ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ci sei ma non ti vedo…. Il posto delle donne nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Valentina Cardinali
Sommario: 1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere” - 2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano - 3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole - 4. Alcune proposte.
1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere”
La Commissione europea il 17 settembre scorso ha presentato gli orientamenti per i Piani di ripresa e resilienza (PNRR) che gli Stati membri dovranno presentare per accedere al Recovery Fund - Dispositivo per la ripresa e la resilienza - all’interno del Programma NextGenerationEU: si tratta nello specifico di complessivi 672,5 miliardi di euro, 360 miliardi di euro dei quali in prestiti e 312,5 miliardi in sussidi, che per l’Italia sono stimati in 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni [1]. Il termine per la presentazione dei PNRR nazionali è il 30 aprile 2021, ma gli Stati membri sono incoraggiati a presentare i loro progetti preliminari a partire dal 15 ottobre 2020. Attualmente, il Governo italiano ha trasmesso alle Camere la proposta di Linee guida per la definizione del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[2]. Al termine di questo vaglio, il Governo elaborerà lo schema di PNRR e dei relativi progetti di investimento e riforma, secondo il modello predisposto dalla Commissione europea e si avvierà l’iter di richiesta.
Tra i vari vincoli di contesto a cui questo processo è soggetto, va ricordato anche che il Parlamento Europeo ha varato una risoluzione a commento di Next Generation EU e del quadro finanziario pluriennale[3] in cui, al paragrafo 16, richiede che gli Stati membri adottino: a) Gender Mainstreaming, b) Gender Budgeting e c) Gender Impact Assessment. Ossia nell’ordine: a) l’integrazione della prospettiva di genere in tutte le attività e in tutte le politiche: dal processo di elaborazione, all’attuazione, includendo anche la stesura delle norme, le decisioni di spesa, la valutazione e il monitoraggio; b) l’applicazione del principio di gender mainstreaming nella procedura di bilancio - dal momento che i bilanci non sono neutrali, ma hanno un impatto diverso su donne e uomini - con la finalità di strutturare le entrate e le uscite in ottica di uguaglianza tra i sessi; c) la sistematica valutazione degli impatti effettivi e potenziali delle decisioni prese su destinatari uomini e donne a partire dalla fase ex ante, in modo da ovviare a eventuali squilibri prima dell'approvazione della proposta stessa. Questa attività, raccomandata dall’Ue sin dal 2002, non è mai stata messa a sistema nell’attività di policy making italiana.
Stante questo scenario, pertanto, appare centrale, a questo stadio del processo, esaminare la proposta di Linee guida trasmessa al Parlamento proprio in ottica di gender impact assessment.
Punto di partenza: il senso e il progetto di utilizzo del Recovery Fund. Nel momento in cui, in quanto Italia, si richiede la più grande quota di risorse finanziare mai messe a disposizione in tempi di crisi, con il vincolo ai Piani, sancito dalla Ue, di creazione di occupazione e di investimento nello sviluppo e nella coesione sociale, NON può NON essere tenuta in adeguata considerazione la più grande disuguaglianza esistente nel mercato del lavoro e nella sfera economica e sociale: quella tra uomini e donne. Una distorsione che incide nettamente sul Pil nazionale e porta con sé inefficienza produttiva, aumento delle disuguaglianze - anche intergenerazionali - e incidenza sulla fecondità e gli assetti demografici. Le analisi di dettaglio e gli scenari sono ormai tristemente noti. Ricordiamo solo in sintesi che nel nostro Paese abbiamo un tasso di occupazione femminile stabilmente al di sotto del 49% da oltre 30 anni (che diventa 33% al Sud), con più di 20 punti percentuali di distanza dagli uomini e con un differenziale salariale medio tra loro del 22%. Abbiamo una donna su 6 che lascia il lavoro a seguito della maternità e 35.000 dimissioni volontarie di donne con figli da 0 a 3 anni, solo nel 2019. Donne che, in cambio dell’abbandono del posto del lavoro, possono accedere alla Naspi e quindi a un sostegno familiare, ma pagato personalmente, barattandolo con il proprio reddito, le proprie competenze e la prospettiva di sviluppo professionale. Il complesso dei contratti a termine e dei lavori precari che rischiano di non essere rinnovati sono in maggioranza delle donne, anche in quei settori che in questo frangente sono più a rischio da un punto di vista economico (es: servizi, turismo, ristorazione) o sanitario (es: sanità). E il futuro non presenta scenari incoraggianti. L’emergenza pandemica ha profondamente inciso anche sulle strutture familiari, in cui si consolida il ruolo della donna come principale care giver e aumenta la quota di rischio di abbandono del lavoro, esito frequente di scelte familiari, in cui l’uomo, culturalmente male breadwinner e col reddito mediamente più alto, torna di più e prima della donna al lavoro fuori casa.
Tutto questo scenario di scarso e mancato impiego delle donne non può essere certo più etichettato come “una questione di parte”, ma è un reale problema economico di tutto un paese che si prende il lusso di lasciare in stand by la metà della sua forza produttiva. E per comprenderlo non serve sensibilità di genere o cultura femminista. Basta una semplice calcolatrice.
Per le profonde implicazioni economiche sociali e demografiche, ci aspettiamo, quindi, che un Piano nazionale tenga in adeguato conto il fatto che non ci potrà essere alcuna strategia futura di ripresa fino a che la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro non sarà una priorità del Paese. Non a parole, perché nessun tema come questo presenta una dose di etichette politically correct (chi avrebbe mai il coraggio di sostenere che innalzare l’occupazione femminile non sia un tema importante?), ma nella composizione delle voci di spesa del budget che sarà allegato al Piano, nella definizione e scelta dei progetti su cui puntare.
2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano
E veniamo al punto due. Capire se in questa proposta ci sia – e in caso affermativo quale sia – il posto assegnato alla questione di genere come delineata nel paragrafo precedente; se tale allocazione, anche in termini strategici, sia corretta ancor prima che esaustiva; se le misure proposte siano adeguate alla risoluzione del problema.
Sotto questo aspetto il quadro si fa più complesso e richiede un’attenzione particolare a ciò che il testo dice e ciò che invece… non dice.
Il PNRR individua come prioritarie 4 “sfide”, a cui concorrono 6 “missioni” (obiettivi). Le sfide sono: 1 il miglioramento della resilienza e della capacità di ripresa dell'Italia, 2. la riduzione dell'impatto sociale ed economico della crisi; 3. il sostegno alla transizione verde e digitale, 4. l’aumento del potenziale di crescita dell’economia e la creazione di occupazione. Le 6 missioni indicate del PNRR, invece, rappresentano le aree di intervento in cui agire per vincere le sfide: 1. Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per la mobilità; 4. Istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5. Equità sociale, di genere e territoriale; 6. Salute. E queste sei missioni, una volta confezionato il Piano, saranno a loro volta suddivise in cluster o insiemi di progetti omogenei selezionati per spendere il Recovery Fund.
Per come abbiamo definito la questione di genere sinora, il tema copre di certo 3 sfide su 4, ma non viene esplicitato in nessuna di queste. Ove, invece, il genere trova espressione nominale è nella missione 5 “Equità sociale, di genere e territoriale”, quindi nell’alveo degli ambiti tematici su cui intervenire per risolvere le sfide. Ma né l’accezione adottata né la collocazione tematica risultano adeguate alla portata del problema. Mi spiego. La voce “equità di genere” (forse traduzione per assonanza di quello che l’Ue chiama “gender equality”, ossia uguaglianza/parità di genere) non è una novità, era infatti già presente nel lavoro finale del cd. Comitato Colao, ma mentre in quella sede rappresentava uno dei tre driver di cambiamento, e quindi aveva una valenza strategica evidente, nelle attuali Linee guida al PNRR è solo uno dei 6 strumenti di cambiamento, tra l’altro accostato ad altre variabili generaliste come “sociale” e “territoriale”, ma annoverato comunque nell’area dello “svantaggio ”. Oltre al declassamento nel PNRR, tuttavia, l’aspetto più rilevante è che la questione di genere esplicitata in termini di “equità” non appare centrata. Adottando questa categoria giuridica, infatti, si mette in luce l’aspetto delle disparità tra i generi, si chiama in campo una contrapposizione da risolvere per “equità” e quindi per obiettivi di giustizia sociale. E’ un aspetto assolutamente legittimo ed è una delle ottiche con cui si guarda al tema, ma non è e non può essere la chiave con cui si costruisce una strategia di rilancio economico del Paese e la si mette a budget. Affrontare il tema dell’occupazione femminile non è solo “cosa buona e giusta”, ma cosa “imprescindibile e necessaria”.
Veniamo ora alla descrizione specifica della missione 5, Equità sociale, di genere e territoriale. Si legge nel documento di Linee guida: “Il Governo punta ad adottare un ampio spettro di interventi quali: misure fiscali (Piano per la Famiglia-Family Act raccordato con la riforma dell'IRPEF), politiche attive del lavoro e politiche di coesione territoriale e sociale (attuazione del Piano Sud 2030, della Strategia Nazionale delle Aree Interne e rigenerazione e riqualificazione dei contesti urbani e borghi rurali. Un ruolo importante sarà rivestito dalle politiche di formazione dei lavoratori e dei cittadini inoccupati, volte all’acquisizione di nuove competenze, e dalla promozione del lifelong-learning. Con riguardo, in particolare, alla parità di genere, un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”.
3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole.
Per promuovere quindi il “riequilibrio” tra donne e uomini, il Piano espressamente prevede misure fiscali e azioni di empowerment. Nulla da obiettare nel dettaglio delle singole misure ma quello che non è convincente è il ragionamento a monte. Per risolvere il problema di inserire metà della popolazione attiva nel mercato del lavoro – e in questo caso di parla di donne - si pensa alle “misure speciali”: leva fiscale, incentivi ecc. Questa è l’ennesima conferma del fatto che nei confronti della questione di genere la via ordinaria non funziona. Perché il lavoro delle donne deve essere “conveniente?” Come se si trattasse di ragionare di un gruppo di competenze e professionalità per sua natura svantaggiato e strutturalmente tale. E’ evidente che un gap di genere di 20 punti nell’occupazione in 30 anni e più è la spia di un sistema che non funziona, che ha introiettato dinamiche discriminatorie che fanno differenza tra la scelta di un uomo e di una donna. E sempre non a caso, l’osservatorio sulle discriminazioni delle Consigliere di parità riporta costantemente le difficoltà che riscontrano le donne, a parità di competenze, nell’accesso al lavoro e ai percorsi di carriera, sia in presenza di un carico familiare, sia nell’ipotesi e nella probabilità di averne nel medio termine. E quindi questo ci porta a immaginare che la soluzione debba probabilmente ricercarsi non nelle condizioni esterne, ma all’interno della struttura del mercato del lavoro. Anche attraverso azioni positive, di rottura di questa costruzione, talmente sedimentata nel tempo al punto da sembrare “neutra”, normale. Quando di normale non c’è nulla. Perdere punti di Pil per questa “normalità” è una grave responsabilità politica.
E veniamo quindi alle trappole. Il Piano afferma che “un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”. Dov’è la trappola? Anche questa volta, come accaduto già in passato, all’interno di intere filiere di programmazione europea la questione dell’occupazione femminile viene risolta con la strada dell’empowerment, ossia “rafforzamento del sé”. Dopo almeno 40 anni di programmazione europea, con scarsi risultati sull’incremento dei tassi di occupazione, con il crollo delle fecondità e con una crisi economica ed una recessione alle spalle, con un'altra crisi alle porte, la considerazione non può avere più il sapore del brand anni ’90.
Ancora una volta appare sbagliata la diagnosi… e la prospettiva. Il problema dell’occupazione femminile non è imputabile alla poca consapevolezza, capacità o determinazione delle donne. Se lo è in alcuni casi, non può esserlo per metà della popolazione lungo 30 anni, senza variare mai. Il problema, quindi, non è delle donne, che “non sanno” o “non sanno fare abbastanza” prendendo a riferimento un modello maschile, ma il problema è della struttura del mercato e del sistema delle opportunità. Sono ancora tanti e troppi i vincoli strutturali nella cultura organizzativa e nel sistema di incontro di domanda ed offerta che non possono essere ricondotte ad una “responsabilità” di come sono o cosa fanno le donne. Questa visione dell’empowerment induce, come conseguenza, nel Piano, a trovare la soluzione in: a) aumento della formazione (quando le donne sono già le utenti prevalenti della formazione, anche qualificata e specializzata, al punto che diventa spesso un viatico per il fenomeno della overeducation); b) occupabilità, cioè necessità di adeguarle al mercato e renderle appetibili (quando stagioni di incentivi hanno dimostrato che non è il libero mercato che alloca le migliori e le più “adatte” – e prova ne è che spesso le migliori e le più adatte vengono invece valorizzate all’estero. E come abbiamo detto prima, il sistema di accesso presenta una cultura organizzativa discriminatoria; c) autoimprenditorialità. Ecco, il cerchio si chiude ideologicamente su questo tema. Una volta definite le donne gruppo sociale strutturalmente svantaggiato, responsabile della propria condizione, privo di empowerment, cosa si propone loro? La soluzione più difficile in assoluto, cioè mettersi in proprio. Per accedere alla quale, secondo questa filosofia, basta empowerment, ossia grinta e formazione. Gli anni ’90 sono passati da tempo e un’attenzione alla valutazione della storia dell’imprenditoria femminile avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Ma forse col PNRR 2020 siamo ancora nei tempi per poter recuperare.
4. Alcune proposte
Partiamo dal nominare il grande assente tra le sfide per il post Covid: ossia le infrastrutture sociali, lo sviluppo di quella necessaria rete di servizi di sostegno al lavoro non retribuito, svolto prevalentemente dalle donne e che mediamente consente il funzionamento generale del sistema sociale. Lavoro che ha permesso di assorbire una parte dei contraccolpi del lockdown (chiusura delle scuole, della ristorazione, servizi di cura, ecc.) ma che ha aumentato in modo sproporzionato il carico totale di lavoro delle donne, consentendo, come confermano tutte le recenti indagini, agli uomini di tornare di più e prima al lavoro. L’investimento nel tema delle infrastrutture sociale è fondamentale per dare la svolta al Paese e ai suoi indicatori di debolezza comparativa, ancora prima del digitale e della rivoluzione verde. Altrimenti si rischia di saltare dalla tradizione alla innovazione, dimenticandosi di cosa può far muovere il tutto. E questo ci porta a confermare l’esistenza di un’incidenza di genere enorme nel periodo di emergenza Covid, ma anche questa poco visibile, forse anche perché nei vari comitati e task force attivati in questi mesi la presenza delle donne è minima, se non assente.
Pertanto, considerando che:
1) l’innalzamento del tasso di occupazione generale è richiesto dalla Ue come vincolo all’utilizzo dei Fondi;
2) che condizione di ammissibilità delle proposte nazionali è l’adeguamento al rispetto delle raccomandazioni fornite ai singoli Stati membri (nel 2019 era esplicita la richiesta di innalzamento della occupazione femminile e nel 2020 si conferma in chiave più generalista)
3) che la stima dell‘impatto positivo dei Fondi sull’occupazione aggiuntiva è un criterio di valutazione “positivo” dei progetti ammissibili a finanziamento,
appare necessario uscire dall’ottica del gruppo specifico. Non è perché le donne non siano nominate in un paragrafo specifico sull’occupazione femminile che questo Piano non serva allo scopo. Bisogna potenziare e mettere in pratica l’affermazione contenuta nella Linee guida trasmesse al Parlamento che “si terrà conto in ogni parte del piano dell’equità di genere” – pur con i caveat espressi sulla traduzione. Tuttavia, lasciata senza specifiche, resta nel novero delle affermazioni di principio. Ma la procedura di valutazione di impatto di genere (come richiedeva già il Piano Colao) esiste e si può applicare, così come si può applicare il gender mainstreaming sin dalla fase di progettazione. Come? La sfida è individuare ed esplicitare per ogni obiettivo – missione la ricaduta di genere, anche – e soprattutto – laddove il genere non sia contemplato nella declaratoria. Per ogni missione / obiettivo indicare modalità e impatto stimato della ricaduta positiva su occupazione e inclusione socio economica delle donne. Digitalizzazione, rivoluzione verde, istruzione, cultura, equità sono tutti ambiti in cui la ricaduta di genere va prevista, esplicitata e programmata - operazione possibile e già concretizzabile da subito.
Anche in assenza di una cultura politica avvezza al gender assessment credo che con 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni tutto ciò sia assolutamente possibile.
[1] http://www.politicheeuropee.gov.it/.
[2]http://www.politicheeuropee.gov.it/. Cfr. Le politiche di settore nel quadro europeo Elementi per l’attività di indirizzo parlamentare in vista del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, Centro studi Senato 22 settembre 2020
[3] Risoluzione del Parlamento europeo del 23 luglio 2020 sulle conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020 (2020/2732(RSP)
La Corte di Cassazione chiarisce a chi spetti l’onere di promuovere la mediazione a seguito di un decreto ingiuntivo
di Mauro Mocci
Sommario: 1. La vicenda - 2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conseguenze.
1. La vicenda
A fronte di un pagamento azionato mediante decreto ingiuntivo, i clienti di una Banca proposero rituale opposizione, sul presupposto che l’Istituto di credito avesse applicato interessi usurari. Una volta concessa la provvisoria esecuzione parziale, il giudice assegnò termine per la presentazione della domanda di mediazione, secondo l’art. 5 comma 1° D.Lgs. n.28 del 4 marzo 2010, che per l’appunto prevede - fra le ipotesi di mediazione obbligatoria - anche i rapporti bancari. Nessuna delle parti provvide a tale incombente, sicché il Tribunale, trattandosi di una condizione di procedibilità della domanda giudiziale (diversamente dalle cause agrarie, ove la mediazione obbligatoria funge da condizione di proponibilità), dichiarò l’improcedibilità dell’opposizione e l’esecutorietà del provvedimento monitorio. La Corte d’Appello territoriale dichiarò, a sua volta, inammissibile il gravame, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter, ed i soccombenti ricorsero avanti la Suprema Corte, sulla scorta di un unico complesso motivo.
2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
Con ordinanza interlocutoria del 12 luglio 2019 n. 18741, la Terza Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sulla questione dirimente dell’individuazione della parte tenuta a promuovere il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. In tal senso, il collegio ha recepito il motivo di impugnazione, volto ad investire la Corte in ordine al contrasto sussistente in dottrina e nella giurisprudenza di merito fra due posizioni radicalmente differenti.
Nel silenzio della norma processuale di riferimento, l’indirizzo in allora dominante - di cui capofila in giurisprudenza è stata Cass. Sez. III 3 dicembre 2015 n. 24629[1] - ha ritenuto che, essendo l’opponente il soggetto interessato alla proposizione del giudizio di cognizione, su di lui dovesse ricadere l’onere di promuovere la procedura di mediazione. E’ interessante, in proposito, quanto afferma l’ordinanza della Suprema Corte Sez. 6-1 n. 23003 del 16 settembre 2019: “essendo il tentativo obbligatorio di mediazione strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio (in tal senso, relativamente alla procedura conciliativa obbligatoria di cui all'oggi abrogato art. 412-bis c.p.c., Corte Cost. n. 376/2000), grava sulla parte che promuove un simile giudizio l'onere di assolvere tale condizione di procedibilità…..nel procedimento monitorio un processo fondato sul contraddittorio, ossia il giudizio di cognizione ordinaria, consegue solo all'eventuale opposizione dell'ingiunto: pertanto, spetta a quest'ultimo - e sempre a condizione che sia domandata la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo o la sospensione della stessa - l'esperimento nei termini del tentativo obbligatorio di mediazione, essendo nel suo interesse definire alternativamente il giudizio... da ciò logicamente consegue che, in caso di mancato assolvimento di tale condizione di procedibilità, sarà la sua azione (proposta sotto forma di opposizione) a rimanere travolta dalla declaratoria di improcedibilità...dunque, la "logica del contraddittorio" viene adeguatamente garantita proprio assicurando al destinatario della ingiunzione la possibilità di definire in via extragiudiziaria la controversia nella fase del giudizio di merito instaurato a seguito di opposizione (la cui proposizione è soggetta a termine perentorio che, in difetto di espressa norma di legge, non viene ad essere sospeso dalla proposizione della istanza di mediazione divenendo definitivo ed irrevocabile il decreto di condanna in caso di omessa attivazione dell' opponente)”.
Quest’orientamento è stato seguito dalla maggioranza dei giudici di merito e da una parte (minoritaria invero) della dottrina[2].
La gran parte degli autori ed anche alcuni giudici di merito[3] hanno invece evidenziato la condizione dell’opposto nel giudizio monitorio, quale attore in senso sostanziale, e la circostanza che la mediazione obbligatoria viene imposta dal legislatore non all’atto della proposizione del ricorso, ma nella fase a cognizione ordinaria (art. 5 comma 4° D.Lgs. n. 28/2010). In altri termini, l’opposizione conseguirebbe il risultato di ripristinare la disciplina normale dei procedimenti di cognizione, introdotti attraverso l’atto di citazione, che obbliga chi agisce in giudizio – nelle materie specificamente previste dal D.Lgs. in parola – a promuovere la relativa procedura. Da ciò la conclusione che dovrebbe spettare appunto alla parte opposta l’iniziativa della mediazione.
Il persistente contrasto giurisprudenziale fra le predette opinioni ha dunque motivato l’ordinanza di rimessione da parte della terza sezione civile, la quale ha altresì affermato di non reputare condivisibile un’ulteriore tesi, per così dire “a metà strada”, secondo la quale l’onere di attivarsi per il procedimento mediatorio muterebbe a seconda dell’intervenuta concessione o no della provvisoria esecuzione. Nel primo caso graverebbe sull’opponente, nell’altro sull’opposto, legando così la mediazione all’interesse concreto, ma momentaneo, della parte in causa. Si tratta di una soluzione, com’è evidente, non in linea con il principio generale della certezza del sistema, che regola a priori la mediazione sulla scorta della domanda, di cui costituisce condizione di procedibilità.
3. L’inquadramento normativo
L’art. 5 comma 1°-bis recita: “Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione” ovvero altro meccanismo di risoluzione stragiudiziale specificamente dettato per materie particolari. “L'esperimento del procedimento di mediazione – prosegue la norma - è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all' articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.”
Con riguardo alla specifica materia monitoria, il 4° comma lett. a) del predetto articolo aggiunge che il comma 1-bis non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.
In altri termini, per dirimere il potenziale conflitto fra due discipline, volte entrambe ad ottenere l’effetto finale di abbassare il carico processuale – l’una attraverso un intento deflattivo alla fonte (mediante la composizione stragiudiziale), l’altra attraverso un procedimento acceleratorio – ma la cui interferenza avrebbe potuto condurre ad un’eterogenesi del risultato, il legislatore ha inserito il momento della mediazione obbligatoria, una volta esaurita la fase sommaria del procedimento d’ingiunzione.
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 19596, depositata il 18 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo"[4].
Il contenuto decisorio della sentenza muove dall’analisi delle argomentazioni portate dai due orientamenti a sostegno delle rispettive tesi - l’una legata fondamentalmente alla valorizzazione dell’interesse dell’opponente all’instaurazione di un giudizio ordinario, per evitare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, l’altra volta a rimarcare il ruolo sostanziale dell’opposto e le conseguenze processuali meno radicali che deriverebbero dalla caducazione del provvedimento (con la possibilità di ripresentarlo o di proporre comunque un’azione ordinaria) - e perviene alla conclusione di dover mettere un punto fermo, al fine di ricomporre la spaccatura fra i giudici di merito giacché “l’effetto di prevedibilità delle decisioni giudiziarie si va affermando come un valore prezioso da preservare, anche in termini di analisi economica del diritto”. In tal modo, la Corte ha adempiuto alla sua funzione nomofilattica, regolando ed uniformando l’interpretazione giurisprudenziale del diritto (art. 65 Ord. Giud).
Innanzi tutto, sotto un profilo sistematico, le Sezioni Unite affermano che una lettura delle norme di cui al D. Lgs. n. 28/2010 (in particolare gli artt. 4 comma 2°, 5 comma 1°-bis e 5 comma 6°) coordinata con i principi generali in tema di azione darebbe univocamente conto del fatto che l’onere di intraprendere la mediazione incomba sul creditore opposto (attore in senso sostanziale).
Altro argomento determinante viene rinvenuto nella struttura del procedimento monitorio, in cui la mediazione è collocata dal legislatore in esito alla fase sommaria, dopo la decisione sulla provvisoria esecuzione. In proposito, è pur vero che l’art. 5 comma 4 lett. a) preclude la mediazione “fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”, ma, in realtà, il momento nel quale si perfeziona il contraddittorio corrisponde alla notifica dell’atto di citazione in opposizione, allorquando “il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito” (art. 645 comma 2° c.p.c.). La fase della concessione o del diniego della provvisoria esecuzione è in realtà eventuale, giacché l’intimante potrebbe astenersi dal chiederla: si tratta dunque di una scelta pratica, dettata essenzialmente dalla constatazione che, usualmente, la domanda di concessione (in mancanza di una provvisoria esecuzione anticipata) viene formulata in sede di prima udienza: tuttavia, com’è evidente, i termini della questione non vengono spostati.
Le Sezioni Unite svolgono altresì un fondamentale richiamo alle differenti conseguenze che deriverebbero dall’inerzia delle parti e dalla successiva pronunzia di improcedibilità. In questo senso, onerare senza successo l’opponente significherebbe determinare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, mentre porre l’iniziativa a carico dell’opposto condurrebbe alla revoca del provvedimento monitorio, il che non precluderebbe una sua riproposizione o l’inizio di un’azione di cognizione ordinaria. E d’altronde - prosegue la Corte - neppure è logico, agli effetti sanzionatori, equiparare la posizione dell’intimato che accetta l’ingiunzione a quella dell’intimato che, invece, reagisce, promuovendo il procedimento di opposizione (l’unico riconosciutogli dalla legge).
Ultima, ma evidentemente non ultima per importanza, l’argomentazione legata alla giurisprudenza costituzionale, secondo cui le forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri sono legittime purché ricorrano certi limiti e comunque sono illegittime le norme che collegano al mancato previo esperimento di rimedi amministrativi la conseguenza della decadenza dall’azione giudiziaria. A tale riguardo, la sentenza nota correttamente come la procedura di mediazione, pur essendo espressione di una finalità deflattiva (coerente col principio costituzionale della ragionevole durata del processo) è però recessiva nel contrasto con la garanzia del diritto di difesa. In realtà, l’aporia è solo apparente, giacché si tratta di stabilire la parte sulla quale gravi l’onere di intraprendere la mediazione e non di mettere in gioco i due valori.
5. Le conseguenze
Le conseguenze della sentenza n. 19596 del 2020 sono suscettibili di ripercuotersi su un numero elevato di processi, considerato che il decreto ingiuntivo è lo strumento correntemente utilizzato in tutte le ipotesi di credito per somme liquide e che, come già detto, la mediazione è obbligatoria in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari (art. 5 comma 1-bis D. Lgs. n. 98/2010)[5]. Per il futuro la strada è segnata.
Si tratta invece di esaminare la sorte dei giudizi ancora in corso, a seguito della pronunzia de qua, giacché quelli esauritisi con il passaggio in giudicato o con la revoca del provvedimento – ovviamente per il mancato esperimento della mediazione - non sono più soggetti a modifiche.
Ma anche laddove, in tesi, il tentativo di conciliazione fosse già stato espletato dall’opponente, o di propria iniziativa o su impulso d’ufficio, sarebbe illogico far retrocedere il processo alla fase antecedente. Residuano allora – nella “fascia intermedia” di concreta applicazione del dictum della Suprema Corte – le ipotesi in cui il giudice “rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa” oppure “quando la mediazione non è stata esperita”(art. 1-bis D.Lgs. n. 28/2010): in entrambi i casi, occorre fissare la prima udienza dopo la scadenza del termine di decadenza per il deposito del verbale (art, 6) ed, ove il tentativo non sia stato intrapreso, concedere “contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”. In particolare, spetterà a parte opposta attivarsi tutte le volte che controparte abbia iniziato il procedimento, senza però portarlo a termine, ovvero nessuno abbia preso l’iniziativa.
Potrebbe però essere intervenuta la decadenza ed, a questo proposito, occorre chiedersi se ricorra l'affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo di norme processuali, come tale meritevole di tutela con il "prospective overruling", il quale, come insegna la Suprema Corte (Sez. Un. 12 febbraio 2019 n. 4135)[6], può essere riconosciuto solo in presenza di stabili approdi interpretativi della Cassazione, eventualmente a Sezioni Unite, i quali soltanto assumono il valore di "communis opinio" tra gli operatori del diritto, se connotati dai caratteri di costanza e ripetizione.
Nella specie, il mutamento del precedente orientamento giurisprudenziale, che si fondava su Cass. n. 24629/2015 e sulle successive Cass. n. 25611/2016 e Cass. n. 23003/2019, e che dunque poteva dirsi ragionevolmente stabile, potrebbe rendere appunto applicabili i principi in materia di "overruling".
A tale proposito, la giurisprudenza ha riconosciuto il principio dell’effettività dei mezzi di azione e difesa a tutela della parte che abbia fatto incolpevole affidamento sull'interpretazione corrente al momento del comportamento rivelatosi, "ex post", difforme dalla corretta regola processuale[7]. Pertanto, sulla scorta di tale opinione, dovrebbe reputarsi accoglibile la domanda di parte opposta, volta a promuovere la mediazione, pur dopo la scadenza del termine per il deposito del verbale e pur sempre entro la data fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio.
[1] Tale sentenza è stata pubblicata e variamente commentata. Si pùò leggere in Riv. dir. proc., 2016, 4-5, 1283, con nota di G. BALENA, Opposizione a decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria; in Guida dir., 2016, 3, 12, con nota di M. MARINARO, Una diversa soluzione accrescerebbe l’onere della parte creditrice; in Foro it., 2016, I, 1319, con note di M. BRUNIALTI e D. DALFINO, Opposizione a decreto ingiuntivo e mancato esperimento della mediazione obbligatoria. Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: quando la Cassazione non è persuasiva; in Giur. it. , 2016, 1, 71, con nota di E. BENIGNI, Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: onerato dell’avviso è l’opponente.
[2] In giurisprudenza, anche Cass, 16 settembre 2019 n. 23003, inedita; Trib. Verona, 28 settembre 2017 in Foro it., 2018, I, 328; Trib. Vasto, 30 maggio 2016, ivi, 2016, I, 3649; Trib. Milano, 9 dicembre 2015, in Società, 2016, 1151; Trib. Nola, 24 febbraio 2015 e Trib. Firenze 30 ottobre 2014, in Giur. it., 2015, 1123. In dottrina cfr. G. TRISORIO LIUZZI, in Giusto proc. civ., 2016, 111; E. BENIGNI, Incombe sull’opponente ex art. 645 c.p.c. l’onere di proporre l’istanza di mediazione, in Giur. it. 2015, 1125.
[3] In dottrina si possono ricordare C. MANDRIOLI - A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, XXVII ed, Torino 2019, III, 43; G. BALENA, Mediazione obbligatoria, op. cit.; A. TEDOLDI, Mediazione obbligatoria e opposizione a decreto ingiuntivo, in Giur. it, 2012, 12, 2621. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Ferrara, 7 gennaio 2015, in Foro it. 2015, I, 3732, Trib. Firenze 17 gennaio 2016, in Società, 2016, 1148.
[4] Fra i primi commenti, in senso favorevole G. SPINA, Le Sezioni Unite su mediazione e opposizione a decreto ingiuntivo: prime osservazioni tra prevedibilità delle decisioni e overruling, in Nuova proc. civ. 4, 2020; contrario G. D’ELIA, E’ a carico del creditore-opposto l’onere di promuovere la procedura di mediazione obbligatoria, in Il Caso, 2020, 2.
[5] E’ interessante osservare come notevoli problemi di diritto intertemporale si pongano tutte le volte che la questione abbia a che vedere con un decreto ingiuntivo. Si potrebbe fare l’esempio di Cass. Sez. Un. n. 19246 del 9 settembre 2010, relativa alla dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente, in Giust. civ., 2011, 9, 1, 2101, con nota di F. Cordopatri.
[6] Pubblicata in Foro it., 2019, 5, I, 1639, con nota di V. CAPASSO, Di overrulings invocati a sproposito e di effetti collaterali del mai debellato sindacato diffuso di costituzionalità.
[7] Cfr. Cass. 26 ottobre 2011 n. 22282, in Riv. giur. trib., 2012, 6, 502, con nota di G.M. Cipolla; Cass. 27 dicembre 2011 n. 28967, in Nuova giur. civ., 2012, 5, 1, 412, con nota di C. Viale; Sez. Un. 11 luglio 2011 n.15144, in Foro it. 2011, 12, I, 3343, con nota di R. Caponi. Più di recente, Cass. 29 marzo 2018 n. 7833, Cass. 14 marzo 2018 n. 6159, inedite. Per un approfondimento sull’applicabilità dell’overruling cfr. G. SPINA op. cit. § 5.
La natura della cessione di cubatura e dei diritti edificatori al vaglio delle Sezioni Unite
di Ginevra Iacobelli
Alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è stato chiesto di chiarire la natura della cessione di cubatura, e ancor prima, la natura dei diritti edificatori. La richiesta muove, in entrambi i casi, da questioni di diritto tributario. Se la previsione della trascrizione dei diritti edificatori ha, infatti, sopito il dibattito civilistico sulla natura di tali diritti, ancora numerosi dubbi residuano, in merito ad essa, in materia fiscale.
Sommario: 1. Ius aedificandi e diritto di proprietà - 2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto - 3.La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020) - 4.La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019).
1. Ius aedificandi e diritto di proprietà
La natura dello ius aedificandi è da sempre al centro di dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Alimentata anche da alcuni interventi legislativi, la questione ruota attorno ai rapporti tra diritto del proprietario ed esigenze della pianificazione urbanistica.
Il diritto di edificare è oggetto del potere di pianificazione dell’amministrazione e per il suo concreto esercizio è necessario il rilascio del titolo abilitativo edilizio da parte della stessa: gli strumenti urbanistici comunali – p.r.g. e piani attuativi – delineano i modi e i limiti di godimento della proprietà edilizia sotto il profilo delle condizioni di esercitabilità di tale diritto.
L’intreccio tra diritto di proprietà e poteri amministrativi, allora, alimenta questioni sulla natura giuridica del diritto di edificare e sulla sua scorporabilità dal diritto di proprietà.
Storicamente, lo ius aedificandi è stato considerato come diritto dominicale, insito nel diritto di proprietà. In tal senso, la legge urbanistica fondamentale (L. 1150/1942) assoggettava l’esercizio del diritto di costruire al rilascio della “licenza edilizia”, provvedimento amministrativo autorizzatorio che consentiva alla parte istante di esercitare un diritto di cui già possedeva la titolarità.
La Corte Costituzionale - chiamata a porre un freno alla reiterazione di vincoli di inedificabilità - con la storica sentenza n. 6 del 1966, ha avallato la concezione tradizionale che qualificava il diritto di edificare quale facoltà connaturale al diritto di proprietà dei suoli, definendo il cd. “contenuto minimo del diritto di proprietà”.
Tuttavia, a lungo la dottrina, propensa a qualificare il diritto come facoltà “concessa” dall’autorità pubblica, ha auspicato un intervento innovativo da parte del legislatore. Basti pensare che Sandulli propose di considerare “la facoltà di costruire non più connaturata al diritto di proprietà, bensì come l’effetto di una concessione pubblica da accompagnare con l’imposizione di un tributo”.
Si evidenzia, più chiaramente, che i suoli non potevano considerarsi naturalmente edificabili, ma, piuttosto, sarebbe stato il potere pubblico ad imprimere tale destinazione.
Su questa scia fu adottata la Legge Bucalossi (L. 10/77), destinata ad alimentare il dibattito sulla natura giuridica dello ius aedificandi.
Essa, infatti, configurava il diritto di edificare come facoltà estranea al diritto di proprietà, “concessa” dalla pubblica amministrazione, titolare del diritto in forza del potere di pianificazione ad essa attribuito. In linea con quanto affermato, veniva modificato il nomen juris e si escludeva il riferimento alla licenza edilizia in favore di quello alla “concessione edilizia”.
Si assiste al passaggio da un sistema fondato su un provvedimento autorizzatorio - finalizzato a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente di cui l’istante è già titolare - ad un sistema incardinato sul rilascio di un provvedimento di natura concessoria, attributivo di un diritto “nuovo”, prima inesistente nel patrimonio giuridico del richiedente. In tal senso, il provvedimento concessorio era inteso a titolo oneroso, in armonia con il principio per cui il richiedente chiede di utilizzare un bene di interesse pubblico.
Attraverso tale modifica legislativa, tutti i fondi acquisivano la medesima natura e l’indennizzo da corrispondere in caso di esproprio era commisurato, per tutti, al valore agricolo medio del terreno, senza distinzione tra fondi edificali e fondi agricolo.
In aggiunta, lo sganciamento del diritto di edificare dalla proprietà risolveva l’annoso problema della reiterazione dei vincoli di inedificabilità, non ponendo, questi, più alcuna lesione del diritto di proprietà.
La Corte Costituzionale, con la nota pronuncia n. 5 del 1980, ha, però, smentito le innovazioni legislative richiamate, confermando l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà e dichiarando la concessione ad edificare quale provvedimento autorizzatorio, non attributivo di nuovi diritti, ma che “presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”.
A completamento, la Corte chiariva che se è “indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l'edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando (mediante programmi pluriennali di attuazione previsti dall'art. 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione”, tuttavia, con riguardo alle aree destinate – secondo gli strumenti urbanistici - alla edilizia residenziale privata, il proprietario delle stesse “ha il diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell'area ed è irrevocabile, fatti salvi casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977)”; “da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Taluna dottrina, nell’immediato, ha letto nella decisione richiamata una soluzione limitata a garantire tutela al privato avverso i numerosi provvedimenti di esproprio, ma ha sottolineato il ruolo della pubblica autorità alla quale “si demanda ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando della edificazione” che svuota, in parte, il diritto del proprietario del suolo.
La questione, in vero mai sopita, è ritornata in luce con lo svilupparsi dei cd. “trasferimenti di volumetria”, definizione sotto cui possono ricondursi fenomeni eterogenei e molto differenti tra loro, che vanno dalla cessione di cubatura tra fondi contigui od omogenei, alle redistribuzioni fondiarie che si attuano nei piani perequativi, fino ai trasferimenti di diritti edificatori sotto la forma di crediti compensativi e premiali.
2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto
In urbanistica, per cubatura si intende la volumetria edificabile di un suolo, in conformità a quanto previsto dagli strumenti di pianificazione.
I vincoli relativi all’edificazione di un’area sono indicati dagli standard edilizi, limiti inderogabili all’edificabilità, introdotti per la prima volta dalla legge Ponte del’67 e finalizzati ad un razionale sfruttamento edilizio del suolo che garantisca e tuteli la salute dei cittadini e la salvaguardia del territorio, nel rispetto della nostra carta costituzionale. Lo standard edilizio è, nel dettaglio, indice di densità edilizia, ricavato dal rapporto tra superficie utilizzabile e volumetria (i.e. cubatura) che una costruzione può assumere.
Per superare i limiti inderogabili alla cubatura realizzabile si sono sviluppate, nella prassi, modalità di “micropianificazione ad iniziativa privata” (in tal senso Gambaro) con cui il proprietario di un’area edificabile trasferisce, in tutto o in parte, al proprietario di una zona finitima, la potenzialità edificatoria del proprio terreno o la cubatura del proprio suolo. Il proprietario dell’area, cessionario, potrà cosi incrementare la volumetria edificatoria del proprio terreno, ottenendo dal Comune un permesso di costruire di volume maggiore, comprensivo anche di quello ceduto.
Si evidenzia, del resto, che la possibilità di cedere la cubatura non è osteggiata dalla pianificazione, già realizzata a monte dall’amministrazione. Gli standard edilizi, infatti, individuano indici edilizi per “zone” e non per singole aree: ciò permette la circolazione della volumetria, nella stessa zona, senza la modifica dell’indice edilizio già definito.
La cessione è considerata ammissibile poiché il trasferimento della volumetria rispetta i limiti della pianificazione urbanistica; è irrilevante, a tal fine, che la potenzialità edificatoria di una determinata zona del PRG sia utilizzata da un solo soggetto in un punto definito, oppure da più soggetti pro quota.
Più chiaramente, la maggiorazione di volumetria a favore del cessionario della cubatura trova bilanciamento nella riduzione della volumetria del cedente, senza che ciò comporti alcuna modifica del rapporto di densità abitativa (stabilito dagli standard edilizi).
La divisione del terreno in zone, però, è oggi superata dalla ricerca di soluzioni volte a favorire la compresenza di strumenti che meglio permettano la realizzazione dei diritti della collettività.
La questione muove dalle nuove tecniche di pianificazione urbanistica che abbandonano lo schema classico delle zonizzazioni e si esprimono attraverso gli strumenti della perequazione, della compensazione e dell’incentivazione, oggetto di ampi dibattiti dottrinari, nonché di incerte e contrastanti decisioni da parte della giurisprudenza di merito.
La perequazione, nel dettaglio, consiste nell’attribuire anche ad aree qualificate dal piano come non edificabili una cubatura potenziale da realizzare altrove, cioè su aree qualificate come edificabili. È una tecnica urbanistica tendente all’uguale distribuzione dei valori e degli oneri della trasformazione urbanistica del territorio tra tutti i proprietari interessati. Ed infatti, la c.d. zonizzazione - con la distinzione tra aree edificabili e non edificabili - porta inevitabilmente a sperequazioni tra i diversi proprietari.
La compensazione rappresenta uno strumento che svolge una piena funzione di ristoro rispetto alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’imposizione dei vincoli stessi o rispetto agli oneri sostenuti per il facere sopportato, mirando a ridurne gli effetti sfavorevoli e negativi.
Scopo della compensazione è quello di consentire alle amministrazioni comunali di espropriare le aree soggette a vincolo urbanistico, senza l’esborso di un indennizzo.
Si tratta, in buona sostanza, di una soluzione alternativa all’espropriazione, in quanto, in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area.
La stessa Corte costituzionale, del resto, ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica in alternativa all’indennizzo espropriativo monetario, previa cessione del bene, attraverso l’attribuzione di quote di edificabilità o di recupero di cubature in altre aree (C. Cost. 179/99).
Le incentivazioni, infine, sono strumenti applicativi della cd. “premialità urbanistica”. Quest’ultima consiste nell’attribuzione di un diritto edificatorio aggiuntivo, rispetto a quello previsto in via ordinaria dagli strumenti urbanistici, come premio per il raggiungimento di determinati obiettivi pubblici.
In maggior sintesi, i diritti edificatori perequativi vengono assegnati direttamente in seguito alla formazione del piano e sono commerciabili nel momento stesso in cui questo viene approvato ed il terreno - oggetto di trasferimento alla P.A. - viene dotato di una propria volumetria realizzabile, tuttavia, solo sulle aree di concentrazione; i diritti compensativi sono attribuiti, invece, in seguito alla cessione all’Amministrazione comunale del fondo sorgente e non hanno limiti spaziali; i diritti incentivanti o premiali sono, infine, attribuiti in seguito all’intervento di riqualificazione urbanistica e/o ambientale.
Dal ricorso a queste nuove forme di pianificazione territoriale è evidente come possano scaturire altrettanto nuove situazioni giuridiche soggettive a favore dei soggetti coinvolti nelle operazioni perequative, compensative o incentivanti e che dette situazioni possano essere soggette ad ulteriore circolazione nell'ambito di un vero e proprio 'mercato volumetrico' attraverso le fasi del distacco dalle proprietà originarie (cd. 'decollo' dal fondo 'sorgente'), del successivo 'volo' (e quindi del 'transito' della capacità edificatoria connessa a quelle situazioni, anche a favore di soggetti non necessariamente proprietari di alcun lotto) e infine dell’atterraggio della potenzialità edificatoria su di un fondo diverso da quello di originario 'decollo', detto 'accipiente', e che si estingue al momento del rilascio del permesso di costruire.
Così chiarito, è possibile evidenziare le differenze tra i due istituti richiamati: nella cessione di cubatura è fortemente accentuato il carattere della realità poiché il “decollo” e “l’atterraggio” del diritto riguardano aree ben identificate, anche se non necessariamente confinanti, ma comunque contigue o radicate nella stessa zona. Invece, nel trasferimento dei diritti edificatori il medesimo carattere è attenuato, in quanto è possibile la negoziazione di questi diritti persino a prescindere dalla presenza di un’area cedente e di un’area cessionaria. Più chiaramente, il trasferimento si può realizzare quando il diritto è “in volo”, a prescindere dal decollo e l’atterraggio, traendo origine da qui l’espressione, largamente usata, di “crediti edilizi”.
La linea di discontinuità della circolazione dei diritti previsti dai modelli di pianificazione urbanistica rispetto alla cessione di cubatura si coglie proprio nella capacità circolatoria dei primi, svincolata dall’attuale proprietà di un fondo edificabile, là dove elemento qualificante della cessione di cubatura è la sussistenza e l’individuazione di due fondi, “cedente” e “cessionario”, posti all’interno della medesima zona urbanistica o aventi almeno la stessa destinazione.
La cessione di cubatura, allora, è stata definita correttamente figura diversa dai diritti edificatori, quasi “prodromo” della categoria generale di tali diritti.
3. La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020)
Da sempre sono state sollevate forti perplessità sulla natura della cessione di cubatura (o di volumetria).
La cessione di cubatura è un negozio in virtù del quale il proprietario di una determinata area edificabile non sfrutta per sé la cubatura realizzabile sul proprio terreno, ma la cede - totalmente o parzialmente - ad altro soggetto, di solito proprietario di un fondo finitimo, affinché quest’ultimo possa servirsi della volumetria ulteriore acquisita per ottenere dal Comune il permesso di costruire per una volumetria complessiva maggiorata rispetto a quella prevista per il fondo di sua proprietà.
Il trasferimento si articola in due momenti: il primo, privatistico, tra due privati (cedente e cessionario); il secondo, pubblicistico, che attribuisce in capo alla pubblica amministrazione il rilascio del permesso di costruire per una volumetria maggiorata.
In estrema sintesi, l'efficacia del negozio traslativo è subordinata al rilascio del permesso di costruire cd. maggiorato: ciò ha creato numerosi dubbi in ordine alla ricostruzione della natura giuridica.
Volendo provare a sintetizzare le numerose tesi prospettate nel corso del tempo è possibile distinguere tra gli orientamenti “a base negoziale”, che valorizzano l’autonomia negoziale, e quelli “a base amministrativa”, caratterizzati dalla centralità del provvedimento amministrativo.
Nell’ambito degli orientamenti a base amministrativa si distinguono due filoni: in forza del primo (tesi del negozio ad effetti obbligatori), la cessione di cubatura integrerebbe un procedimento a formazione progressiva il cui fulcro si individua nel provvedimento con il quale il Comune rilascia il permesso di costruire cd. “maggiorato”.
Il trasferimento di cubatura sarebbe determinato, dunque, da un provvedimento discrezionale, non vincolato all'assetto negoziale configurato dalle parti, ed emanato in esito a una valutazione dei molteplici e rilevanti interessi pubblici.
Così facendo, si nega un ruolo principale all’autonomia privata nella vicenda complessiva e si inquadra l’accordo nella tipologia dei contratti ad effetti obbligatori.
La critica maggiore mossa all’orientamento de quo è la scarsa tutela degli interessi delle parti: il negozio di cessione di cubatura, ad effetti meramente obbligatori, non avrebbe potuto essere trascritto e, quindi, non sarebbe risultato opponibile ai terzi.
Diversamente, la giurisprudenza amministrativa, ha prospettato la tesi dell’autosufficienza del provvedimento amministrativo: in base a tale impostazione, per la cessione di cubatura, da un proprietario ad un altro, non sarebbe necessario un atto negoziale privato diretto alla creazione di un vincolo giuridico tra le parti, in quanto tale cessione si realizzerebbe per mezzo del solo provvedimento amministrativo, avente effetto tra le parti e verso i terzi.
L’adesione del cedente potrebbe essere espressa in vari modi: da un atto di rinuncia, ad una dichiarazione. Si superava così il problema dell’opponibilità ai terzi, a danno, però, della sicurezza dei traffici.
Un orientamento opposto valorizza, invece, il rilievo negoziale della cessione.
All’interno della teoria a base negoziale, poi, si rilevano diversi tentativi di soluzione.
Una teoria inquadra il negozio di cessione di cubatura nell’ambito del diritto di superficie (atipico). Si afferma che così come può costituirsi il diritto di superficie mediante l’alienazione separata di un immobile già esistente, lo stesso può accadere con l’alienazione separata di una costruzione non ancora edificata
La tesi, tuttavia, non convince dal momento che il cessionario del diritto di cubatura non acquisisce un diritto di edificare su cosa altrui - così come avviene nel caso del diritto di superficie - ma incrementa la facoltà di esercizio del diritto su una cosa che è ed era propria.
È inoltre da escludere la creazione di un diritto reale atipico per il principio di tipicità e tassatività dei diritti reali.
Un’ulteriore ricostruzione considera la cessione di volumetria come un vincolo unilaterale nei confronti della P.A.: mediante il c.d. “atto di asservimento”, infatti, il proprietario di un fondo si impegna a non richiedere il permesso di costruire per edificare sul fondo medesimo; a tale rinuncia deve far seguito il rilascio ad altro soggetto di un permesso di costruire per una volumetria superiore a quella relativa al suo terreno. Si discorre, in tal senso, di rinuncia abdicativa
Si obietta, tuttavia, che la rinuncia non sarebbe stata opponibile ai terzi; non potrebbe configurarsi una rinuncia in senso tecnico: se, infatti, è concepibile la rinuncia ad un diritto soggettivo, non lo è la rinuncia ad una delle facoltà in esse ricomprese, dal momento che le facoltà costituenti il contenuto del diritto di proprietà non possono estinguersi se non con l’estinzione del diritto. Inoltre, è difficile spiegare come, con la semplice rinunzia, proprio il cessionario abbia "acquistato" la cubatura.
Al fine di superare gli inconvenienti derivanti dalla mancata opponibilità del negozio di cessione di cubatura sono state elaborate, sempre nell’ambito delle teorie “a base negoziale”, altre tesi che ricostruiscono la cessione di volumetria ora alla stregua di un negozio costitutivo di servitù di non edificare, ora alla stregua di un negozio di destinazione, ora come negozio traslativo di un diritto reale.
Il più noto è sicuramente il riferimento alla servitù di non edificare, che da una parte permetterebbe il rispetto del principio di tipicità dei diritti reali, dall’altra la possibilità di procedere con pubblicità immobiliare per rendere il trasferimento opponibile ai terzi.
In particolare, nell’ipotesi in cui il cedente spogli integralmente della capacità edificatoria il fondo servente, in modo tale che non possa esser più realizzato alcun manufatto, lo schema legale sarà quello della servitù di non edificare; qualora, piuttosto, le parti intendano realizzare un “parziale” trasferimento della cubatura, il meccanismo tipico di riferimento potrà essere quello della servitus altius non tollendi, in modo tale che il cedente possa utilizzare egli stesso sul proprio lotto un manufatto che impieghi la residua cubatura oppure possa cederla a terzi; la servitù resterebbe in ogni caso soggetta alla condizione risolutiva (condicio iuris) rappresentata dal rifiuto del permesso di costruire maggiorato da parte del Comune in favore del proprietario del fondo dominante.
Si obietta, però, che il ricorso al meccanismo legale delle servitù non aedificandi o altius non tollendi offrirebbe una spiegazione chiara alla nascita del vincolo sul fondo appartenente al cedente, ma non permetterebbe di comprendere come si verifica tecnicamente il corrispondente incremento della volumetria in capo al cessionario. Inoltre, si è osservato come, per quanto atipico possa essere il contenuto della servitù, esso sia pur sempre collegato ad una utilitas che, nel caso di specie, potrebbe configurarsi, però, solo a seguito del rilascio del provvedimento amministrativo concessorio.
La questione, in materia di diritto civile, riguardava prevalentemente la trascrivibilità del diritto ed è, pertanto, in parte stata sopita dall’introduzione dell’art. 2643 n. 2 bis c.c. che rende trascrivibili “i contratti che costituiscono, trasferiscono, o modificano i diritti edificatori comunque denominati…”.
Tuttavia, la natura giuridica della cessione di cubatura è ancora discussa nell’ambito del diritto tributario e non è un caso che la rimessione sia sorta in ambito tributario.
Nel dettaglio, la questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite muove dalla necessità di definire l’imposta di registro in relazione ad un atto di cessione di cubatura.
Le disposizioni tributarie, infatti, sottopongono ad aliquota diversa i contratti onerosi traslativi di diritti reali ed i contratti obbligatori. Nel dettaglio, l’art. 1, Tariffa Parte I del D.P.R. 131/86 stabilisce che “gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi, sono assoggettati ad aliquota fissa pari all’8%”. Diversamente, ai sensi dell’art. 9, gli atti aventi contenuto patrimoniale sono assoggettati al pagamento dell’imposta dovuta con applicazione dell’aliquota del 3%.
La sezione rimettente ripercorre le teorie richiamate e individua, ai fini fiscali, un orientamento che definisce la cessione di cubatura quale diritto reale o diritto assimilabile ad un diritto reale e assoggetta l’atto ad imposta di registro con aliquota fissa all’8% e un orientamento opposto che qualifica la natura dell’atto di cessione come meramente obbligatoria con applicazione dell’aliquota del 3%. A questi orientamenti si affianca, poi, un terzo che attribuisce alla cessione di cubatura natura poliedrica, rilevando di volta in volta le diverse normative riguardanti i singoli tributi.
L’adesione ad una teoria, piuttosto che ad un’altra, ha allora evidenti ricadute sul piano fiscale e ciò richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
4. La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019)
L’art. 2643, co.1, n. 2 bis, c.c. si propone, per stessa dichiarazione del legislatore, di “garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori”.
Sul piano della circolazione, le vicende traslative dei titoli volumetrici in assenza di fondi contigui o, comunque, ben determinati, sollevano diversi profili critici e, ancora una volta, hanno dato adito a dibattito quanto alla natura giuridica di tali diritti.
Taluni, richiamando la disciplina legislativa, hanno fatto derivare da questa previsione la realità del diritto, salvo poi dover verificare se si tratti di diritti “in re propria” o “in re aliena”.
Si obietta correttamente, però, che la mera collocazione del nuovo n. 2-bis nell’alveo dell’art. 2643 c.c. non possa costituire prova e fondamento della realità di tali diritti, in quanto l’ordinamento conosce ipotesi di trascrizione di contratti sicuramente con efficacia obbligatoria o dubbiosamente reale (si veda, a titolo esemplificativo, le ipotesi di cui ai nn. 8 e 12 del medesimo art. 2643 c.c., come pure quella del contratto preliminare ex art. 2645-bis c.c.).
Inoltre, a tale tesi si è replicato che i diritti in questione non sarebbero riconducibili nei diritti reali tipici, non potendo neppure inquadrarsi nella categoria delle servitù in quanto, una volta sorto, il diritto edificatorio (e la volumetria edificabile che lo stesso rappresenta), perde ogni collegamento con l’immobile di partenza, potendo lo stesso circolare ed essere negoziato in maniera autonoma.
I dubbi sulla natura reale hanno spinto a qualificare il diritto come un “bene”, in sé apprezzabile sul piano economico e giuridico: si qualifica il diritto edificatorio come bene immateriale (di origine immobiliare) similmente a quanto si era fatto per le “quote latte” (che spettano al conduttore dell'azienda agricola, ma possono essere alienate separatamente dall’azione) o per il “diritto al riempimento del vitigno” (alienabile a favore di altri viticoltori).
Altra dottrina, esaltando il ruolo della pubblica amministrazione che conclude il procedimento, evoca il concetto di “chance edificatoria” richiamando una situazione di interesse legittimo pretensivo in capo al titolare del diritto edificatorio poiché è necessaria un’attività adesiva dell’amministrazione per l’esercizio di tale diritto.
La negoziazione della chance, allora, realizzerebbe la circolazione di un’aspettativa di diritto.
Tale teoria, tuttavia, è stata criticata osservando che non si tratta sic et simpliciter di un diritto di natura obbligatoria, poiché presenta evidenti profili di realità in quanto, da un lato, il titolare di detto diritto non può che essere il proprietario di un immobile interessato da una perequazione, incentivazione o compensazione e, dall’altro lato, il diritto edificatorio per la sua realizzazione presuppone la titolarità di un immobile nel quale riversare la “quantità volumetrica” spettante.
Tutte le teorie riportate sono richiamate dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da parte della sezione tributaria al fine di chiarire “se un’area, prima edificabile e poi assoggettata con legge regionale ad un vincolo di inedificabilità assoluta, sia da considerare edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma di cd. compensazione urbanistica adottato dal Comune, ancorché il procedimento compensatorio non si sia ancora concluso, non essendo stata specificamente individuata ed assegnata al proprietario la cd. area “di atterraggio”, ossia l’area sulla quale deve essere trasferita l’edificabilità già cessata sull’area cd. “di decollo.
L’ICI (imposta comunale sugli immobili) è stata sostituita dall’IMU (imposta municipale sugli immobili), tradizionalmente riservata gli enti locali. La questione ha ad oggetto l’ICI, ratione temporis, ma rileva ugualmente ai fini dell’imposizione dell’IMU (attualmente vigente).
Ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 504/92 presupposto dell’ICI è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa. L’art. 36, co.2, D.L. 223/2006, convertito in L. 248/2006 ha stabilito che “un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo”.
Tirando le fila, il reticolo di norme richiamato prevede il pagamento di un’imposta anche per terreni edificabili, di qui l’esigenza di chiarire se l’imposta è dovuta anche in fase di “volo” del diritto edificatorio. La risoluzione della questione passa evidentemente – ancora una volta - per l’esatta individuazione della natura del diritto: ove si qualificasse il diritto di edificare come obbligatorio difetterebbe, infatti, il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perchè il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario
L’ordinanza di rimessione pare propendere per la natura obbligatoria dei diritti edificatori. L’estensore afferma, in tal senso, che “se, come sembra preferibile, si qualifica tale diritto come di natura obbligatoria (quantomeno con riferimento al “credito compensativo” promesso al proprietario con lo strumento della compensazione urbanistica), ancorché con profili di realità, difetterebbe il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perché il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario.
Analoga conclusione ove si accedesse alla configurazione dei crediti edilizi in termini di “frutto” del bene, come pure è stato prospettato, laddove il frutto sarebbe la capacità edificatoria espressa dal bene stesso ma da quest’ultimo destinata a staccarsi”.
Infatti, è vero che il diritto edificatorio necessariamente “decolla” da un fondo e, infine, “atterra” su un altro fondo, nel quale viene materialmente sfruttato, ma è altresì vero che la volumetria può restare per lungo tempo “in volo”, completamente staccata sia dal fondo di decollo (che la genera) sia da quello di atterraggio (che è destinato a riceverla), potendo nel frattempo essere liberamente ceduta a fronte di un prezzo: insomma, si tratta di un diritto che non presenta quei caratteri di immediatezza e di inerenza che connotano qualsiasi diritto reale.
Per la sezione rimettente per tutto il tempo del “volo”, dunque, il proprietario o il titolare di altro diritto reale non ha il possesso di alcuna area fabbricabile sita nel territorio comunale, ma resta titolare e possessore di un area gravata da un vincolo di inedificabilità assoluta, nella specie in virtù della pianificazione paesaggistica regionale (strumento sovraordinato al piano urbanistico comunale), e vanta una mera aspettativa di divenire titolare di altra area edificabile, sita altrove, ma della quale non conosce neppure gli estremi catastali, in quanto ancora non specificamente individuata e, conseguentemente, non ne ha neppure il possesso. In conclusione, secondo l’ordinanza di rimessione, non appaiono sussistere i due presupposti richiesti dalla normativa ICI per l’applicazione dell’imposta: non sembra, infatti, ravvisabile né il presupposto oggettivo, costituito dal possesso di un’area fabbricabile ancorché solo potenzialmente), e neppure il presupposto soggettivo, ossia la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un’area fabbricabile.
“La mera promessa di assegnazione di un’area edificabile in compensazione di quella di partenza, infatti, non appare idonea a conferire alcun diritto al privato, ma solo una legittima aspettativa, soggetta a una ampia discrezionalità dell’Amministrazione ed incerta nell’an, nel modus e nel tempus”.
Il rilievo della questione richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
"M." di Scurati: il fascino discreto del fascismo (di ieri e
di oggi)
di Andrea Apollonio
Qualcuno ha dubitato che "M. Il
figlio del secolo", di Antonio Scurati (Bompiani, 2018) potesse
rappresentare un fenomeno letterario, essenzialmente per tre ragioni: per
l'oggetto, per l'ampiezza, per l'epoca. Ci si è detti: è un libro su Mussolini,
l'ennesimo, cosa avrà di nuovo da dire? Si è aggiunto: è un libro che si
avvicina pericolosamente alle mille pagine, roba da romanzo russo ottocentesco.
Infine: i fenomeni letterari (che involgono la parte pensante del Paese, la
orientano e la dividono con la sola forza della scrittura) non possono
appartenere ad un tempo che sta osservando senza reagire il crollo verticale
dei lettori: perché molti di loro, abbandonati i libri, si sentono già
abbondantemente appagati dal flusso ininterrotto dei "post" e delle
"stories" sulle piattaforme social, mentre i più giovani, i c.d.
"nativi digitali", neppure hanno fatto in tempo a diventare
lettori.
E invece, "M" rappresenta, nonostante i tempi, un fenomeno letterario (le copie vendute, i premi vinti, i dibattiti aperti, lo dimostrano); ma è sopratutto una pagina di storia che viene travasata nel presente, raccontata con una certa spregiudicatezza. Si vuol dire che, sotto l'aspetto della tecnica narrativa, l'opera di Scurati è - in superficie - un'apologia del fascismo. E' il fascismo raccontato dai suoi protagonisti, dall'interno, dal ventre tumultuoso e anarchico della classe reietta - che sarebbe diventata il nocciolo duro del fascismo - degli ex combattenti che si rifiutano di tornare ad essere semplici cittadini: di sbandati, disperati, violenti, fanatici incendiari, psicopatici e galeotti, reduci votati alla morte anche in tempo di pace. E', sopratutto, Benito Mussolini - l'incarnazione del nuovo corso politico che, prima ancora di farsi partito, scaturisce da una nuova concezione di essere italiano: intrepido e violento, ancora in preda alle sbornie di una "vittoria mutilata" - a raccontare se stesso. I prodromi del regime liberticida che verrà, e della tragedia mondiale che verrà, sono in fondo tutti qui: nella miserevole eppure sfrenata ambizione di un uomo ipocondriaco, impunito razziatore di giovani donne, che, nato socialista, pur di prevalere nel panorama politico non disdegna alleanze con la più grezza violenza squadrista in funzione anti-socialista, e si autoproclama duce del fascismo creando dal nulla un'ideologia farlocca della vita vissuta appieno col manganello in mano, abietta al punto da sdoganare la morte, l'eccidio, il sangue dei lavoratori inermi e delle loro famiglie quale fatto storico "morale" e "necessario".
E' lo stesso Mussolini a raccontarsi così com'è, senza diaframmi, davanti allo specchio della storia implacabile come ogni superficie riflessa. Sono infatti le fonti di prima battuta (telegrammi, dispacci, brandelli di diario, e tanti articoli di giornale del Mussolini giornalista e direttore de "Il popolo d'Italia") a parlarci del fascismo, prima cucite assieme dentro una trama narrativa accattivante e sincopata per raggiungere il giusto livello di tensione, poi "svelate" alla fine di ogni capitolo, riportate con distacco archivistico; frasi e parole abnormi (che pure all'epoca non hanno impedito l'ascesa delle camicie nere) messe a nudo come capodogli spiaggiati sulla riva, accerchiati da una folla di bagnanti incuriositi. Quella folla siamo noi, lì a chiederci come sia potuto accadere.
E' accaduto anche perché l'epopea al contrario del fascismo ha incontrato il favore del destino (Mussolini nel 1921 precipita durante una lezione di volo con il suo apparecchio, caduto da 40 metri di altezza senza causare gravi conseguenze per l'aviatore: un miracolo) e l'ignavia di un regnante che l'anno dopo, nonostante il pericolo per l'integrità dello Stato costituito da colonne armate e violente pronte ad entrare nella capitale, si rifiuta inspiegabilmente di firmare lo stato di assedio: la marcia su Roma fu così trasformata nella parata vittoriosa dei protervi sugli ingenui. "A volte può bastare un banale incidente a deviare il corso della storia. E tutto finisce in una lamiera contorta ai bordi di un campo di verze", scrive Scurati a proposito del primo episodio; inutile chiedersi perché il re non firmò il decreto, scrive rispetto al secondo: "Le ragioni sono tante e nessuna. La sfinge della storia siede muta, inamovibile, su ciò che è stato, che sarà, che avrebbe potuto essere e che invece resterà per sempre increato".
In questo far intendere che l'attimo insignificante in cui tutto può finire in realtà tutto ha inizio, nel modo con cui racconta la vita di un uomo trascesa senza resistenze esterne a vicenda storica universale, nell'incastro reticolare tra decisioni prese e rinviate, tra concessioni e indulgenze di uno Stato liberale agonizzante che, come in un giallo di Agatha Christie, firma inconsapevolmente la propria condanna a morte senza che l'assassino si individui mai (Giolitti? Croce? Il re? Le opposizioni?), Scurati si rivela un grande maestro della scrittura, dal piglio accattivante e dal carattere documentaristico, che la innalza - sciascianamente - al rango di saggio storico pur dentro un impianto narrativo: l'intreccio delle fonti è sapiente, la linea del racconto segue percorsi intriganti, sebbene rimanga un semplice, obiettivo, "diario di bordo" del fascismo degli esordi. In superficie, si diceva, è un apologo, concedendosi ai Mussolini, ai Farinacci, ai Balbo, diritto di tribuna senza contraddittorio; sottopelle, assimilato come un enzima necessario all'organismo, diventa una grande, definitiva lezione di antifascismo, antico e moderno.
Questa operazione narrativa è infatti di cruciale importanza per comprendere le similitudini con le subdole forme di fascismo che oggi si registrano. Scurati (finalmente) sgombra il campo da ogni equivoco: parlare di fascismo, oggi, non vuol dire tanto riferirsi al ventennio fascista, alla costituzionale privazione o menomazione delle libertà, alla persecuzione prevista dalla legge: allo Stato che si fa Tiranno. Quello fascista è un esperimento politico-governativo irreplicabile, nell'ambito del costituzionalismo moderno occidentale, con i suoi bilanciamenti e i suoi anticorpi. E' invece al fascismo degli anni 20-22 che più correttamente occorre riferirsi, a quel fenomeno di violenza fisica e morale diffusa eppure tollerata, ad un certo punto voluta e apprezzata dalle classi borghesi, dai liberali e persino dal re, terrorizzati tutti da un eventuale socialismo di governo. E' allora che scopriremmo con orrore la quantità di fascismo di cui è iniettato il nostro tempo.
Non è fascismo quello che ha condotto al brutale - e senza ragione alcuna - pestaggio di Willy, il ragazzo ucciso a pugni a Colleferro? (è così che i fascisti della prima ora annientavano gli avversari, a pugni e bastonate). E per venire a temi più vicini: non è fascismo minacciare di morte un pm che indaga su reati commessi da esponenti di estrema destra e che, "addirittura", si dichiara partigiano? (è così che i fascisti screditavano gli avversari, con il sovvertimento della realtà). Certo, non ci sono più gli assalti alle Case del popolo (anche perché non ci sono più le Case del popolo), ma c'è, un esempio tra tanti, quel fenomeno diffuso e tollerato che è l'odio social: gli attacchi sistematici, virtuali, dei "leoni da tastiera", che vengono scagliati, per puro gusto di farlo, per una sorda necessità, nei confronti di tutti coloro che non la pensano allo stesso modo - o che, semplicemente, pensano. Non è forse la cerchia sempre più ampia, ormai incensibile, degli odiatori seriali, fascismo?
L'aspetto tragico di questo fenomeno e che molti di questi "hater" pensano di fare opinione, credono di essere co-protagonisti della contemporaneità semplicemente sfogando una rabbia primitiva: sono tra quelli (cfr. sopra) che hanno deciso di abbandonare il libro per dedicarsi ad una forma di racconto ben più semplificata: quella dei social, appunto; sono tra quelli (cfr. sopra) che, nativi digitali, non sono mai diventati lettori. In entrambi i casi, il modello è quello fascista: "La storia si fa con la bomba a mano e con l'aratro, e non coi volumi di Salvemini; si vive, non si legge. Se mi bocci me ne frego" (la citazione è, ancora, tra quelle preziose che riporta Scurati: questa è tratta da una rivista fascista). La realtà semplificata, primitiva, la ricerca dell'ignoranza quale forma di protezione, il digrossamento dei problemi trasformati in contenitori d'odio e di intolleranza di cui coprire chi la pensa diversamente. E' la rivolta dell'io contro la coscienza collettiva, del popolo senza ragione contro gli steccati del diritto e della morale. "Il popolo... oggi si orienta a masse sempre più folte verso di noi, perché sente, nel suo oscuro ma infallibile istinto, che nel fascismo c'è la vita con tutte le sue possibilità" (lettera di Mussolini a Farinacci). E' il fascino discreto del fascismo che attira i più fragili: ieri come oggi. Antonio Scurati l'ha reso palese.
Al seguito - "M. L'uomo della provvidenza" (Bompiani, 2020) - si può accennare solo in funzione di stimolo, per ulteriori spunti e considerazioni. Il delitto Matteotti quale anello di congiunzione tra il primo e il secondo volume, quale momento cruciale di passaggio dalla finzione democratica all'effettività di una dittatura. Il sipario si apre qui su di uno scenario narrativo ben diverso: un Mussolini sempre piiù bestialmente uomo e il fascismo di governo, che si avvia verso il regime abbandonando ogni incertezza, disinvoltamente, dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, superata con la (dolosa) benedizione del re, l'inerzia (colpevole) delle forze di opposizione e lo smarrimento (obiettivo) dell'opinione pubblica. Si generano adesso nuovi temi, nuove questioni (tra le quali, l'atteggiamento della magistratura di fronte al regime): e un fenomeno letterario in grado di indicarci i problemi, vecchi e nuovi (la genesi del nostro spirito nazionale; l'origine delle nostre peggiori pulsioni), dopo anni di stasi culturale, merita l'avvio di un dibattito.
La Cassazione civile utile. A proposito di un recente saggio di Paolo Biavati.
Intervista di Roberto Conti a Elena D’Alessandro, Massimo Ferro e Mario Serio.
Nel suo saggio apparso su questa Rivista qualche mese fa (P.Biavati, Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria ) il Presidente dell’Associazione processualcivilisti italiani ha svolto un ragionamento ampio sul processo civile post Covid che, quanto alla funzionalità della Corte di Cassazione, muoveva da un dato di fatto che è ben presente in pressoché la totalità degli operatori del diritto.
La Corte di Cassazione è affetta da un problema ormai atavico, rappresentato dai tempi di risoluzione dei ricorsi presentati innanzi a sé, che mina alla radice la sua funzione nomofilattica. Crisi che si è accentuata nell’attuale periodo per effetto della pandemia e del blocco dell’attività giurisdizionale prodottasi.
L'idea che il Prof. Biavati ha inteso sottoporre all’attenzione della comunità scientifica e dei giuristi tutti è quella di pensare a forme di più stretto collegamento fra il giudice di merito e quello di legittimità, capaci di stimolare una pronta risposta della Corte Suprema rispetto a questioni di rilevante impatto sociale ed economico che non possono attendere l’intervento del giudice di legittimità a distanza di parecchi anni da vicende che assumono carattere seriale e rischiano di condizionare in modo marcato il corretto sviluppo dei traffici ma anche la necessaria protezione dei diritti fondamentali. La strisciante crisi economica che sta caratterizzando il nostro come altri paesi fortemente colpiti dalla crisi pandemica, purtroppo destinata a propagarsi per un tempo ad oggi indefinito impone, dunque, risposte adeguate alla gravità del momento che comunque si muovano nel solco della funzione tradizione della Corte di Cassazione.
È stato di recente ricordato il pensiero di Piero Calamandrei nel 1933 che, in occasione del decennale della Cassazione unica, affermava:«la porta, per la quale la scienza del diritto entra più liberamente nelle aule di giustizia, è quella della Cassazione unificata»(v.A. Carratta, G. Costantino, G. Ruffini, Attualità di Piero Calamandrei processualista, in P.Calamandrei, Opere giuridiche, Vol.I, Problemi generali del diritto e del processo,VIII, Riedizione a cura della Biblioteca e Archivio storico Piero Calamandrei inserita nella Collana "La memoria del diritto" distribuita da Roma Tre, 2019).
Quella constatazione deve oggi fare i conti con una dura realtà, nella quale il concorrente bisogno di perseguire in modo bilanciato ius litigatoris e ius constitutionis ha spesso prodotto disagi ad un punto di tale livello da mettere in discussione, per l’appunto, quella verità alla quale Calamandrei dedicò la sua riflessione. E in questo contesto il peso che la Corte tenta di sostenere facendo fronte al contenzioso tributario ed a quello, parimenti immanente, della protezione internazionale costituisce al tempo stesso la prova tangibile e la spia di quel disagio.
Dunque quale sarà il ruolo delle Corte di Cassazione, come essa potrà svolgere la funzione che l’ordinamento le assegna se i meccanismi di accesso continueranno ad essere informati al canone dell’eguaglianza al quale fa da pendant l’accesso “libero” ed indiscriminato a difesa del diritto alla giustizia? Un’eguaglianza che rischia di risolversi in gravissime diseguaglianze se si guarda al peso ed al valore – incidente sui diritti fondamentali e/o sul piano economico - delle diverse decisioni che il giudice di legittimità è chiamato ad adottare e che potrebbe richiedere uno sforzo aggiuntivo di riflessione sull’egualitarismo al quale Guido Calabresi e Philipp Bobbitt hanno dedicato notevole attenzione nel loro formidabile "Scelte tragiche".
Insomma, il dilemma che sta alla base della "scelta di primo grado" - a volere usare le categorie prescelte da Guido Calabresi - se consentire l’accesso alla giustizia di legittimità a tutti coloro che lo richiedono o solo ad alcuni, in un sistema di scarsità di risorse sarà uno dei temi centrali nel futuro del nostro Paese.
Come lo sarà quello correlato alle "scelte di secondo grado" che chiameranno il giudice di legittimità a selezionare, nel caleidoscopio delle decine di migliaia di ricorsi in ingresso, quelli che meritano di essere decise con priorità, riproponendosi i dilemmi che i due studiosi americani hanno richiamato sul metodo migliore per rispondere alla scelta tragica “di turno”.
Scelte che, a ben considerare, non possono ritenersi circoscritte, quanto alla soluzione, al mondo dei magistrati che compongono la Corte, poiché la Giustizia non appartiene soltanto a loro, ma è della società nel suo insieme, risente dei valori e della cultura che lì si ritrova.
Un fascio di questioni che si mostrano certo “tragiche” per chi dovesse non avere accesso al giudice di ultima istanza o dovesse averlo con grande ritardo perché ritenuto meno meritevole di quella tutela rispetto ad altro.
Idealmente collegandosi alla riflessione del Prof.Biavati ed alla tensione che animava il grande pensatore fiorentino Giustizia Insieme ha pensato di rivolgere a tre autorevoli personalità del mondo giuridico - Elena D'Alessandro, Massimo Ferro e Mario Serio - alcune domande sui temi qui accennati, in modo da offrire ai lettori dei punti di osservazione quanto più variegati sul tema.
***
1. Iniziamo da dove pochi gradiscono cominciare. La funzione nomofilattica della Corte di Cassazione post Covid-19. Spesso si sostiene che, a Costituzione invariata, i rimedi alla lunghezza dei tempi del processo di legittimità possono trovarsi pensando solo ad un ampliamento di organico o all’informatizzazione del processo all’interno di misure organizzative che continuano a studiarsi. Il tutto con il solito dilemma fra esigenze di specializzazione e di valorizzazione dei diversi apporti culturali forniti da magistrati anche non “esperti” di una specifica materia. Quale è il suo avviso in proposito?
E.D’Alessandro Prima di accingermi a replicare ai quesiti posti, desidero ringraziare tutta la redazione di “Giustizia Insieme” per l’invito a partecipare a questo interessante dibattito. Le questioni che saranno affrontate sono assai spinose. L’obiettivo che mi pongo è quello di suscitare qualche - spero utile - spunto di riflessione.
Risponderò alla prima delle domande formulate basandomi sui dati oggettivi contenuti nel Quadro di valutazione UE della giustizia 2020 (EU Justice Scoreboard 2020). Ogni anno la Commissione europea mette a confronto l’indipendenza, la qualità e l’efficienza degli Stati membri, concentrandosi sul contenzioso in materia civile, commerciale e amministrativa. I dati raccolti sono illustrati con grafici. In tale contesto, il grafico numero 35 si riferisce al numero di giudici per ogni 100.000 abitanti (con riferimento agli anni 2012, 2016, 2017 e 2018). A tale riguardo, l’Italia si posiziona soltanto al ventiduesimo posto tra i ventisette Stati membri. Tale dato induce a ritenere che un ampliamento dell’organico potrebbe essere un utile strumento per rendere più efficiente il sistema giudiziario italiano, considerato, peraltro, che in base ai dati illustrati al grafico numero 33 del medesimo Quadro di valutazione, l’Italia è all’undicesimo posto (‘a metà classifica’) per ammontare di investimenti pubblici destinati al miglioramento del sistema giudiziario.
Aggiungo che, alla luce dell’esperienza maturata durante l’emergenza Covid-19, anche un ampliamento dell’informatizzazione esteso alla Suprema Corte e agli uffici dei giudici di pace che ancora non beneficiano di tale servizio, certamente non nuocerebbe all’efficienza del sistema giurisdizionale italiano.
Riguardo, infine, all’opportunità di predisporre misure organizzative volte a privilegiare esigenze di specializzazione, come sottolineato dallo stesso intervistatore, vi sono argomenti sia in favore sia contro la loro introduzione. Dipende dal valore che si privilegia e, quindi, dall’obiettivo che ci si prefigge.
Se l’obiettivo è quello di guadagnare posizioni nell’ambito del Quadro di valutazione UE della giustizia accorciando la tempistica del contenzioso civile, il rafforzamento delle misure organizzative volte a privilegiare esigenze di specializzazione dovrebbe essere premiante, posto che il giudice esperto della materia, forte dell’esperienza maturata sul campo, dovrebbe riuscire a definire i processi, scrivendo la decisione, in tempi più brevi.
Si debbono, però, evitare gli eccessi.
Le sezioni composte da soli magistrati esperti in una determinata materia non possono diventare “la regola”, perché gli episodi della vita che generano il contenzioso civile sono fenomeni complessi che, spesso, con difficoltà si lasciano inquadrare in “rigide categorie”. Proprio per cogliere a pieno questa complessità della società moderna i nuovi programmi di finanziamento di matrice europea spingono affinché l’attività di ricerca, nell’accademia, sia più interdisciplinare. Se l’interdisciplinarietà è lo strumento per dominare la complessità della società attuale, allora occorre valorizzare anche la figura del giudice non ‘esperto’, che porta in camera di consiglio il bagaglio esperienziale di un diverso settore del diritto civile.
M.Ferro La durata del processo di legittimità, computata per l’anno 2019 nel settore civile, è risultata pari a 3 anni e 14 giorni, in significativo calo rispetto all’anno precedente, dove si collocava a 3 anni 4 mesi e 5 giorni. Il dato, in sé isolatamente inteso, potrebbe già esaurire l’interrogativo, attenuandone la drammaticità in mera prospettiva problematica, cioè con invito ad esaminare i periodi che sono in costante decrescita nel quinquennio (e salvo una ripresa nel 2018), essendo partiti dai 1.332 giorni del 2015 per abbattersi sino, appunto, ai 1.110 dell’anno scorso. A ciò si aggiunga che proprio dal 2015, con 26.200 definizioni, si è innescato – in apparenza in modo irreversibile – un incremento virtuoso della produzione, consolidatosi ogni anno e culminato nei 33.045 provvedimenti ancora del 2019 (procedimenti definiti). Un bilancio che perciò misurasse l’impiego del capitale umano potrebbe limitarsi a sorreggere il commento dei flussi e l’aumento del numero delle decisioni pro capite, assecondandone la curva positiva e tanto più considerando che il computo non sconta fattori disorganizzativi esterni di portata straordinaria, alla stregua dei quali andranno invece lette le risultanze del 2020 e nonostante, invece, storiche scoperture di organico anche maggiori (per assenze e concomitanti esoneri) proprie di quegli anni rispetto alle attuali internalità critiche. Il dato offerto, del tutto omologo al più semplice quesito sull’intervallo temporale, mette in evidenza anche i limiti di produzione della macchina istituzionale e però viene spesso impiegato in un duplice contesto: la corrente narrazione giustificativa che invoca l’aumento dei giudici per migliorare la performance e, all’interno, una perdurante progettazione direttiva che nella sostanza si esaurisce in una altrettanto poco originale richiesta di nuovi numeri, incessantemente rinnovata ad ogni ricambio generazionale e direttivo.
Si tratta di atteggiamenti errati perché l’uno esclude programmaticamente qualunque investigazione sulla quantità e qualità di domanda che, a monte, impatta sul giudice di legittimità italiano e l’altro procede mimando una conduzione manageriale che sacrifica non solo qualità e autorevolezza della risposta giudiziaria ma, sul lungo periodo, l’identità intellettuale dei giudici stessi. Ancora un dato: nel 2010 si tennero 1.067 udienze, nel 2019 1.341; nel 2010 la media dei ricorsi trattati per singola udienza era 27,5, nel 2019 è ascesa a 29,6. Più ampiamente, il confronto fra la produttività individuale anche solo della fine degli anni ’90 rispetto alla curva finale del secondo decennio del nuovo secolo mette in luce non solo un consistente aumento di produttività, ma altresì il trascinamento di un debito giudiziario pregresso scaricato sulle generazioni successive, non ancora del tutto indagato e ormai tale da incombere, stravolgendole, sulle reali condizioni di apertura culturale, attrezzatura di studio e dunque tempo di preparazione che un diverso carico di lavoro individuale potrebbe e dovrebbe permettere a tutti i consiglieri. E che oggi è sempre meno assicurato.
A meno dunque di comprimere la risposta giurisdizionale in una pronuncia talmente sintetica da ledere l’obbligo di motivazione ex art.111 comma 6 Cost. e prendendo atto che il monte provvedimenti ha già da tempo raggiunto livelli a loro volta assai elevati, è contestabile il difetto di ambizione sottostante al proposto doppio rimedio aumento dei giudici/nuovi traguardi di produttività meramente numerica. Il dato del 2019 palesa inoltre un’intima contraddizione, che deriva proprio dalla sua parzialità e che, pertanto, reclama l’illogicità di un qualunque progetto che voglia operare solo su di esso: il caso italiano contrappone un indice di ricambio ancora altissimo, non essendo mai sceso sotto l’85% e con ben quattro picchi pari o superiori al 100% nel decennio 2009-2019, ma con la duplice desolante peculiarità di un numero di procedimenti iscritti tornati ad essere irraggiungibili, perché superiori ai definiti, dopo il punto di pareggio sostanzialmente conseguito nel 2017 e soprattutto senza nessuna possibilità, allo stato, di intaccare i dati di stock della Cassazione civile, fissati a 117.033 a fine 2019 (non vanno considerati, qui, i dati della prima parte del 2020, in ovvia controtendenza). Nessuna proposta dunque appare adeguata se essa non inquadra l’insieme dei fattori del cantiere, ideologici e materiali. Da questo punto di vista, occorre che i giuristi riconoscano che, nella sostanza, la Corte italiana assolve nella prassi del suo accesso e mancando negli interventi legislativi un costante scrupolo di salvaguardarne la funzione sancita dall’art.65 dell’ordinamento giudiziario, ad un ruolo di terzo organo di giustizia, al vertice di una sequenza organizzativa regolatoria del litigio civile in cui il ricorso per cassazione vi appartiene come passaggio di un programma ordinario. Consentito ad una somma eterogenea di parti (da quelle più abbienti ad altre fruitrici di assistenza pubblica nella difesa), ma entro una gittata almeno culturale che - come comune denominatore - non ne avverte la straordinarietà (anzi, in rivincita fattuale delle parole dei giuristi applicate al modello-ricorso). Per questo una risposta in termini di modello processuale astratto non ha alcun senso se non si accompagna ad un’analisi dell’organizzazione giudiziaria di legittimità da condurre in modo interdisciplinare e comparatistico, coltivando con realismo la consapevolezza che altre scienze – di economia gestionale, management, psicologia di comunità, statistica, sociolinguistica, finanza amministrativa – dovrebbero concorrere alla pari a studiare il modello di funzionamento organizzativo vivente e concreto. E al contempo assumere tutti i dati ambientali che, in altre esperienze sistemiche, permettono – anche solo per ottimale reattività sulla domanda – di perseguire in modo ordinario e prevalente la funzione nomofilattica.
Basti solo l’esempio francese: nel 2019, la durata dei procedimenti civili era di 429 giorni (peraltro in crescita nel decennio, rispetto ai 378 del 2010), con poco più della metà delle decisioni italiane (17.813), un flusso d’ingresso nell’identica proporzione (attorno alla metà di quelli italiani, 17.071, dopo un picco di 21.860 nel 2011), ma con uno stock, cioè di pendenti al netto dei definiti, di 19.231. É quel dato di approssimato sostanziale pareggio che consente di operare sull’unità annuale per lo smaltimento, che invece in Italia, nonostante ogni impegno professionale e tensione riorganizzativa, blocca lo smaltimento ad un indice modesto, consegnato per il 2019 al 22%. Lavorare sulla prospettiva di un anno o poco più significa offrire alla giurisprudenza di legittimità un contesto responsabile per selezionare i conflitti, organizzarne lo studio per ogni implicazione nei rapporti sociali ed economici, chiamare a contribuzione efficace tutti gli attori della giurisdizione, evitando il sopraggiungere – nella massa di numeri ingovernabili secondo il mero criterio della prevenzione temporale – di estemporanee scelte prioritarie, siano esse dettate di volta in volta da ambigue clausole normative (che finiscono con l’assecondare spinte di corto periodo della opinione pubblica e, sul piano tecnico, non sono sempre attuabili) o prescrizioni interne (altrettanto condizionabili da mutevoli sensibilità), entrambe in potenziale conflitto con il principio costituzionale di uguaglianza che, a fronte di risorse scarse, è messo a dura prova da sistemi selettivi (dei casi da trattare) contraddittori, sovrapposti e disastrosamente eccentrici rispetto al principio di ragionevole prevedibilità del formante decisorio e della sua epoca di confezione.
Dunque un primo punto su cui le comunità professionali coinvolte nella giustizia di legittimità dovrebbero convergere è il riconoscimento che un ruolo orientativo della Corte, nonostante i limiti del precedente in un sistema di civil law, non è allo stato perseguibile rincorrendo acriticamente i flussi in ingresso senza analizzare come essi si generano, né le proposte più tradizionali e scontate – aumento del numero dei giudici ovvero razionalizzazioni informatiche, versanti peraltro del tutto diversi e diversamente decisivi - possono costituire soluzioni corrette ovvero, rispettivamente, esaustive dei bisogni della drammatica crisi dell’organizzazione della Cassazione. La difficoltà ad esprimere lo jus constitutionis in termini temporali persuasivi rispetto alle esigenze poste nelle vicende di maggiore problematicità si scorge nell’orientamento alle risorse che con fatica l’intero assetto della Corte – frutto di leggi processuali, circolari del C.S.M., atti e norme della pubblica amministrazione e direttive del Primo Presidente, scelte di dettaglio degli altri profili direttivi – dirige per lo più verso lo jus litigatoris. Aumento dei giudici e ingegnerizzazione del processo non sono peraltro due soluzioni omogenee, anche se – nell’attuale dibattito – in parte per essere declinate al futuro e comunque riscuotono consenso e appaiono aggregate, quasi inscindibilmente, poiché intercettano una convergenza pacificata nella richiesta, che non scuote alcun equilibrio, né incide su alcuna causa dell’abnorme domanda anzi rincorrendola.
Vanno però fatte necessarie distinzioni. Incrementare l’organico della Corte di cassazione, scelta peraltro già disposta dal legislatore, costituisce una indicazione assai tradizionale, riflettendo l’ancestrale aspirazione meccanicistica per cui all’aumento della forza lavoro, a parità di condizioni praticate nel processo produttivo, corrisponde un aumento delle merci-pronunce. In realtà essa non mostra di considerare alcune circostanze di cd. scarto produttivo e cioè: vi è già stata una poderosa immissione di nuovi giudici, almeno dal 2012 in poi, pur se con congedo anticipato di persone di grande esperienza e residua alta produttività in occasione della riforma che ha ridotto, a metà del decennio, l’età pensionabile; altra vicenda incrementativa ha riguardato l’applicazione ad una sezione (tributaria) dei colleghi del Massimario; infine, vi è stato l’ingresso, in più riprese, di giudici aggregati o esperti ritornati in servizio e addetti al medesimo settore in sofferenza, oltre ad un accesso costante di quote di consiglieri per meriti insigni. Orbene l’ingresso di nuove generazioni di magistrati, con indici di ricambio che oggettivamente hanno mutato la composizione delle sezioni alterando il più lento meccanismo cooptativo, ha impattato sul sistema in modo attivo sotto il profilo delle quantità delle pronunce emesse, ma la sua trasformazione in risorsa altrettanto saldamente coordinata alla funzione nomofilattica non può dirsi altrettanto raggiunta. Lo comprovano alcuni dati: la ricorrenza crescente dei contrasti interni; la alimentazione per il nuovo contenzioso di precedenti conflittuali e spesso coevi; la drammaticamente più corta durata della stabilità delle stesse soluzioni al contrasto dettate sulla medesima questione dalle Sezioni Unite con frequenti e ravvicinate nuove remissioni sullo stesso punto; l’aumento dei ricorsi per revocazione; la proliferazione, anche nelle stesse Sezioni, di prototipi redazionali disomogenei per estensione, dialogo con i precedenti e selezione delle essenziali questioni preliminari di natura processuale. Si tratta di fattori alla base di un humus culturale, non solo interno, in cui proprio l’inclinazione meramente quantitativa progettata, incentivata e realmente perseguita (nella sostanza, il carico di lavoro individuale e collegiale) nella formazione dei ruoli restituisce un clima in cui la forza persuasiva della pronuncia innovativa o che affronta un contrasto sembra necessitare – in modo del tutto contraddittorio con il modello su cui si fonda l’autorevolezza dei sistemi basati sul precedente – di una ripetizione, più e più volte, per potersi dotare di plausibilità. Il che getta una patina di provvisorietà e qualche volta sperimentalità alla prima pronuncia, non essendo predittibile se sarà seguita da altre conformi o preluderà ad una resistenza e per quanto tempo la coabitazione di indirizzi difformi sosterrà il percorso ermeneutico prima di un intervento delle Sezioni Unite. Le conseguenze di selezione avversa rispetto al formarsi del contenzioso in ingresso sono agevolmente intuibili: la consapevolezza che il precedente innovativo necessita all’interno della Corte di un percorso ulteriore e indeterminato per fissarsi in termini di riferimento come ‘diritto certo’ alimenta l’intera struttura redazionale, nonché il suo malfermo collegamento di sistema; all’esterno, il medesimo provvedimento non assolve ad alcuna funzione disincentivante nuovi flussi di ricorsi coltivati con argomentazioni contrarie.
Si tratta di circostanze che non sembrano analizzate nel loro impatto e la scorrevolezza con cui si indulge, ancora una volta, verso il mero aumento dei giudici quale prima opzione sistemica può trovare spiegazione nell’apparente neutralità ordinamentale della scelta (che sposta in modo non irreversibile risorse da un comparto all’altro della giurisdizione, assicurandone anzi maggiore circolarità) e nella sua vocazione compromissoria (essa non instaura conflitti all’esterno della magistratura e nelle comunità professionali della giustizia, poiché non viene affrontata la questione della non proporzionalità della domanda di accesso alla Corte rispetto alle capacità di definizione corrente, oltre che dei pendenti a regime). I limiti della soluzione reiterano pertanto la parzialità del dato di sofferenza quantitativa, ma non affrontano alcun nodo relativo al mutamento qualitativo irreversibile che quegli indici numerici hanno oramai determinato sulla costituzione materiale della Corte italiana. Anzi, se è possibile ricordare una proposta che la stessa A.N.M. – sezione della Cassazione aveva coraggiosamente introdotto alcuni anni orsono in un pubblico dibattito: occorrerebbe, al contrario, una perspicua riduzione del numero dei giudici di legittimità, accompagnata da una massiva sensibilizzazione sulla non inevitabilità dello stesso ricorso per cassazione per ogni litigio questione o materia, accompagnando l’obiettivo anche con l’investitura della selezione della domanda affidata ad un’Avvocatura specializzata ed ordinata in albo apposito, con scelta a monte di esclusività di patrocinio solo per tale processo rispetto alle difese assumibili avanti ai giudici di merito. Ne guadagnerebbe, tra l’altro, anche il bacino di reclutamento dei consiglieri per meriti insigni di cui all’art.106, comma 3, Cost., oggi numericamente così vasto da non costituire, di fatto, un contesto seriamente preselettivo, confondendosi con l’altro e diverso requisito della mera anzianità quindicennale. Se su questo punto l’esempio, ancora, rimanda agli avocats aux conseils, gli unici abilitati in Francia a patrocinare avanti alla Corte di cassazione e al Consiglio di Stato (sono 119 titolari), andrebbe auspicabilmente valutata – constatando l’incomparabilità numerica con le oltre 4 decine di migliaia del modello italiano (che non si fonda sul numero chiuso, né la riforma della legge n.247/2012 ha dispiegato ancora alcun effetto selettivo) – la caratura istituzionale di un ceto forense non solo specializzato (sul giudizio di legittimità e i mezzi di ricorso) ma ampiamente associabile, nella sua rappresentanza, in una continua collaborazione progettuale e istruttoria sulla tenuta di sistema della stessa Corte di cassazione. Si pensi a conferenze e consultazioni decisive fra giudici e avvocati di legittimità proprio per analizzare la composizione del contenzioso e dei suoi flussi, fornire elementi informativi sui contrasti ovvero fissare i presupposti per una rimeditazione dei precedenti di cui si predichi la datazione storica o incompatibilità, si può aggiungere, di lettura costituzionale. Ma si tratta, si è consapevoli, di suggestione mai presa in serio esame nei progetti di riforma posto che, com’è noto, il corso propedeutico all’iscrizione all’albo speciale degli avvocati cassazionisti italiani non spiega effetti sul possesso dei requisiti vigenti anteriormente al febbraio 2021 e manifesterà assai modesti riflussi selettivi e in ogni caso differiti di decenni.
Altro fronte dovrebbe essere l’attuale interpretazione del settimo comma dell’art.111 Cost., da circa 70 anni inteso in senso estensivo come copertura di un sindacato di legittimità che va oltre le sentenze e può dirigersi anche ai cd. provvedimenti definitivi e decisori sui diritti soggettivi. La giurisprudenza ha così allargato il bacino di giustiziabilità verso assetti regolati dal giudice di merito ma con pronunce ritenute suscettibili di violazione o falsa applicazione della legge, specie colmando un deficit di normazione conforme a Costituzione per svariati rapporti e conflitti. L’indirizzo, peraltro, si era formato in un’epoca di acerba articolazione del controllo di costituzionalità e senza contrappesi con le normazioni sovranazionali, intervenendo soprattutto su un impianto legislativo antecedente alla Carta del 1948. Orbene, non solo il quadro ordinamentale è completamente mutato quanto ai riferimenti di costituzionalità e compatibilità esterna, ma negli ultimi decenni il legislatore domestico ha pienamente assunto la traiettoria della ricorribilità in Cassazione tutte le volte in cui la pronuncia di merito, benché non nella veste di sentenza, ne esigesse il controllo sulla tutela di pregnanti diritti soggettivi. Ciò farebbe ritenere matura l’epoca per una rimeditazione del pregresso indirizzo, così evidenziando la piena responsabilità politico-parlamentare di scelte di allargamento dell’accesso alla Corte. Con la salvaguardia, piuttosto, della tutela di diritti soggettivi fondamentali, a chiusura del sistema, un arretramento della interpretazione al dato testuale della norma costituzionale avrebbe l’effetto di un riordino selettivo della materia suscettibile di intervento cassatorio ai sensi della citata disposizione.
Tutt’altro commento va esposto quanto all’informatizzazione del processo. La nostra istituzione sconta un ritardo storico, frutto di una scelta esattamente capovolta – per restare nella comparazione con la Francia, in cui il processo telematico è stato avviato per primo nella sede di legittimità – avendo riguardo alla specialità dell’ufficio (concentrato, ad unica sede, nazionale, con un equilibrio di genere crescente) e del processo (organizzativamente ancora semplice, con prassi riconducibili ad unità per via di efficaci prescrizioni anche amministrative interne oltre che giurisprudenziali). Il processo telematico di cassazione, che ha brillato per la sua assenza durante il periodo del lockdown e la difficoltà di assicurare l’accesso agli atti nella generale sospensione delle attività e la riprogettazione delle adunanze e camere di consiglio da remoto, è dunque scelta tecnico-organizzativa imprescindibile, a patto che il suo decollo avvenga insieme per tutti i suoi atti, da quelli di parte a quelli del giudice, dalle notifiche al deposito e pubblicazione contestuale della decisione, facendo tesoro delle esperienze sinora praticate negli uffici. Si tratta di valorizzare la naturale esigenza di canalizzazione degli atti, di parte e del giudice, che il processo telematico impone al fine di renderne compatibile la disamina non solo individuale ma che già tenga conto della virtuosità delle adunanze tenute in via telematica presso la Corte e sino al 31 luglio 2020, quasi sempre precedute da ulteriori approfondimenti preliminari con lo stesso mezzo. Sul versante del costume redazionale, va preso atto che le opportune indicazioni di uniformità stilistica impartite nel 2016 per la prima volta hanno permesso di oggettivizzare la stesura scritta delle pronunce, evitando la bizzarra (e peraltro poco avvertita come tale) proliferazione di stili grafici, di fatto con soggettivizzazione stridente per una Corte che aspira, anche per questa via, ad un’imputazione collegiale delle sue decisioni. Tale spinta, è stato osservato, pare però essersi in parte esaurita, per una somma di inclinazioni individualistiche, il ritorno in auge di sentenze-trattato, la necessità di veloce consegna degli elaborati (confezionati in proprio dai magistrati redattori), la scarsa dimestichezza informatica di altri, l’inesistenza di una adeguata filiera di semielaborati fornita da assistenti stabili a supporto delle Sezioni e dei rispettivi consiglieri. Sullo sfondo, va anche annotata la mancanza di percorsi di formazione comune interni strettamente connessi ai ruoli e dunque a tendenziale doverosa partecipazione almeno per gruppi di consiglieri addetti a settori omogenei, nonché la carenza di continuità di esperienze seminariali virtuose (pur inaugurate all’inizio del decennio) proprio sulla motivazione ovvero su altre figure centrali delle regole processuali.
La produzione delle decisioni attraverso un unico desk del giudice, esercitabile anche da remoto e quale imprescindibile assetto d’esordio del processo telematico di cassazione, raffinerebbe certamente il risultato, presentandosi anche come l’occasione per superare lo schema libero di stesura e, previa la più ampia discussione sui modelli, adozione di format omogenei, almeno per tipologia di pronunce ovvero riferimenti alle adunanze o udienze. Ovviamente, occorrerebbe far tesoro della lunga esperienza dei giudici di merito quanto a reale comprensione e metabolizzazione degli atti in lettura a video, costruendo dispositivi che almeno affrontino queste criticità, superando ogni rassegnazione culturale quale si avrebbe se il processo telematico di cassazione fosse l’attuale processo così com’è meramente trasfuso in un server. Parimenti, andrebbe dunque replicato – uscendo da una certa timidezza propositiva - anche il modello organizzativo messo a punto con il processo telematico amministrativo, ai fini della chiarezza e sinteticità degli atti di parte, rimettendo al Primo Presidente, come avviene per il Consiglio di Stato ai sensi dell’art.13-ter del decreto legislativo n.104 del 2010 e previa la stessa interlocuzione istituzionale preventiva, il potere di regolamentare il perimetro degli atti difensivi, per criteri di redazione e limiti dimensionali, con le stesse conseguenze. La misura ben può e dovrebbe invero assumere portata normativa, così evolvendo l’esperienza dei Protocolli e, in tal modo, contribuendo ad una modulazione meglio organizzata di un ambiente di lavoro che sconterà inevitabili criticità, nella sostituzione della carta e del tradizionale fascicolo, avendo di mira l’obiettivo della fattibilità di una disamina completa di elementi redazionali chiari e sintetici (in linea con la prescrizione del comune P.C.T. attivo nel merito). Ma senza l’illusione che un intervento, quale sarà, di ingegnerizzazione organizzativa provochi un abbattimento dei flussi solo se in sé considerato, ove non si presti adeguata attenzione di dettaglio, oltre alla facilità di avvio, altresì alla semplicità di trattazione e all’output cui è chiamata la macchina.
Sulla specializzazione e i giudici non esperti: va detto subito che, ove sia confermata la progettata temporaneità della appartenenza del consigliere ad una Sezione o, meglio, ad un’area omogenea in essa definita (ai sensi dell’art.231 della Circolare C.S.M. sulle tabelle 2020-22), si potrebbero creare le basi, profondamente malferme, per una retrocessione ad una cultura genericista del giudice, trasferendo pericolosamente nella competenza tecnica un sospetto di intima inidoneità all’evoluzione interpretativa e ignorando in modo clamoroso che già di per sé l’età di accesso alla Corte (in aumento possibile per la nuova Circolare sui trasferimenti del 9 settembre 2020), i meccanismi di mobilità interna, il turn over generazionale, semmai e all’opposto, richiederebbero un rafforzamento dei necessari indici della specializzazione. Il carattere nazionale dell’Ufficio ha infatti, sinora, arginato l’applicazione anche alla Corte del limite temporale di permanenza nelle funzioni, ma la cennata prospettiva, pur allo scopo di evitare la concentrazione - peraltro impossibile, già per le proporzioni del contenzioso – in capo ad un singolo consigliere esperto delle questioni afferenti ad una certa materia, potrebbe assumere i tratti destabilizzanti rispetto alla faticosa costituzione di gruppi di lavoro, interni alla medesima Sezione, sufficientemente coesi, ovviamente per numero di componenti maggiore rispetto a quelli di un ordinario collegio, ma in realtà a vocazione motivata perché destinati ad offrire la generalmente attesa risposta competente ai ricorsi e al contempo rappresentare l’interlocutore attendibile della stessa giurisprudenza di merito e della comunità professionale di riferimento. Per questa ragione è semmai preferibile che i gruppi per aree omogenee siano costituiti da consiglieri all’inizio anche non esperti della materia ma con destinazione non sporadica alla trattazione dei relativi affari, così da acquisire velocemente la necessaria esperienza. Solo raggiunto tale assetto, evitando – come tuttora accade - inserzioni del tutto occasionali di consiglieri estranei al gruppo di lavoro, può essere strutturato un congegno di ingresso/uscita regolato secondo criteri che ne favoriscano il graduale avvicendamento.
M.Serio In via generale desidero premettere che le mie risposte agli stimolanti quesiti posti nel dibattito con lungimiranza promosso da Giustizia Insieme saranno particolarmente concise in considerazione dell'esauriente trattazione svolta dagli altri, autorevoli interlocutori dai cui circostanziati interventi il lettore ben può trarre significative e benefiche indicazioni.
Il dilemma tra incremento del numero dei Magistrati addetti ad un dato Ufficio e miglioramento in senso tecnologico e della specializzazione del servizio attanaglia ogni settore della giurisdizione, ed in particolare di quella civile in cui più evidenti ed avvertite, anche sulla scena internazionale, sono le diseconomie derivanti dalla mancata o incompleta attuazione del precetto costituzionale che sviluppa la nozione di "giusto processo" anche sul terreno della sua ragionevole durata. È, tuttavia, indubbio che il giudizio di legittimità esibisca carattere e funzione talmente peculiari, e richieda l'impiego di energie professionalmente e culturalmente apprezzate, che le approssimazioni ,immediatamente percettibili agli occhi degli osservatori più esperti ,si risolverebbero sia in un impacciato funzionamento del sistema ruotante attorno alla nomofilachia sia in una compromissione dell'immagine dell'organo giudicante. Naturalmente, una realistica visione della realtà ,rappresentata dal dilagante afflusso di ricorsi per cassazione, impone che non si rinunci alla formazione della specificità del ruolo del Consigliere di Cassazione attraverso apposite attività di studio, preparazione, discussione dedicate ad altri Giudici desiderosi di misurarsi con una sfera decisoria del tutto particolare ed irripetibile. In questo senso si rivelano di somma importanza i corsi di conversione alla funzione di legittimità organizzati sia dalla Scuola superiore sia dai formatori interni alla stessa Corte Suprema. Se è vero che questa non deve arroccarsi su posizioni di torre accessibile solo dagli iniziati, è altrettanto vero che la cultura della giurisdizione di legittimità impostata sui criteri fissati dall'art.360 c.p.c. non può essere dispersa né spinta verso approdi ad essa tradizionalmente estranei, del tutto sbilanciati, come non di rado accade davanti alle sezioni penali della Corte, sul versante di apprezzamenti fattuali o di merito che dovrebbero essere preclusi. Coniugare il necessario mantenimento di questa struttura di giudizio con la rapidità richiesta dall'incalzante e diffusissima domanda delle parti (analiticamente descritta negli altri interventi, che ho avuto il vantaggio di leggere in anticipo) non può che implicare accorgimenti mirati, quali quelli, anche provenienti da esperienze straniere ,di cui discuterò nelle risposte successive.
2. Il ricorso alla comparazione per sciogliere i nodi. Proprio Piero Calamandrei nei suoi studi dedicati alla Cassazione civile, dedicò ampio spazio alla comparazione fra i diversi sistemi giuridici che nei Paesi europei disciplinavano, all’epoca, il ruolo delle giurisdizioni superiori. Biavati, con la sua proposta di attivare il collegamento diretto fra giudice di merito e giudice di legittimità sembra inserirsi a pieno titolo in questa prospettiva. Vi sembra che questa prospettiva sia utile e proficua e, se sì, in che misura rispetto ai temi qui affrontati?
E.D’Alessandro Concordo con l’Illustre Maestro. La comparazione fra i diversi sistemi giuridici, con particolare riferimento al ruolo svolto dalle giurisdizioni superiori, mi pare senz’altro proficua. Nel compiere tale attività, e, in particolare, nel confrontarsi con ordinamenti che prevedono filtri d’accesso alle giurisdizioni superiori, occorre tuttavia tenere a mente un dato che non era presente quando Calamandrei scriveva, essendo la sua monografia sulla Corte di Cassazione (in due tomi) datata 1920. Mi riferisco al fatto che, in Italia, a differenza di altri paesi europei, il ricorso per cassazione trova una garanzia costituzionale nell’art. 111, co. 7, della Costituzione.
Come a più riprese sottolineato dalla dottrina processualcivilistica, ogni tentativo di importare sistemi di filtro modellati sull’esperienza di ordinamenti a noi vicini dovrà pertanto misurarsi con la portata della citata disposizione della Costituzione.
Anche quando si guardi all’esperienza di altri Stati per trarre utili indicazioni a proposito del modo in cui le giurisdizioni superiori sono organizzate occorrerà tenere a mente il modo con cui la nostra Costituzione concepisce i rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, perché l’impostazione potrebbe non necessariamente coincidere con quella adottata nell’ordinamento straniero preso a riferimento. Così, ad esempio, nel contesto del sistema giudiziale civile tedesco, all’epoca preso ad esame anche da Calamandrei, il Bundesgerichtshof si caratterizza per un’efficienza dovuta in primis al carico di lavoro più esiguo rispetto a quello della nostra Corte di cassazione. Infatti il Bundesgerichtshof, in linea con la Costituzione federale tedesca, si occupa solo di controversie civili e commerciali. Per contro, le controversie di lavoro e quelle tributarie (che, da noi, generano un cospicuo carico di lavoro per la Corte di legittimità) sono affidate ad una diversa ed apposita Corte di vertice.
Più semplice è prendere spunto dall’esperienza di altre Corti di vertice a proposito delle misure di coinvolgimento del pubblico: penso, in particolare, alle interessanti misure adottate a tal fine dalla UK Supreme Court, invero non dissimili da quelle adottate dalla Corte costituzionale. Si è deciso di registrare e rendere disponibili sul sito web della Corte tutte le udienze, così come di non utilizzare toghe e wigs affinché la giustizia sia percepita come “friendly” e “vicina” dalla cittadinanza.
M.Ferro La suggestione del professor Biavati, peraltro formulata con l’estremo garbo proprio della consapevolezza di un’intelligente provocazione, ha il merito di richiamare tutti alla drammaticità con cui il nuovo diritto reclama con urgenza una dimensione nazionale e prevedibile. Il divario temporale che separa la trattazione nel merito delle nuove questioni rispetto al divenire esse oggetto del giudizio cassatorio offre significato alla proposta. Essa dunque ha il pregio di ipotizzare una distanza corta, istituzionalizzando il bisogno di nomofilachia immediata. E tuttavia, per quanto già detto, la sua traiettoria non intacca, in apparenza, alcuno dei fattori del sovradimensionamento della domanda di accesso alla Corte. In secondo luogo, la devoluzione immediata alla Cassazione di una questione controversa assegna alla singola iniziativa del giudice di merito di fatto una funzione impeditiva al formarsi di una più larga acquisizione interpretativa, così permettendo, nel dialogo fra giudici di merito, dottrina e avvocatura, la costituzione progressiva di un diritto vivente tale anche da escludere contrasti profondi, ove sedimentato nel territorio al lordo delle esperienze impugnatorie e dei relativi commenti (ed anche senza che, in ipotesi, si pervenga sempre e comunque ad una pronuncia di legittimità). Assumere un istituto a quesito obbligato e con prospettati effetti interpretativi generali (inevitabili nonostante ogni puntualizzazione, pena la frustrazione dell’intero impianto organizzativo) finirebbe cioè per eludere, a ben vedere, lo stesso ruolo di composizione dei conflitti che la Corte ha nella sua costituzione ordinamentale e che presuppone una giurisdizione di merito articolata per diverse competenze territoriali. Altra perplessità concerne l’improprietà adattativa cui si presterebbe la stessa funzione nomofilattica che, provocata senza il citato retroterra, si determinerebbe senza potervi attingere, dunque con una consapevolezza meno profonda degli effetti connessi alle varie opzioni ermeneutiche alfine scelte. Con il rischio di ingessare l’evoluzione della norma interpretata, salvo prevedere continui e repentini giudizi di identico segno, che – ove sfociassero anche in mutamenti delle pronunce a valenza nomofilattica – minerebbero la serietà del congegno ipotizzato, che comunque implica risorse ed investimenti. Così, la previsione di un modello ancora una volta meramente processuale – ispirato ad esempio al recurso extraordinário de uniformização de jurisprudência dell’ordinamento portoghese – rischia di concentrare l’ennesima tensione riformistica in un campo, come detto, proprio della sola scienza giuridica, drammaticamente disconnesso rispetto ad analisi dei flussi e bacino di lavorazione del contenzioso che affluisce alla Corte.
Va messo per ultimo, ma da non sottovalutare, il rischio di deresponsabilizzazione in capo al giudice di merito nell’applicazione del nuovo diritto o, all’opposto, la pericolosa pressione ambientale alla non decisione, oltre che l’incalcolabile innesto nel sistema di un nuovo istituto ad oggettiva portata dilatoria.
M.Serio A questa domanda, specialmente stimolante per un comparatista, è agevole la risposta incondizionatamente positiva. E ciò sul piano generale degli apporti migliorativi dello stato di un ordinamento giuridico che la conoscenza di altri sistemi sempre determina. Vedremo più avanti che è conseguenziale trascorrere dal piano puramente epistemologico a quello dell'innovazione del diritto interno allorché il primo offra soluzioni, atteggiamenti culturali, modelli esperienziali traducibili in misure normative o organizzative.
Quanto al collegamento diretto tra giudice di merito e giudice di legittimità possono aprirsi scenari nuovi improntati allo svolgimento da parte del primo di ruoli di cooperazione e preparazione rispetto al giudizio di legittimità.
Penso all'attribuzione ai giudici di merito del compito di pronunciarsi, come avviene nel common law inglese, sulla ricorribilità dei propri provvedimenti per cassazione, adottando come parametri di riferimento, eventualmente da riproporsi davanti la Corte di Cassazione in caso di rigetto dell'autorizzazione, quelli legati al generale interesse alla soluzione del problema connesso all'eventuale impugnazione nonché quello della mobilità ed incertezza, eventualmente da fugare, degli orientamenti circolanti intorno alla "res judicanda".
3. Quanto i canoni di effettività ed efficienza della giustizia che trovano matrice prevalente nelle fonti sovranazionali possono giocare un ruolo attivo nella ricerca di forme di tutela e soluzioni normative improntate a rivitalizzare il ruolo della Corte di Cassazione?
E.D’Alessandro La funzione e il ruolo centrale della Corte di Cassazione nel contesto del sistema giudiziario italiano sono molto ben valorizzati dalla Costituzione. Ciononostante, il richiamo ai criteri europei di effettività ed efficienza, sulla base dei quali, ogni anno, la Commissione europea predispone il Quadro di valutazione UE della giustizia degli Stati Membri (EU Justice scoreaboard) potrebbe forse spronare il nostro legislatore a ricercare forme di tutela e soluzioni normative improntate a rivitalizzare il ruolo della Corte di Cassazione in un’ottica di efficienza e di competizione con gli altri Stati membri. Infatti, come segnalato ogni anno nella parte introduttiva del Quadro di valutazione UE, uno Stato membro in cui il sistema giustizia è efficiente – rectius: è più efficiente di quello di altri Stati membri - è uno Stato in cui gli investitori sono spinti ad operare.
M.Ferro Provando a rispondere con lo stesso metodo materialistico, parto dalla fisicità. In Francia, il Tribunal de Grande Instance de Paris è stato trasferito nel nuovo Palais de Justice des Batignolles: alto 160 metri, riunisce tre strutture, vi è organizzato il lavoro di 1.800 persone tra magistrati e personale, ha un riferimento di utenza di 2 milioni di persone. È in vetro, cemento, metallo ed è ispirato alla luce. Non è stato costruito sulla base di un’indicazione di fonte sovranazionale, ma costituisce il risultato di una complessa scelta che ha consapevolmente rivisto un archetipo nazionale, fondato sull’imponenza muraria, la severità architettonica, l’oscurità quali componenti visive compendiate in una secolare nozione di giustizia, sofferenza, gerarchie, solennità e autorità. In cui la distanza è stata in tutta Europa la condizione per dire la legge. Dobbiamo chiederci se questa straordinaria progettazione di Renzo Piano non schiuda idee più generali su cui riflettere anche per la giustizia di legittimità del nuovo millennio, ove fattivamente si vogliano tradurre i buoni propositi di giustizia autorevole, empatica, efficiente e parte solida della costituzione materiale delle relazioni sociali ed economiche, sia pur nella versione del punto di caduta dei precetti positivi. Può sembrare eccentrico, ma l’immenso investimento nel digitale e nelle infrastrutture orientate alla salvaguardia attiva delle risorse scarse del pianeta che anche il nostro Stato si accinge a praticare come condivise scelte di rilancio e sviluppo sostenibile delle società europee passa da una profonda rivisitazione delle strutture organizzative, materiali e anche simboliche cui continua ad essere affidata la preservazione dell’unità del diritto oggettivo nazionale. Andrebbe così recuperata tutta la sostanzialità che l’esame equo, pubblico e ragionevole da parte di un sistema giudiziario indipendente ed imparziale, secondo l’art.6 CEDU, impone di organizzare, allestendo complessive condizioni non solo di lavoro-produzione ma altresì di rappresentazione-partecipazione della giustizia. Così, c’è da chiedersi se il tradizionale sistema della verticalità processuale abbia ancora un corrispondente riflesso nei paradigmi architettonici della solidità muraria, densità cromatica e chiusura al cielo propri del passato. Tanto più che un Ufficio apicale chiamato al contempo a dire il diritto di tutti e per tutti dovrebbe assumere anche dall’immaterialità ideologica di questo compito delle forme coerenti con il diverso rapporto che le Costituzioni domestiche e i Trattati hanno indicato nella considerazione della persona, nozione ben più evoluta del suddito o del solo homo oeconomicus. Infine, c’è da chiedersi se un intero ordinamento regolato sul digitale sia ancora compatibile, anche in termini di agevole sicurezza del dato, rispetto alla scarsa funzionalità di strutture murarie concepite, all’opposto, entro paradigmi culturali basati su testi scritti e accumulazione cartacea, con un’idea di oblio dominata dalla cedevolezza della materia più che da scelte razionali e normative.
Ovviamente l’efficacia della giurisdizione di legittimità, al di là degli aspetti appena considerati, trae alimento continuo – e per certi versi punto di caduta più che salvifico rispetto al cd. processo infinito italiano – dalle matrici profondamente sostanziali sia delle norme CEDU sia delle molte fonti UE e sovranazionali che hanno abituato anche la Corte italiana ad assumere la precettività del risultato voluto da una certa disciplina (si pensi al valore del giudicato) rispetto ai limiti del diritto processuale. La più seducente lezione che proviene, tentando una formula riassuntiva, dagli ordinamenti sovranazionali, in cui provvidamente anche il nostro è inserito, e cioè la semplicità del comando, inverte il rapporto con il processo individuandone punti essenziali di garanzia ma avendo come primario obiettivo la realizzazione effettiva del diritto sostanziale, in antico denominata strumentalità. In questo, la strada domestica è ancora lastricata di tradizione e difficoltà, quasi insormontabili, ergendosi spesso le dinamiche processuali ad un prius condizionante eccessivamente – da ogni angolo visuale – il dibattito sulla norma applicata dal giudice di merito. Che sia il residuo o rinnovato terreno di scontro sulla regolarità delle forme, animato dal contraddittorio delle parti ovvero il filtro di accesso cui si aggrappa la cultura selettiva del giudice di legittimità, in concreto il ruolo materiale svolto dal processo rallenta e differisce e talora preclude l’esame del diritto applicato alla fattispecie. La grande opportunità offerta dal processo telematico potrebbe allora ben intercettare la più ampia direttiva di sostanzialità di tantissimi Regolamenti UE, ad esempio, per ridurre se non proprio azzerare ogni difficoltà regolativa dell’accesso al processo di legittimità, codificando e guidando la sua introduzione entro un alveo tecnologicamente strutturato nel quale si proceda per passaggi: senza trabocchetti, per chi vi reca tutti gli elementi prescritti e senza deroghe per chi non li ha, instaurando una più semplice procedura di data entry agile, tutelata e però ferma nella preclusione ad abusi. Ne guadagnerebbe la concentrazione della lite sul merito cassatorio invocato, sarebbero scoraggiati accessi impropri e di contenzioso seriale pretestuoso, con la sola accortezza di prevedere un limitato e attrezzato incubatore aperto alla ricognizione della eccezionalità dei casi d’ingresso mal disegnati da un sistema informatico (di continuo aggiornamento, aperto all’intera comunità professionale interessata alla giustizia). D’altronde, proprio alcuni Regolamenti UE hanno inaugurato formulari, secondo linee guida omogenee semplici, così tracciando modalità di esposizione del caso e richieste in modo predefinito. Sarebbe, a rifletterci, la ragionevole contropartita rispetto ad altre misure selettive cui si è qui fatto cenno. Con l’obiettivo di ridurre alla marginalità le pronunce di improcedibilità e di circoscrivere anche quelle d’inammissibilità. Va solo ricordato che, ancora nel 2019, le reiezioni dei ricorsi assommavano al 67,8%.
Infine, tra i tanti progetti che sono all’attenzione dei Governi e dei Parlamenti con la Next Generation EU non apparirebbe davvero eccentrico un investimento radicale di risorse sul sistema giustizia, posto che esso – a dirla con altro linguaggio – avrebbe il pregio della catena di valore già molto corta, si presta ad una uniformizzazione coordinabile e rendicontabile dal soggetto pubblico, intercetta tutti i parametri di transizione al digitale e pone in collegamento l’efficienza della sua struttura – come enfaticamente recita ogni narrazione sul doing business – con l’attrattività per capitali, merci e persone. I settori che si prestano al recovery fund sono molteplici, almeno nel diritto dell’economia e la crisi della giurisdizione di legittimità offre – non casualmente - le cifre alte del suo stock problematico proprio nelle materie del tributario, del lavoro e delle procedure concorsuali, essenziali per la competitività delle imprese interne, la regolarità dei mercati e gli equilibri del credito. Dunque, non è un fuor d’opera assoluto riconoscere che una onesta traduzione radicale di molte norme e principi della legislazione sociale europea trovano oggi un ostacolo nella inefficienza con cui le liti pervengono alla loro definizione finale, già per i tempi del giudizio di cassazione.
M.Serio Come detto, il ricorso a fonti ordinamenti diverse da quelle del paese d'origine del giurista, trascina con sé come esito inevitabile l'allargamento dell'orizzonte cognitivo, di per sé capace di suggerire interventi modificativi o, comunque,utili raffronti tra i sistemi messi in comunicazione.Se si guarda all'obiettivo dell'effettività,intesa in termini di efficacia della risposta giudiziaria e della sua attitudine a soddisfare concretamente l'aspirazione che ha mosso le parti del giudizio, mi sembra che potrebbe concorrere allo scopo la maggior concentrazione in capo alla Cassazione di poteri definitori della controversia, con assottigliamento dei casi di rinvio al giudice di merito.Certamente l'aggravio sarebbe notevole, ma i vantaggi per le parti e per le non meno congestionate giurisdizioni inferiori sarebbero innegabili.
4. La Presidente emerita della Corte costituzionale Marta Cartabia, nel gennaio di quest’anno, è stata una delle artefici dell’idea di aprire la Corte costituzionale alla società civile, attraverso l’approvazione di modifiche regolamentari ed interne orientate a favorire forme di sempre più marcato dialogo fra la Corte costituzionale e gli operatori attivi nella società. Lei ritiene che quella strada potrebbe essere battuta anche rispetto al ruolo della Corte di cassazione e, se sì, con che modalità e sulla base di quali modifiche normative o anche solo interne?
E.D’Alessandro La mia risposta è affermativa. A tale riguardo, richiamo ancora una volta il Quadro di valutazione UE della giustizia 2020 (EU Justice Scoreboard 2020) facendo notare che, tra gli indici valutati dalla Commissione europea per misurare la qualità dei sistemi giurisdizionali civili degli Stati membri, vi è quello della vicinanza della giustizia ai cittadini (citizen-friendly justice). L’idea è che una giustizia percepita dalla società civile come “vicina” ispiri fiducia.
Non è semplice far apparire citizen-friendly una corte di vertice come quella italiana, a cui l’ordinamento assegna una funzione di nomofilachia ma che, nel 2019, secondo le statistiche rese pubbliche, ha definito più di 33.000 controversie civili, con una durata media a giudizio di 1.110 giorni (e trattasi di trend in calo!). Pertanto, una riforma normativa da molti auspicata è quella finalizzata a ridurre il carico di lavoro della Cassazione per restituire alla società civile una corte di vertice in condizioni di svolgere attività nomofilattica. Tra gli operatori, come noto, non vi è però concordia circa le modalità con cui raggiungere l’obiettivo.
Mentre si attende l’intervento del legislatore, ispirandosi all’esperienza della Corte Costituzionale e della UK Supreme Court inglese, si potrebbe cercare di avvicinare un po’ di più la giustizia di legittimità alla collettività. Ad esempio, si potrebbero pubblicare sul sito web della Corte di Cassazione schede illustrative (e forse anche pillole video dell’udienza pubblica) di decisioni reputate dall’Ufficio del Massimario interessanti per la collettività. Mi riferisco, in particolare, ai ‘non addetti ai lavori’. Penso, ad esempio, alle sentenze sui riders e sulla natura dell’assegno divorzile, che tanta eco hanno avuto nell’opinione pubblica.
Per quanto concerne, invece, il dialogo attivo tra la Cassazione e gli altri operatori giuridici (‘gli addetti ai lavori’), a cui espressamente si riferisce la domanda posta dall’intervistatore, mi sembra che vi siano già delle prassi virtuose che si potrebbero incentivare, senza necessità di mettere mano ad alcuna modifica, neppure interna. Penso, in particolare al noto ciclo di seminari ”Διαλογοι sulla giustizia civile”. In tale contesto, magistrati, accademici ed avvocati, riuniti al Palazzaccio, si confrontano, dialogando, su questioni di particolare importanza ovvero su contrasti giurisprudenziali rimessi alle Sezioni Unite, prima che queste ultime si pronuncino. Il meritorio scopo è quello di fare in modo che il Collegio giudicante possa giovarsi degli spunti di riflessione emersi dal dibattito.
M.Ferro La duplice funzione di orientamento istituzionale, secondo la nomofilachia dell’art.65 dell’ordinamento giudiziario e al contempo il posizionamento al vertice di una filiera giudiziaria in senso stretto, implicano un assetto tendenzialmente interno all’intero plesso giurisdizionale. E tuttavia la scelta costituzionale e poi di legislazione ordinaria secondo il modello di canalizzazione nella magistratura di Cassazione di ulteriori compiti di raccordo, coordinamento e regolazione dei conflitti rispetto alle altre magistrature impongono di attualizzare la struttura amministrativa secondo una più marcata autonomia. Come la progressiva articolazione interna ha invero fatto emergere, dapprima sulla base di iniziative di condivisione di responsabilità dei Primi Presidenti e poi nell’ambito del sistema tabellare regolato dal C.S.M., nessuno dei compiti affidati all’Ufficio di Cassazione riesce a reggere senza una robusta iniezione di risorse proprie, di tipo finanziario e amministrativo, che – secondo uno statuto di specialità – costituiscono il presupposto per lo svolgimento adeguato dei crescenti compiti di relazione istituzionale assunti. Dall’interlocuzione peculiare, attraverso il Primo Presidente, con il C.S.M. sino alla Rete europea dei Presidenti delle Corti Supreme, il dialogo con altri attori amministrativi, costituzionali e internazionali e la esponenzialità esclusiva di un interesse fondante una giurisdizione nazionale sollecitano una divisione organizzativa interna di funzioni referenti decisive proprio al fine di assicurare una moderna unità della giurisdizione, ben oltre il solo ambito comunicativo dei provvedimenti assunti in sede di legittimità. E dunque l’attrazione di capitale umano stimolato a compiere un’esperienza non di mera produttività mutata di mera sede di lavoro, ma aperta ad una rappresentanza regolata del diritto vivente, per come riassunto e definito nella giurisdizione.
Ciò significa auspicare che, accanto ad una fondamentale autonomia di bilancio e finanziaria, con un budget autonomo aggiuntivo rispetto alle ordinarie destinazioni nelle voci di spesa ministeriali, la Cassazione possa divenire Ufficio elettivamente accessibile, per specialità di concorso e con guarentigie peculiari, non solo, com’è ora, per i consiglieri, ma anche per il personale amministrativo, dovendo ipotizzarsi concorsi ad hoc e, soprattutto, profili innovativi (ad es. ingegneri informatici, psicologi, esperti di comunicazione, linguisti, manager). In quest’ambito, una funzione nazionale dovrebbe accompagnarsi a meccanismi perequativi incentivanti, volti ad un reclutamento all’insegna del pluralismo territoriale e del rispetto del genere, parametrando idonee indennità (in modo proporzionale e non identico per tutti) alle distanze territoriali e così superando le disuguaglianze di fatto nell’accesso. L’obiettivo, se perseguito in tal modo, avvicinerebbe maggiormente anche il concomitante innesto di regole temporali di moderato turn over, dirette a permettere a più funzionari di perseguire un’esperienza amministrativa di eccellenza, che non può ridursi alla pari di altre opportunità di rientro nella medesima sede di origine e così stabilizzarsi, senza ricambi generazionali. Serve, per essere ancora più chiari, un progetto permanente di attrattiva d’identità istituzionale legata alla funzione e non alla mera sede, che dovrebbe operare sia per i giudici che per il personale dell’amministrazione. Tra l’altro, il recente lockdown (con le innovative formule organizzative delle camere di consiglio a distanza) e il futuro processo telematico (in questi mesi non certo anticipato con lo smart working, praticato nei modestissimi limiti consentiti ad una pubblica amministrazione che ancora non dialoga in rete da remoto su tutta la sua base dati) non possono, per eterogenesi dei fini, tradursi in ulteriore separatezza partecipativa del lavoro. La managerializzazione del lavoro – per tutti - significa anche, con le digitalizzazioni, neutralizzare le ostilità di un assetto fisicistico dei mezzi di produzione, ma non elimina il contesto comunitario in cui si sviluppa la catena di produzione, esaltando invece un’intelligenza di coordinamento molto più complessa rispetto alle rigidità del trinomio carta&carrelli&aula.
C’è poi, ed infatti, un’immensa questione di rapporto fra giurisdizione ed intelligenza artificiale che, assai banalmente e sulla base di un retroterra culturale inadeguato, viene esorcizzata, sbrigativamente indicando l’incommensurabilità della decisione giudiziaria rispetto al machine learning. Ma è una prospettiva miope, anche se purtroppo diffusa e, soprattutto, presente nelle inclinazioni della grande maggioranza della classe dirigente. Si provi ad immaginare, in una diversa ottica, come oggi il contenzioso potrebbe essere compreso nei suoi flussi secondo competenze ingegneristiche, sociologiche, economiche, linguistiche e psicologiche, a supporto delle già utili statistiche, coordinate a scovare in modo sistematico chi ne sono i protagonisti, dove operano e cosa fanno, che relazioni hanno rispetto alla generazione del conflitto: noi abbiamo uno sterminato giacimento di dati, che viene drenato solo per filtrare alla fine, nella difficile costruzione di un sistema di precedenti, per omologia di parole che i giudici stessi ripetono, introducono, modificano. Si tratta di un modello euristico limitato, che trascura altri dati, di fattispecie, storici e soggettivi, che non reagiscono perché del tutto espulsi dai modelli di selezione delle parole. Affidando a queste ultime – con tutti i loro errori ed approssimazioni – ed in particolare alle costruzioni perifrastiche che culminano nei principi affermati la sola vocazione rappresentativa del trattamento dei conflitti. Senza eludere la mission istituzionale volta alla costruzione di un sistema di precedenti, ed anzi in una prospettiva di rafforzamento della loro persuasività orientativa, un concorso di competenze diverse sarebbe essenziale a sapere di più. Come si atteggia qualunque organizzazione complessa, gelosa dell’autonomia dei suoi dati, ma in continuo apprendimento dalla totalità di essi.
M.Serio Non pare residuino dubbi sulla bontà ed utilità del metodo inaugurato dalla Corte Costituzionale di apertura verso la società, anche attraverso la circolazione dei Giudici nelle realtà nazionali più tormentate, come è positivamente avvenuto con le visite alle carceri. Per la Cassazione si potrebbe pensare all'introduzione della figura dell' “amicus curiae” di matrice anglosassone con funzioni di orientamento ed illustrazione nella decisione dei singoli casi.
Al tempo stesso, è utile che si rifugga in molte sentenze dalla tentazione di tramutare la pronuncia in un piccolo trattato in strisciante concorrenza con la dottrina. Rendere troppo astratto il ragionamento comporta il rischio dell'allontanamento dalla percezione della singolarità del caso da decidere e degli interessi umani di cui è intessuto.
5. Il dialogo fra giudice di merito e giudice di legittimità per sollecitare risposte immediate della Corte di Cassazione a impellenti questioni. La proposta di Biavati la convince e, se sì, come potrebbe essere concretizzata?
E.D’Alessandro Nel formulare la sua proposta ispirata al metodo spagnolo dell’interés casacional, il Professor Paolo Biavati, Presidente dell’Associazione processualcivilisti italiani, si trova in ottima compagnia. Infatti, nel 2006, all’indomani dell’entrata in vigore della nuova versione dell’art. 363 c.p.c., altri autorevoli processualcivilisti, guardando all’istituto francese della saisine pour avis, avevano auspicato che l’intervento della Corte di Cassazione, anziché ex post e per il futuro, avvenisse in via preventiva, su iniziativa del giudice del merito, quando questi avesse ritenuto la questione di interesse generale ossia meritevole di una decisione da parte del giudice di vertice avente funzione nomofilattica. In quella occasione erano stati illustrati anche gli inconvenienti pratici che una siffatta soluzione avrebbe però potuto comportare, ossia:
1) in primo luogo l’allungamento dei tempi del giudizio di merito, non necessariamente compensato dalla eliminazione della fase di legittimità nel caso di diniego di risposta immediata alla questione da parte della Corte di Cassazione per mancanza di interesse generale;
2) in secondo luogo, e in caso di successo dell’istituto, l’incremento di lavoro per la Corte di Cassazione. Si faceva notare che l’incremento di lavoro non sarebbe stato necessariamente compensato da una riduzione del numero di ricorsi per cassazione avverso le pronunce d’appello, posto che la valenza che la pronuncia preventiva della Cassazione avrebbe per tutti i giudici diversi dal remittente sarebbe meramente persuasiva e non già legally binding.
Proprio in considerazione dei suindicati rilievi critici, credo che un legislatore intenzionato ad introdurre a fin di bene una modifica di tal fatta, dovrebbe innanzitutto commissionare uno studio di fattibilità, ossia far compiere un’indagine statistica sulla effettiva portata deflattiva che l’istituto ha avuto o sta avendo in Francia e Spagna. I dati raccolti dovrebbero poi essere attentamente confrontati con la realtà italiana, in modo da pronosticare quale potrebbe essere il concreto potenziale deflattivo, in Italia, dell’intervento preventivo della Cassazione. Si tratta, cioè, di valutare, prima di agire e con l’aiuto di dati statistici, se, effettivamente, come previsto da diversi Autori, il gioco varrebbe la candela.
M.Ferro Ho già provato a delinearne gli aspetti di positiva visione del problema ma anche l’ancoramento alla limitatezza di una prospettiva processualistica. Aggiungo, come ulteriore osservazione di sistema, la condivisibile notazione nascente da tante sollecitazioni, come ad esempio dal Forum disuguaglianze e diversità per cui «le politiche pubbliche non si limitino alle modifiche legislative o regolamentari del contesto istituzionale – vizio così radicato nel nostro italico sistema – ma curino soprattutto le modalità di attuazione di norme, regole e istituzioni esistenti, il loro monitoraggio, la loro valutazione. E investano nelle amministrazioni pubbliche» (F.Barca, Cambiare rotta, 2019). Quanta analisi di produttività è stata compiuta sul processo civile italiano di cassazione? Cioè, assumendo il fattore-tempo a variante essenziale del giusto processo e contestualmente determinando l’unità lavorativa ottimale per l’ingresso di un ragionevole numero di casi operabili in quell’ordine di grandezze? Ci possiamo tornare, ma un’attitudine o almeno inclinazione interdisciplinare impone l’assunzione dei limiti di una qualsiasi riforma che non consideri preventivamente, in tutte le loro implicazioni materiali, le nuove funzioni che ne derivano. Non constano simulazioni sui numeri, gli impegni, le unità di lavorazione in proposito e il dibattito – pur auspicabile - resterebbe monco ove solo ristretto alle forme del processo.
Pur avendo espresso comunque perplessità sia di metodo che relative al contenuto della proposta, ne va però colta l’aspirazione, largamente condivisibile, al suo obiettivo enunciato, e cioè – per dirla con termini diversi – non tanto la riduzione in sé del tempo necessario ad una pronuncia di legittimità su istituti nuovi e già con questioni controverse, bensì l’interesse generale ad interpretare le norme al più presto in modo orientativo chiaro e fortemente persuasivo, esaltando l’angolazione della Corte del precedente. Al di là dell’affermazione del principio nell’interesse della legge, da rilanciare cogliendo la virtuosità e i limiti delle esperienze sinora praticate (e su cui anche val la pena ritornare), lo sforzo di assicurare l’invocata maggiore tempestività può essere solo l’effetto di un concorrente clima di maggiore attenzione ad una serie di snodi organizzativi e interpretativi insieme (e per i quali pure è possibile oltre un breve approfondimento): l’evoluzione del giudizio di cd. nomofilachia negativa, ove si permetta alla relativa giurisprudenza (come è accaduto per alcune stagioni in certi settori, ad es. per l’immigrazione) di manifestare orientamenti particolarmente ravvicinati ai ricorsi (oggetto di trattazione presso la Sesta sezione civile); un maggiore self-restraint delle Sezioni semplici rispetto alla non condivisione di un principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, richiedendo ai sensi dell’art.374 c.p.c. una motivazione en rébellion che, almeno tendenzialmente, introduca più puntualmente argomenti nuovi, non considerati nel precedente oggetto di dissenso; la sistematizzazione del quadro del cd. diritto in quiescenza, relativo a tutte le questioni consapevolmente non affrontate nel giudizio camerale (di Sezione sesta o semplice) così da tematizzarne sempre la problematicità – riaggregata per temi omogenei e connessi - attorno ad altrettanti confronti pubblici e di ampia sollecitazione a contributi dottrinali e dell’Avvocatura; lo snodo storico della classificazione ragionata dei ricorsi, con l’obiettivo di un loro indirizzamento originario in basket continuamente aggiornati di questioni rispettivamente controverse o consolidate o nuove. Sullo sfondo, però e ove difettino interventi legislativi, occorre un diverso governo di programma sul contenzioso di stock e i suoi flussi.
Oggi, ad un decennio dall’applicazione dell’art.37 del decreto legge n.98 del 2011, può serenamente affermarsi che la sua tensione originaria – pertinente al tema della domanda – e cioè la riduzione della durata dei procedimenti (comma 1, lett. a) è apparsa obiettivo infraordinato alla maggior diffusione di provvedimenti organizzativi volti invece alla riduzione, non strettamente coincidente, della quantità dei procedimenti pendenti. Le misure promosse in larga misura attingono dalla medesima tecnica precettiva, cui non si è sottratta la Corte di cassazione (ed anzi più dei giudici di merito, per diverse regole di governo della programmazione degli eventi processuali prodromici alla assunzione in decisione della causa): si sono formati ruoli a maggiore densità numerica. Che questa linea artigianale rispondesse alla ratio manageriale della norma, pur inserita in uno statuto essenzialmente di ‘carriera del dirigente’, è fortemente contraddetto sia dalla condizionalità della lettera a) (la riduzione va determinata nel progetto per come «concretamente raggiungibile nell’anno»), sia dalla lettera b) del medesimo comma 1, per la quale vanno altresì fissati gli «obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa». La stessa disposizione cioè non impone una costante erosione dello stock, ma – molto più realisticamente – assegna al programma il compito innanzitutto di una ricognizione delle risorse e, a tale stregua, una verifica di compatibilità di un qualunque numero di produzione che ne sia la coerente e ragionevole conseguenza possibile. Anche dunque un programma di motivata eventuale flessione numerica se la priorità ha da essere la nomofilachia, per la concorrente vigenza di tutte le altre norme, interne e non al codice di rito, che in realtà primariamente indirizzano il ruolo della Corte.
Al di là della mancanza, ad oggi, di una codificazione puntuale dei carichi esigibili (questione sostanzialmente elusa), la selezione prescrittiva si è dunque concentrata sull’incremento pro capite della produzione individuale e di collegio, nonché su meno univoche indicazioni prioritarie. Quanto alle richieste di aumento del numero delle decisioni, costante e implacabilmente progressivo negli avvicendamenti nei ruoli dirigenziali e in genere del tutto privo di un’analisi di fattibilità, il supporto organizzativo principale ha fatto leva quasi solo su un’autoriforma della vicenda redazionale. Si è cioè postulato che il quadro codicistico – con la semplificazione sia dell’art.132, comma 2, n. 4 che dell’art.134, comma 1 c.p.c. – giustificasse una compressione della estensione del provvedimento e, in via di automatica esigibilità, un aumento della produzione pro capite: il sacrificio delle parole in motivazione, concentrata sulla «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» ovvero a connotazione «succinta» è divenuto dunque il passaggio narrativo con il quale giustificare e dirottare ulteriori energie su altri procedimenti.
Sul punto, se va riconosciuta una resistenza culturale – in taluni casi – a tecniche coordinate ed effettivamente semplificate di redazione (non sufficientemente contenute né sorvegliate in molti collegi), occorre però aggiungere che l’automatismo invocato si scontra con un più che condivisibile punto di caduta originato dal diffuso scrupolo costituzionale dell’obbligo di motivazione, che permea lo statuto ordinamentale del giudice italiano, ben più di quanto non accada nel raffronto con altre esperienze straniere. Inoltre, è generale l’osservazione che una monotona insistenza su tale richiesta meramente numerica offre un quadro ingeneroso ma deludente sia della qualità direttiva che dovrebbe accompagnare una più ponderata selezione degli orientamenti e dei rispettivi flussi di urgente composizione, sia delle effettive potenzialità di sviluppo delle prestazioni giurisdizionali. Le cui richieste da tempo hanno incrinato, in un clima di grave sottoconsiderazione, il profilo intellettuale – questo sì altrettanto e più esigibile – del comune consigliere di cassazione, che dovrebbe essere nella condizione di un continuo aggiornamento di studio, linguistico, informatico e di confidenza organizzativa i cui presupposti appaiono nettamente frantumati da un’opzione gestoria esclusivamente numericistica. La corrispondente grave sottovalutazione dirigenziale degli elementi costitutivi di una forte motivazione è poi constatazione diffusa, anche se non assunta a studi specifici o ricognizioni istituzionali, essendo abbastanza inconsistenti la riflessione teorica e l’investimento operativo sulle condizioni materiali di lavoro, che non hanno mosso alcun passo apprezzabile pur dopo l’enfatica indicazione dell’obiettivo del benessere organizzativo, come clausola ospitata nelle Tabelle del C.S.M. Ad una lettura effettuale, una mera conquista lessicale.
Il secondo punto riguarda le priorità: qui l’assegnazione di direttiva, da un canto e la formazione dei ruoli, dall’altro, scontano un’obiettiva difficoltà di darvi corso, anche se non mancano esempi (come per il settore dell’immigrazione e tributario) in cui alcune scelte di intensificazione sono state compiute ovvero altri in cui la tematizzazione a progetti delle aree critiche ha condotto (molto apprezzabilmente) ad una celere formazione dell’indirizzo di sezione (come per l’esecuzione forzata). I due esempi, per quanto distanti nei contenuti, appaiono nell’esperienza recente a loro volta paradigmatici di un diverso modo di porsi l’interrogativo sull’enorme afflusso di procedimenti, facendosi peraltro preferire un approccio programmatico di governo che non si proponga lo smaltimento in sé (per tutte le ragioni già viste) ma la riconduzione a proporzione istituzionale dei termini con cui una qualsiasi materia impatta sulla giurisprudenza di legittimità. Occorre cioè partire, con prudenza ma convinzione, dalla necessità di armonizzare le scelte prioritarie tenendo conto sia delle indicazioni normative (scrutinandone il livello di cogenza, anche per riproduzione di norme eurounitarie ovvero i diversi indicatori di raccomandazione orientativa alla valorizzazione dell’interesse selezionabile per le relative decisioni), sia del vulnus consequenziale che comunque è subito dal principio di uguaglianza ex art.3 Cost., che a sua volta esige il coordinamento – almeno - con il diritto di accedere al giudizio ex art. 24 Cost. (e qui va considerato che la Corte non è mai, salvo questioni pregiudiziali, il primo giudice decidente) e, tra gli altri, la coerenza con un assetto regolatore degli uffici concretamente rispettoso del buon andamento e dell’imparzialità ex art.97 Cost. I principi ispiratori degli interessi materiali implicati dai conflitti a loro volta ricevono tutela da altre norme costituzionali che, in via indiretta, concorrono a giustificare la ragionevolezza di ancora diverse scelte prioritarie. Ma la base di partenza, e dunque il metodo istruttorio, impone di non sfuggire alla catalogazione dei dati.
Su questo punto, come noto, la mediazione del dato di stock (i processi pendenti accumulati e non definiti) va attentamente condotta rispetto alla composizione qualitativa dei flussi in ingresso, così individuando le tendenze di crescita dei procedimenti. La Cassazione italiana, esprimendo una sua oggettiva originalità, conosce - ancora al 31 dicembre 2019 - un’aggregazione molto significativa del contenzioso pendente tributario (45%, diminuito in peso relativo del 4% nel triennio), una subvalenza del civile ordinario (sceso dall’iniziale 50% del 2017 al finale 44%) e un’esplosione della protezione internazionale (salita dal’1% all’11%). Scrutinando le nuove iscrizione del 2019 si registrano, osservando il decennio: una sostanziale stabilità storica di «contratti» (5,7%) e «previdenza» (5,6%), una prima significativa discesa dei tributi (dal 33,8% del 2018 al 24,6%), l’incremento della protezione internazionale (passata dal 3,6% del 2017 al 16,3% del 2018 al 26,8% del 2019). Con la inevitabile sintesi, e pur avendo riguardo alla misurazione del diverso dato dell’anno d’iscrizione a ruolo rispetto alle definizioni suddistinte per materia, si può confermare che il massiccio investimento organizzativo e di risorse interne sulle tipologie di contenzioso ad alta densità numerica consegue risultati di riequilibrio tanto più elevati ove la stessa giurisdizione di legittimità sia parte inscindibile dell’intero contesto di produzione/rappresentazione dei conflitti sottesi ai procedimenti. Ove invece il fenomeno conflittuale abbia di per sé o per progressiva acquisizione identitaria una spiccata autonomia, cioè non si definisca necessariamente culminando nella giurisdizione di legittimità (pur ovviamente indispensabile alla tutela ultima dei diritti soggettivi fondamentali), appare indispensabile la ricerca delle soluzioni alla crisi della nomofilachia innanzitutto riducendone la consistenza di unico fattore di squilibrio.
Il dato del primo periodo gennaio-agosto 2020 restituisce una pendenza risalita a 121.520 procedimenti, distribuiti consistentemente ancora una volta sul tributario e l’immigrazione, rispettivamente confermati (al 44,8%) e in lieve aumento (al 12%) sul totale. È significativo che – pur in una flessione della produttività, a meno 15.3 % (ma già in recupero rispetto al 18,4% di fine luglio 2020) rispetto all’identico periodo del 2019, per via del generalizzato rinvio delle udienze/adunanze - l’indice di ricambio in materia di immigrazione è al 62%, mentre quello del civile e del lavoro è a ben il 93%.
Le analisi recenti offerte, proprio sulla giustizia tributaria, da Manzon, Marcheselli, Melis e Lupi (ospitate da Giustizia insieme) hanno preziosamente già indicato non solo i fattori di ricrescita attesa nel 2020 del contenzioso (ed infatti l’indice di ricambio, pari a 128, di gennaio/agosto 2019, è sceso a 75 per l’omologo periodo del 2020), ma la parzialità di una disamina dell’attività della Cassazione in sé considerata, così giustificando persuasivamente l’impellente necessità di interventi normativi drastici e sofisticati con ad oggetto non solo l’intera filiera giustiziale ma altresì ed almeno l’accertamento, la delineazione normativa delle imposte, le direttive agli uffici amministrativi. La verifica, da condividere, dell’avvenuto punto di rottura della capacità a regime di selezione e trattamento del contenzioso tributario in Cassazione, in altri termini, non consente più una progettazione della prestazione giurisdizionale lanciata all’inseguimento di uno sviluppo del contenzioso che, a darvi coerenza, trasformerebbe l’intera Corte italiana in una sola sezione, addetta appunto ai tributi. Forse questa consapevolezza non è altrettanto diffusa nelle varie comunità professionali (oltre che nell’Accademia) interessate nel giudizio di legittimità, ma ad esse va indirizzato il monito ad evitare l’invocazione di soluzioni quantitative corrosive della funzione nomofilattica data la assoluta incoerenza costituzionale di un corpo di ricorsi dedicati ad una sola materia. Qualunque essa sia.
La stessa storia conflittuale andrebbe elevata ad esempio per evitare che altre vicende, esplose ma ancora non omologhe per numeri di gestione, pervengano alla medesima saturazione dei ruoli, com’è il caso della immigrazione. Per tale settore, tuttavia e pur considerando che la risposta giurisdizionale è stata attrezzata in termini di ancora accettabile tempestività (nel 2019: 13,6 mesi la media di definizione e pubblicazione dal deposito), può dirsi tuttora in corso un progetto di complesso coordinamento organizzativo: sulla base delle indicazioni consiliari alla relativa trattazione dovrà essere conferita una più marcata specializzazione (con esaurimento delle assegnazioni turnarie a plurime sezioni) e però ancora non è entrato a regime un assetto di completa fissazione di blocchi di ricorsi accorpati dopo una prima ampia ricognizione di tutte le criticità interne agli indirizzi censiti. È dunque ancora possibile operare su margini di superamento dei contrasti interni, così valorizzando – almeno per l’orientamento dei collegi – le pronunce assunte in apposite udienze pubbliche, anche straordinarie. Tale recupero della persuasività del precedente, alla base dell’attuale progetto in corso, non può peraltro nascondere sia la permanente esposizione a problematicità applicative di una materia tuttora condivisa con ambiti collegiali assai ampi e cui partecipano consiglieri applicati anche di Sezioni diverse dalla Prima civile, sia la opportunità di interventi di puntualizzazione selettiva sulla filiera giurisdizionale (com’è noto imperniata sul giudice specializzato di tribunale quale organo di unico grado di merito) e sulle regole delle impugnazioni. Le diversità di esito dei ricorsi, anche molto accentuate da collegio a collegio, per ora confermano che si tratta di un diritto in itinere che non sta affatto scoraggiando impugnazioni con scarse possibilità di accoglimento, mentre la doverosa agevolazione al patrocinio a spese dello Stato non ha finora vagliato – in sede di ammissione locale - le posizioni eccentriche rispetto ai principi pur già focalizzati dalla Corte.
M.Serio In linea generale il confronto tra esperienze e funzioni diverse è portatore ,almeno in prospettiva, di risultati promettenti per lo sviluppo di linee di discussione che rischiarino i problemi da risolvere, senza che per questo il fine tendenziale debba essere costituito dall'identità di pensiero o soluzioni. Quanto alla concreta declinazione di questo proposito non sono certo di saper al momento identificare modelli precisi, oltre quello consistente, da una parte, nella lettura attenta dei precedenti di legittimità e, d'altra parte, nel bagno di umiltà che talvolta la Corte Suprema dovrebbe compiere nel prendere atto di consolidati ed autonomi indirizzi diffusi tra i giudici di merito, almeno in materie determinate che impegnano di questi ultimi la sensibilità anche umana.
6. Il contraddittorio camerale garantito per il contenzioso esaminato dalle sottosezioni della Corte che si occupano tabellarmente del settore civile è oggi paradossalmente superiore a quello riservato al rito camerale delle sezioni funzionalmente destinate ad incidere sullo ius constitutionis. Non mancano nemmeno le udienze delle Sezioni Unite che decidono con le forme dell’art.380 bis c.p.c. e che, dunque, dovrebbero adottare decisioni destinate a non innovare il quadro giurisprudenziale vivente e a non incidere sulla funzione nomofilattica della stessa Corte. Ora, rispetto al quadro ordinamentale vigente, Lei pensa che le sottosezioni filtro come in atto congegnate potrebbero essere valorizzate per stimolare l’immediata soluzione di questioni creando un raccordo organico fra tali sezioni e la sezione ordinaria, in modo da creare delle corsie privilegiate per affrontare questioni di particolare rilevanza? È in altri termini possibile ipotizzare -e se sì con quali forme e modalità- che le strutture costituite all'interno delle sezioni in atto ordinariamente destinate e risolvere il contenzioso manifestamente fondato o infondato (art.380 bis c.p.c.) possano contribuire in modo più incisivo anche sui procedimenti che non hanno già visto formarsi una giurisprudenza consolidata, magari creando delle forme di cooperazione regolamentata e raccordo istituzionali che vadano oltre le prassi che pure sono fiorite spontaneamente -ma senza una disciplina comune fra sottosezione e sezione – e che consentano di decidere la sede ed i tempi di trattazione di contenziosi di particolare rilevanza?
E.D’Alessandro Il ricorso alla comparazione, auspicato da Calamandrei quando scrisse i suoi preziosi volumi sulla Cassazione civile e a ragione reputato dall’intervistatore un utile strumento di lavoro per i temi che ci occupano, ci mostra che le Corti di vertice a noi più vicine esercitano la funzione di nomofilachia avvalendosi della pubblica udienza. La funzione di nomofilachia (tanto più se ve ne è forte bisogno perché non si verte in presenza di una giurisprudenza di legittimità consolidata), in quanto inevitabilmente destinata a riverberare i propri effetti pro futuro, necessita di pubblicità e non di mera cartolarità. Un qualsiasi cittadino incuriosito, ad esempio un giovane studente di giurisprudenza, deve avere la possibilità di seguire l’udienza e di constatare quale è il procedimento tramite cui si arriva alla pronuncia di una decisione emanata in nome del popolo italiano.
Non intendo esaminare, né prendere posizione in merito alle critiche a più riprese formulate dall’avvocatura e da parte della dottrina rispetto al contraddittorio cartolare in sede di legittimità. Mi limito ad osservare che non vi è alcun dato statistico da cui si possa evincere che è imputabile alla pubblica udienza il dilatamento dei tempi della giustizia di legittimità italiana, tanto da doverne ulteriormente ridurre o addirittura annichilire l’applicazione.
M.Ferro È diffusa l’osservazione di un dato di contraddittorietà – per eccesso di trattamento organizzativo dei procedimenti – dell’attuale articolazione in doppio giudizio camerale: presso l’apposita Sezione Sesta (storicamente derivante da una ‘struttura’ già deputata ad una prima forma di filtro) e poi presso la Sezione ordinaria. Una semplificazione, così riducendo ad un solo giudizio la cameralità, per quanto astrattamente auspicabile, rischia tuttavia, oggi, di generare l’ennesimo affanno per riordino di uno schema con tempi e risorse di adattamento non calcolabili. A ciò si aggiunga che l’assenza di processo telematico in Cassazione è il contesto peggiore per valorizzare le competenze virtuose di nuovi ingressi tra il personale amministrativo e di nuove prassi interne nella complessa attività preparatoria delle udienze/adunanze, e dunque anche nelle relazioni fra giudici: la circolazione del fascicolo si muove di necessità per pesanti e lenti processi fisici, i dati bancarizzati nel sistema SIC ed accessibili sono solo esterni e privi di contenuto ideologico rispetto al processo, l’apporto di video-call (pure già invalso in funzione di sostegno alle discussioni preliminari) replica un mero modulo di confronto orale, altri elementi a disposizione telematica (memorie, notifiche) sono stati positivamente sperimentati durante la pandemia ma poggiano su Protocolli e prassi di provvisoria codificazione.
Di fatto, tuttavia, la struttura per le decisioni assunte ai sensi dell’art.380 bis c.p.c. opera come cantiere non solo di verifica pressocché quotidiana dell’effettiva messa alla prova dei precedenti consolidati presso le Sezioni ordinarie e le Sezioni Unite, ma altresì come incubatore proficuo di prime caute aperture interpretative verso fattispecie cui applicare i medesimi principi di diritto più solennemente affermati in altra composizione e diverso assetto di cameralità o di udienza pubblica. Si tratta di un fenomeno di evoluzione oltre la tradizionale manifesta fondatezza o infondatezza ovvero la inammissibilità in parte inevitabile, ove si pensi ai flussi di procedimenti di cui sono investiti i consiglieri redattori (con la richiesta prestazione di formulazione di proposte o di decisioni in numeri predeterminati) e la fisiologica ‘tendenza alla decisione’ virtuosamente esplicata da collegi spesso di composizione identica ad altri riuniti nella diversa veste di adunanza camerale o udienza pubblica della medesima Sezione. Da un punto di vista organizzativo, la stabilità di tali contesti è dunque di per sé propizia ad una prospettiva anticipatoria che, almeno sotto il profilo temporale, innesti proprio nella Sesta sezione circuiti decisionali che, senza mutare di segno il tenore di immediata rilevabilità della pronuncia, riflettano indirizzi condivisi. Cioè frutto di assestamenti autorevolmente dibattuti e consapevoli, per come formatisi in Sezione e però più prontamente assunti anche in Sesta, così sancendone il consolidamento e l’autorevolezza di precedente. Se poi tale scenario possa declinarsi anche nei termini di ‘prime pronunce’ su certe tipologie di conflitti è questione già affrontata con successo, agli inizi del decennio, ad esempio proprio nella materia dell’immigrazione, all’epoca sviluppata per lo più in Sesta sezione. Vale dunque la pena interrogarsi circa la riproduzione di fattori storici analoghi in altre materie ovvero presupposti di identica aspettativa di pronta definizione. Realisticamente la risposta può ancora essere positiva, potendosi mettere a frutto quell’esperienza e da essa in particolare trarre l’insegnamento di una funzione nomofilattica prudentemente affidata al giudizio camerale citato, se organizzata attorno a nuclei specializzati in una data materia e, soprattutto, in raccordo strutturale (cioè tendenziale sovrapposizione) con l’assunzione delle stesse funzioni in Sezione.
In tale percorso, allora, le categorie della pronuncia ai sensi dell’art.380 bis c.p.c., così come quelle che, secondo l’art.375 c.p.c. – per sottrazione della particolare rilevanza della questione di diritto ovvero della rimessione dalla camera di consiglio di Sesta alla pubblica udienza in base all’ultimo comma – sono comunque deliberate in camera di consiglio, possono sfuggire al pregiudizio per cui esse esigono comunque un consolidamento temporale e reiterato del precedente. La nozione di infondatezza ed il suo contrario, in un quadro di evidenza, così come la inammissibilità, ben possono coesistere con le attribuzioni istituzionali del giudizio camerale, ove si riconoscano come tali benché inedite o nuove. A far da garanzia verso il timore di sbrigatività possono soccorrere gli assetti organizzativi delle sottosezioni: specializzati per materia, coincidenti soggettivamente con i consiglieri addetti alla stessa indagine tematica anche in Sezione, comunque nel raccordo periodico sulla ricognizione delle questioni involgente l’intera compagine deputata alla trattazione, in Sesta e nella sezione corrispondente.
Altra prassi positiva è stata costituita dallo speciale collegio di Sesta civile composto dai coordinatori delle singole sottosezioni: una sorta di ‘sezioni unite della sesta sezione’, investito, con saggia formazione plurale rappresentativa, di questioni processuali trasversali ai vari sottogruppi. La autorevolezza delle pronunce rese è stata testimoniata dall’immediata soluzione di questioni controverse sul rito, senza scostamenti apprezzabili di breve periodo nella giurisprudenza delle singole Sezioni che ne è seguita. Trattandosi di prassi, ad ogni modo, il valore orientativo è proporzionale alla reiterazione dell’esperienza, allo stato ancora abbastanza selettiva e non generalizzata per tutte le questioni processuali.
In realtà il dialogo con il merito utilmente può prospettarsi in termini indiretti, avendo riguardo ad un’evoluzione di istituti processuali di raccordo. Così, ad esempio, quanto alla portata della cd. doppia conforme, ne appare opportuno l’allargamento – rispetto al perimetro del solo appello – anche ai reclami, così incrementando la portata selettiva dell’art.348ter comma 4 c.p.c. e generalizzando la categoria dell’inammissibilità per difetto di ragionevole probabilità di accoglimento dell’art.348bis c.p.c. Almeno per il secondo aspetto, il superamento del limite richiede peraltro una norma di riforma. Il beneficio di sistema sarebbe la riconduzione dei ricorsi per cassazione avverso provvedimenti resi su impugnazione, quale che sia, solo ai motivi di cui ai primi 4 numeri del primo comma dell’art.360 c.p.c.
M.Serio La risposta all'interrogativo è certamente in senso affermativo per due ordini di ragioni che espongo molto brevemente.In primo luogo perché la prassi "sottosezionale"ben può contribuire allo snellimento del carico di lavoro altrimenti riversato sull'intera sezione.In secondo luogo perché questa divisione interna del lavoro dovrebbe servire ad assicurare maggior approfondimento delle questioni, forse anche in considerazione del più contenuto afflusso di ricorsi.Naturalmente è fondamentale l'opera di coordinamento ed organizzazione di cui dovrebbe essere responsabile il Presidente titolare di sezione, da compiersi anche attraverso un calibrato metodo di deleghe ai Presidenti di sezione ed ai costituendi coordinatori delle sottosezioni con funzioni di raccolta degli orientamenti di ogni Collegio.Della riorganizzazione del lavoro sezionale dovrebbe istituzionalmente occuparsi il Consiglio direttivo per via di apposite formazioni tabellari.
7. Il ricorso nell’interesse della legge ed il ruolo del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Qual è a suo avviso il bilancio che si può fare su tale istituto e quali misure potrebbero essere adottate per migliorarne l’efficacia?
E.D’Alessandro Il giudizio sul ricorso nell’interesse della legge di cui all’art. 363 c.p.c., così come modificato per effetto della novella del 2006, si è dimostrato uno strumento sovente utilizzato dalla Corte per l’esercizio della funzione di nomofilachia che le è propria. Spesso ha condotto a pronunce significative in tal senso: penso, ad esempio, alla decisione delle Sezioni Unite sulla riconoscibilità in Italia di pronunce americane di condanna ai punitive damages. Il ricorso nell’interesse della legge ha altresì permesso di ottenere pronunce di legittimità in materie per le quali non è prevista la ricorribilità per cassazione. Ciò mi induce a considerare il bilancio su tale istituto tendenzialmente positivo anche se, come ogni cosa umana, è perfettibile. In una prospettiva de jure condendo, per migliorare l’efficacia dell’istituto, si potrebbe forse prevedere, nel suo contesto, un coinvolgimento attivo della società civile, posto che l’esercizio della funzione nomofilattica nell’interesse della legge è destinato a proiettarsi “in un futuro che appartiene a tutti” (sono parole di Bruno Capponi, La Corte di cassazione e la «nomofilachia» (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), www.judicium.it, § 8). Penso proprio alla proposta formulata dal Professor Bruno Capponi, il quale, lasciando ferma l’iniziativa del Procuratore generale della Corte di Cassazione, suggerisce di istituzionalizzare, nel contesto del procedimento ex art. 363 c.p.c., un momento di dialogo con quelli che potremmo definore amici curiae selezionati, ossia con i rappresentati dell’avvocatura e dell’Accademia.
M.Ferro Stando alla massimazione edita, le pronunce assunte nell’interesse della legge, dopo quasi tre lustri dall’introduzione dell’istituto, sono poco più di 70. Esse risultano per la massima parte imputabili, ai sensi dell’art.363, comma 3, c.p.c., ad una determinazione officiosa del collegio, chiamato a pronunciarsi in chiave di inammissibilità e così apprezzando la particolare importanza della questione decisa. Nella prassi, non è generalizzata una concomitante sollecitazione proveniente dal Procuratore generale, in sede di udienza pubblica o come richiesta formulata nelle conclusioni-memoria prodromiche all’adunanza camerale. Un primo commento non può che esprimere la constatazione di non avvenuto abuso dell’istituto, pur se difettano dati sul rapporto fra richieste provenienti dalla Procura e dinieghi ad esprimere il principio di diritto nell’interesse della legge da parte del Collegio. Il fenomeno, per come circoscritto, è probabilmente poi anche il frutto di una consistente programmata riduzione delle conclusioni del P.M., per via della rarefazione delle pubbliche udienze, nonché della scelta selettiva delle requisitorie, limitate – per adunanza – solo alla parte più controversa dei procedimenti, al di là della corrente attività nei regolamenti di cui all’art.380 ter c.p.c.
Di per sé, l’istituto ha dunque tutti i requisiti anche fattuali per conservare un richiamo di autorevolezza, qual era stato ipotizzato nel 2006. E però, la successione temporale che ha contraddistinto la riorganizzazione dei processi camerali in Corte – specie con la riforma del 2016 - sembra averne eroso l’appeal, potendo essere indicata la sede primaria in cui fissare il principio di diritto tendenzialmente nella udienza pubblica ovvero, per quanto anticipato, anche nella Sesta. Opera cioè, par di capire, un self restraint all’attivazione del congegno nelle altre evenienze in cui pur sarebbe compatibile. Il difetto di dati certi che illustrino poi il seguito reale, negli orientamenti della Corte, del principio di diritto così affermato, e dunque la percentuale di effettivo scostamento (o aggiramento) nelle decisioni successive, suggerisce di condividere l’attuale prudenza di utilizzo. Ciò proprio a beneficio della sua autorevolezza anche in prospettiva, in apparenza collegata alla sua attenta e circoscritta misura. Un rafforzamento, nel presupposto che la sua espressione rifletta comunque un indirizzo a maturazione consapevole nella Sezione che lo esprime, dovrebbe comunque implicare la necessità, ove non lo si condivida, di rimessione del nuovo caso solo alle Sezioni Unite, risultato conseguibile anche quale spontanea convergenza interna, in alternativa ad una precisazione integrativa devoluta ad una riforma.
M.Serio Su quest'ultimo punto, osservo che la finalità dell'istituto ,commendevoli nell'offrire uno spunto di intervento nomofilattico non guidato dal perseguimento di un interesse circoscritto ed individuale, non è stata, secondo i dati statistici, n appieno realizzata nell'esperienza fino ad adesso vissuta. Possono esservi ragioni contingenti, sempre discendenti dagli imponenti carichi di lavoro, che hanno costituito ostacolo alla piena applicazione del rimedio: occorre, tuttavia, che l'occasione normativa non venga sciupata. Perché ciò accada si può pensare all'intensificazione dei contatti tra Corte e Procura Generale ed alla formalizzazione convenzionale di prassi relative all'utilizzazione dell'istituto. Ancora una volta un ruolo propositivo andrebbe assegnato al Consiglio direttivo.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.