforzate – intorno all’Europa, ma anche fra gli Stati-nazione. Prima sono stati respinti i migranti; poi, con l’esplodere della pandemia, sono riaffiorate le vecchie ombre dell’antico e inquietante nazionalismo. Mai come ora l’Europa è l’orizzonte a cui occorre guardare.
Luisa Passerini Premetto che è mia intenzione rispondere a questa intervista condivisa dal punto di vista delle mie competenze nel campo della storia culturale, senza pretese generaliste.
La domanda tocca un tasto dolente, in senso sia collettivo sia individuale, almeno per quanto mi riguarda personalmente. Dal primo punto di vista, basta aver ascoltato alla radio la rassegna stampa mattutina nelle ultime settimane per rendersi conto di come la speranza in un’Europa unita alternativamente affiori e affondi: dopo l’amarezza per l’incomprensione da parte dell’Unione Europea verso i problemi dell’Italia, i segni di disponibilità europea sono apparsi confortanti ma sono sbiaditi quando si è passati alla messa in atto concreta, e si sono nuovamente rafforzati agli annunci di prestiti da parte della Banca Centrale Europea. Vedo queste alternanze non solo come disappunti e compiacimenti a proposito di vantaggi economici, ma anche come sintomi delle disavventure del vecchio sogno dell’unità europea. È sempre stato un sogno, e tanto più sembrava tale in uno dei periodi cruciali della storia d’Europa, gli anni tra le due guerre, specialmente nel paese che ora ci appare più lontano dal continente europeo, il Regno Unito. Proprio a metà degli anni Trenta, di fronte all’ascesa di Hitler, la parola d’ordine dell’Europa unita assunse nuovo significato nei circoli progressisti britannici. Nonostante il suo carattere indefinito, quello slogan riusciva a nutrire l’idea di una federazione di stati europei e a significare solidarietà contro il nazi-fascismo. Se era utopico e irrealizzabile dal punto di vista storico, costituiva tuttavia un germe di idee di libertà e un potenziale legame tra popolazioni diverse. Pochi anni più tardi, un giovane inglese, Frank Thompson, dopo essere stato paracadutato in Serbia all’inizio del 1944, scriveva parole significative sulla prospettiva di un’Europa unita e di quale preparazione avrebbe richiesto sul piano culturale. Thompson – che faceva parte dello Special Operation Executive, il servizio militare segreto creato da Winston Churchill nel 1940 – era impegnato nella Resistenza antinazista in Bulgaria, dove fu giustiziato nel maggio del 1944 dal governo bulgaro filo-Asse. In quegli anni di catastrofe pressoché mondiale aveva scritto alla madre e al fratello Edward lettere piene di entusiasmo per un’unione sovranazionale di stati europei. La collocava fermamente nel contesto dell’umanità come un tutto, osservando come sono deboli e indifesi gli esseri umani se non si uniscono, dopo tutte le sofferenze patite per millenni. Si riprometteva di contribuire alla realizzazione di quella prospettiva con un progetto per la comunicazione tra i linguaggi europei, basato sulle sue competenze nel campo della linguistica comparata: ciascun bambino doveva imparare in modo attivo una lingua di un determinato gruppo linguistico e in modo passivo quella di un altro, entrambe scelte sulla base di similarità e contrasti rispetto alla sua lingua madre. Mi piace ricordare che le speranze di Thompson andavano nello stesso senso del romanzo di Roman Gary, Education européenne, scritto tra il 1941 e il 1944.
Dal mio punto di vista personale, negli ultimi anni avevo quasi completamente perso la fiducia nel potenziale della parola d’ordine di un’Europa unita, rispetto a quello che ancora credevo negli anni 1990. Si era ormai quasi del tutto dissolta la speranza ingenua (da me condivisa con altre e altri) che i contributi del nostro lavoro intellettuale potessero avere a tempi relativamente brevi un potenziale liberatorio sul piano delle politiche dell’Europa. La distanza che ci separa dall’inizio del secolo Ventunesimo ha segnato un’ulteriore caduta di illusioni e accentuato la consapevolezza delle difficoltà di avvicinarci in questa fase storica all’Europa di giustizia, libertà, democrazia e accoglienza adombrata nel 1941 dal Manifesto di Ventotene. Nei mesi recenti, mi è parso che la catastrofe che abbiamo vissuto potrebbe restituire significato a una comunicazione di base su un piano culturale come quello che albergava il progetto escogitato da Frank Thompson. Ma non nel senso ottimistico di “ricominciare dalla cultura” per costruire un’Europa politicamente unita – qualunque sia lo statuto, quasi certamente mitico, della frase di Jean Monnet. No: nel senso più specifico e modesto di usare il nostro mestiere, il lavoro intellettuale svolto da ciascuno di noi sul suo terreno di ricerca e trasmissione del sapere, per contribuire a re-intravedere una qualche forza utopica di quell’antico slogan, collocandolo in un contesto mondiale. Senza fare scale di comparazione tra la nostra esperienza e quella di altre catastrofi nella storia, in molti abbiamo potuto intuire la verità di parole come quelle di Frank Thompson per il nostro presente. La nostra catastrofe è stata accompagnata da un sommovimento emotivo, indotto dal suo intervento penetrante su scala locale, ma anche dalla sua estensione globale. Tutto questo ci spinge a tentare di porre ogni nostro impegno significativo in quella dimensione.
Assumersi compiti limitati con intenti che cerchino di tener conto del mondo richiede uno sforzo utopico, ma anche la consapevolezza che l’utopia è irrealizzata per definizione. Ci serve come banco di prova o cartina al tornasole rispetto al presente. Quello che ci vuole è il coraggio di stabilire e mantenere una tensione tra l’utopia e l’attuale realtà, non l’illusione di realizzarla.
Marina Sereni L’Europa moderna è il luogo di nascita dello Stato nazionale. Lo Stato nazionale è anche la forma che si è data storicamente - a partire dal 1789 - la democrazia a suffragio universale, che resta l'elemento imprescindibile di ogni progetto di integrazione politica ed economica basato su valori condivisi e sulla tutela dei diritti fondamentali. La sfida che ci troviamo davanti è quindi quella di dare legittimazione democratica piena a quell'embrione ancora immaturo di "Stati Uniti d'Europa" che è oggi l'Unione europea.
Il percorso sarà ancora lungo. Come indicato nel contributo italiano alla discussione nel quadro della prossima Conferenza sul futuro dell'Europa, bisogna partire dal basso, creare un autentico discorso democratico pan-europeo, superando la logica dei singoli discorsi nazionali sull'Europa, spesso fra loro incompatibili. È da una coscienza europea condivisa, da partiti politici che si collochino su una prospettiva transnazionale e pan-europea, che scaturirà un dibattito democratico veramente europeo, possibile radice di quel futuro super-Stato europeo a base democratica in cui vi sia accountability.
In questo senso, il progetto europeo ha ragion d’essere - e maggiori chance di riuscita - se concepito come un “cantiere vivo”, un progetto che persegue pragmaticamente un “bersaglio mobile” e che è pertanto capace di adattarsi alle necessità storiche. Credo che la crisi del Coronavirus ne sia la prova: dopo un’iniziale fase di sgomento in cui abbiamo effettivamente visto emergere egoismi che hanno deluso molti europei, è prevalsa la consapevolezza delle classi politiche che nessuno può uscire dalla crisi da solo o, peggio, a scapito di qualcun altro. Seppure con fatica, le strade della responsabilità e della solidarietà sono risultate essere le uniche percorribili, proprio perché rispondenti ad una logica pragmatica, capace di superare i tabù ideologici. Le scelte già operative sono numerose e straordinariamente importanti: acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE per 750 miliardi di Euro; 200 miliardi della BEI per gli investimenti e la liquidità delle imprese; una linea di credito agevolata e senza condizionalità per 200 miliardi nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; 100 miliardi per SURE con cui si potranno sostenere le misure di protezione per i lavoratori. A tutto questo si è aggiunta la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund da 750 miliardi di Euro, di cui 500 in forma di contributi a fondo perduto, da mettere a disposizione dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi del Covid. Questa proposta – che si costruisce attraverso la garanzia del Bilancio Pluriennale europeo – per diventare effettiva dovrà essere accettata dal Consiglio Europeo (cioè dai 27 governi degli Stati Membri) e il Parlamento europeo avrà l’ultima parola. Quindi ci aspetta ancora un negoziato impegnativo, perché sappiamo delle resistenze che ancora ci sono. Ma il dato politico rimane: siamo di fronte ad un pacchetto di misure di valore eccezionale che prefigurano un salto di qualità del progetto europeo destinato a rimanere anche per il futuro. E la capacità di costruire alleanze e dialogo da parte del nostro Paese, in particolare con Francia e Germania, è stata determinante.
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2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
Roberta De Monticelli A me non sembra che si possa parlare di fallimento, ma solo di realizzazione incompiuta, fortemente deficitaria, costantemente minacciata – e allora si ci può chiedere perché. Ma – per fare un esempio di questi giorni: se per l’ennesima volta il Parlamento italiano viola la legge europea e se ne impippa delle raccomandazioni e sanzioni, rifiutando di approvare una disciplina trasparente sugli appalti delle spiagge (che rispetti fra l’altro il diritto dei cittadini a che siano preservate spiagge libere), questo prova che l’UE esiste, ma alcuni Stati nazionali ne riconoscono la parte di sovranità solo quando fa loro comodo, ad esempio quando chiedono “solidarietà”. Comunque l’esempio che ho fatto è già un inizio di risposta alla questione del perché la realizzazione del progetto politico è così deficitaria e così lenta. Il problema di fondo è la riluttanza dei governi nazionali a cedere progressivamente fette di sovranità dove sarebbe necessario – in funzione dell’ambizione molto più grande e “storica” di creare una sovranità democratica sovranazionale o federale Europea. Difendendo la propria sovranità anche contro i patti sovranamente sottoscritti, i governi nazionali si condannano all’impotenza, lasciando spazio alla logica degli interessi delle potenze nazionali. Potenze ormai piccine, su scala globale. E di questo forse alcuni dei leader europei più avveduti, in Francia e in Germania e forse anche in Italia (ora penso soprattutto a Gentiloni) si stanno accorgendo. Per “condanna all’impotenza” intendo ad esempio il voto all’unanimità invece che a maggioranza qualificata da parte delle rappresentanze nazionali nel Consiglio, sulle questioni cruciali per la sopravvivenza dell’UE: non a caso – questo sì è un sogno che bisogna pregare si avveri – si medita, dove si può, di ridurne l’impiego e soprattutto di levarlo di mezzo per le decisioni da prendere ora. E’ chiaro che la concorrenza fra Parlamento e Commissione da una parte (che sono, com’è noto, gli organi legislativo ed esecutivo dell’UE) e il Consiglio dall’altra (dove decidono infine i leader politici nazionali) – costituisce l’ostacolo maggiore al processo di integrazione europea: un enorme ostacolo piantato di traverso sui binari di quel processo. Perché pone l’uno contro l’altro, virtualmente, da un lato un vero Parlamento sovranazionale, che esprime un vero esecutivo sovranazionale, e dunque virtualmente una democrazia sovranazionale, effettivamente cosmopolitica: cioè il diavolo stesso per i nostri sovranisti e i movimenti neo-tribali italiani ed europei. E dall’altro lato un organismo intergovernativo, sostanzialmente un coro stonato, che fa eco, ciascuno secondo le sue note, al duo franco-tedesco. Il solo decisivo, più spesso discorde e ora come nei momenti buoni concorde. E bisogna pregare, dicevo, che l’accordo duri fino alla miglior realizzazione possibile del progetto attuale dei Recovery Funds: per evitare che tutto rientri nella triste norma passata e si avveri l’altra concezione sulla natura effettiva dell’UE, la concezione della Realpolitik che vede nell’UE “nient’altro che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e Germania” (Costa 2018, p. 360).
Non credo quindi che ci siano né motivi politici contingenti né una crisi culturale o di civiltà alla base della fatica e della precarietà del progetto UE. E’ piuttosto la stessa altezza etico-politica, e la grandiosità istituzionale dell’idea, che ne rende tanto difficile la realizzazione – pensiamo al fatto che anche dal punto di vista teorico dissociare l’idea di sovranità democratica da quella di nazione è una novità quasi assoluta, che introdusse Altiero Spinelli in molti suoi scritti (e non solo nel Manifesto di Ventotene, il solo che si conosce), e non è stata sufficientemente discussa. E dal punto di vista pratico, è una novità assoluta che il processo di costituzione di una Federazione – gli Stati Uniti d’Europa – sia iniziato pacificamente, per iniziativa delle libere volontà personali, nell’accordo all’inizio quasi unanime delle rappresentanze dei popoli coinvolti. Quando questo processo sarà finalmente giunto a compimento, la grandezza degli Adenauer, dei De Gasperi, degli Schumann e dei Mitterrand, perfino dei Monnet e poi via via di coloro che hanno reso possibili le grandi svolte, impallidirà di fronte alla grandezza del pensiero di Altiero Spinelli, forse la sola aquila teorica del pensiero politico europeo del Novecento. Perché nella storia come nella vita quotidiana tale è il rapporto fra le idee e le forze: le idee da sole non hanno forza, ma le forze possono essere guidate nelle direzioni giuste solo da chi ha le idee, e dalle istituzioni normative che le realizzano.
Donatella Di Cesare Sarebbe un giudizio avventato parlare di «fallimento» per un progetto nato solo qualche decennio fa. Ma è indubbia la profonda delusione che serpeggia ovunque. Nella memoria di molti popoli europei resterà indelebile la mancanza di solidarietà avvertita durante la catastrofe del coronavirus. Per l’ennesima volta l’Unione ha rischiato di rivelarsi un’assemblea scomposta di com-proprietari che, a colpi di compromessi vacillanti, si contendono lo spazio per difendere ciascuno i propri interessi. E proprio qui sta il grande nodo politico: quello dello Stato-nazione. Né motivi contingenti, né crisi di civiltà. L’Europa si è sempre considerata in crisi, già solo per la sua provenienza enigmatica, per la sua storia tormentata, per sua identità eccentrica. Distinti in questo dai greci, così orgogliosamente autentici, gli europei, si sono sempre sentiti altri e estranei. L’Europa avrebbe dovuto diventare non solo l’inedito luogo comune di una riscoperta della politica, ma anche il laboratorio dove sperimentare nuove forme di cittadinanza, sganciata dalla filiazione e dalla nascita, e sbarazzarsi del mito tossico della nazione. Purtroppo quando è stato il momento di mettere alla prova i diritti umani, accogliendo chi chiedeva rifugio, la patria di quei diritti ha tradito se stessa.
Oggi l’Europa è all’esterno un Iperstato-nazione, un guardiano dell’immunità securitaria, che difende poliziescamente le proprie frontiere, all’interno un coacervo di Stati-nazione che difendono ciascuno la propria pretesa identità Al contrario, avrebbe dovuto essere da tempo una forma politica sovra-nazionale. Mentre si immaginava una cittadinanza europea basata solo sulla residenza, aperta perciò agli stranieri, in grado, anzi, di inventare lo statuto inedito del «cittadino europeo», privo di una nazionalità interna all’Europa, tutto è finito in un insensato raddoppiamento dell’appartenenza, in un duplicato privilegio della nascita. All’apertura progressiva dello spazio Schengen, che dal 1985 avrebbe dovuto agevolare la libera circolazione, ha fatto seguito l’immunizzazione ossessiva delle frontiere. La forma politica dello Stato e il mito della nazione sono il grande ostacolo dell’Europa.
Luisa Passerini Una delle contraddizioni storiche che vedo tra il progetto politico originario dell’Europa unita e il presente si colloca a monte dell’unità basata sull’euro, ma a mio parere ha inciso su tutto l’insieme progettuale. Quel disegno si dava come inclusivo dell’apertura dei confini geografico-culturali e della realizzazione dell’uguaglianza di genere, mentre assistiamo al fallimento della messa in pratica di tali principi e delle promesse fatte su questi temi. Metto in chiaro fin da subito che per uguaglianza di genere non intendo né una semplice rivendicazione di parità tra donne e uomini né una valorizzazione delle donne in quanto donne. Parlo invece di un riconoscimento dei diritti in tutte le scelte di genere che possa incidere profondamente nel modo di intendere la democrazia e la cittadinanza. Noto di passaggio che a tutt’oggi la cittadinanza europea non è data indipendentemente dalla cittadinanza nazionale; conferisce una serie importante di diritti nell’ambito europeo (che variano – come gli obblighi – a seconda della condizione di lavoratore subordinato o indipendente oppure studente), ma la prima è derivata e aggiuntiva rispetto alla seconda, e quindi possono darsi delle discrasie, anche gravi, tra i diritti riconosciuti ai cittadini a livello europeo e a livello nazionale.
Rispetto all’alternativa proposta dalla domanda, ritengo che motivi politici contingenti abbiano certamente avuto un peso, ma siano collegati a una forma di pregiudizio che è l’opposto della civiltà. Considero che sia tale l’insistenza su “valori europei”, “identità culturale europea”, “patrimonio culturale europeo” concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa. Per sollevarci da questo pantano ci vuole l’impegno in una critica radicale rispetto a quei vecchi discorsi, che in parte c’è stato nel corso di un lungo dibattito intellettuale su scala internazionale per quanto riguarda i valori e l’identità. Recentemente c’è stata anche la critica del patrimonio non solo dal punto di vista teorico e storico, ma da quello economico, come hanno fatto Luc Boltanski e Arnaud Esquerre mostrando l’intreccio tra locale e multinazionale nello sfruttamento del marchio della cultura europea a fini turistici. Tutto questo parla di fine del primato della civiltà europea, in un modo che la retorica pubblica dell’UE non riconosce adeguatamente. Da molto tempo sono convinta della rilevanza anche politica di una critica in profondità – non solo concettuale ma anche terminologica (pensiamo a parole come “migrante” o “straniero”) – delle forme di europeità ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Non ci si può esimere dal farsi carico di questo retaggio spesso funesto, il lato oscuro dell’Europa: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio. Bisogna eroderlo dall’interno, capire che non si può evitare di sapersi europei, e nello stesso tempo interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri: che cosa significa “post-coloniale” nell’Europa di oggi? “post-imperialista”? “decoloniale”? Se non si pongono queste domande – in qualsiasi forma purché con chiarezza – non resta che crogiolarsi nella “crisi di civiltà”, espressione vaga e vittimistica. Non si tratta di restaurare le crepe di una civiltà che già teneva a stento, spesso ai danni degli altri. Certo non è possibile saltare via dalla posizionalità ricevuta. Si può invece accettare di sperimentare una specificità europea, propria di una tradizione molteplice e contraddittoria, senza smettere di esplorarne i debiti e le aporie. Cercando di dire sempre di dove parliamo, da quale posizione geopolitica e intellettuale, e con quali vantaggi o svantaggi.
Marina Sereni Non condivido affatto l’assunto secondo cui quello a cui abbiamo assistito sinora sarebbe un fallimento del progetto europeo. Dovremmo parlare di fallimento solo facendo nostra la logica massimalista secondo cui, fino a quando non si avranno gli “Stati Uniti d’Europa”, tutti i progressi sul fronte dell’integrazione sono irrilevanti. Non è su questa logica che abbiamo costruito il percorso europeo. E se lo avessimo fatto, probabilmente ci saremmo trovati con risultati molto inferiori di quelli che comunque abbiamo ottenuto in questi sessant'anni.
Non dobbiamo dimenticare che, pur con tutti i limiti, l’integrazione europea è una storia di successo. E il successo è stato proprio nel cammino, un cammino di compromessi, certo, ma anche un cammino in cui la logica della cooperazione ha sempre finito col prevalere su quella del conflitto. Era quello che aveva in mente Robert Schuman scrivendo la celebre Dichiarazione di cui abbiamo da poco celebrato i settant'anni (“L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”). Il percorso di integrazione, incluso l’obiettivo finale degli “Stati Uniti d’Europa”, va visto come uno straordinario mezzo per prevenire il riaffiorare di conflitti secolari e per gestire l’interdipendenza in maniera cooperativa, nell'interesse primario dei cittadini europei. Se dunque questa è la nostra prospettiva, ne discende non solo la validità dei concetti che ho già menzionato di Europa come “cantiere vivo” e “bersaglio mobile”, ma anche il riconoscimento del successo senza precedenti del progetto europeo.
Il problema è quindi come rinnovare continuamente l’apporto di sostegno politico dei popoli europei ad un progetto di integrazione che vive fasi storiche diverse, in modo che non manchi mai di legittimazione democratica. Al tempo stesso, le forze politiche a sostegno dell’integrazione devono ponderare attentamente l’idoneità del “capitale politico” corrente dell’UE a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi.
Sul piano istituzionale negli anni passati si è rafforzata una dimensione intergovernativa – la sede del Consiglio Europeo in cui le decisioni debbono essere prese con l’unanimità degli Stati Membri – a scapito delle sedi comunitarie, la Commissione e soprattutto il Parlamento Europeo, che pure ha via via assunto un importante ruolo di co-decisione nel processo legislativo europeo. Oggi – tanto più di fronte alla crisi economica che il Covid19 produrrà – tutte le istituzioni sono chiamate a fare scelte coraggiose.
Il rischio di un’Unione europea come nuova “Torre di Babele” è un valido argomento nell’arsenale dei critici dell’UE ed è un rischio reale.
Un esempio concreto di questo rischio non è tanto la Brexit, che è certo stato un evento triste e traumatico ma pur sempre dentro una logica democratica, quanto piuttosto la creazione all’interno dell’Unione di gruppi di Stati membri dalle ambizioni divergenti. Se permettiamo che all’interno dell’Unione si diffonda la sensazione che esiste un’Europa di “serie A” e una di “serie B”, un’Europa dei “forti” e una dei “deboli”, poniamo le basi del fallimento del progetto di integrazione.
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3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus?
Roberta De Monticelli Ho risposto già in parte a questa domanda. Le prassi pedagogiche e progressive presupporrebbero l’assimilazione del pensiero degli Spiriti Liberi del Novecento, un crogiuolo di idee grandiose che forse solo ora cominciano a trovare applicazione, almeno nelle menti di chi può farle fruttare. Per Spiriti Liberi intendo quelli che non rimasero intrappolati nella logica della guerra fredda e delle sue ideologie, e che sarebbero stati del tutto impermeabili alle malinconiche avventure seguite alla cosiddetta fine delle ideologie, dalla filosofia postmoderna ai mostriciattoli generati dalla fusione in dosi e componenti diverse degli elementi illiberali di dottrine hegeliane, marxiste, schmidtiane, heideggeriane, foucaultiane, convergenti in attacchi spesso violenti contro Modernità e Illuminismo/Umanismo (cioè in sostanza contro la ragione teorica e quella pratica, contro le scienze, in particolare economiche e sociali, e la democrazia).
Chi sono questi Spiriti Liberi? Ho già citato il Grande Edificatore, Altiero Spinelli. Fra i suoi amici e sodali ci fu il Grande Imprenditore, Adriano Olivetti. Ci furono un grande scrittore e un grande critico, fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, “Tempo presente”: Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Ci furono tutti gli uomini e le donne del Partito d’Azione, la cui discendenza fatichiamo a riconoscere oggi in Italia, perché è come se avessero perduto lo scintillio e il respiro dell’idealità, cioè della cognizione (anche affettiva, sensoriale) dei valori e disvalori, senza cui l’intelletto analitico (pur assolutamente necessario, con tutte le sue tecnicalità e le sue capacità di calcolo!) non vede abbastanza lontano.
E ne troviamo, in questi “Spiriti Liberi”, di spunti per pensare con onestà e chiarezza alcune delle questioni ove più tristemente è venuta a mancare una sovranità europea, o peggio si è manifestata in violazione dei valori della Carta di Nizza: Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia. Ad esempio i migranti respinti alle porte orientali e meridionali. Ad esempio la questione dell’allargarsi delle disuguaglianze. O le discriminazioni di genere. O la legislazione sugli estremi della vita.
Donatella Di Cesare La subordinazione della politica all’economia che contraddistingue la globalizzazione ha avuto devastanti effetti in ambito europeo. La cosiddetta «troika», cioè Commissione Europa, Banca Centrale e Fondo monetario internazionale, è un’istituzione indipendente, non eletta, che incarna uno stato d’eccezione. Ma questo stato d’eccezione non ha i caratteri delle dittature del passato, dove c’era un’autonomia della politica. Nell’Unione Europea l’eccezione non è transitoria; piuttosto costituisce la regola ed è, anzi, il funzionamento normale. Ciò vuol dire una completa subordinazione della politica all’economia. È questa governance finanziaria lo stato d’eccezione ai tempi del Leviatano neoliberale. Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti, le ambizioni che accomunano i popoli europei avranno poco margine di fronte a questa violenza economica.
Luisa Passerini Nelle circostanze in cui ci troviamo, parlare di prassi pedagogiche e progressive mi sembra doveroso, ma mi pongo molte domande su quale capacità di dar vita a una koinè culturale e politica possano avere tali prassi. Soprattutto mi chiedo: quale tipo di comunità? Con quale disegno politico? Quale ethos? E a questo punto, quale homo oeconomicus? Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli “europei”. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme. Durante le fasi acute della pandemia, le immagini dei profughi ai confini tra Turchia e Grecia erano terrificanti e umilianti per noi europei che assistevamo senza fare nulla, memori dei costosi accordi con Erdogan. Il silenzio sceso improvvisamente sia sugli sbarchi sia sulle voci razziste e xenofobe in proposito non ha cancellato lo scandalo dell’impotenza e assenza di volontà politica dell’Unione Europea rispetto alle mobilità di persone che cercano di attraversano le sue frontiere interne ed esterne. Sì, in Italia c’è stata una parziale regolarizzazione dei migranti e del lavoro nero, ma pensiamo anche ad altri paesi dell’Unione nell’Est Europa, come l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca. È soprattutto rispetto a queste situazioni che l’Europa ha tradito l’ispirazione democratica e universalistica di cui si è a lungo detta portatrice.
Vorrei aggiungere che in questa situazione carica di azioni violente e proiezioni negative, un contributo della storia culturale e orale, umile quanto si vuole ma a mio parere prezioso, è l’analisi del ruolo della memoria e del linguaggio in riferimento all’immigrazione. I temi della libertà, della subordinazione, della democrazia, della differenza culturale e della deprivazione di memoria possono essere posti a due livelli di discorso, quello esistenziale-morale e quello politico-normativo. Il primo pertiene al legame di ogni singola persona con le sue radici e memorie sia culturali sia emotive, legame che permette al soggetto di mantenerle vive nello stesso tempo in cui sviluppa nuove radici e produce nuove memorie nella società di elezione. Il secondo livello concerne il rapporto di una persona migrante con il paese che ha scelto, non solo con le sue leggi ma anche con la cultura diffusa che lo caratterizza. Posso dire per esperienza che quest’ultima non contiene quasi mai solo elementi di razzismo, ma sempre anche di accoglienza e scambio quotidiani nelle scuole e nei quartieri dove ho raccolto testimonianze orali e visive con persone che hanno sperimentato la migrazione.
Marina Sereni L’integrazione giuridica ed economica tra gli Stati membri dell’Unione non ha eguali al mondo per profondità e risultati raggiunti. Dal punto di vista economico, l’integrazione europea ha consegnato ai cittadini decenni di crescita e benessere senza precedenti.
Per trarre il senso di questi benefici, basta dare uno sguardo ad uno studio pubblicato di recente dal Servizio per le ricerche del Parlamento europeo, che ha provato a quantificare i vantaggi economici dell'azione comune a livello europeo e il rischio connesso all’arresto o all’inversione del processo di integrazione nel contesto dell’attuale crisi del Coronavirus: le stime suggeriscono che l'erosione del Mercato unico costerebbe all'economia europea tra il 3,0 e l'8,7 per cento del suo PIL (il "valore aggiunto europeo" perduto in modo permanente); la perdita del potenziale non sfruttato, invece (il cd. “costo della non Europa”), ammonterebbe a circa il 14% del PIL dell'UE in dieci anni.
Ciò detto, non credo sia stato del tutto mancato l’obiettivo di creare una comunità culturale e politica in Europa. Le giovani generazioni, ad esempio, sono e rimangono tradizionalmente le più entusiaste del progetto europeo e con maggiore frequenza affermano di identificarsi con i valori dell’Europa unita e dei suoi simboli. Più in generale, la fiducia degli europei nell’Unione continua ad essere sensibilmente più elevata rispetto a quella nei Governi e nei parlamenti nazionali.
In ciò è possibile, a mio avviso, vedere una prova del superamento almeno parziale del paradigma dell’homo oeconomicus da cui ha preso slancio il processo di integrazione. Un segnale chiaro di tale cambio di paradigma è dato dall’introduzione del concetto di cittadinanza europea, che non entra in competizione con le cittadinanze nazionali, ma anzi le affianca e contribuisce così a solidificare un senso di appartenenza all’Unione che va oltre le tradizionali quattro libertà e il Mercato unico.
Il cambio di paradigma che si intravede nelle stesse linee di sviluppo dell’Unione Europea – green deal, sfida digitale, lotta alle diseguaglianze, gender equality – indica la possibilità di rinnovare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo: la capacità di coniugare libertà economica e solidarietà, quel modello sociale europeo che per molti decenni è stato alla base del consenso verso il processo di integrazione e che oggi – in termini nuovi ma con la stessa ambizione – possiamo rilanciare per riconquistare la mente e i cuori della maggioranza dei cittadini europei.
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4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
Roberta De Monticelli Questo è certamente un buon punto di partenza: e a questo riguardo suggerisco, come letture da rendere antologiche per i nuovi corsi di educazione civica che si vogliono aprire nelle scuole italiane, due grandi libri.
Il primo è Il radicamento di Simone Weil (1942) uno dei grandi “Spiriti Liberi” del secolo scorso, che ci insegna come i diritti individuali si fondano sulla giustizia, ma la giustizia è fatta di ciò che ciascuno di noi deve – agli altri, ma anche a tutte le altre creature, alla terra, ai paesi, al passato, ai patrimoni culturali e ideali, agli ultimi della terra. A proposito di questo, del resto, è un tema ben noto di Simone Weil come di Camus quello di indicare la bellezza come il lato sensibile della giustizia: ed entrambi, Weil e Camus, intensamente lavoravano a una costituente per l’Europa. Oggi c’è un intelligente politico tedesco, Sven Giegold, che ha costituito un movimento insieme per l’Europa e per la pietà della nostra violentata terra, insomma i Verdi-Europei, una concreta speranza di partito multinazionale, in prima istanza italo-tedesco, che sta costituendosi attraverso importanti e seguitissimi Webinar, cui consiglio calorosamente di partecipare.
Il secondo grande libro da comodino e da banco scolastico è Il diritto di essere un uomo – Antologia mondiale della libertà, in cui la filosofa Jeanne Hersch (una specie di venerato maestro per me anche se la conobbi solo dopo esserle del tutto indegnamente succeduta sulla cattedra di filosofia a Ginevra), raccolse nel suo biennio di direzione della sezione filosofica dell’UNESCO (1966-1968) le voci di tutti i popoli, dalle voci antichissime a quelle più moderne, accostando le steli babilonesi ai Voltaire e a Eleonora Roosevelt, che manifestassero un senso per la pari dignità degli esseri umani. Un libro meraviglioso, diviso in sezioni di passi e pagine memorabili, una sorta di breviario cosmopolitico dell’umanesimo di ogni luogo e tempo (ne esiste una recente edizione italiana, Mimesis 2015).
Infine, ai docenti stessi per orientare il lavoro dei ragazzi consiglio la lettura di G. Vaciago (2015), Un’anima per l’Europa, il Mulino, Bologna, e anche del già citato articolo di G. Costa (2018), vedi fine della prima risposta: ammirevole per la sintesi con cui espone e discute non solo le tesi di Vaciago, ma anche di due altri importanti economisti, Zingales, e Ciocca nel suo confronto con lo storico e filosofo Angelo Bolaffi (Bolaffi A. - Ciocca P. (2017), Germania/Europa, Donzelli, Roma). Questi testi, e il saggio di Costa che li discute tutti, sono un ottimo antidoto alla sequela di luoghi comuni radicati nella nostra ignoranza economica e giuridica, e nei residui ideologici dei vari “ismi” che ci portiamo tutti dietro.
Ma vorrei, per concludere, tornare al tema della solidarietà. Oggi il bicchiere della solidarietà europea, dopo l’accordo di massima sui fondi per la ricostruzione, viene presentato come mezzo pieno o mezzo vuoto. Ottimisti e pessimisti si fermano qui: per gli ottimisti tutta la grandezza del progetto europeo originario – e io intendo quello spinelliano – si risolverà anche per l’avvenire in un aumento di questa solidarietà; per i pessimisti l’insufficienza di questo aumento è la miccia che scatenerà ulteriormente i sovranisti. Ma quale concetto di “solidarietà” hanno in mente gli uni e gli altri? Fondamentalmente, trasferimenti di denaro dalle nazioni la cui economia girava e girerà molto meglio a quelle in cui andava e continuerà ad andare peggio. E nelle grida dei più, nei messaggi politici, quasi nessuno contesta l’assurdo antropomorfismo che ci presenta i paesi “virtuosi” come “egoisti”, e l’Europa come più o meno “altruista”; nessuno parimenti contesta la solita immagine del “battere i pugni”, più o meno vigorosamente, sul tavolo dell’Europa, come se noi stessi non fossimo parte di questo sgangherato intero, e dunque insieme pugno e tavolo. Che se poi si intende invece il tavolo tedesco o altri tavoli “nordici”, allora bisognerebbe pur dirlo: ma non si può, perché allora la “solidarietà”, che si baserebbe sull’appartenenza a una casa comune, cessa di essere un buon argomento, soprattutto se la si intende come un obbligo a una sola direzione, e neppure un obbligo di credito, ma un obbligo di dono.
Non può essere questo, la solidarietà. Ma – a proposito di “civiltà della persona” – l’espressione è di Spinelli – deve essere una virtù fondata non sulla coesione tribale dei sovranisti, ma sull’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza, non solo economica. Che accresca oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini. Che ne faccia una democrazia veramente sovranazionale, appunto, con tutte le sue istituzioni – a partire dall’unione fiscale. Questa: e non i trasferimenti a forza di arlecchinate o di pugni sul tavolo. Che il cielo ispiri i nostri politici, perché l’occasione è di quelle che possono fare epoca.
Donatella Di Cesare È tempo di smettere di parlare di «sovranità della persona». Questo modo di intendere il soggetto ha lasciato dietro di sé macerie e non è più accettabile. Nessuno è sovrano, nessuno autonomo. Prima del sé viene sempre l’altro. E il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità. Proprio per questo è anche tempo di guardare con occhio critico la «cultura dei diritti». Quella in cui viviamo è una democrazia immunitaria che prevede diritti e tutela solo per alcuni, per i «cittadini», e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato a difenderli.
La «battaglia dei diritti», in cui si crede spesso di scorgere il fronte più avanzato della civiltà e del progresso è un boomerang. Si auspicano cura, assistenza per tutti. Ma il «tutti» è una sfera sempre più chiusa e ha frontiere. L’inclusione è un ostentato miraggio, l’uguaglianza è una parola vacua che suona ormai come un affronto. Il divario si amplia, lo scarto si approfondisce. Non è più solo l’apartheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità, che scava il solco della separazione. L’Europa non può essere Europa se continuerà a concepirla in questo modo.
Luisa Passerini Non ‘esperanto’, semmai la capacità di accogliere una pluralità di lingue, come sperava Frank Thompson, con tecniche che permettano di andare oltre Babele. Farò ancora una volta riferimento alla mia esperienza nell’organizzazione del lavoro culturale. Nei vent’anni dal 2001 ho lavorato a fondare e gestire delle Giornate di studio e discussione intitolate a Ursula Hirschmann e al gruppo “Femmes pour l’Europe” costituito da lei, Fausta Deshormes e altre donne a Bruxelles nel 1975.
Quegli incontri si sono succeduti prima all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e poi all’Università di Torino. Le Giornate, come si può vedere dagli Atti pubblicati in forma digitale, hanno dato spazio centrale al tema dei diritti, partendo dalla giurisprudenza e allargando il discorso in varie direzioni. Per esempio, Elena Paciotti ha indicato come il diritto europeo abbia agito da promotore non solo a livello legale ma anche culturale, nelle politiche contro le discriminazioni di genere e sul terreno delle azioni positive e i diritti parentali; tuttavia ha riconosciuto che le strutture economiche e familiari insieme con politiche sociali inadeguate hanno favorito il permanere delle disuguaglianze nello stesso campo, particolarmente in un quadro reso complesso dall’immigrazione.
Il gruppo “Femmes pour l’Europe” si prefiggeva lo scopo di portare avanti l’ispirazione del Manifesto di Ventotene per un’Europa intesa come federazione ispirata agli ideali di libertà, giustizia sociale e uguaglianza, aprendola alla prospettiva di genere. Le componenti del gruppo si proponevano di contribuire in prima persona a questa impresa, riflettendo sul loro doppio ruolo di mogli di europeisti e di donne europeiste, e operando in tale direzione. Uno degli stimoli principali alla formazione del gruppo era stata la percezione di una tensione tra la sfera pubblica e la sfera privata, come indica il nome del gruppo in francese, lingua nella quale “femmes” significa sia donne sia mogli.
Anche se c’era un elemento di subordinazione nel punto di partenza, il carattere intersoggettivo della loro iniziativa conteneva molti aspetti positivi, che ci sta a cuore riscattare ed elaborare. La definizione di Ursula Hirschmann come “europea errante” riflette la valorizzazione di una genealogia di donne che hanno contribuito a forgiare una molteplicità di modi di appartenere all’Europa e che hanno operato attivamente per rendere possibile – non solo nel pensiero e nell’immaginazione, ma anche nell’azione politica e sociale – un’Europa diversa da quella esistente.
La prospettiva di genere aggiorna il tema dei diritti in modo sostanziale, aprendo una riflessione sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della soggettività incorporata. Il riferimento al corpo è decisivo e rientra nell’estensione dello sguardo di ricerca alla soggettività, intesa come capacità di coniugare identità e alterità nell’ambito delle scelte di genere. I discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
Sono altrettante basi teoriche per l’auspicio di una rifondazione della cittadinanza europea che comprenda elementi di giustizia sociale post-nazionale, uguaglianza e coabitazione pacifica tra diversi, in un aggiornamento del progetto federalista europeo di Ventotene.
Con lo stesso intento un’altra studiosa, Rosi Braidotti, si è prefissa di pensare un’Europa federata come progetto post-nazionalista e post-eurocentrico. Gli aggiornamenti proposti da Braidotti vanno nel senso di raccogliere i messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale. La posizionalità da cui può prendere avvio questa operazione – che pertiene non solo al piano intellettuale e filosofico, ma anche a quello dell’immaginario sociale e delle emozioni – è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una posizionalità intesa non come prospettiva che riguardi solo le donne ma come soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo. Vorrei precisare che questa è la posizione da cui sto parlando, ma non è la sola a suggerire un allargamento dell’idea dei diritti: per fare un esempio significativo, Stefano Rodotà aveva parlato di diritto d’amore proprio in riferimento a identità, genere e diritto.
Negli ultimi vent’anni, le idee di una soggettività incorporata e del primato dell’intersoggettività che hanno ispirato gli studi di genere si sono arricchite sullo sfondo dei cambiamenti geopolitici in cui rientrano la diaspora mondiale delle popolazioni e l’assetto ecologico del pianeta, andando oltre il concetto della sovranità della persona. Per quanto riguarda la geografia globale che ci fa da contesto, il termine “intersoggettività” si è dilatato enormemente in senso spaziale e temporale, fino a includere oltre agli umani anche soggetti come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti. È un invito a continuare a fissare lo sguardo contemporaneamente su problemi locali e continentali, tenendo presente che li condividiamo con una comunità vivente di estensione globale seppur lacerata da conflitti e divisioni.
Marina Sereni Il riconoscimento della dignità della persona umana, iscritto nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri prima ancora che in strumenti giuridici quali la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Carta europea dei diritti dell’uomo, è una conquista fondamentale della civiltà occidentale, che va difesa sempre e con forza. Porre l’essere umano al centro dell’edificio politico non ha significato soltanto l’apertura di una “stagione dei diritti” senza precedenti nella storia. Il primato della persona umana ha avuto come conseguenza logica il trionfo della democrazia come sistema politico. Affermare il primato dell’essere umano, infatti, implica per lo Stato un vincolo al rispetto dell’individuo, di modo che la volontà dell’individuo diviene anche la fonte della legittimità del potere politico. Ciò contrariamente a quanto è avvenuto nei totalitarismi che hanno afflitto il XX secolo, regimi in cui (alcuni) individui trovavano affermazione attraverso lo Stato a scapito di altri individui e comunità.
In Europa abbiamo realizzato moltissimo sul fronte dei diritti umani, civili e politici e dovremmo giustamente ritenerci fieri di questo. Tuttavia non ci sfugge come oggi – anche in Europa – si manifestino segnali di crisi delle democrazie liberali, tanto da essere entrato nel lessico politico la definizione-ossimoro di “democrazie illiberali”. Né possiamo sottovalutare i tentativi di screditare l’Europa e le democrazie da parte di entità esterne che si muovono attraverso la rete con una azione organizzata di disinformazione per condizionare l’opinione pubblica. È un tema delicato e cruciale.
La Conferenza sul Futuro dell’Europa – che prevede un percorso di partecipazione e di dibattito pubblico molto ampio – ha dovuto rallentare il suo calendario a causa della pandemia. Ritengo che essa rappresenti uno strumento essenziale per costruire una nuova “narrazione” sull’Europa e i suoi valori fondanti. La democrazia, non solo a livello nazionale, ma anche europeo, non può fare a meno di simboli e prassi unificanti, capaci di suscitare il coinvolgimento dei cittadini al livello degli ideali e dei sentimenti e di mettere in moto il loro senso di responsabilità e solidarietà.
4. Le conclusioni
Il suono di una parola-chiave oscura gli orizzonti dell’antico sogno europeo: sovranità; il nuovo ‘fantasma’ che si aggira nel cuore dell’Europa.
Il grande ostacolo dell’unità europea – ricorda con sobria lucidità Donatella Di Cesare – sembra rintanarsi nella forma politica dello Stato e nel mito storico della Nazione.
Tutte le svolte più significative della storia europea, nota Roberta De Monticelli, sono il frutto di scelte politiche nazionali, poiché è ancora a quel livello che il potere viene esercitato e che sembra essersi storicamente arrestato.
Il cammino delle vicende europee (là dove hanno obiettivamente compiuto un percorso) è dunque il frutto della ‘giustezza’ delle idee nazionali che le hanno concepite, e del supporto (del semplice supporto) che le istituzioni sovranazionali sono in vario modo riuscite a garantir loro.
Le stesse istituzioni dell’Unione vivono nella propria carne l’invadenza degli egoismi nazionali, ne avvertono dall’interno gli attentati continui al disegno di una compiuta unità, ne riflettono la concorrenza, che finisce col porre l’una istituzione contro l’altra, secondo una logica sovente destinata a condannarle all’impotenza o allo stallo.
È emblematico, in quest’ultimo senso, il caso (nuovamente emerso nell’aspra vicenda negoziale conclusa, nell’ambito del Consiglio europeo, con riguardo alla definizione dei termini del Recovery Fund) della pretesa di invocare il meccanismo dell’unanimità per la formazione delle decisioni collegiali.
Si tratta di un tema antico, che l’avvertita riflessione di Edoardo Ruffini aveva affidato, nel 1927, a un piccolo saggio storico sul principio maggioritario[1]: un testo mai abbastanza letto e richiamato nei discorsi condotti attorno alla sostanza dell’idea democratica, e che testimonia dell’intrinseca debolezza storica del principio dell’unanimità sul piano dell’edificazione di un potere corporativo realmente comune.
La rinnovazione delle reciproche diffidenze tra le sovranità nazionali europee finisce dunque per offrire argomenti ineludibili all’idea, qui richiamata da Roberta De Monticelli, secondo cui l’Unione Europea altro non sarebbe che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e di Germania.
E tuttavia, la distruttiva competizione destinata a rinnovare le volontà di potenza nazionali (che la lunga esperienza bellica del XX secolo sembra non aver cancellato del tutto) ha ormai cambiato pelle, trasferendosi dal piano politico-militare, a quello, assai più insinuante (ma non meno tremendo), della capacità produttiva dei diversi sistemi nazionali, quando non della semplice attitudine a ‘generare valore’ sul piano finanziario e meramente speculativo.
Si tratta di un’evoluzione del discorso economico che ha finito col determinare – vorrebbe dirsi secondo la logica e i termini che furono cari alla riflessione di Emanuele Severino – la completa subordinazione della politica alla tecnica, al suo ‘strumento’, come opportunamente ricorda Donatella Di Cesare, là dove sottolinea come questa governance finanziaria sia divenuta il modo di funzionamento ‘normale’ dell’Unione Europea e, dunque, il punto in cui si rivela l’autentico ‘stato d’eccezione’ ai tempi del Leviatano neo-liberale.
Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti e le ambizioni che accomunano i popoli europei – ammonisce ancora Di Cesare – sembrano destinati a disporre di uno scarso margine di manovra di fronte a questa violenza economica, poiché le politiche nazionali sono ormai concepite unicamente alla luce di un’ideologia anti-utopistica, priva di prospettive e schiacciata sulla semplice gestione dell’esistente: si tratta di un’attitudine politica governata dall’idea della ‘conservazione’, in cui affondano le proprie radici i rigurgiti del sovranismo contemporaneo e il rifiuto del sogno europeo che lo identifica, e per cui le nozioni dello ‘sviluppo’ o della ‘crescita’, lungi dall’indicare il senso di un’evoluzione qualitativa, si riducono a contrassegnare i termini numerici di una sola misura.
La riflessione sulle vie di un possibile riscatto dell’esperienza politica sembra intravedersi nelle parole di Marina Sereni, là dove sottolinea, in primo luogo, l’essenzialità di un percorso dell’unità europea che sappia conservare le proprie origini e il proprio statuto democratico.
Il progetto politico su cui si fonda il disegno dell’Unione europea non è questione che possa ridursi al solo apporto di una classe politica o di élite variamente selezionate, trattandosi piuttosto di coinvolgere i popoli europei in un progetto capace di adeguarsi alle contingenze delle diverse fasi storiche, rifiutando e combattendo la sensazione, perdente o fallimentare, di un’Europa ‘a vari livelli’, di un’Europa ‘dei forti’ e di una ‘dei deboli’: si tratta, dunque, di richiamare le diverse formazioni politiche, collocate su un piano transnazionale e pan-europeista, ad assumersi la responsabilità della comune elaborazione di un’autentica ‘coscienza europea’.
Da questo punto di vista, non mancherebbero gli spunti o i riflessi di un effettivo cambio di paradigma suscettibile di essere riconosciuto nelle linee di sviluppo dell’Unione Europea. Green deal, sfida digitale, lotta alle disuguaglianze, gender equality: temi e progetti destinati a valorizzare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo, individuato nella capacità di coniugare la libertà economica e la solidarietà, secondo quel modello che per lungo tempo aveva convogliato il consenso popolare verso il processo di integrazione.
Ancora un richiamo al valore della ‘solidarietà’, come dimensione necessariamente complementare al naturale riconoscimento delle libertà individuali e collettive, nel comune impegno di edificazione di un sistema di convivenza ispirato all’idea di giustizia.
Ma quale significato – si interroga opportunamente Roberta De Monticelli – dobbiamo attribuire all’espressione che allude alla solidarietà? L’idea che la condivisione dei sacrifici e delle difficoltà affrontate dalle singole comunità nazionali possa essere realizzata attraverso il semplice trasferimento di fondi non può essere accettata; si tratta, piuttosto, di porre le premesse per un’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Se la solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza (non solo economica), occorrerà allora accrescere la sovranità politica dei cittadini oltre i limiti della propria nazione, in vista di una democrazia autenticamente sovranazionale.
Qui il pensiero di De Monticelli finisce col riempire di contenuto concreto, di figure e di volti, quell’invito alla coniugazione dei valori di libertà e di giustizia invocata da Marina Sereni; sono le figure e i volti degli Spiriti Liberi del Novecento: Altiero Spinelli, Adriano Olivetti, i fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, Tempo presente, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, gli uomini e le donne del Partito d’Azione.
Anche Luisa Passerini ricorre alla rievocazione di una figura simbolica, come quella di Frank Thompson, allo scopo di riaffermare il carattere essenziale dell’utopia, ‘dell’umanità come un tutto’, e delle ineludibili responsabilità della classe intellettuale nel tener vivo lo sforzo di conservazione di una tensione ideale, di quella necessaria ‘apertura’ in cui si colloca la progettazione politica, nella consapevolezza dell’irrealizzabilità concreta dell’obiettivo, ma insieme nella determinazione a trarne motivo continuo di ispirazione per la prassi politica.
La riflessione che Luisa Passerini conduce nell’offrire le sue risposte assume un interesse di particolare intensità, la dove sottolinea come il generico riferimento al disegno di una comune koinè culturale europea impone, preliminarmente, di rispondere alla domanda a quale tipo di comunità, con quale disegno politico e quale ethos e, infine, a quale homo oeconomicus intendiamo riferirci.
Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli ‘europei’. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme.
È impossibile non condividere quanto Passerini ci invita a guardare con spirito critico ogni qualvolta si faccia riferimento ai ‘valori europei’, alla ‘identità culturale europea’, al ‘patrimonio culturale europeo’, concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo, sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa.
L’essenziale ricognizione di Passerini ci ammonisce a non sottovalutare il modo in cui la retorica pubblica delle istituzioni europee ha sostanzialmente rimosso l’evento della fine del primato della civiltà europea, attraverso la riproposizione (anche terminologica, come nel caso delle parole che alludono alle figure del ‘migrante’ o dello ‘straniero’) delle forme di ‘europeità’ ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Occorre farsi carico di questo retaggio, spesso funesto, del ‘lato oscuro dell’Europa’: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio: occorre ‘eroderlo dall’interno’, capire l’impossibilità di sapersi europei senza interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri; prendere davvero ‘sul serio’ il valore di cosa significhi ‘post-coloniale’, ‘post-imperialista’, ‘decoloniale’, nell’Europa di oggi.
In questa prospettiva critica, ‘demitizzante’ o ‘decostruttiva’, assume particolare valore l’ammonimento di Donatella Di Cesare vòlto a disvelare la dimensione retorica (quando non la sottile ipocrisia) che rischia di celarsi dietro l’espressione che si richiama alla ‘sovranità della persona’. Si tratta di un modo di intendere il soggetto (secondo il contrassegno della modernità inaugurata da Cartesio) che ha lasciato dietro di sé macerie, nella misura in cui ha affidato all’oblio la dimensione costitutivamente ‘mondana’ dell’uomo, nel senso, heideggeriano, dell’uomo che necessariamente realizza il suo ‘progetto’ in una rete inestricabile di relazioni e di rapporti storicamente determinati, per cui ‘nessuno è sovrano’, ‘nessuno autonomo’: prima del sé viene sempre l’altro, e il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità.
Ecco, allora, come la riflessione della cultura aiuta il giurista a ‘riposizionarsi’, con un rinnovato occhio critico, rispetto alla c.d. ‘cultura dei diritti’; una cultura che ha permesso (non occorre qui decidere se in buona o mala fede) il declino, e infine la degenerazione, della democrazia liberale faticosamente disegnata dai nostri ‘padri costituenti’, in una ‘democrazia immunitaria’ (un’espressione che Di Cesare fa propria e che richiama la lunga riflessione biopolitica di Roberto Esposito), che prevede diritti e tutele solo per alcuni, per i ‘cittadini’, e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato, a difenderli.
È la lezione finale di Luisa Passerini – di raffinata sensibilità teorica – a fornire un modello concettuale di riferimento (storicamente educato, come quello della ‘prospettiva di genere’) a cui riportare, in termini aggiornati, la riflessione sul tema dei diritti e sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della c.d. soggettività ‘incorporata’.
Il riferimento al corpo assume qui un valore decisivo, non solo per la costituiva esposizione ‘carnale’ del sé all’altro (e dunque alla dimensione totalmente originaria del ‘fatto relazionale’), ma anche per l’estensione dello sguardo di ricerca a una soggettività intesa come capacità di coniugare insieme identità e alterità (com’è tipico nell’ambito delle scelte di genere).
In questo senso, sottolinea Passerini, i discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e dei limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
La proposta teorica di Luisa Passerini si avvale degli aggiornamenti proposti da Rosi Braidotti e della sua raccolta dei messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale.
La ‘posizionalità’ (da cui può prendere avvio questa operazione, rilevante, oltre che sul piano intellettuale e filosofico, su quello dell’immaginario sociale e delle emozioni) è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una ‘posizionalità’ intesa come prospettiva che non riguarda solo le donne, ma che si estende al concepimento di soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo.
L’idea di una soggettività inestricabilmente legata all’unicità del ‘corpo’ che la esprime, e del primato dell’intersoggettività che la rende viva, dopo aver ispirato gli studi di genere, si è arricchita dell’intera fenomenologia storica dei cambiamenti geopolitici: un discorso complesso, in cui rientrano, tanto la diaspora mondiale delle popolazioni, quanto lo stesso assetto ecologico del pianeta.
Si tratta di ripensare dalle fondamenta quell’idea (tutta moderna) di un diritto costruito sulla dimensione della persona come polo di aggregazione di ‘appartenenze’ (di diritti, di prerogative, di beni o sfere di sovranità), e di tornare a riflettere sul valore di una disciplina di studio che tutto punti sul valore costitutivo della relazione, dell’intersoggettività come reciproca e scambievole capacità di dare e di ricevere, fino a includere, oltre agli umani, anche entità come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti, e dunque di rinnovare lo sguardo su quell’antica distinzione tra le ‘persone’ e le ‘cose’ che proprio l’interrogazione sul corpo, secondo l’illuminante riflessione di Roberto Esposito[2], induce a porre in crisi.
Nel concludere la riflessione su un primo giro di interviste dedicate al ‘destino dell’Europa’ (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), si era sottolineata l’acquisizione di un ultimo ‘lascito possibile’ del dibattito culturale, rinvenibile nell’idea del riscatto dell’antica umiltà del diritto come ‘arte dell’incontro’ e come disciplina capace di coltivare il desiderio (ma anche il coraggio) per la cura dell’altro, come del misterioso, e sempre inconsapevole, custode del senso della vita.
Il dialogo di oggi torna ad offrire sicure e autorevoli conferme al concepimento di quell’illusione; un’utopia (sempre ‘regolativa’) da affidare, con rinnovata fiducia, alle buone volontà del tempo che viene.
[1] Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico, Milano, Adelphi, 1976 (1927).
[2] Roberto Esposito, Le persone e le cose, Torino, Einaudi, 2014.
Riccardino
di Christine Von Borries
Riccardo Lo Presti, Riccardino per gli amici, telefona per errore alle cinque del mattino al numero di telefono della casa di Marinella del commissario Montalbano. Quando Salvo risponde capisce che l’uomo è convinto di parlare con un amico e che lo sta aspettando per un appuntamento davanti ad un bar insieme ad altri due amici. Con i cabasisi che gli girano vorticosamente si vendica non svelandogli l’errore e gli conferma che lo raggiungerà dopo pochi minuti.
Comincia così l’ultimo romanzo che Andrea Camilleri ha dedicato al suo, ormai nostro, commissario di Vigata le cui storie ci accompagnano da quarant’anni. L’indagine riguarda quattro amici trentenni, che hanno fatto le elementari insieme. Tre sono sposati con le rispettive sorelle mentre Riccardino con una tedesca che si è trasferita a Vigata.
L’omicidio di Riccardino avviene all’improvviso davanti agli amici e Montalbano dovrà lottare contro se stesso e non solo. L’indagine punterà prima verso una strada di tradimenti, passione e risentimento. Poi verso grossi interessi economici chiaramente illeciti, mentre si susseguono le pressioni di politici e addirittura di un vescovo. Per la prima volta Salvo sente di non avere più “gana” e cioè voglia, forza, passione per risolvere l’ennesimo omicidio e addentrarsi nelle brutture e pochezze dell’animo umano di chi vi ricorre. Condanna senza se e senza ma le motivazioni addotte da chi toglie la vita ad un uomo. L’indagine viene assegnata inizialmente al nuovo comandante della squadra mobile di Montelusa ma grazie al vescovo Partanna, in seguito viene affidata al commissario di Vigata, nonostante la sua riluttanza. Da quel momento, Montalbano affronta vari misteri. Le tensioni sotterranee tra i quattro amici. Un camionista dipendente della miniera dove lavorano i tre sopravvissuti che fa avanti e indietro in un piccolo vicolo ogni notte. Prestiti bancari prima negati e poi concessi dopo la telefonata del potente di turno. Il commissario con l’arma dell’intuizione e l’abilità nel “fare teatro” destabilizza i testimoni con domande assurde e innocue, tanto da apparire “cretino”. Così mette i testimoni gli uni contro gli altri e fa loro abbassare la guardia. Mentre si muove nelle sabbie mobili delle apparenze comincia a fare emergere la verità e in tanti tentano a quel punto di togliergli l’inchiesta.
Come sempre, Salvo non guarda in faccia nessuno e di fronte alle doppie facce delle persone, quella rispettabile e quella indicibile, scava per arrivare al nucleo, alla verità, al responsabile del delitto. Senza seguire solamente la pista più ovvia che farebbe comodo a molti. Trova sulla sua strada, messi di traverso, tanti personaggi. Il vescovo Partanna si accorge troppo tardi che il commissario non si farà addomesticare e di avere un avversario degno di questo nome. Il pm Tommaseo si fa manovrare quando sente parlare di donne e di sesso ma di fronte ad una storia ben più grossa si tira indietro. Questa volta però l’avversario più duro da combattere è l’Autore, lo scrittore locale, al quale anni prima Montalbano aveva raccontato varie sue indagini dalle quali ha tratto romanzi diventati famosi. Ancora di più lo sono diventate le loro trasposizioni cinematografiche. Camilleri in poche righe di ironia e sarcasmo sferzanti, dice quanto Montalbano debba schivare la fama del suo alter ego televisivo per essere lasciato in pace, dato che se un romanzo lo leggono qualche centinaio di migliaia persone, le serie televisive sono viste da vari milioni. Nel corso del romanzo si instaura così un dialogo tra i due. L’Autore contatta più volte Montalbano per influire sull’andamento e sulla fine dell’indagine. Ma Montalbano, ritrovata la passione per ciò che si cela dietro le apparenze, soprattutto quelle più false e cortesi, non si accontenta del facile e accomodante finale che gli viene proposto.
Andrea Camilleri, come ci dice lui stesso nelle note finali, ha scritto questo romanzo nel 2005 dando indicazioni affinché fosse pubblicato dopo la sua morte. Convinto che non avrebbe scritto altre storie con Montalbano come protagonista. Come sappiamo, fortunatamente non è andata così. Nei 14 anni successivi ci ha infatti regalato ancora tanti romanzi, alcuni con altre avventure del commissario di Vigata. Tutti hanno un grande merito: ci guidano con mano delicata in storie pervase da forti ideali di giustizia, che descrivono lotte a volte impari contro poteri forti; ma sono capaci nel contempo di farci ridere di cuore con un senso dell’umorismo che rimane senza uguali.
E allora grazie Andrea Camilleri per non avere mai perso, fino all’ultimo, la “gana di scrivere”.
Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
di Paola Filippi
Sommario: 1. Premesse - 2. Migliorare il Csm nella cornice costituzionale, la scelta del tema - 3. La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza - 4. La rappresentanza elettorale, la politica delle decisioni e i sistemi elettorali - 5. Le correnti - 6. La trasparenza nel governo della magistratura, la semplificazione, il controllo e l’organizzazione - 7. La cura.
1.Premesse
Il percorso dell’umanità, così come la vita degli uomini, è segnato da eventi imprevisti, imprevedibili, non governabili o governati male, insomma coefficienti causali sfuggiti al controllo.
L’accidente in un cui incappa il singolo uomo può cambiargli la vita, quella di chi lo incrocia e addirittura la storia di una nazione; figuriamoci se l’accidente riguarda i popoli, come nel caso di una pandemia.
Questo secondo volume della collana i Dialoghi di Giustizia Insieme è andato in stampa in piena pandemia da Covid-19, nella c.d. fase 2.
Dai primi di marzo, ogni sera alle ore 18:00, sempre con il fiato sospeso, abbiamo atteso il numero zero: zero nuovi contagiati, zero malati e soprattutto zero morti. Mentre scrivo non è ancora così, né in Europa né nel resto del mondo.
Come staremo quando tu lettore aprirai questo volume e ti accingerai a leggere queste pagine? Nel tuo momento – il tuo che leggi – conosceremo quello che più ci agita e ci fa stare come “color che son sospesi”, ovvero quali saranno i cambiamenti del vivere sociale, quale la sorte della nostra socialità nel distanziamento.
Il momento di chi scrive è fermo – non potrebbe essere diversamente –, quello di chi legge mobile e, al tempo stesso, molteplice come i lettori e i tempi di lettura e magari di rilettura. Così, alla domanda “siamo ancora socialmente distanziati?” arriverà pure la risposta netta del lettore post-pandemico “no, i convegni si fanno in presenza e le mani si stringono di nuovo”.
Come è stato il debellato il Covid-19 caro lettore post-pandemico non te lo chiediamo, non vorremmo risposte evasive. Se ti accingi a leggere questi dialoghi, non sei un virologo (solo durante la pandemia abbiamo creduto tutti di esserlo) e quindi non ci daresti risposte esatte; e poi è lungi da noi l’idea di importunarTi oltre su virus, cure e vaccini per il Covid-19.
Qui trattiamo la malattia degenerativa di cui è affetto il governo autonomo della magistratura.
2. Migliorare il Csm nella cornice costituzionale, la scelta del tema
Questa premessa un po' anomala e dialogata, in linea con il titolo della collana, era indispensabile per contestualizzare e dare atto di quanto è avvenuto nel mondo nell’intervallo temporale tra l’11 ottobre 2019, il giorno in cui, presso il complesso monumentale di San Lauro in Roma, si è svolto il convegno dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale” – primo convegno organizzato dalla rivista Giustizia Insieme – e la pubblicazione di questo secondo volume della collana.
Il tema è: il CSM e il governo autonomo della magistratura. I dialoghi riguardano la promessa costituzionale di autonomia e indipendenza, la rappresentanza e le degenerazioni corporative e di riflesso la trasparenza nel governo della magistratura.
In questo momento la luce alla fine del tunnel della pandemia nutre la speranza che nella fase post-pandemica si migliori.
In questo percorso la raccolta dei dialoghi del convegno si innesta dunque perfettamente nella spinta ideale verso il miglioramento globale.
Migliorare il “governo” della magistratura è un imperativo categorico.
Ma quali le ragioni contingenti della scelta del tema del primo Convegno organizzato dalla rivista Giustizia Insieme?
Anche in questo caso un piccolo passo indietro è essenziale, non solo per spiegare la scelta dell’argomento di discussione, ma anche per rendere comprensibili taluni passaggi che leggerete negli interventi. L’immoralità di alcuni magistrati ha esteso gli effetti del malaffare a macchia d’olio.
Un trojan inoculato nel cellulare di un magistrato destinatario di indiscusso apprezzamento da parte di un ampio segmento dell’elettorato (Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, dal maggio 2008 fino al marzo 2012, e componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura dal 2014 al 2018), come nel racconto di Esiodo ha determinato l’apertura del vaso di Pandora, rendendo pubblico il malaffare endemico che ammorba il governo autonomo della magistratura.
E’ emersa in tutta la sua gravità una crisi dei valori etici e morali che va ben oltre l’immaginabile ed è ben più grave della c.d. degenerazione correntizia, di cui pur si aveva consapevolezza.
L’antefatto è questo: il 9 maggio 2019 si incontrarono, in un albergo romano in orario notturno, un magistrato, attualmente deputato del PD, un ex senatore del PD, all’epoca indagato dalla Procura di Roma, alcuni magistrati, consiglieri del CSM e Luca Palamara, ex consigliere, appena cessato dall’incarico, all’epoca sostituto della Procura di Roma, con una domanda pendente di Procuratore aggiunto. Il tema dell’incontro, tra gli altri – forse solo per alcuni, ma almeno “apparentemente” per tutti – era la nomina del successore del Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone.
A seguito della pubblicazione, nella forma dello stillicidio, delle conversazioni e delle chat intercettate attraverso un captatore informatico, inoculato come un virus nel cellulare di Luca Palamara, tra giugno e settembre si sono dimessi cinque consiglieri e il Procuratore generale della Corte di Cassazione. I messaggi contenuti nel cellulare di Palamara hanno svelato una modalità di conferimento degli incarichi direttivi fondato su accordi spartitori e patti di scambio. Un sistema di gestione trasversale del potere rispetto alle correnti, ridotte a dividendo per il calcolo dei posti “pro quota” da assegnare.
Il c.d. caso Palamara ha certificato, in un generale sconcerto, lo stato di profondo malessere del Consiglio superiore della Magistratura.
Una crisi di credibilità dell’Istituzione grave, sia tra i magistrati che tra la pubblica opinione.
L’opinione comune è che prevalgano, almeno a volte, logiche di gestione del potere –soprattutto per le nomine dei capi degli uffici giudiziari – che scolorano fortemente la funzione di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura assegnata al Consiglio Superiore dalla Costituzione.
L’idea diffusa, che è prevalsa nel dibattito politico, è che il male si annidi nelle correnti interne all’Associazione Nazionale dei Magistrati: da qui il proposito di escogitare un sistema elettorale che impedisca alle correnti di interferire, attraverso il controllo della scelta della componente togata, nella vita consiliare.
I messaggi privati contenuti nella cronologia del telefono di Luca Palamara, pubblicati senza alcuna regola, hanno aperto scenari sconcertanti sul governo della magistratura e sulla questione morale da affrontare e risolvere con urgenza.
Sullo sfondo, un’altra questione che prima o poi dovrà essere affrontata: quella della violazione del diritto alla riservatezza degli autori dei messaggi, rimasti nella memoria del telefono di Palamara, e pubblicati con l’enfasi giornalistica, inutili per le indagini e solo prova di immoralità o mera “grettezza” dell’interlocutore di turno di Palamara.
Ma questa è un’altra storia.
3. La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza
I temi trattati nei dialoghi che hanno animato il convegno, con l’apertura di Giorgio Costantino, riguardano il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’idea che di tale organo avevano i nostri costituenti, come ce la illustra Francesca Biondi in “Il CSM: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione”. Seguendo gli argomenti trattati attraverso il file rouge della cura al male che affligge il governo autonomo nelle forme dello sfrenato “carrierismo”, utile appare il suggerimento, relativo allo status dei consiglieri togati, di ripristinare la previsione che “chi è stato consigliere non può, nei due anni successivi alla scadenza del mandato, partecipare ad un concorso per l’assunzione di un incarico direttivo o semi-direttivo o nuovamente essere collocato fuori ruolo”; e poi quello di “una modifica degli artt. 21 e 30 della legge n. 195 del 1958, nella parte in cui prevede che l’intero Consiglio sia rinnovato contestualmente. Un rinnovo parziale del C.S.M. aiuterebbe, oltre che a garantire una maggiore continuità nell’esercizio delle funzioni, a spezzare alcune logiche di appartenenza, da un lato, e ad assicurare un adeguato ruolo ai laici i quali, invece, generalmente scontano – almeno nei primi anni – un deficit di conoscenza rispetto ai colleghi magistrati”. Modifica da introdurre con legge costituzionale, secondo Giacomo D’Amico.
L’importanza del governo autonomo in termini di indipendenza della magistratura lo illustrano nei loro interventi Alessia Fusco in “Indipendenza dei giudici europei” e Roberto Conti in “ Indipendenza dei giudici nazionali e giurisprudenza UE”.
Alessia Fusco ci ricorda l’importanza sottesa al recupero del significato dell’indipendenza “come problema da studiare e non come soluzione granitica, ma anche come strumento funzionale ad un principio ben preciso che è la soggezione del giudice alla legge, con riferimento non soltanto all'ordinamento nazionale ma al complesso delle fonti che derivano dall' intelaiatura multiforme dell'ordinamento costituzionale, che è costituito anche dalle fonti ordinamentali e sistemiche dell'Unione Europea – da un lato – e del Consiglio d'Europa – dall'altro”. L’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, fulcro dell’attività giurisdizionale, reclama un CSM autenticamente autonomo e indipendente dagli altri poteri dello Stato. Roberto Conti sollecita una nuova Gardone alla quale partecipino accanto ai magistrati, gli accademici e gli avvocati che hanno a cuore la democrazia e i diritti fondamentali.
Da Gardone la magistratura è cambiata. Diverso è anche l’accesso in magistratura e diversa la formazione: ce lo spiegano Angelo Costanzo in “La formazione del magistrato e la sua legittimazione”, Ernesto Aghina in “Come si forma un magistrato” e Giacomo Fumu in “Accesso e selezione dei magistrati”. L’età media dell’accesso è di trentuno anni e, considerato il tirocinio, il neo-magistrato inizia la sua attività in prima sede intorno ai trentatre anni, con l’effetto che la magistratura italiana ha l’età media più alta d’Europa: questo l’allarme lanciato da Ernesto Aghina. Meglio sarebbe ripensare all’accesso anche in termini di sviluppo graduale all’interno di una scuola come nel sistema francese, ci fa riflettere Angelo Costanzo. Dell’importanza della formazione, anche comune con il ceto forense per evitare l’autoreferenzialità già temuta dall’assemblea costituente, ce ne parla Giacomo Fumu. E’ fondamentale poi la formazione anche in termini di autocontrollo del magistrato, come ci ricorda Andrea Apollonio.
4. La rappresentanza elettorale, la politica delle decisioni e i sistemi elettorali
Il tema della rappresentanza elettorale, non può che partire da una necessaria premessa: “la presenza nell’ ordine giudiziario di una percentuale così elevata di donne reclama con urgenza di essere adeguatamente rappresentata nell’ organo di autogoverno mediante misure di riequilibrio, idonee ad assicurare non solo eguali posizioni di partenza, ma anche un risultato finale”.
E ancora“ è necessario essere consapevoli della doverosità di politiche attive di pari opportunità, imposte dagli interventi riformatori rispettivamente del 2003 e del 2001 sugli artt. 51 e 117 co.7 Cost. e dai vincoli internazionali e comunitari: non si tratta infatti di discriminazioni a rovescio di dubbia legittimità, ma di trattamenti idonei al superamento della nozione liberale classica di eguaglianza formale, o eguaglianza competitiva, in direzione dell’ eguaglianza sostanziale, intesa come parità di risultati, che sola integra la dimensione sostanziale dell’ eguaglianza”. Di ciò ci avverte, con il suo garbo risoluto, Gabriella Luccioli.
Donatella Ferranti in “La rappresentanza di genere” ben chiarisce come “la questione della rappresentanza femminile nel CSM non è da inquadrare tanto nel tema della discriminazione, quanto in un tema politico: si tratta di rappresentare nel modo migliore e più completo il corpo della magistratura e dunque anche la differenza di genere. Oggi la rappresentanza dei magistrati nel CSM rischia di essere soprattutto rappresentanza di gruppi che sono nati con propri connotati politico-culturali, ma che a volte hanno rischiato di trasformarsi e di operare come gruppi di potere”.
Imprescindibile punto di partenza per la riforma è dunque che occorre “mirare a un sistema elettorale che rispecchi le caratteristiche e le diversità anche di genere presenti nel corpo della magistratura e che riesca a garantire che ciascun componente che lo rappresenta agisca nell’interesse dell’istituzione, secondo la propria competenza e sensibilità culturale”.
La ricerca del sistema elettorale migliore, in ottica crociana, passa attraverso l’analisi storica dei sistemi nella loro complessità, criticità ed effetti. La rassegna ce la offre Giuseppe Santalucia in “I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme”.
Ma il sistema elettorale non è la panacea, “non risolve né previene i guasti del consociativismo giudiziario”. Ce lo ricorda Giacomo D’Amico, che analizza i possibili sistemi elettorali: il sistema del voto singolo trasferibile (illustrato anche da Francesca Biondi), già elaborato dalla commissione Balboni nel 1996; il sistema elettorale adottato per il Senato nel 1993, con distribuzione dei seggi secondo il metodo D’Hondt. D’Amico ne illustra i pregi, i rischi e le criticità; evidenzia il pericolo di cordate trasversali, personali ed accorpamenti; mette in guardia dalle ricadute derivanti dalla scelta dei collegi elettorali.
Bisogna poi tener presente che i risultati dei sistemi elettorali sono in realtà ridisegnati, nella pratica attuativa, dagli escamotage ispirati dallo spirito di conservazione dei gruppi preesistenti.
L’attuale sistema elettorale, adottato d’urgenza con la legge n. 44 del 2002, allo scopo non celato di “contenere il peso delle correnti” è un classico esempio dell’heterogonie der zwecke di Wilhelm Wundt. Il sistema elettorale introdotto nel 2002 ha, infatti, prodotto l’effetto di rafforzare gli aspetti deviati delle correnti che, con subitaneo spirito di conservazione, hanno messo in atto sistemi di scelta apicale e cartelli elettorali per assicurarsi un adeguato numero di seggi.
Il paradosso dell’attuale sistema lo fotografa Alfonso Amatucci, che, aprendo il forum sui mali del CSM, ha segnalato – a conferma di quanto affermato da Giacomo D’Amico – che l’attuale sistema elettorale produce l’effetto per cui, da una lato, “se un gruppo organizzato vuole ottenere seggi, deve esso stesso (e non gli elettori) compiere delle scelte preventive”; e, dall’altro, che “se non lo fa, quand’anche non lo faccia per nobili ragioni, soccombe”. In questo secondo caso, l’effetto del tutto irragionevole è che un gruppo che dagli elettori ottenga più voti degli altri potrebbe addirittura non avere rappresentanti o averli in numero inferiore. Il danno di un sistema elettorale quale quello attuale è che la scelta apicale del gruppo elimina la naturale chances di partecipare alla competizione elettorale al candidato più stimato nel suo ambito lavorativo.
Il monito di Alfonso Amatucci è che, con questo sistema elettorale, si perde l’occasione di veder composto l’organo di autogoverno da uno “stimato magistrato”, e ciò è un danno per l’istituzione perché “quanto più è elevato il prestigio di un magistrato, tanto minore è la sua dipendenza da orientamenti non fondati su ragioni cristalline”.
Con l’attuale sistema elettorale sono i dirigenti delle correnti che scelgono i candidati e con essi coloro che saranno eletti. Esempio eclatante la lista dei candidati p.m. per le elezioni del 2018: quattro i candidati della lista per quattro seggi, per quattro correnti in lizza.
Nella pratica è stato realizzato un sistema peggiore di quello osteggiato dal senatore Francesco Cerabona nel dibattito che si svolse nel marzo del 1958 sul sistema da adottare per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. All’epoca si ipotizzava il sistema di voto per il tramite di delegati. La necessità che la scelta degli eletti sia dell’intero corpo degli elettori e non di pochi, ben la richiamò allora l’onorevole con le parole che seguono: “Quindi vadano a votare, votino personalmente, perché personalmente potranno meglio dare il loro giudizio. Altrimenti si tratterà di voti addomesticati, specie quando sono in gioco i nomi dei grossi papaveri e non dei papaverini!
Il papavero si impone con l'aspetto ed anche con l’odore. Il magistrato ha una personalità, un intelletto, una coscienza! Voti personalmente! I magistrati arriveranno anche a piedi nudi, che magari attraverseranno fiumi e torrenti, pur di giungere a Roma e compiere il loro dovere. Essi hanno coscienza e capacità per poter votare, non a mezzo di procuratori, ma personalmente, e vorranno scegliere uomini che, singolarmente, conoscono e stimano”.
Tra i sistemi elettorali non si è tralasciato di trattare il metodo del sorteggio, affrontato da Salvo Spagano, che ci ha portato indietro nel tempo, al primo esempio noto di sorteggio: quello dell’antica Atene. Le conclusioni tratte dalla storia sono che “l’utilizzo del caso nella selezione del decisore, e quale che sia l’ampiezza della discrezionalità che gli si tributi, è uno strumento tutt’affatto neutrale, e ciò con buona pace di un dibattito corrente poco avvertito, che lo riduce ad una panacea livellatrice e ri-vendicativa di torti, veri o presunti, patiti per mano di qualsivoglia autorità”. Nessuna buona soluzione può provenire dal sorteggio, solo la falsa premessa che tutti sono bravi a far tutto e la perdita dell’autorevolezza.
Il sistema del sorteggio è incompatibile, come spiega Giacomo D’Amico, con il principio costituzionale dell’elezione dei componenti del Consiglio, sia in caso di sorteggio successivo che anteriore all’elezione. Il dissenso è unanime: ne spigano le ragioni, anche istituzionali, Giuseppe Santalucia e Bruno Giordano.
Sulla stessa linea, Francesco Dal Canto, che definisce il sorteggio “una non-soluzione” e ricorda come era stata avanzata “ nel d.d.l. costituzionale n. 4275/2011 e prima ancora, negli anni Settanta, dal Movimento sociale italiano”. Anche lui, come Francesca Biondi, sottolinea che l’effetto sarebbe quello di un “Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno”. Poi, nelle sue conclusioni Francesco Dal Canto ben ci illustra come occorre essere consapevoli in ordine al fatto che i congegni “elettorali non sono da soli risolutivi, è opportuno rintracciare una soluzione che vada nel senso di ridurre gli effetti perversi del correntismo senza, allo stesso tempo, frustrare il pluralismo di cui le correnti sono espressione”. Scarta i poggetti di legge C. 226 e C. 227, presentati negli scorsi mesi alla Camera dei deputati per iniziativa dei deputati Stefano Ceccanti e Marco Di Maio (in realtà riproduttivi di proposte analoghe presentate nella XVI legislatura), tesi all’introduzione di un sistema, di tipo maggioritario, caratterizzato dall’articolazione in sedici piccoli collegi uninominali (uno per i magistrati di legittimità, quattro per i pubblici ministeri, undici per i giudici di merito) e dalla circostanza che ogni elettore può votare soltanto per il collegio ad egli relativo. Il rischio è, da un lato, la provincializzazione e il localismo; dall’altro, l’estromissione delle minoranze culturali dal Consiglio, in danno del pluralismo.
Illustra i lati positivi del progetto elaborato dalla Commissione Scotti nel 2016, che si caratterizza per il pregio di coniugare il sistema maggioritario con quello proporzionale, con collegi territoriali e un collegio nazionale e due turni: “il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale per liste concorrenti, su base nazionale”.
Illustra la proposta avanzata a suo tempo dalla Commissione Balboni, istituita nel 1995, la cui peculiarità è quella del “voto singolo trasferibile”, con il vantaggio di “mantenere un elevato grado di proporzionalità” e di “valorizzare l’apprezzamento dei singoli magistrati”.
Secondo questa proposta, “i Collegi sono plurinominali e l’elettore si esprime votando un singolo candidato di una lista e indicando, in ordine di preferenza, altri candidati, non necessariamente della stessa lista, ai quali il voto potrebbe essere trasferito qualora il primo candidato non possa essere eletto o non abbia bisogno del voto per essere eletto”.
Infine espone i pregi del sistema proporzionale “temperato”, caratterizzato dalla previsione di tanti collegi uninominali quanti sono i magistrati da eleggere (esclusi quelli di legittimità, da concentrare in un collegio apposito), con collegamento di ciascun candidato con candidati in altri collegi facenti parte dello stesso gruppo e con distribuzione dei seggi su scala nazionale con il sistema proporzionale. Una volta ripartiti su scala nazionale i seggi tra i diversi gruppi, risultano eletti i candidati che, nel rispettivo collegio, ottengono la percentuale di voti più alta”.
5. Le correnti
L’attuale sistema ha enfatizzato il potere dei segretari e dirigenti delle correnti ovvero il potere dei singoli a scapito di quello assembleare e dell’elettorato. La scelta dei candidati, sin da subito, è stata effettuata sulla base del requisito della notorietà a livello nazionale a scapito del miglior indicatore di moralità e autorevolezza effettiva, costituito dalla stima dei colleghi della porta accanto.
Se è vero – come ci ha ricordato Giacomo D’Amico e confermato Francesco Dal Canto – che il sistema elettorale non è la panacea di tutti mali che affliggono il governo autonomo della magistratura, certo è che alcuni sistemi sono peggiori di altri, e tra i peggiori si colloca senz’altro l’attuale sistema, che ha rimesso nelle mani di pochi il potere che, per Costituzione, spetta all’elettorato.
Dei mali del CSM ce ne parla Giorgio Spangher, consigliere laico della prima consigliatura eletta con il sistema elettorale introdotto con la legge n. 44 del 2002.
Giorgio Spangher ci ricorda come “nel contesto del Consiglio Superiore, le correnti che, certamente, hanno come substrato un elemento culturale ideologico, legato alla visione ed alla missione della giurisdizione […] si strutturano anche come centri di potere”. Di qui i rischi del sistema Palamara, divenuto nella sua persona lo snodo di un centro di potere, in cui si incrociavano i notabili delle correnti della magistratura e della politica.
Come ci ricorda Giorgio Spangher, le correnti negli ultimi vent’anni sono diventate “il volano per ulteriori manifestazioni di potere”, il volano per “incarichi direttivi, nomine agli organismi europei, le varie designazioni del c.d. fuori ruolo”.
Ma le correnti non sono solo un male. Carlo Guarnieri – riprendendo la premessa di Giorgio Spangher, con riguardo alla connotazione culturale ideologica di fondo che le caratterizza – con ragionamento sottile, alla luce delle scelte che, in taluni settori, i magistrati sono chiamati a compiere, ne coglie un pregio ovvero che “le correnti svolgono un ruolo non indifferente: segnalano infatti all’esterno dell’istituzione, almeno a grandi linee, le modalità con cui la discrezionalità verrà esercitata. Lo stesso collateralismo – oggi peraltro molto meno in voga – collegando correnti di magistrati a indirizzi politici introduceva, anche se in modo surrettizio, una forma di responsabilità”.
Ecco che nell’analisi prende piede, per bocca degli accademici, il vero male, ovvero “il declino della dimensione programmatica delle correnti giudiziarie che oggi possono essere accusate di voler influire non tanto sulle politiche giudiziarie quanto sulla spartizione delle posizioni direttive”.
Alla domanda “C’è uno spazio nel quale l'associazionismo giudiziario può esercitare il suo ruolo senza diventare metastasi del sistema di autogoverno?”, la risposta di Eugenio Albamonte è positiva, ma condizionata. La prima condizione è che “ bisogna manutenere la tenuta democratica” dei gruppi della magistratura associata. Le associazioni della magistratura “devono essere delle strutture democratiche, trasparenti e quanti in esse militano devono impegnarsi e garantire che esse non siano un simulacro che viene agito dall’esterno o dall’interno attraverso logiche opache, che non vi abbiano più accoglienza centri di potere palesi od occulti che non coincidano con le rispettive dirigenze statutarie, democraticamente elette e perciò politicamente responsabili rispetto al proprio corpo sociale.”
La prima condizione è dunque la democrazia interna e l’assemblearità dei gruppi della magistratura associata.
La seconda condizione è che occorre “modificare urgentemente il sistema elettorale”, e la modifica deve avvenire secondo due obiettivi: quello di valorizzare “la responsabilità politica delle aggregazioni”; e quello di fornire agli elettori la “possibilità reale di scelta tra più candidati”.
6. La trasparenza nel governo della magistratura, la semplificazione, il controllo e l’organizzazione
I mali dell’autogoverno si superano anche attraverso la ragionevolezza, la condivisione e il rispetto delle regole, al quale deve essere ancorata la discrezionalità delle scelte. Si ridimensionerebbe così il tema del delicato equilibrio tra autonomia e controlli, “ossia il delicato equilibrio tra prerogative del CSM (di cui all’art. 105 Cost.) ed effettività dei principi di buon andamento e imparzialità, nonché inviolabilità del diritto di difesa (artt. 24 e 97 Cost.), come scrive Sandro Saba.
Il mancato rispetto delle regole della discrezionalità comporta la perdita di autorevolezza del Consiglio Superiore, che diventa ostaggio del giudice amministrativo che ne annulla le delibere. Conseguenza del mal governo è pure che il giudice amministrativo viene elevato a rango di organo superiore all’organo di governo autonomo della magistratura, in barba alla sua qualità di organo di alta amministrazione e alla rilevanza costituzionale che lo connota.
La trasparenza e la ragionevolezza delle regole sono di primaria importanza: Elisabetta Pierazzi, a riguardo, evidenzia la necessità di “un radicale mutamento di prospettiva. Le regole devono essere chiare e comprensibili; le decisioni devono essere adottate in modo trasparente e motivato; chi le prende se ne assume la responsabilità”. Le decisioni, infine, “devono essere sottoposte al controllo del corpo dei magistrati, elettori e amministrati, per essere valutate non soltanto con i rimedi amministrativi ma anche al momento delle elezioni”.
Ecco qui come il CSM si svela come luogo della politica delle decisioni, concetto diverso dalla rappresentanza politica, come ci spiegano Francesca Biondi e Francesco Dal Canto, e con ciò confermano, come ha fatto Carlo Guarnieri, l’importanza di gruppi della magistratura associata “sani” e di consiglieri che orientino le loro decisioni secondo i programmi esposti agli elettori, ovvero in base a principi e regole generali e astratte.
Le regole organizzative alle quali gli uffici devono attenersi e la verifica dell’effettività dell’applicazione, come ci ricorda Giovanni Salvi, riverberano effetti positivi sull’efficacia dell’azione giudiziaria e l’esercizio della funzione nel migliore dei modi possibili.
Sempre in tema di organizzazione degli uffici giudiziari Antonella Magaraggia in “La sottile linea rossa tra controllo e collaborazione” ci ricorda che “quando si mette mano all’organizzazione, si mette mano alla giurisdizione” e che “intervenire sull’organizzazione non è mai una scelta neutra, non è un’opzione riconducibile a una dimensione meramente tecnica, ma coinvolge scelte di politica giudiziaria” – con ciò confermando quanto detto da Giorgio Spangher e Carlo Guarnieri, con riguardo all’utilità sotto tale profilo delle ideologie.
Diverso è il modo di dirigere l’ufficio in ragione dell’opzione ideologica del dirigente, e anche in ciò l’appartenenza alle correnti può offrire elementi di conoscenza, purché l’informazione si adotti in quanto generale e astratta. Anche nel controllo e nell’organizzazione la politica delle decisioni ha un ruolo essenziale, e Alessandra Camassa ci ricorda come nella deriva populista e demagogica“il termine “controllo” nel settore giustizia da parte del dirigente dell’Ufficio è stato spesso confuso con dirigismo e con efficientismo”, mentre esso è essenziale per il buon andamento del servizio giustizia.
Beatrice Bernabei richiama la nostra attenzione sulla necessità della semplificazione e, dopo averci riportato alla mente l’amministrazione del Conte de “Il Castello” di Kafka, ci avverte che l’obiettivo della semplificazione “non può essere raggiunto se non partendo dall’interno dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, attraverso una attenta opera di razionalizzazione e semplificazione dell’esistente”. La degenerazione correntizia passa anche attraverso il potere di fornire informazione per canali “clientelari”, e non istituzionali. Anche il dato neutro dell’inoltro di una richiesta, o il dato neutro della conoscenza dello stato di una pratica diventa strumento clientelare quando la richiesta è complicata da formulare e l’informazione in ordine alla fase del procedimento non è facile da ottenere, attraverso le vie istituzionali.
La semplificazione è la direzione verso cui “bisogna muoversi, per migliore il CSM nella cornice costituzionale”.
La semplificazione è un utile antidoto al correntismo.
6. Siamo davvero convinti che il male si annidi nell’associarsi e partecipare?
La domanda che nel dialogo che anima questo volume e in cui vorremmo coinvolgere il lettore è dunque: siamo davvero convinti che il male siano le correnti o meglio i gruppi associati della magistratura?
A proposito della partecipazione, Antonio Gramsci ha scritto “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire partecipare. Chi vive veramente non può non essere cittadino partecipe. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Io partecipo, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, partecipo. Perciò odio chi non partecipa, odio gli indifferenti.”
Dopo aver letto le parole di Antonio Gramsci ben difficilmente si può affermare che il male è nell’associarsi e nel partecipare; piuttosto il male è, all’opposto, nell’abbandono della partecipazione, nell’abbandono dell’etica della polis. E’ l’isolamento che consegue all’abbandono dell’agorà il complice del potere dei pochi e dell’esercizio debosciato dello stesso.
Quanto sia importante la partecipazione, ce lo ricorda Morena Piazzi con il suo intervento dal titolo “Se il qualunquismo vince?”. La risposta alla sua domanda è sotto gli occhi di tutti: se il qualunquismo vince il governo della magistratura cade in mano di chi, lontano dalla politica ragionevole e trasparente delle decisioni, opera nell’interesse dei suoi accoliti.
Il male che si annida nelle correnti è da individuare allora nella perdita delle idee, degli ideali e dei valori e, come ha detto Marcello Basilico, “intanto le correnti possono trovare ragione d’esistere e legittimazione ad agire, in quanto rivelino valori identificativi e dimostrino di operare in tendenziale coerenza con quei valori. Un riscatto su queste basi, insomma, passa attraverso il recupero della loro identità politica”.
Non è il confronto culturale attivo che “ammalora” la magistratura, non è la partecipazione alla vita associativa, bensì la ragione non collettiva che muove il singolo.
E’ la strumentalizzazione del gruppo a fini individuali che, da centro di elaborazione del pensiero, lo trasforma in consorteria che “compete e combatte” per la collocazione dei suoi adepti in centri di potere e soddisfa le ambizioni dei singoli.
7. La cura
Sono molti i percorsi da intraprendere: affrontare il male del carrierismo, deflagrato per la miccia innestata dal d.lgs. n. 160/2006, con l’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi, male da affrontare attraverso la revisione delle regole che governano la discrezionalità; dare concretezza alla valutazione sulle attitudini; semplificare e razionalizzare le regole; ma, soprattutto, richiamare l’attenzione sul ruolo del magistrato, sulla funzione di servizio sull’attenzione alla richiesta di giustizia.
E’ essenziale riscoprire il ruolo del magistrato come quello di colui che ascolta, osserva e si confronta, per incidere efficacemente, con la sua giurisprudenza e l’organizzazione del suo ufficio, nel percorso della legalità del nostro paese.
“Ricalibrare al nostro interno le giuste misure e più stabili paletti etici” al fine di rafforzare “il senso del limite”, al fine di riscoprire la tensione verso “idealità più autentiche e genuine” – per usare le parole di Dino Petralia.
Non possiamo far prevalere l’idea che “la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare” – come ci avverte Giuseppe Santalucia –, ma occorre che per interessi collettivi e pubblici, mai individuali, ci si riappropri degli spazi lasciati in balia del malgoverno di pochi.
E se la partecipazione in termini di appartenenza è uno scoglio insormontabile, che dalle nuove generazioni è percepito come minaccia all’indipendenza, allora ben vengano “le aggregazioni fluide” richiamate da Giuseppe Santalucia, che siano animate però dal motto del rispetto delle regole, della trasparenza delle decisioni, dell’efficienza del servizio giustizia e dell’attenzione alla questione morale. Sarà di grande aiuto ricordare che la magistratura non deve essere corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, bensì deve essere impegnata a ricercare soluzioni per il miglior servizio giustizia.
La cura contro il correntismo è nelle mani dalle nuove generazioni di magistrati.
Ma non bisogna farsi illusioni: è dalla determinazione con la quale i giovani magistrati sapranno riappropriarsi dei luoghi dell’elaborazione culturale da porre a servizio della politica delle decisioni consiliari nonché dalla risolutezza con la quale saranno in grado di ripudiare e emarginare coloro che hanno asservito al carrierismo la partecipazione alla vita associativa dipende il futuro dell’autonomia del governo della magistratura italiana.
“Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” a cura di Elisabetta Silvestri.
Recensione al volume.
La crisi pandemica nella quale ci troviamo ancora proiettati suggerisce di prendere in considerazione tutti gli strumenti utili a far fronte al contenzioso già in essere e a quello pronto a sorgere da questa situazione, anche alla luce della normativa emergenziale emanata negli ultimi mesi (con riferimento all’ambito civilistico, si pensi, ad esempio, alle prevedibili liti derivanti dalle disposizioni circa l’esclusione della responsabilità del debitore in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali o in relazione alle ipotesi di risoluzione dei contratti in materia di soggiorno e acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura).
Forse mai come in questo momento può essere utile riflettere sul valore dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, quali rimedi di ausilio nell’attuale processo di regolamentazione (tanto da essere stati posti al centro del Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione del 28.3.2020, elaborato in seno al Tavolo sulle procedure stragiudiziali in materia civile e commerciale istituito presso il Ministero della Giustizia).
Non poteva quindi uscire in un momento più propizio “Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” a cura di Elisabetta Silvestri.
Il volume riunisce una serie di contributi riguardanti i principali metodi alternativi di risoluzione delle controversie previsti nel nostro ordinamento: la mediazione (con un capitolo interamente dedicato alla mediazione ordinata dal giudice), le tutele stragiudiziali in materia consumeristica, la consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., la negoziazione assistita, i procedimenti in materia bancaria e finanziaria, le procedure stragiudiziali nell’ambito dell’infortunistica stradale, la mediazione familiare, il coordinatore genitoriale, l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie previdenziali ed assistenziali e la mediazione in campo penale.
L’arbitrato è stato volutamente escluso da questo novero, per le sue proprie caratteristiche, per aver subito da tempo un processo di giurisdizionalizzazione particolarmente accentuato che ne ha fatto un procedimento più “vicino” al processo ordinario (e non alternativo a esso).
Nell’ultimo capitolo vengono invece trattati i metodi alternativi delle controversie nel contesto internazionale, con specifica attenzione ai conflitti tra entità di diritto pubblico e alle procedure per la risoluzione di liti commerciali coinvolgenti parti di nazionalità diversa.
Tutti i contributi si presentano snelli e privi di note (ma sono corredati da schede bibliografiche di base per approfondimenti dei temi analizzati). Questa scelta stilistica non ha, però, alcun effetto di impoverimento sui contenuti. Al contrario, la puntualità dell’esposizione consente di enucleare efficacemente i nodi essenziali di ogni sistema trattato, così anche da offrire un quadro composito e al tempo stesso lineare delle procedure oggetto di studio.
Essenzialmente promossi a scopo deflattivo, nel tentativo di rispondere alla lentezza e all’inefficienza della giustizia formale, i sistemi alternativi al processo (lasciando una buona volta da parte l’espressione anglofila di facciata “ADR”, come garbatamente consiglia Elisabetta Silvestri) costituiscono ormai un tema ineludibile per la giustizia italiana.
“Forme alternative di risoluzione delle controversie e strumenti di giustizia riparativa” propone un catalogo ben ragionato di questi sistemi (non manca l’analisi dei profili storici e di quelli deontologici) e, senza finalità esaltative, lascia presagire che in futuro la loro affermazione proseguirà “soprattutto in quegli ordinamenti in cui gli sforzi per migliorare la performance della giustizia formale sembrano non produrre i risultati sperati”.
Stimolante è, in questo senso, il richiamo della curatrice dell’opera alla nuova tendenza del process pluralism, nel ricercare metodi di risoluzione che si adattino perfettamente alle specificità del caso concreto: il modello di risoluzione non può essere solo alternativo al processo, ma deve anche essere specificamente adeguato alle caratteristiche peculiari di ogni singola controversia.
Solo così le alternative al processo potranno davvero mantenere la loro promessa di una giustizia più efficiente e partecipata.
Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”*.
1. L’eterno ritorno del problema dell’abuso d’ufficio. – 2. I limiti del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa. – 3. Una possibile ipotesi de jure condendo. – 4. Conclusioni.
* * *
1. L’eterno ritorno del problema dell’abuso d’ufficio.
Con l’auspicato superamento dell’emergenza determinata dalla diffusione del contagio da COVID-19, nell’ambito del più vasto e articolato dibattito teso all’individuazione delle misure necessarie ad agevolare la ripresa dell’economia dopo il blocco di pressoché tutte le attività produttive imposto dalle misure di contenimento della pandemia[1], è tornato ancora una volta ad affacciarsi il tema della possibile riforma del delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 cod. pen.). Come sempre da circa un trentennio ad oggi, la necessità di intervenire su tale fattispecie di reato è ricollegata all’esigenza di contrastare la cosiddetta “amministrazione difensiva”, ossia quell’atteggiamento, diffuso tra gli operatori e funzionari amministrativi, per cui ci si astiene dall’assumere decisioni o condotte utili per il perseguimento dell’interesse pubblico – preferendo assumerne altre, o più frequentemente restare inerti – per timore di conseguenze negative a proprio carico derivanti dal sistema di controlli e sanzioni posto dall’ordinamento a presidio del rispetto della legalità dell’azione amministrativa[2].
Nella discussione attuale, tra i principali fattori di freno al celere svolgimento delle procedure amministrative (in primis, quelle comportanti investimenti di risorse e/o finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche), vi sarebbe la riluttanza ad assumere determinazioni implicanti assunzione di responsabilità, a causa del rischio di essere incriminati per abuso d’ufficio ovvero sottoposti ad azione di responsabilità per danno erariale[3]. Per questo, il Presidente del Consiglio ha più volte pubblicamente indicato la revisione dell’abuso d’ufficio come uno dei punti qualificanti del piano predisposto dal Governo per la “ripartenza” del Paese e il superamento del grave shock economico causato dalla pandemia[4].
Le esigenze così rappresentate sono sostanzialmente le stesse che giustificarono l’ultima consistente riforma dell’articolo 323 del codice penale, attuata con la legge 16 luglio 1997, n. 234[5], dopo che la fattispecie nella sua innovativa formulazione era stata introdotta dalla riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione operata con la legge 26 aprile 1990, n. 86. Mentre il legislatore del 1990 aveva inteso fare del “nuovo” abuso d’ufficio la “figura cardine del più ampio sistema dei delitti contro la p.a.”[6], superando la connotazione sussidiaria e residuale che il codice Rocco aveva riservato al vecchio abuso “innominato” in atti d’ufficio[7], al contrario l’intervento normativo del 1997 fu determinato, dopo le note vicende di “Tangentopoli”[8], dall’intento di impedire o comunque limitare indebite ingerenze del giudice penale nella sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione[9]. In tale prospettiva, fu abbandonato l’uso del generico riferimento all’ “abuso dell’ufficio” ancora presente nella formulazione del 1990 optando per una formula descrittiva intesa a ovviare alle criticità emerse sotto il profilo della determinatezza della fattispecie, che avevano dato luogo anche a dubbi di legittimità costituzionale in relazione al principio di tassatività di cui all’articolo 25 Cost[10].
La nuova formulazione dell’articolo 323 cod. pen. frutto della riforma del 1997 innovava sostanzialmente la previsione incriminatrice su tre fronti:
a) sul piano dell’elemento oggettivo, specificando che la condotta incriminata deve essere posta in essere “in violazione di norme di legge o di regolamento” ovvero di un obbligo di astensione in presenza di interesse proprio dell’agente o di suoi prossimi congiunti o negli altri casi prescritti, nonché trasformando l’abuso di ufficio da reato a consumazione anticipata in reato di evento, per la cui configurazione è essenziale il prodursi di un ingiusto vantaggio per l’agente o per altri ovvero di un ingiusto danno altrui;
b) sul piano dell’elemento soggettivo, con la previsione di un dolo “rafforzato” evidenziata dall’espressa precisazione della punibilità solo di chi abbia posto in essere l’evento “intenzionalmente”;
c) sul piano del trattamento sanzionatorio, essendo stato abbassato a tre anni il massimo edittale della pena (poi riportato a quattro anni dalla legge 6 novembre 2012, n. 190)[11].
I conclamati obiettivi di circoscrizione dell’area del penalmente rilevante e di limitazione delle “ingerenze” giudiziali devono essere stati falliti, se oggi, esattamente per le identiche ragioni sostanziali (al netto del surplus di urgenza economica determinata dalla pandemia), il tema della revisione dell’abuso d’ufficio è tornato all’attenzione del legislatore. L’intervento preannunciato si è infine concretato nell’articolo 23 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), che ha abbandonato l’idea di una totale eliminazione della figura di reato de qua, che pure era stata da taluno avanzata[12], come pure quella di una sua radicale riformulazione[13], in favore di un (ennesimo?) intervento “chirurgico” di maggior tipizzazione della fattispecie, segnatamente attraverso la previsione che la condotta incriminata debba essere posta in essere in violazione non più – come è oggi - semplicemente “di norme di legge o di regolamento”, ma “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”[14].
La prima parte dell’innovativa formula testé citata evidenzia, in modo più radicale rispetto ad altre proposte di riforma[15], l’intento di circoscrivere l’area del penalmente rilevante, innanzi tutto escludendo che il reato sia configurabile con la violazione di norme di rango regolamentare o subprimario, e in secondo luogo esplicitando l’idea che debbano assumere rilevanza le sole norme precettive, ossia disciplinanti specificamente ed espressamente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Nella seconda parte, invece, si esprime in modo significativo la voluntas legis di escludere ogni rilevanza ai fini dell’integrazione del reato al vizio di eccesso di potere, attraverso la precisazione che dalla norma violata non debbano residuare “margini di discrezionalità” in capo al soggetto agente[16].
Se questo è il core della nuova riforma annunciata, è lecito esprimere perplessità non solo e non tanto sulla bontà delle modifiche proposte dal punto di vista tecnico e giuridico (profili su cui pure, come si vedrà, emergono rilevanti criticità), ma soprattutto sulla loro idoneità a incidere in modo serio sulle problematiche che con esse si vorrebbe affrontare[17]. Intanto, e su di un piano più generale, l’esperienza insegna che la “paura della firma” dell’amministratore pubblico, cui si accennava in principio del presente contributo, non discende certo dalla prospettiva di essere sanzionati per abuso d’ufficio (ché, anzi, è noto che statisticamente la percentuale dei procedimenti per tale reato che si chiudono con una condanna è estremamente esigua)[18], bensì dal rischio di discredito sociale connesso alla semplice possibilità di essere sottoposto a indagini ed al connesso strepitus mediatico e istituzionale. Un problema al quale con tutta evidenza è vano sperare di ovviare con interventi di maquillage sulla previsione della condotta incriminata, in un sistema giudiziario ancora incentrato sul principio di obbligatorietà dell’azione penale e sulla doverosità dell’avvio di indagini in presenza di una notitia criminis[19].
Inoltre, la giurisprudenza più avanzata ha ormai da tempo avvertito la necessità di circoscrivere l’ambito delle “norme di legge” la cui violazione è suscettibile di dar luogo ad abuso d’ufficio, consapevole che soluzioni interpretative improntate a un’eccessiva dilatazione della nozione rischiano di pagare un pesante prezzo sul piano della determinatezza della fattispecie penale. Così, sia pure fra molte oscillazioni e contraddizioni, si è affermato che dell’elemento costitutivo della violazione di norme di legge o di regolamento non deve darsi una lettura formalistica[20], che non deve trattarsi di norme generalissime o di principio[21] (con qualche incertezza per i principi di imparzialità e buon andamento della p.a. di cui all’articolo 97 Cost.)[22], né di norme strumentali alla sola regolarità del servizio pubblico[23] né meramente procedimentali, salvo che siano specificamente e puntualmente finalizzate a disciplinare la condotta dell’agente[24]. Più in generale, la S.C. ha più volte sottolineato la necessità che nella contestazione siano specificamente individuate le norme che si assumono violate, pena un’insanabile indeterminatezza (e quindi una nullità) dell’imputazione[25]. Per questo, può suscitare preoccupazione la totale espunzione dall’area del penalmente rilevante della violazione di norme di “regolamento”[26], le cui possibili ricadute non sembra siano state ponderate con la dovuta attenzione[27].
Ma il vero punctum dolens della nuova disposizione è indubbiamente costituito dalla scelta di escludere la configurabilità del reato ogni qual volta la norma violata lasci all’agente un sia pur minimo “margine di discrezionalità”; con essa si esprime chiaramente l’intento di sottrarre al giudice penale ogni possibilità di sindacato del vizio di eccesso di potere in cui sia incorso l’amministrazione pubblica, inteso – secondo la comune accezione amministrativistica – per l’appunto come cattivo esercizio del potere discrezionale[28]. Può essere interessante osservare che anche la riforma del 1997 fu ispirata dal conclamato intento di sottrarre al sindacato penale l’eccesso o sviamento di potere, al fine di porre un argine alla invadenza del potere giudiziario rispetto alle scelte discrezionali della p.a., anche se la dottrina fin da subito dubitò che tale obiettivo fosse stato effettivamente realizzato[29]. In giurisprudenza, dopo un primo arresto in cui si prendeva atto dell’ormai intervenuta preclusione normativa di un sindacato giudiziale che travalicasse il limite della regolarità formale dell’atto per involgere valutazioni anche sull’esercizio della funzione e sulle scelte a questo sottese[30], si assisté a una decisa inversione di rotta, ammettendosi che la violazione penalmente rilevante potesse essere riscontrata anche in relazione all’elemento “teleologico” della norma di riferimento, con riguardo allo sviamento del fine che la legge – esplicitamente o implicitamente – ha assegnato al soggetto titolare di un pubblico potere[31].
Se, dunque, oggi il tema torna ancora una volta all’attenzione del legislatore è perché forse effettivamente in esso si annida il “cuore” di tutte le questioni che si agitano attorno all’abuso d’ufficio ed alla sua applicazione da parte della giurisprudenza penale. Tuttavia, il fatto che il legislatore abbia (e anche da lungo tempo) correttamente individuato il vero nodo problematico da sciogliere in subiecta materia non significa affatto che la soluzione prescelta, consistente nella totale espunzione del vizio di eccesso di potere dall’area del penalmente rilevante, debba essere considerata saggia o condivisibile; ciò non tanto perché – come da taluni osservato – sarebbe proprio attraverso il cattivo esercizio del potere discrezionale che si realizzano “le forme più gravi e diffuse di sfruttamento dell’ufficio a fini privati”[32] (non si dispone di statistiche oggettive al riguardo), ma nella misura in cui una tale opzione, al pari della abrogazione tout court della fattispecie, esprime una scelta politica sul versante del controllo di legalità della pubblica amministrazione che andrebbe esplicitata in modo chiaro. Infatti, se è indubbio che i beni-interessi protetti del reato in esame vanno individuati nel buon andamento e nell’imparzialità della p.a., intesi il primo nel senso di legalità dell’esercizio dei poteri pubblicistici e il secondo come esigenza di mantenere la par condicio tra i cittadini[33], ed è altrettanto pacifico che la massima espressione di tali valori di rango costituzionale si realizza attraverso il corretto esercizio del potere discrezionale, allora il riconoscimento che per l’ordinamento la parte almeno quantitativamente più consistente delle possibili lesioni di tali valori non è neanche astrattamente idonea ad attingere la soglia della rilevanza penale non dovrebbe passare sottotraccia.
Ad avviso di chi scrive, è evidente che la ricerca di una soluzione equilibrata, idonea ad assicurare il perseguimento degli obiettivi di salvaguardia di sfere valutative riservate alla p.a. senza sacrificare oltre misura il controllo di legalità dell’azione amministrativa, presupporrebbe proprio quell’approccio “eclettico” o “interdisciplinare” alla materia che secondo i più è largamente mancato finora[34]. è in tale prospettiva, all’insegna di un’armonica sinergia tra categorie penalistiche e principi del diritto amministrativo, che saranno sviluppate le riflessioni che seguono.
2. I limiti del sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa.
L’esigenza di scongiurare ingerenze del giudice penale nell’attività amministrativa non è solo, come talvolta si sostiene nel dibattito politico-mediatico[35], un argomento strumentalmente usato per individuare “zone franche” per la classe politica o ritagliare patenti di impunità a determinate categorie di cittadini discriminandoli rispetto alla generalità dei consociati, ma sottende il serissimo e delicatissimo tema del rispetto del principio della separazione dei poteri[36]. Non v’ha dubbio che ammettere un generale e incondizionato sindacato giudiziale sul quomodo dell’esercizio dei poteri pubblici comporterebbe il rischio di un sostanziale sconfinamento del giudice in ambiti valutativi riservati dalla legge al potere esecutivo, il che rappresenterebbe uno stravolgimento dell’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri e ordini dello Stato[37].
Posta in questi termini, la questione a ben vedere non differisce qualitativamente dall’analogo problema che si pone, in diritto amministrativo, quando si tratta di individuare i limiti del sindacato giurisdizionale di legittimità: senza poter qui approfondire il tema, è sufficiente rammentare che, ancorché all’esito di un secolare processo di erosione degli ambiti di discrezionalità un tempo ritenuti sottratti al controllo del giudice amministrativo, all’insegna del principio di pienezza ed effettività della tutela delle situazioni giuridiche dei cittadini[38], residui pur sempre una “linea di confine” che definisce l’ambito delle scelte riservate per legge all’amministrazione, e come tale sottratte a ogni sindacato giudiziale. Tale sfera viene comunemente fatta coincidere con quella del merito amministrativo[39], il cui sindacato è precluso al giudice salvo che nei casi tassativamente indicati dalla legge[40], con le problematiche aggiuntive della sindacabilità degli atti “politici” o di alta amministrazione[41]. Ebbene, proprio in ragione dell’ampliamento dei poteri e degli strumenti a disposizione del giudice amministrativo per assicurare al cittadino una tutela realmente piena ed effettiva nei suoi rapporti con la p.a., nonché del ruolo “conformativo” e di orientamento dell’attività amministrativa che perciò stesso le pronunce di tale giudice assumono[42], è sempre più concreto il rischio di tensioni rispetto al confine stesso tra giurisdizione e amministrazione[43], come esemplificato anche da vicende di attualità[44].
Alla luce di questa identità di problematiche, l’affermazione per cui “oggi nessuno mette in dubbio l’assoluta autonomia di accertamento per mezzi, per tipo di interessi, per finalità che c’è nel processo penale rispetto a quello amministrativo”[45] necessita di esplicitazione. Con essa ci si riferisce, innanzi tutto, alla diversità degli strumenti e delle tecniche di tutela che l’ordinamento pone a disposizione delle diverse giurisdizioni, essendo di regola al giudice amministrativo che viene attribuito il potere di annullare gli atti della pubblica amministrazione (ancorché esso non detenga il monopolio esclusivo di tale potere)[46], mentre fin dall’epoca della legge abolitrice del contenzioso amministrativo (legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E) è stato attribuito al giudice ordinario il potere di “disapplicazione”, con effetti limitati al solo caso esaminato, degli atti amministrativi ritenuti illegittimi[47]. Con riguardo poi agli “interessi” tutelati ed alle “finalità” perseguite, è qui che si rinviene la principale diversità “ontologica” fra le due giurisdizioni: mentre il giudice amministrativo, come già osservato, è chiamato ad assicurare la tutela delle situazioni soggettive dei cittadini (interessi legittimi ovvero, nelle “particolari materie” la cui individuazione l’articolo 103 Cost. devolve alla legge, anche diritti soggettivi) a fronte dello scorretto esercizio del potere pubblico, il giudice penale è deputato a esercitare un controllo “oggettivo” di legalità dell’azione amministrativa, a garanzia dei valori costituzionalmente rilevanti dell’imparzialità e del buon andamento della p.a.. Elemento comune alla funzione di entrambi i giudici, in ogni caso, è l’individuazione dell’interesse pubblico che l’amministrazione, e per essa il singolo organo o funzionario agente, dovrebbe perseguire sulla base della norma (o delle norme) di riferimento.
A questo punto, se ci si chiede se la diversità di ratio e di finalità del sindacato esercitato dai due ordini giurisdizionali sia di per sé idonea a giustificare la definizione normativa di diverse “soglie” di ammissibilità del sindacato stesso, la risposta non può che essere affermativa. Il sindacato del giudice amministrativo, trovando il proprio fondamento nel principio costituzionale di piena giustiziabilità delle situazioni giuridiche degli amministrati (ex articolo 113 Cost.), è necessariamente esteso a tutti i vizi di legittimità – ivi compresi, e soprattutto, quelli afferenti all’esercizio del potere discrezionale – e non soffre limiti se non quelli rivenienti dall’impossibilità di sostituire valutazioni di merito dell’organo giurisdizionale a quelle proprie della p.a. (salvi, come detto, i casi tassativi in cui pure ciò è possibile). Al contrario, è ragionevole ritenere che il diverso fondamento del sindacato del giudice penale, unitamente alla notoria funzione di extrema ratio dell’ordinamento riconosciuta alla sanzione penale[48], autorizzi l’individuazione di un diverso limite, che escluda in tutto o in parte dall’ambito della cognizione giudiziale proprio quella “zona grigia” del giudizio di legittimità che, investendo le valutazioni discrezionali della p.a., si pone ai confini del merito amministrativo. Pertanto, al di là della diversità di strumenti e tecniche di tutela, dal punto di vista del sindacato in sé considerato vi sarebbe fra le due giurisdizioni soltanto una diversità quantitativa di “intensità” del sindacato stesso.
Volendo adesso porsi il problema di dove debba essere individuata la diversa “soglia” di ammissibilità del sindacato giudiziale penale, escluso – per le ragioni evidenziate a conclusione del paragrafo precedente – che sia obbligata la scelta di escludere in toto ogni spazio di sindacabilità delle valutazioni discrezionali dell’amministrazione[49] (come è nella novella di cui al d.l. n. 76/2020), occorre muovere dall’ovvio rilievo che la stessa definizione di una siffatta “soglia” comporta la conseguenza che vi sia un ambito più o meno ampio in cui la illegittimità dell’atto, ove pure accertata sul piano amministrativo, non è mai suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio. Pertanto, al fine di ritagliare tale “zona franca” dal controllo del giudice penale è necessario prendere le mosse dall’esatta delimitazione dell’area della possibile illegittimità quale risultante dalle conclusioni di dottrina e giurisprudenza amministrative, con specifico riguardo al vizio di eccesso di potere, che costituisce la sub-area nella quale il confine de quo deve essere tracciato.
Si è detto che, fin dalle prime riflessioni dottrinarie sulla discrezionalità amministrativa, l’essenza di questa è stata rinvenuta nel riconoscimento normativo in capo alla p.a. di un potere di scelta: nella manualistica tradizionale essa è definita come la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico coerentemente a quella che è la causa dell’attribuzione del potere da parte della legge[50], aggiungendosi che essa si differenzia dal mero arbitrio solo perché il suo cattivo uso è giustiziabile da parte degli amministrati coinvolti nelle scelte[51], ovvero perché integra un dovere-funzione posto dalla legge come contraltare dello stesso potere pubblico della p.a., in conformità ad un modello di buona amministrazione[52]. In una fase successiva, si è individuato proprio nel carattere dell’interesse pubblico, che non è fisso e predefinito dalla legge ma al contrario mutevole e magmatico, il motivo per cui il problema delle valutazioni discrezionali della p.a. appartiene al concreto amministrare e non all’astratta lettura e interpretazione delle norme; nella sua ricerca del modo migliore per perseguire l’interesse pubblico che è chiamata a perseguire (c.d. interesse pubblico primario), l’amministrazione è chiamata a operare una sintesi e una composizione degli altri interessi pubblici e privati implicati nella propria azione (c.d. interessi secondari). Il miglior perseguimento dell’azione amministrativa è proprio il frutto della ponderazione di tali interessi, il cui luogo tipico e privilegiato di composizione è il procedimento amministrativo[53]. Implicita in quest’ultimo approccio era, fra l’altro, l’affermazione dell’esistenza di più possibili modalità legittime di composizione degli interessi coinvolti e di perseguimento dell’interesse primario[54].
Queste conclusioni sono state recepite e profondamente assimilate dalla giurisprudenza amministrativa, essendo ormai pacifica l’affermazione che il proprium della discrezionalità consiste nella ponderazione dei diversi interessi implicati nell’azione della p.a., e segnatamente nella comparazione dell’interesse pubblico da perseguire con gli altri interessi, pubblici e privati, che vengono in rilievo[55]. L’incidenza dei principi eurounitari di proporzionalità e ragionevolezza, poi, porta a concludere che la predetta attività di ponderazione e comparazione può dirsi correttamente svolta allorché la scelta adottata conduce a realizzare l’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile degli altri interessi coinvolti[56]. In tale ottica, potrà aversi illegittimità per cattivo esercizio del potere discrezionale (e, quindi, per eccesso di potere) anche qualora l’interesse pubblico sia bensì realizzato, ma senza rispettare i principi testé richiamati, ad esempio perché per incompleta o insufficiente istruttoria o valutazione sia imposto ai destinatari dell’attività amministrativa un sacrificio eccessivo o ingiustificato[57].
Se si rapportano questi concetti all’ambito del sindacato del giudice penale, è del tutto ragionevole ritenere che non tutte le ipotesi di illegittimità debbano assurgere a rilevanza penale sotto il profilo del reato di abuso d’ufficio, ma unicamente quelle più gravi, in cui l’interesse pubblico non sia affatto realizzato e in luogo di esso l’agente persegua esclusivamente fini privati. In questo senso, per vero, si è espressa una parte della giurisprudenza della Cassazione, a partire da un’importante sentenza delle Sezioni unite del 2011[58], in cui si è affermato che ai fini della sussistenza del reato di abuso d’ufficio l’elemento della “violazione di legge o di regolamento” sussiste non solo quando la condotta del pubblico ufficiale “sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimino lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito”. Insomma, non ogni possibile modalità di esplicazione dell’eccesso di potere rileva ai fini dell’integrazione del reato de quo, ma solo quella – un tempo individuata dalla giurisprudenza amministrativa sotto l’etichetta dello “sviamento di potere”[59] – in cui l’interesse pubblico cui il potere dell’agente è teleologicamente preordinato viene pretermesso, e in suo luogo è perseguito in via esclusiva un interesse diverso.
La giurisprudenza successiva non è stata univoca nel seguire questa impostazione[60], ma essa ha il pregio di cogliere – sia pure in modo ancora imperfetto e insufficiente, come appresso si dirà – un aspetto di estrema rilevanza per la risoluzione del problema della ragionevole ed equilibrata individuazione di un limite al sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa.
3. Una possibile ipotesi de jure condendo.
Gli orientamenti che pongono l’accento sulla natura, pubblica o privata, dell’interesse perseguito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, pur cogliendo un elemento decisivo ai fini della qualificazione della condotta in termini di illiceità penale (e non di mera illegittimità rilevante sul piano amministrativo), talora inquadrano il tema sul terreno dell’elemento soggettivo del reato, nel senso di assegnare rilevanza alla finalità soggettivamente voluta dall’agente al fine di ricavare la prova del dolo[61]. In questo modo, però, si rischia di assegnare al giudice una incerta e opinabile indagine sui “motivi” interiori dell’agente, laddove invece la soglia della rilevanza penale dovrebbe essere ancorata a dati fattuali o comunque oggettivi[62].
Ebbene, ad avviso di chi scrive è solo sul piano dell’evento che può apprezzarsi la finalità concretamente realizzata dall’agente, dal momento che – come si è più sopra evidenziato – uno dei tratti qualificanti della novella del 1997 è stato la trasformazione dell’abuso d’ufficio, appunto, in reato di evento. Come noto, l’evento del reato in esame è in particolare costituito dal prodursi di un “ingiusto vantaggio” per l’agente stesso o per altri ovvero di un “danno ingiusto” per altri (con l’ulteriore delimitazione che, nel caso del vantaggio, occorre che questo sia “patrimoniale”, non essendo sufficiente un vantaggio purchessia). Sul piano del diritto amministrativo, assume rilevanza decisiva il carattere di “ingiustizia” che il vantaggio o il danno devono rivestire, essendo dato di comune esperienza – e perfino banale – che qualsiasi provvedimento amministrativo, incidendo sulla sfera giuridica di uno o più destinatari, fisiologicamente procura loro vantaggi o pregiudizi[63]; il che comporta che ai fini della configurabilità del reato de quo occorre che il vantaggio o il danno cagionato dalla condotta dell’amministratore si connoti di un quid pluris rispetto a quelli che sarebbero gli ordinari effetti (favorevoli o sfavorevoli) del provvedimento dallo stesso adottato.
Ci si deve allora chiedere che cosa il legislatore abbia voluto intendere nel rimarcare che il vantaggio o il danno, oltre a essere il risultato di una dolosa violazione di norme di legge o di regolamento, sia anche “ingiusto”. Sul punto, la giurisprudenza è ormai attestata sull’affermazione che l’ingiustizia del danno (o del vantaggio) non può essere desunta implicitamente dall’illegittimità della condotta, in quanto il requisito della “doppia ingiustizia” richiesto dalla norma presuppone l’autonoma valutazione degli elementi costitutivi del reato[64]. Si tratta certamente di un rilievo importante, siccome tendente a escludere che il carattere di ingiustizia dell’evento possa considerarsi in re ipsa in ragione della semplice violazione di norme commessa dall’agente; tuttavia, quando si tratta poi di precisare in che cosa detta “ingiustizia” si sostanzi, si ricorre per lo più a formule generiche e descrittive, inidonee a chiarire la voluntas legis e a volte quasi tautologiche, come quando si definisce ingiusto ogni comportamento, espressione della volontà prevaricatrice del pubblico funzionario, che determini un’aggressione ingiusta alla sfera della personalità, per come tutelata dai principi costituzionali[65] o ingiusto il vantaggio non spettante in base al diritto oggettivo[66], ovvero si compiono operazioni opinabili quali il mutuare criteri e parametri elaborati in sede civile in materia di responsabilità aquiliana[67].
In realtà, è evidente che la nozione di “ingiustizia” riferita agli effetti, di danno o vantaggio, della condotta dell’amministratore pubblico non può che essere peculiare, dovendo essere parametrata sugli effetti che in via ordinaria, e cioè al netto della violazione di norme di legge o di regolamento, l’attività dell’agente avrebbe potuto o dovuto produrre. Così impostata la questione, ferma restando l’illegittimità ravvisabile sul piano amministrativo quante volte possa emergere un cattivo esercizio del potere discrezionale tale da condurre a un non ottimale assetto degli interessi implicati (per cui, ad esempio, taluno subisce un danno non strettamente necessario per la realizzazione dell’interesse pubblico perseguito dall’agente, ovvero un danno maggiore o un vantaggio inferiore di quelli che una corretta ponderazione dei valori in campo avrebbe potuto determinare), potrebbe predicarsi che la “ingiustizia” penalmente rilevante sia integrata solo nelle ipotesi estreme in cui risulti perseguito un interesse totalmente alieno rispetto all’interesse pubblico che la norma attributiva del potere mira a perseguire.
Si tratterebbe, insomma, di “codificare” con gli opportuni adeguamenti l’indirizzo espresso dalle Sezioni unite della Cassazione nel 2011, assegnando rilevanza decisiva alla prevalenza di un interesse privato, o comunque di un interesse disomogeneo e irriducibile all’interesse pubblico che l’agente dovrebbe realizzare. In questo modo, contrariamente a quanto prima facie potrebbe sembrare, non si ritornerebbe alla fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio incriminata dall’abrogato articolo 324 cod. pen., norma che aveva a sua volta causato interminabili dispute interpretative in ordine al carattere esclusivo o aggiuntivo dell’interesse privato perseguito dall’agente rispetto all’interesse pubblico, non mancando chi reputava che la previsione mirasse a sanzionare “qualsiasi svolgimento di attività in cui si realizzi anche un semplice contatto dell’interesse pubblico con quello del pubblico ufficiale, essendo a quest’ultimo vietato di rappresentare nello stesso tempo il duplice interesse”[68]; al contrario, assegnare rilevanza al solo perseguimento in via esclusiva di un interesse privato, assieme al mancato perseguimento dell’interesse pubblico indicato dalla norma violata, determinerebbe il superamento degli indirizzi giurisprudenziali rigoristici che ancora oggi considerano irrilevante la eventuale compresenza di una finalità pubblicistica quale risultato della condotta di abuso, sul rilievo che l’interesse pubblico deve sempre costituire l’obiettivo principale o esclusivo della sua attività[69].
In definitiva, senza più intervenire sugli elementi costitutivi della fattispecie tipica, per ottenere significativi risultati di delimitazione dell’ambito di intervento del giudice penale sull’attività discrezionale della p.a. potrebbe essere sufficiente inserire nell’articolo 323 cod. pen. una disposizione del seguente tenore: “Agli effetti del presente articolo, è ingiusto il vantaggio o il danno che costituisce l’unico risultato perseguito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, quando non sono realizzate le finalità di pubblico interesse cui le norme violate sono preordinate”.
4. Conclusioni.
L’ipotesi di riforma qui prospettata, da un lato, recepisce gli approdi della giurisprudenza della S.C. maggiormente attenta al profilo amministrativo della rilevanza del pubblico interesse ai fini della qualificazione in termini penalistici della condotta illegittima posta in essere dall’amministratore pubblico; dall’altro lato, cerca di realizzare una sintesi tra le conseguenze della previsione del dolo intenzionale, nel senso della necessità di accertare che effettivamente l’agente abbia voluto con la propria condotta causare un ingiusto vantaggio o un danno ingiusto[70], e l’esigenza che i risultati prodotti da tale condotta e il loro impatto sulla legalità dell’azione amministrativa siano apprezzati dal giudice per quanto possibile su un piano oggettivo.
Certo non ci si illude che con la modifica proposta siano magicamente risolti tutti i problemi che accompagnano l’applicazione della fattispecie di reato in esame (atteso che, come si è accennato in principio, il superamento della cd. “amministrazione difensiva” postula ben più incisivi interventi a livello culturale e sociale). In particolare, essa lascerebbe al giudice penale, in sede di interpretazione delle norme che si assumono violate dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, l’individuazione di quale sia l’interesse pubblico per il cui perseguimento esse hanno attribuito all’agente il potere del quale si contesta l’abusivo o illegittimo esercizio; ma questa costituisce una conseguenza ineliminabile della costruzione normativa della fattispecie de qua come figura “di confine” tra diritto penale e diritto amministrativo, alla quale è coessenziale il richiamo a norme extrapenali disciplinanti l’azione dei pubblici poteri.
A supporto dell’opera ermeneutica del giudice sotto il profilo qui evidenziato, ben potranno operare le circolari, direttive o linee-guida che la stessa amministrazione o altre amministrazioni abbiano emanato per regolare l’esercizio del potere (atti che è preferibile lasciare alla cognizione giudiziale quali elementi “esterni” di integrazione della fattispecie, piuttosto che richiamare direttamente in norma primaria quali fattori rilevanti ai fini della sua configurazione)[71], e non potrà prescindersi ovviamente dall’interpretazione e applicazione delle norme di riferimento fornita anche dalla giurisprudenza amministrativa, quale espressione della giurisdizione istituzionalmente preposta alla verifica del corretto rispetto dell’interesse pubblico (sia pure sotto il diverso profilo della tutela da assicurare ai cittadini lesi nei propri diritti e interessi legittimi).
Ogni diversa opzione ipotizzabile comporta il rischio o di “ingessare” eccessivamente il sindacato giudiziale con effetti difficilmente prevedibili, come per le proposte intese a richiamare espressamente nell’articolo 323 cod. pen. la necessità di rispettare direttive amministrative o indirizzi giurisprudenziali per loro natura mutevoli, o di pagare un prezzo eccessivo sul piano della legalità, come per le proposte – quale è quella prescelta nel decreto-legge da ultimo varato – che finiscono per espungere dall’area del penalmente rilevante una porzione preponderante dell’illegittimità amministrativa.
In definitiva, perché il sistema immaginato funzioni appare imprescindibile che anche tra giudice penale e giudice amministrativo si rafforzi quella cooperazione nella quale, secondo l’intuizione di Costantino Mortati raccolta dall’Assemblea costituente e ripresa in tempi recenti anche dalla Corte costituzionale[72], si realizza la “unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé”[73]. Questo processo di osmosi è più avanzato nei rapporti tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione civile, nel segno del perseguimento di obiettivi di maggiore pienezza ed effettività della tutela dei cittadini[74], ma forse va coltivato anche rispetto alla giurisdizione penale, quanto meno in relazione al controllo che i diversi ordini giudiziari, ciascuno nel proprio ambito e con riguardo al proprio ruolo istituzionale, devono assicurare sulla legalità dell’azione amministrativa.
* * *
* Il presente contributo costituisce sviluppo e ampliamento dell’intervento svolto al webinar sul tema “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, tenutosi il 13 luglio 2020.
[1] Al culmine di una serie di provvedimenti mirati al sostegno di imprese e altri soggetti colpiti dall’emergenza, è stato da ultimo varato il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (“Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”), su cui si tornerà nel prosieguo del presente contributo.
[2] Sul tema, ampiamente, S. Battini – F. Decarolis, L’amministrazione si difende, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 1, p. 294, che definiscono il fenomeno “una distorsione delle scelte dell’amministratore indirizzate all’autotutela rispetto ai rischi, sia patrimoniali che non”, derivanti dall’assunzione di decisioni.
[3] Molto chiara sul punto, ad esempio, P. Severino, La burocrazia difensiva, in La Repubblica, 30 maggio 2020; cfr. anche M. Clarich – S. Micossi, Ripresa, due proposte per evitare la paralisi da burocrazia, in Il Sole 24Ore, 22 maggio 2020; G. Pignatone, Se l’abuso d’ufficio e la burocrazia difensiva imbrigliano il Paese nell’immobilismo, in La Stampa, 14 giugno 2020.
[4] Si vedano, fra le tante, le dichiarazioni riportate in La Stampa, 8 luglio 2020 (p. 4), e, ancora prima, la lettera del premier pubblicata sul Corriere della Sera, 27 maggio 2020 (“Investimenti digitali e una riforma fiscale. Pronti a cambiare il reato di abuso d’ufficio”).
[5] Al riguardo, cfr. V.M. Siniscalchi, L’abuso di ufficio e le improbabili “semplificazioni”, in Il Mattino, 9 luglio 2020, in cui l’A. ricostruisce il proprio contributo in sede parlamentare alla novella del 1997.
[6] Così P. Tanda, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o di regolamento, in Cass. pen., 1999, p. 2121.
[7] Cfr. I.A. Santangelo, L’abuso di ufficio, in Giur. merito, 2003, 3, pp. 1021 ss., secondo cui l’inciso iniziale della norma (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”) indica che il principio di “sussidiarietà”, connotativo della disciplina del 1930, sarebbe stato sostituito nel 1990 da quello di “consunzione”, nel senso che è sussidiaria quella norma che tutela un grado inferiore dell’identico interesse, mentre si ha consunzione allorché una condotta viene a violare una pluralità di norme di cui l’una contenuta perfettamente nell’altra (evocandosi dunque il tema del concorso di norme, piuttosto che quello della sussidiarietà tra di esse).
[8] Naturalmente in questa sede non interessa approfondire il tema, tuttora dibattuto in ambito giornalistico e politico, dei più o meno presunti “abusi” commessi dalla magistratura durante quella stagione. Al riguardo, cfr. T. Padovani, Il problema tangentopoli tra normalità dell’emergenza ed emergenza della normalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, pp. 461 ss.
[9] Cfr. A. Merli, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, in Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it), 16 novembre 2012, p. 13 (con richiami in nota dei lavori parlamentari).
[10] Tra le ordinanze di rimessione alla Corte, poi rimaste senza esito a causa del sopravvenire della novella, si segnalano Trib. Milano, 21 giugno 1996, Crusco; Trib. Piacenza, G.i.p., 16 aprile 1996, Ferri.
[11] Su questi punti, sia consentito rinviare a R. greco – A. Nocera – S. Zeuli, Codice penale illustrato, Piacenza, 2013, pp. 367 ss.
[12] Cfr. ad esempio R. Li Vecchi, Art. 323 c.p.: una riforma ancora in cerca di una sua identità, in Riv. pen., 1998, p. 132, e, più di recente, S. Perongini, Le ragioni che consigliano l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, in AA.VV., Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, a cura di A. Castaldo, pp. 13 ss.
[13] Ci si riferisce, in particolare, alla proposta elaborata dalla Commissione di Studio e Riforma dell’abuso d’ufficio, presieduta dal prof. Castaldo, su cui si tornerà infra (per un’analisi di tale proposta, cfr. V. Naddeo, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in Migliorare le performance della pubblica amministrazione, riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., pp. 31 ss.).
[14] Può suscitare qualche critica la scelta di rendere la nuova norma immediatamente applicabile, anziché differirne l’efficacia all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, in considerazione delle difficoltà applicative che potrebbero derivare dall’eventuale introduzione di modifiche in fase di conversione (sul tema, in generale, cfr. E. Di Agosta, Democrazia, legalità, politica criminale dell’emergenza. L’uso del decreto-legge in materia penale, in Cass. pen., 2014, 9, pp. 3149 ss.).
[15] Nella proposta Castaldo si faceva riferimento alla violazione di “formali norme di legge o di regolamento inerenti la disciplina di forme, procedure e requisiti imposti per l’esercizio della funzione o del servizio stesso”.
[16] Il riferimento al residuare di “margini” di discrezionalità sembrerebbe richiamare non solo l’ipotesi di poteri ab initio vincolati in base alla legge, ma anche tutta la vasta casistica delle fattispecie in cui l’attività della p.a. è vincolata de facto per effetto di precedenti atti di autoregolamentazione adottati dalla stessa amministrazione ovvero di decisioni giudiziali intervenute su precedenti atti di esercizio del medesimo potere.
[17] Del resto, già nel 1999 un attento osservatore rimarcava come “credere (…) di trovare la soluzione del problema nella sola corretta individuazione della condotta tipica punibile, costituisce un approccio alla tematica in esame sotto alcuni profili ingenuo e sotto altri fuorviante” (P. Tanda, op. cit., p. 2119).
[18] Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel 2017 su oltre 6500 procedimenti si sono avute solo 57 condanne, mentre nel 2018 circa 6000 indagini su 7000 sono state definite con decreto di archiviazione o con sentenza di proscioglimento in udienza preliminare: cfr. A. Cherchi – I. Cimmarusti – V. maglione, Rischio abuso d’ufficio: 6500 inchieste l’anno ma solo 57 condanne, in Il Sole 24Ore, 16 giugno 2020.
[19] Si omette, perché sostanzialmente estraneo al perimetro del presente contributo, l’esame di proposte normative che pure vi sono state al fine di disciplinare tempi e modalità dell’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 cod. proc. amm. del reato di abuso d’ufficio dal parte del p.a. (ci si riferisce alla già citata proposta Castaldo, che prevedeva il differimento dell’iscrizione all’esito di una prima interlocuzione con l’interessato al fine di verificare la conformità della condotta a linee guida: su quest’ultimo punto, v. infra, nota 69).
[20] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 13 settembre 2006, n. 8395.
[21] Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877. Sul punto si è espressa anche la Corte costituzionale con l’ordinanza 14 luglio 2016, n. 117, su cui cfr. M. Galdi, Un’anomala ordinanza della Consulta in tema di abuso d’ufficio e… di eccesso di potere, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[22] A fronte di un più risalente indirizzo che escludeva tout court la rilevanza della violazione dell’articolo 97 Cost. (Cass. pen., 10 aprile 2007, n. 22702; id., 8 maggio 2003, n. 35108; id., sez. II, n. 877/1997, cit.), si è affermata negli ultimi anni l’idea che la predetta norma costituzionale abbia una “parte precettiva”, la cui violazione è suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio, laddove vieta agli amministratori pubblici di adottare ingiustificate preferenze e favoritismi: cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 giugno 2018, n. 49549; id., sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096; id., sez. VI, 2 aprile 2015, n. 27816; id., 24 giugno 2014, n. 37373; id., 26 giugno 2013, n. 34086; id., 17 febbraio 2011, n. 27453.
[23] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 24 settembre 2001, n. 45261.
[24] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149; id., sez. II, n. 877/1997, cit.
[25] Cfr. Cass. pen., sez. III, 23 marzo 2016, n. 38704; id., sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 10140.
[26] Sulle incertezze interpretative attorno alla nozione di “regolamento”, nella misura la giurisprudenza ha spesso ritenuto che con essa si possa evocare genericamente tutta l’area della normazione subprimaria o secondaria, cfr. I.A. Santangelo, op. cit.; P. Tanda, op. cit.
[27] Solo a titolo di esempio, si rammenta che, per effetto del comma 27-bis dell’articolo 216 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), introdotto dal decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55 (cd. “Sblocca Cantieri”), saranno disciplinate dal nuovo “regolamento unico” di esecuzione, attuazione e integrazione del Codice stesso le “procedure di affidamento e realizzazione dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie”, ivi comprese quelle di affidamento diretto al di sotto delle soglie stabilite dall’articolo 36 del Codice e le modalità di attuazione del principio di rotazione tra gli operatori economici. Non v’è chi non veda il rischio della sottrazione a ogni possibile intervento del giudice penale di violazioni anche gravi di queste disposizioni, già ex se introduttive di previsioni flessibili e ampiamente derogatorie delle regole dell’evidenza pubblica e destinate ad applicarsi a una quota numericamente preponderante delle commesse pubbliche.
[28] Sull’eccesso di potere, in generale, cfr. E. Cardi – S. Cognetti, Eccesso di potere (atto amministrativo), in Dig. disc. pubbl., Torino, pp. 341 ss.; P. Gasparri, Eccesso di potere (diritto amministrativo), in Enc. giur., XII, Roma, 1989. Sull’eccesso di potere come vizio tipico dell’attività discrezionale della p.a., cfr. L. Levita, L’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione. Forme e limiti dell’esercizio del potere amministrativo, Matelica, 2008, p. 109; R. Chieppa, Discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, in AA.VV., Studi di diritto amministrativo, a cura di R. Chieppa e V. Lopilato, Milano, 2007; S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, pp. 908 ss. Sull’enucleazione dell’eccesso di potere nella giurisprudenza del Consiglio di Stato dei primi tre decenni del Novecento, cfr. C. Contessa, I principi regolatori dell’attività amministrativa tra diritto nazionale ed eurounitario, in AA.VV., L’attività amministrativa e le sue regole, a cura di C. Contessa e R. Greco, Piacenza, 2020, pp. 5 ss.
[29] Cfr. A. Merli, op. cit., pp. 13 ss.
[30] Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, n. 877, cit., in Guida dir., 1998, 9, pp. 74 ss., con nota di O. Forlenza, La violazione di legge assume rilievo penale solo se non è di carattere formale.
[31] Cfr. Cass. pen., sez. V, 1 ottobre 2010, in Mass. Uff., n. 35501; id., sez. VI, 18 ottobre 2006, n. 38965; id., 10 dicembre 2001, n. 1229. La giustificazione teorica di questo indirizzo risiede nell’osservazione che la nozione di “violazione di legge” impiegata dall’articolo 323 cod. pen. va differenziata dal vizio di “violazione di legge” individuato dall’articolo 26 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e dall’articolo 2 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (e, oggi, dall’articolo 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15), tra i vizi tipici dell’atto amministrativo (cfr. M. Gambardella, Considerazioni sulla “violazione di norme di legge” nel nuovo delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), in Cass. pen., 1998, p. 2338, nonché A. Pagliaro, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere e abuso di ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, 1, pp. 107 ss.). Inoltre, non si dubitava che il reato potesse essere integrato anche da meri comportamenti materiali, non sostanziatisi nell’adozione di formali atti amministrativi (purché posti in essere “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”), e per i quali pertanto nemmeno poteva porsi il problema dell’individuazione di uno specifico vizio di legittimità (cfr. R. Greco – A. Nocera – S. Zeuli, op. cit., p. 370).
[32] Così A. Pagliaro, Principi di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2000, p. 242. Cfr. anche G. La Greca, La nuova figura di abuso d’ufficio: questioni applicative, in Foro it., 1998, II, p. 383, che evidenzia l’imprescindibile necessità di sanzionare lo “stravolgimento dell’uso dei poteri discrezionali”.
[33] Cfr. A. Segreto – G. De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1995, pp. 504 ss. Con riguardo all’assetto successivo alla novella del 1997, si veda I.A. Santangelo, op. cit., che individua ancora il bene tutelato dalla norma nel “perseguimento dell’interesse di assicurare il buon funzionamento della p.a., attraverso il corretto e non deviato esercizio delle pubbliche funzioni ad esso sotteso”.
[34] Già in occasione della riforma del 1997, la carenza di un approfondito confronto scientifico tra penalisti e amministrativisti era lamentata da G. Fiandaca, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, pp. 319 ss. Sottolineava ancora la necessità di un “approccio interdisciplinare” P. Tanda, op. cit., p. 2120.
[35] In particolare, di scarso interesse e pressoché nulla significatività tecnico-giuridica è la polemica su quanti e quali amministratori pubblici, imputati o sottoposti a indagini per abuso d’ufficio, trarranno beneficio dall’annunciata modifica dell’articolo 323 cod. pen.: cfr. La Stampa, 1 luglio 2020 (p. 4).
[36] Al riguardo, cfr. S. Massi, Parametri formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Arch. pen., n. 1/2019.
[37] Cfr. A. Merli, Sindacato penale sull’attività amministrativa e abuso d’ufficio, Napoli, 2012, pp. 22 ss.; anche L. Violante, Magistrati, Torino, 2009, p. 51.
[38] Fra le principali tappe di questo processo evolutivo, che a volte viene fatto coincidere con quello di trasformazione del giudizio amministrativo da processo “sull’atto” a processo “sul rapporto”, possono richiamarsi l’elaborazione della teoria del procedimento amministrativo culminata nel varo della legge 7 agosto 1990, n. 241, le incisive riforme attuate con la legge 21 luglio 2000, n. 205, con l’attribuzione al giudice amministrativo di significativi poteri di accesso al fatto (in primis, la possibilità di disporre consulenza tecnica d’ufficio anche nelle controversie in materia di interessi legittimi) e, da ultimo, l’ampliamento della tipologia delle azioni esperibili nei confronti della p.a. e degli strumenti istruttori e decisori a disposizione del giudice nel codice processuale del 2010.
[39] Risale a M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, la definizione del “merito” come l’ambito delle scelte di mere opportunità che residuano all’amministrazione una volta constatato che esistono più modalità legittime di perseguimento dell’interesse pubblico indicato dalla legge. In tema, si veda anche in generale G. Coraggio, Merito amministrativo, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976.
[40] I casi di giurisdizione estesa al merito, che peraltro si ritiene costituire una categoria storicamente recessiva, sono oggi indicati all’articolo 134 del codice del processo amministrativo. Per una ricognizione generale, con riferimento al quadro normativo anteriore al codice, cfr. G. Vacirca, La giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici, in www.giustizia-amministrativa.it, 2008.
[41] Sul persistere nel nostro ordinamento (attualmente, nell’articolo 7, comma 1, cod. proc. amm.) del principio della non impugnabilità degli “atti politici”, categoria che ha suscitato dubbi di incostituzionalità in relazione all’articolo 113, secondo comma, Cost., e comunque risulta fortemente ridimensionata dall’applicazione giurisprudenziale, cfr. T. Klitsche De La Grange, L’atto politico (e il “politico”), in Giust. civ., 2008, 2, 517. Sugli atti di alta amministrazione, cfr. N. Paolantonio, Sul sindacato di legittimità nei confronti degli atti di alta amministrazione, in www.giustamm.it, n. 1/2005.
[42] Sulla peculiare funzione “conformativa” delle decisioni del giudice amministrativo, cfr. M.A. Sandulli, I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in federalismi.it, n. 18, 23 settembre 2009.
[43] Sul punto, si rinvia a R. Greco, Le situazioni giuridiche soggettive e il rapporto procedimentale, in AA.VV., L’attività amministrativa e le sue regole, cit., p. 139.
[44] Basti citare l’intervento del T.A.R. del Lazio sui divieti di sbarco di migranti contenuti nei cosiddetti “decreti Sicurezza” (in Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2019, p. 2), o, più di recente, le decisioni prese in sede cautelare in ordine ad alcune ordinanze di Presidenti di Regione che imponevano divieti di circolazione motivati con la prevenzione della diffusione del contagio da COVID-19 (in Il Giornale, 10 maggio 2020, p. 2).
[45] A. Merli, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, cit., p. 6.
[46] Come è noto, il terzo comma dell’articolo 113 Cost. stabilisce: “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”, con ciò non escludendo affatto che in specifici settori anche al giudice ordinario possa essere attribuito il potere di annullamento: cfr. Corte cost., 23 luglio 2001, n. 75 (in tema di devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie relative al pubblico impiego “contrattualizzato”).
[47] Peraltro, almeno dall’entrata in vigore del codice penale del 1930 l’articolo 5 della L.A.C. è stato ritenuto specificamente indirizzato al giudizio civile, laddove in sede penale, ove anche il giudice fosse chiamato a esprimere un giudizio incidentale di legittimità/illegittimità di un atto amministrativo, non si ritiene doversi far questione di “disapplicazione”, sibbene di verifica della sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, fra i quali rientra anche – come elemento “negativo” – l’esistenza di un provvedimento della p.a. idoneo a rendere lecita la condotta. La casistica è ricca, soprattutto in tema di attività edilizia eseguita sulla base di permesso di costruire illegittimo: cfr. Cass. pen., sez. un., 31 gennaio 1987, n. 3; id., sez. III, 21 settembre 2018, n. 56678; id., sez. VI, 2 marzo 1998, n. 3396. Di “disapplicazione” la S.C. torna a parlare in relazione a settori, come quello dell’immigrazione, in cui l’attività della p.a. certamente impatta su posizioni di diritto soggettivo: cfr. Cass. pen., sez. I, 5 marzo 2020, n. 13975; id., 1 marzo 2019, n. 29465. In dottrina: M. Gambardella, La disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi nel sistema penale dopo le recenti riforme del diritto amministrativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 2, pp. 742 ss.; P. Tanda, Il potere di disapplicazione del Giudice penale: in particolare l’ipotesi di concessione edilizia illegittima, in Riv. giur. ed., 1990, II, pp. 48 ss.
[48] Sul tradizionale principio di “sussidiarietà” della sanzione penale, cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2007, p. 6; F. Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1973, p. 7.
[49] Contra, ma sulla base di una visione del vizio di eccesso di potere ancora legata all’individuazione delle sue “figure sintomatiche (…) basate su presunzioni”, e che trascura la più moderna accezione del vizio de quo come vizio “funzionale” accertabile dal giudice mercé una pluralità di mezzi di prova, A. Merli, op. ult. cit., p. 7.
[50] Così, sostanzialmente, P. Virga, Il procedimento amministrativo, Milano,1979.
[51] Cfr. F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960, pp. 188 ss.
[52] Cfr. G. Miele, Principii di diritto amministrativo, Padova, 1966, pp. 27-28.
[53] Cfr. M.S. Giannini, op. cit.
[54] Sugli sviluppi dottrinari accennati nel testo e sulla temperie che li accompagnò, cfr. F.G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, IV, pp. 1149 ss.
[55] Cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 5 febbraio 2020, n. 932; id., sez. VI, 25 novembre 2019, n. 7989; id., sez. V, 29 maggio 2019, n. 3576; id., sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277; id., 9 febbraio 2016, n. 537.
[56] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 dicembre 2016, n. 5443; id., sez. IV, 3 novembre 2015, n. 4999.
[57] Si pensi, a titolo di esempio, alla “classica” ipotesi della procedura espropriativa avviata sulla base di un’inadeguata conoscenza dello stato dei luoghi che porti all’ablazione di una rilevante porzione della proprietà dell’espropriando, laddove con semplici modifiche del progetto dell’opera pubblica sarebbe stato possibile ottenere una diversa collocazione comportante molto minor sacrificio della proprietà privata.
[58] Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, n. 155.
[59] Tradizionalmente qualificato dalla giurisprudenza come una delle “figure sintomatiche” dell’eccesso di potere, lo sviamento di potere è stato fin da tempi risalenti considerato un vizio comportante per sua natura la necessità di disvelare lo scopo dissimulato dall’azione amministrativa al fine di dimostrare l’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo; è evidente, pertanto, che lo smascheramento dello sviamento, che presuppone l’esercizio di una potestà discrezionale e la cui manifestazione proprio in quanto non coincide con la violazione estrinseca di un dettato normativo evidenziabile tramite un sillogismo giuridico, avviene non ex se bensì attraverso un’operazione di interpretazione in via di deduzione logica (cfr. ad esempio Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 1992, n. 256).
[60] Tra le sentenze che hanno accolto la costruzione delle Sezioni unite del 2011, vanno richiamate Cass. pen., sez. VI, 13 aprile 2018, n. 19519; id., sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019; id., sez. VI, 2 aprile 2015, n. 27816; id., sez. V, 5 febbraio 2014, n. 42835; id., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 43789.
[61] Esemplare, sotto tale profilo, Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2009, n. 41402. Cfr. anche, più di recente, Cass. pen., sez. II, 23 gennaio 2019, n. 10224.
[62] In tal senso, cfr. S. Massi, op. cit.
[63] Al carattere sfavorevole o sfavorevole degli effetti che il provvedimento produce nei confronti dei destinatari si ricollega la fondamentale distinzione degli interessi legittimi, dei quali costoro sono titolari, in oppositivi e pretensivi: cfr. R. Greco, op. cit., pp. 119-120.
[64] Cfr. ex multis Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2018, n. 58412; id., 18 marzo 2016, n. 17676; id., 4 novembre 2015, n. 48913; id., 18 febbraio 2015, n. 10140; id., 14 dicembre 2012, n. 1733; id., sez. V, 2 dicembre 2008, n. 16895; id., 6 luglio 2005, n. 36592.
[65] Così Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 32023.
[66] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 22 febbraio 2019, n. 24186; id., n. 17676/2016, cit.; id., n. 48913/2015, cit.
[67] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 44598.
[68] Così F. Bricola, Interesse privato in atti di ufficio, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972.
[69] Cfr., sia pure sul piano dell’elemento soggettivo del reato, Cass. pen., sez. VI, 17 settembre 2019, n. 51127; id., 19 dicembre 2011, n. 7384.
[70] Nel senso che il dolo intenzionale richiesto dall’articolo 323 cod. pen. debba avere a oggetto solo e specificamente l’evento di vantaggio o di danno, cfr. tra le più recenti Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2017, n. 27794; id., sez. IV, 11 dicembre 2015, n. 87; id., sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019.
[71] Nella già citata proposta Castaldo è prevista l’introduzione di una causa di non punibilità nelle ipotesi in cui il pubblico amministratore abbia agito nel rispetto di siffatti provvedimenti (“Non sono punibili le condotte che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio adotti nel rispetto delle linee-guida e dei pareri formalmente resi dall’Autorità regionale di controllo”).
[72] A partire dalla sentenza 6 luglio 2004, n. 204, e fino alla più recente sentenza 18 gennaio 2018, n. 6.
[73] Assemblea costituente, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947.
[74] In tema, cfr. G. Abbamonte, Alcune riflessioni sull’evoluzione di concetti e indirizzi sulla giustizia nell’amministrazione e sulla cooperazione tra giurisdizioni, in AA.VV., Le nuove frontiere del giudice amministrativo, a cura di G. Pellegrino, Milano, 2008, pp. 85 ss.
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