ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Chiovenda e il computer. Il processo “da remoto” e la teoria dell’azione
di Paolo Spaziani
[in copertina Chiovenda, acquerello, di Paolo Spaziani]
Il c.d. processo civile “da remoto”, previsto dalla normativa emergenziale introdotta in questi tempi di pandemia per ridurre il rischio del contagio, può trasformarsi da istituto temporaneo ed eccezionale in modalità ordinaria di celebrazione del giudizio civile? Nel presente scritto si cerca di immaginare come avrebbe risposto a questa domanda Giuseppe Chiovenda, avuto riguardo alle implicazioni derivanti da una sua dolorosa esperienza personale di studioso (la perdita di un manoscritto) e al concetto di tutela giurisdizionale desumibile dal suo sistema scientifico, fondato sulle teorie dell’azione e del rapporto giuridico processuale.
Sommario: 1. Chiovenda, il manoscritto perduto e il processo telematico – 2. Il processo “da remoto” e la teoria chiovendiana dell’azione – 3. La tutela giurisdizionale come “bene” giuridico – 4. Gli attributi ontologici della tutela giurisdizionale come “bene” giuridico. Il processo “da remoto” come “non processo”.
1. Chiovenda, il manoscritto perduto e il processo telematico
Giuseppe Chiovenda diede alle stampe la prima edizione dei Principii di diritto processuale civile nel 1906, la seconda nel 1908 e la terza nel 1912-1923.
Precisamente, le prime 4 “puntate” della terza edizione furono pubblicate tra il 1912 e il 1913; la quinta “puntata”, con l’Indice e la Prefazione, divenuta famosissima, fu pubblicata nel 1923, allorché uscì il libro nella sua completezza, con il sottotitolo Le azioni. Il processo di cognizione.
Già da queste poche notazioni sulla cronologia dell’opera e sul sottotitolo, che ne riflette il contenuto, emergono due circostanze che incuriosiscono immediatamente il lettore.
Si tratta di due circostanze apparentemente distinte ma in realtà strettamente collegate tra loro.
La prima è quella relativa al notevole intervallo temporale (oltre dieci anni) che intercorre tra la pubblicazione delle prime quattro “puntate” e la pubblicazione della quinta.
La seconda è quella relativa alla mancanza, nell’opera, della trattazione relativa al processo di esecuzione.
Su questa seconda circostanza si è soffermato l’ultimo, grande e affezionatissimo discepolo del maestro di Premosello, Virgilio Andrioli.
Andrioli racconta che Chiovenda aveva bensì redatto, sin dal 1915, anche la parte relativa al processo di esecuzione, ma che, sfortunatamente, il manoscritto contenente questa trattazione era stato da lui smarrito, nel dicembre di quell’anno, alla stazione ferroviaria di Milano[1].
Pur non essendovi motivo di dubitare della buona fede di Andrioli, l’episodio da lui raccontato, che non trova riscontri in successive ricerche, sembra piuttosto inverosimile.
In primo luogo, lo stesso Chiovenda, nel 1923, dettando la Prefazione alla terza edizione dei Principii, pubblicata secondo l’articolazione sopra ricordata, non avrebbe accennato affatto ad una presunta lacuna dell’opera dovuta alla mancanza della trattazione relativa al processo di esecuzione, ma, al contrario, avrebbe avuto modo di precisare che tale trattazione, la quale evidentemente egli considerava estranea al sistema delineato nei Principii, avrebbe dovuto formare oggetto di un separato, futuro volume[2].
In secondo luogo, è quanto meno plausibile che Chiovenda, se effettivamente avesse già completato, all’età di 43 anni, una trattazione sistematica del processo di esecuzione, avrebbe verosimilmente trovato il tempo di riscrivere il libro prima di morire, all’età di 65 anni. È un fatto, invece, che egli, dal 1915 al 1937, non si sarebbe mai occupato dell’esecuzione forzata, in funzione di una trattazione completa ed analitica degli istituti che la riguardano[3].
In terzo luogo, l’episodio del presunto smarrimento del manoscritto sul processo esecutivo mal si concilia con un diverso episodio, raccontato da un altro grande processualista, Franco Cipriani.
Cipriani, premesso di avere conosciuto, nell’anno 1990, l’ultima figlia di Chiovenda, la signora Beatrice Chiovenda Canestro[4], ricorda che quella, dopo averlo accolto «con squisita cortesia» nella sua villa alle porte di Roma[5], gli aveva fatto successivamente l’onore di riceverlo anche nella casa avita di Premosello ove, in un armadio chiuso da più di trent’anni, erano conservate tutte le carte paterne[6].
Nell’occasione – continua Cipriani – egli non solo aveva avuto l’opportunità, riaprendo quell’armadio ed esaminando quelle carte, di rinvenire la famosa lettera di Francesco Carnelutti dell’8 settembre 1923, contenente la proposta di fondare quella Rivista di procedura civile[7] che Chiovenda avrebbe voluto chiamare Rivista di diritto processuale civile e che, dal 1946, avrebbe assunto il nome di Rivista di diritto processuale[8]; ma aveva avuto anche l’opportunità di chiedere alla signora Beatrice notizie più precise sullo smarrimento, da parte del padre, di quel manoscritto sul processo esecutivo di cui aveva parlato Virgilio Andrioli[9].
Ebbene – precisa al riguardo Cipriani – a questa domanda la signora Beatrice aveva risposto che il padre non aveva smarrito alcun manoscritto, ma aveva invece subìto il furto di una valigia contenente il manoscritto di un libro che aveva poi riscritto[10].
La signora Beatrice non aveva saputo indicare l’oggetto del libro, né l’anno del furto, ma, poiché si ricordava benissimo della disperazione del padre («è come se avessi perso un figlio»), aveva escluso che l’episodio risalisse al 1915, quando ella era ancora molto piccola, concludendo che doveva essersi verificato alcuni anni più tardi, verosimilmente tra il 1919 e il 1920[11].
Qualche tempo dopo questo colloquio – prosegue Cipriani – la signora Beatrice aveva fatto nuova luce sull’episodio, dopo aver ritrovato, tra le carte paterne, un piccolo libro mastro sulle entrate e sulle uscite familiari.
Nella prima pagina di questo piccolo libro mastro era infatti scritto: «1920. Il presente continua il registro contenuto nella valigia rubatami a Milano il 15 settembre 1920».
Nelle pagine successive, poi, si leggevano, l’una dopo l’altra, le seguenti annotazioni:
- «15 settembre 1920: ritorno da Lodi a Milano per ricerche furto valigia. £ 700»;
- «16 settembre 1920: Corriere della Sera per smarrimento valigia. £ 54,60»;
- «18 settembre 1920: Bologna-Milano-Como alla ricerca della valigia rubatami. £ 600»;
- «28 settembre 1920: a Gino Marazza rimborso per manifesti valigia. £ 55,10».
Avute queste notizie – conclude Cipriani – gli era stato facile accertare che Chiovenda aveva fatto pubblicare un annuncio sul Corriere della Sera del 17 dicembre 1920, con cui aveva promesso di pagare la ricompensa di £ 1.000 a chi avesse consegnato al portiere di Via Cusani 4 a Milano (lo stabile in cui abitava il suo giovane amico, Avv. Achille Marazza, futuro ministro del lavoro nel VI governo De Gasperi), i libri e le carte contenute nella valigia rubata[12].
Alla luce delle informazioni fornite dalla signora Beatrice a Cipriani e delle ulteriori ricerche da quegli effettuate, può ritenersi accertato che Chiovenda, diversamente da quanto riferito da Andrioli, non aveva smarrito, nel 1915, il manoscritto contenente la trattazione del processo esecutivo, ma aveva perduto, nel 1920, a seguito del furto della valigia ove era contenuto, il manoscritto di un libro che aveva poi riscritto.
Si trattava, verosimilmente, della parte finale dei Principii, quella che sarebbe stata contenuta nella quinta “puntata”, il che spiega il sofferto ritardo con cui Chiovenda diede alle stampe l’ultima parte della sua mirabile opera, il cui disegno generale potè essere completato soltanto nel 1923, a distanza di oltre un decennio dalla pubblicazione delle prime quattro “puntate”[13].
Orbene, chiunque abbia provato personalmente esperienze simili, sa che la perdita di un manoscritto è la « più grande sventura che possa capitare ad uno studioso»[14], specie quando si tratti di uno scritto che è parte di un’opera più ampia e che, pertanto, per un verso, non può essere, semplicemente, abbandonato (come Chiovenda avrebbe potuto fare se si fosse trattato del libro sull’esecuzione forzata) senza compromettere la parte di opera fortunatamente conservata, mentre, per altro verso, non può essere neppure, agevolmente e pianamente, riscritto, poiché deve inserirsi nel sistema di cui quell’opera è espressione; sicché la “riscrittura” presuppone uno sforzo intellettuale che, in quanto già precedentemente avvenuto e, per così dire, “consumato” nella psiche dell’autore, molto difficilmente, e comunque a prezzo di estrema fatica e di intensa sofferenza, può essere replicato alle stesse condizioni e con il medesimo rigore concettuale.
Si spiegano dunque lo sforzo profuso e le numerose iniziative assunte dal maestro di Premosello, tra il settembre e il dicembre del 1920, nella ricerca dell’opera smarrita, prima di rassegnarsi alla sua definitiva perdita, nonché la scelta di non badare a spese (1000 Lire nel 1920 era una somma veramente ragguardevole) pur di rientrane in possesso.
In questa situazione, si può facilmente immaginare l’opinione che avrebbe avuto Chiovenda del computer, se avesse saputo della meravigliosa capacità di questa macchina di consentire, attraverso la memorizzazione e il salvataggio dei files, l’agevole e sicura conservazione delle opere dell’ingegno umano in un ideale ambiente immateriale, evitando i rischi connessi allo smarrimento o alla sottrazione del tradizionale, fragile supporto materiale di natura cartacea.
La considerazione di Chiovenda per il computer e le sue risorse, alla luce della sventura vissuta, sarebbe stata altissima.
Egli non solo ne avrebbe promosso l’uso nell’attività scientifica e professionale, ma avrebbe trovato modo di farne virtuosa applicazione nella teoria e, soprattutto, nella pratica del processo.
Si può persino immaginare che la stessa prima disposizione (la norma-manifesto) del suo famoso Progetto di riforma del procedimento civile, elaborato nell’ambito della I sottocommissione della Commissione reale per il dopo guerra, licenziato il 30 giugno 1919 e pubblicato nel 1920[15], non sarebbe stata intitolata soltanto alla oralità e alla concentrazione processuale[16], ma sarebbe stata intitolata alla oralità, alla concentrazione processuale e all’informatizzazione, considerata sotto il triplice profilo della creazione di archivi informatici di giurisprudenza, legislazione e dottrina (c.d. informatizzazione degli strumenti di ricerca), della utilizzazione, in funzione probatoria, di scritture formate e sottoscritte in forma elettronica (c.d. documento informatico con firma elettronica o digitale) e della telematizzazione dei servizi di cancelleria, delle comunicazioni e delle notificazioni, nonché della digitalizzazione e standardizzazione degli atti processuali, fossero essi atti di parte o provvedimenti del giudice (c.d. processo telematico).
Insomma, si può essere ragionevolmente certi, avuto riguardo alla dolorosa vicenda della perdita del manoscritto, che se Chiovenda avesse potuto anche lontanamente immaginare i benefici connessi all’informatizzazione, la sua appassionata e lunga ‹‹propaganda››[17] per la riforma del processo civile, sarebbe stata spesa, oltre che a favore dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione processuale, anche a favore dell’immediata introduzione del processo telematico, quale progetto vertente alla realizzazione di un sistema informatico di automatizzazione dei flussi informativi tra i soggetti del giudizio che, senza incidere sulla struttura processuale (adempimenti, termini, contenuto degli atti, criteri di allegazione e prova), rendesse più sicuro, agile e tempestivo il sistema di scambio degli atti, sulla base di una previa equiparazione normativa dei documenti informatici e telematici a quelli tradizionali.
2. Il processo “da remoto” e la teoria chiovendiana dell’azione
Sotto ben altra luce Chiovenda avrebbe invece verosimilmente veduto il c.d. processo “da remoto”, che, diversamente dal telematico, non costituisce un progetto volto a migliorare l’efficienza del giudizio, ma uno strumento introdotto in questi tempi di pandemia dalla legislazione emergenziale, al fine di contemperare l’esigenza di trattazione dei processi non rinviabili con quella di evitare gli assembramenti di persone cui darebbe vita la loro celebrazione secondo le forme ordinarie.
Quale strumento finalizzato a rispondere alle eccezionali esigenze poste dalla situazione di emergenza sanitaria, il c.d. processo “da remoto” è, dunque, destinato a durare per il limitato periodo di tale emergenza, mentre il c.d. processo telematico è destinato ad essere introdotto “a regime”, sul rilievo che il processo, come tutte le attività umane, deve potere essere migliorato nella sua funzionalità, attraverso l’utilizzo delle risorse che il progresso tecnologico e scientifico mette oggi a disposizione.
Del processo “da remoto” si sono occupati i decreti-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito nella l. 24 aprile 2020, n.27) e 30 aprile 2020, n. 28 (convertito nella l. 25 giugno 2020, n.70).
Questi decreti-legge, continuando nel solco tracciato dal primo provvedimento emergenziale (il d.l. 8 marzo 2020, n.11) hanno distinto due fasi temporali: la prima (il cui dies ad quem, inizialmente fissato al 15 aprile 2020, è stato poi prorogato all’11 maggio 2020), contraddistinta dal rinvio d’ufficio, con specifiche eccezioni, delle udienze nei procedimenti pendenti in tutti gli uffici giudiziari, nonché dalla sospensione, per il periodo di durata della fase medesima, dei termini per il compimento di qualsiasi atto del procedimento; la seconda (il cui dies ad quem, dapprima fissato al 30 giugno 2020, è stato poi prorogato al 31 luglio e infine riportato nuovamente al 30 giugno 2020), contraddistinta dal rinvio discrezionale con determinazioni rimesse ai capi degli uffici giudiziari.
Con riguardo alla prima fase, è stata prevista eccezionalmente la celebrazione dei soli procedimenti in cui sia urgente ed indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona, dei procedimenti in materia di assegno di mantenimento, di assegno divorzile e alimentare, dei procedimenti relativi a stranieri, minori, incapaci o in materia di famiglia, parentela, matrimonio o affinità, e, in genere, di ogni procedimento la cui ritardata trattazione possa causare grave pregiudizio alle parti (art.83, comma 3, lett. a), d.l. n. 18 del 2020).
Con riguardo alla seconda fase, è stata prevista la celebrazione dei soli procedimenti per la cui trattazione i capi degli uffici non abbiano discrezionalmente stabilito un rinvio a data successiva alla fine del periodo emergenziale (art.83, comma 7, lett. g), d.l. n. 18 del 2020).
Sia in relazione alla prima fase (per le udienze relative ai procedimenti non differibili) che in relazione alla seconda fase (per le udienze relative ai procedimenti non discrezionalmente rinviati) è stata prevista la possibilità che l’udienza sia svolta mediante collegamenti “da remoto” individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, a condizione che non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, e purché sia salvaguardato il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (art.83, comma 7, lett. f), d.l. n. 18/2020).
Nelle more della conversione del d.l. n.18 del 2020, questa norma, non ostante il suo carattere eccezionale, è stata interpretata in senso estensivo.
Si è infatti osservato che il termine udienza è stato evidentemente utilizzato in un accezione ampia, comprensiva non solo dell’udienza in senso proprio (vale a dire l’udienza pubblica tenuta con la partecipazione dei difensori ed, eventualmente, del pubblico ministero), ma anche della camera di consiglio non partecipata, istituto che, a seguito della riforma disposta con d.l. 31 agosto 2016, n.168 (convertito nella l. 25 ottobre 2016, n.197), ha acquistato particolare importanza nel giudizio di legittimità, nell’ambito del quale ha assunto la denominazione di adunanza camerale (artt. 380 bis e 380 bis.1 c.p.c.).
Si è dunque affermato che la norma emergenziale dovrebbe oggi poter consentire una celebrazione dell’adunanza camerale nella quale «uno o più tra i componenti del collegio giudicante risultino assenti dall’aula e dalla sala della camera di consiglio, trovandosi in collegamento audiovisivo o anche solo audio da remoto»[18].
Questa possibilità, nel silenzio del legislatore, troverebbe tuttavia conferma sia nei principi generali che in norme specifiche.
I principi generali sarebbero quello della libertà delle forme (art.121 c.p.c.) e quello della sanatoria della nullità per il raggiungimento dello scopo (art.156, terzo comma, c.p.c.)[19].
Le norme specifiche sarebbero quelle, contenute nello stesso d.l. n.18 del 2020, previste per la giustizia amministrativa e contabile, le quali stabiliscono che «il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto›› e che ‹‹il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge» (artt.84, comma 6, e 85 d.l. n.18 del 2020).
Queste norme, si osserva, dovrebbero essere analogicamente applicate alle udienze e alle camere di consiglio della Corte di cassazione, «non rinvenendosi ragione di sorta per giustificare un collegamento da remoto dei componenti del collegio giudicante nell’ambito del processo amministrativo o contabile, con esclusione invece dei processi civili ovvero di quelli tributari»[20].
Alla tesi secondo la quale l’art.83, comma 7, lett. f), d.l. n. 18/2020, sarebbe suscettibile di interpretazione estensiva è stato obiettato che tale possibilità risulterebbe invece preclusa all’esito della conversione del successivo d.l. n. 28/2020, recante disposizioni di coordinamento e integrative della disciplina posta dal decreto-legge precedente (art.3).
Poiché infatti la legge di conversione del d.l. n. 28 del 2020 (l. n.70/2020) ha modificato la lett. c) del comma 1 dell’art.3 di quest’ultimo decreto-legge (a sua volta modificativo della lett. f) del comma 7 dell’art.83 del d.l. n. 18/2020), stabilendo che «il luogo posto nell’ufficio giudiziario da cui il magistrato si collega con gli avvocati, le parti ed il personale addetto è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti di legge», sarebbe evidente che la norma non ha ad oggetto la camera di consiglio non partecipata, ma esclusivamente l’udienza in senso stretto[21], ammettendo la presenza “da remoto” per le parti, i difensori e gli altri soggetti del processo, ma non anche per il giudice, il cui eroico presidio dell’ufficio sembrerebbe l’ultima concessione che il progresso tecnologico lascia all’udienza tradizionale, quale luogo reale di incontro, nel palazzo di giustizia, tra i protagonisti del giudizio.
Il problema della possibilità dell’interpretazione estensiva dell’art.83 comma 7, lett. f), d.l. n.18/2020, è stato superato in sede di conversione del decreto-legge, atteso che la l. n. 27 del 2020 ha introdotto, nello stesso art.83, il comma 12 quinquies, secondo cui «dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge»[22].
Restano invece le suggestioni interpretative suscitate dalla predicata applicazione analogica dalle disposizioni del medesimo decreto-legge dettate in tema di giustizia amministrativa e contabile (artt.84, comma 6, e 85), le quali assumono un rilievo particolarmente importante, poiché, diversamente da quelle dettate in tema di giustizia civile e penale, sono prive di una previsione volta a circoscriverne temporalmente l’efficacia, sicché esse evocano la possibilità che l’udienza “da remoto” si affranchi dal carattere di istituto processuale temporaneo e straordinario, funzionale a sopperire alle contingenti esigenze dell’emergenza sanitaria, per ergersi a modalità ordinaria di celebrazione del giudizio.
La plausibilità dell’introduzione “a regime” di una modalità di celebrazione dell’udienza civile mediante collegamenti “da remoto” tra i diversi soggetti del processo potrebbe essere fondata anche sui già richiamati principi della libertà delle forme e della sanatoria per raggiungimento dello scopo[23]: se infatti la tecnologia offre la possibilità di avere una presenza virtuale dei protagonisti dell’udienza civile del tutto sovrapponibile alla presenza fisica, non si vede perché non si debba poter preconizzare una “smaterializzazione” di questo momento del giudizio, evidentemente non più indispensabile ai fini dell’esercizio dei diritti delle parti e dei poteri del giudice e, più in generale, ai fini della proficua interlocuzione tra i soggetti processuali.
Anche sotto tali diversi profili, è stato peraltro osservato, restrittivamente, che, a rigore, il principio della libertà delle forme non dovrebbe poter essere invocato in funzione della “liberalizzazione” delle modalità di svolgimento dell’udienza o della camera di consiglio, poiché queste non sono annoverabili tra gli “atti processuali”», a cui è circoscritta l’operatività del principio, trattandosi piuttosto di ‹‹riferimenti di luogo e di tempo organicamente predisposti alla stregua di mezzo per il compimento di “atti”››[24].
Del pari, la formale mancanza di una ‹‹determinazione di durata›› per la misura dettata in tema di giustizia amministrativa non potrebbe indurre il dubbio che il suo confine applicativo trascenda il periodo di emergenza sanitaria, trovando essa la propria ‹‹ratio›› proprio in tale emergenza[25].
A prescindere dalla interpretazione estensiva od analogica delle norme contenute nei provvedimenti emergenziali, nonché dal riferimento ai principi contenuti nel codice di procedura civile, la stessa opinione restrittiva assume, tuttavia, che la modalità “da remoto” di celebrazione del processo civile sia ormai «entrata nel sistema», talché essa potrebbe essere utilizzata, verificandosene la necessità, anche per rispondere ad esigenze diverse da quelle poste dalla pandemia da coronavirus[26].
Deve dunque riconoscersi, in termini generali, che la legislazione emergenziale ha costituito l’occasio legis per un’apertura del dibattito processualistico ad un utilizzo del collegamento “da remoto” e del convegno “virtuale” dei soggetti del processo, quale possibile modalità ordinaria di celebrazione delle udienze e delle camere di consiglio.
Un’apertura che viene compiuta con prudenza[27] e con la consapevolezza dei limiti, normativi e materiali, di questo sistema[28]; e pur tuttavia, un’apertura, che potrebbe determinare l’inizio di una vera e propria rivoluzione nelle modalità di celebrazione del processo civile[29].
Viene dunque da chiedersi cosa avrebbe pensato di questa possibile rivoluzione Giuseppe Chiovenda, tenuto conto che egli, come abbiamo sopra immaginato, avrebbe senz’altro apprezzato i benefici della tecnologia e dell’informatica, ove funzionali al miglioramento della efficienza del giudizio.
Il sistema chiovendiano, come è noto, ruota intorno a due capisaldi concettuali: il concetto dell’azione, «intesa come l’autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore»; e il concetto del rapporto giuridico processuale, «o sia di quel rapporto giuridico che nasce tra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale indipendentemente dall’esser questa fondata o no»[30].
Strutturalmente, il rapporto giuridico processuale è un rapporto trilaterale, poiché si instaura tra il soggetto che propone la domanda di tutela giurisdizionale (l’attore), il soggetto nei cui confronti la domanda è proposta (convenuto) e il soggetto che deve rendere la tutela (il giudice).
Oggetto del rapporto è il diritto dell’attore ad ottenere dal giudice la tutela giurisdizionale e la soggezione del convenuto all’esercizio di questa tutela.
Si instaura, dunque, nel processo, un rapporto giuridico del tutto analogo a quello che si rinviene nel diritto sostanziale, inteso in senso soggettivo: un rapporto, cioè, fondato sulla relazione strumentale tra un soggetto attivo (titolare di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio) e un soggetto passivo (titolare di una situazione giuridica soggettiva di svantaggio).
La relazione tra la situazione di vantaggio e quella di svantaggio è di carattere strumentale poiché entrambi, nell’ambito di un meccanismo che ne prevede l’operatività secondo modalità reciprocamente contrarie, sono tuttavia finalizzate alla realizzazione di un medesimo interesse.
Questo interesse, che costituisce il fine della giurisdizione, si identifica con l’attuazione della legge: esso ha carattere pubblico, in quanto interesse superindividuale che trascende quello privato dell’attore che invoca la tutela giurisdizionale.
Nella funzione pubblicistica della giurisdizione, che trova il suo fine nell’interesse statuale all’attuazione della legge, è stata ravvisata la peculiare innovazione del sistema chiovendiano[31].
In verità, già Calamandrei, nel 1937, pur riconoscendo alla nuova scuola chiovendiana il merito di avere illuminato «l’aspetto di ordine pubblico» delle norme del processo, tuttavia osserva che la nuova concezione del diritto processuale, quale «ramo autonomo del diritto pubblico che, regolando nella giurisdizione una delle funzioni della sovranità, tocca i fondamenti stessi dello Stato››, ha avuto un «precursore» in Lodovico Mortara.
È al Mortara, secondo Calamandrei, che si deve quella «collocazione del processo civile nel più vasto quadro del diritto pubblico» e «quella riaffermazione della importanza costituzionale» della giurisdizione che avrebbe condotto ad individuarne il fondamento non più nella finalità privatistica di «far vincere le cause ai litiganti» ma in quella pubblicistica di affermare la volontà dello Stato attraverso l’attuazione del diritto obiettivo[32].
La situazione giuridica soggettiva di vantaggio, che costituisce il profilo attivo del rapporto giuridico processuale, prende il nome di azione.
Veniamo dunque al secondo – e principale – caposaldo concettuale del sistema chiovendiano.
Anche con riferimento ad esso, si è individuato nella scuola chiovendiana una peculiare innovazione – forse la più importante – rispetto all’insegnamento della dottrina tradizionale.
Si ricorda infatti, agevolmente, che per questa dottrina – ancora oggi identificata con la scuola dei ‹‹grandi “proceduristi” di matrice francese ed esegetica››, contrapposta a quella dei ‹‹“processualisti” di stampo tedesco e sistematico››[33], di cui Chiovenda sarebbe stato l’‹‹iniziatore e Maestro››[34] – l’azione giudiziaria non era una situazione soggettiva autonoma ma integrava la rappresentazione dinamica del medesimo diritto sostanziale di cui si chiedeva la tutela in giudizio.
Precisamente, secondo colui che dei proceduristi prechiovendiani è considerato il più autorevole esponente, Luigi Mattirolo, l’azione giudiziaria non era altro che il diritto sostanziale ‹‹alla seconda potenza››: dunque, non era un istituto autonomo ma rappresentava semplicemente ‹‹la qualità propria del diritto di potere invocare a sua tutela le garantie giudiziarie››[35].
Alla tradizionale impostazione che escludeva l’autonomia dell’azione rispetto al diritto fatto valere in giudizio aveva aderito lo stesso Chiovenda allorché aveva, per la prima volta, trattato ex professo il tema nella “voce” Azione del Dizionario pratico del diritto privato diretto dal suo maestro Vittorio Scialoja. Nell’occasione, l’ancora giovane autore aveva scritto che ‹‹in realtà l’azione, o diritto di far valere il diritto, non è che il diritto stesso fatto valere, il diritto in un nuovo aspetto o in una nuova fase, passato dallo stato di riposo allo stato di combattimento››[36].
La concezione dell’azione quale posizione soggettiva autonoma dal diritto sostanziale esercitato in giudizio, viene per la prima volta esposta dal maestro di Premosello nella celeberrima prolusione letta dalla cattedra della facoltà giuridica bolognese il 3 febbraio 1903[37], che, non a caso, è considerato il giorno della fondazione[38] o, secondo taluno[39], la data di nascita della nuova scienza del diritto processuale civile.
Anche sotto questo profilo, tuttavia, il sistema chiovendiano deve ritenersi tutt’altro che innovativo, poiché quella stessa concezione, che Chiovenda raccoglie dalla dottrina tedesca[40], in Italia non solo era stata anticipata, ancora una volta, da Lodovico Mortara[41], ma era già ‹‹chiarissima››[42] anche a Domenico Viti[43], che pure ‹‹era un processualista vecchio stile››[44].
Del resto, nella teoria chiovendiana, l’azione, pur essendo concettualmente autonoma e diversa dal diritto soggettivo sostanziale, sussiste solo nell’ipotesi in cui la domanda risulti fondata e deve dunque distinguersi dalla mera possibilità di agire, che ne integrerebbe una condizione[45].
In altre parole, l’autonomia dell’azione non ne comporta anche l’astrattezza, talché essa può ritenersi esistente solo in concreto, vale a dire in presenza del diritto soggettivo sostanziale di cui si invoca la tutela.
Questo diritto, dunque, pur non confondendosi con l’azione, ne condiziona comunque la sussistenza, potendosi riconoscere il diritto di agire soltanto a chi ha avuto ragione (azione in senso concreto – diritto ad un provvedimento sul merito di carattere favorevole) e non, più in generale, a chi abbia solo affermato di avere ragione (azione in senso astratto – diritto ad un provvedimento sul merito, non importa se favorevole o sfavorevole)[46].
La vera peculiarità del sistema chiovendiano non sta allora né nella ribadita funzione pubblicistica della giurisdizione civile né nel riaffermato carattere dell’autonomia (che non si accompagna ancora al riconoscimento pure di quello dell’astrattezza) dell’azione; essa peculiarità si rinviene, invece, piuttosto nella risposta data alla questione di fondo affrontata nella celebre prolusione bolognese.
Questa questione, donde scaturisce il titolo stesso della famosa lezione tenuta in quella storica data, riguarda non tanto i caratteri specifici dell’azione quanto piuttosto quelli derivantile dalla sua appartenenza all’ambito dei diritti soggettivi.
La questione fondamentale, in altre parole, è quella relativa alla collocazione dell’azione nel sistema dei diritti e alle conseguenze di tale collocazione.
L’adesione alla tesi dell’autonomia comportava automaticamente il riconoscimento all’azione della dignità di diritto soggettivo a sé stante: se infatti l’azione non va confusa con il diritto sostanziale, vuol dire che è un diritto autonomo, distinto da quello.
La configurazione dell’azione giudiziaria quale diritto a sé stante determinava, peraltro, sul piano dogmatico, una difficoltà apparentemente insormontabile, che solo Chiovenda, tra i processualisti del suo tempo, ha la lucidità di avvertire e il genio di risolvere.
Nella dottrina classica, la nozione di diritto soggettivo[47] era connessa inestricabilmente a quella di interesse.
Il concetto di interesse veniva, a sua volta, legato a quello di bisogno e veniva rappresentato graficamente come una linea di tensione che, dipartendosi da una persona o soggetto (inteso, appunto come centro autonomo di interessi) si puntualizzava su una cosa od oggetto (inteso, appunto, come bene della vita, idoneo a soddisfare un bisogno umano e, quindi a realizzare l’interesse).
Posto dinanzi alle innumerevoli linee di tensione intercorrenti tra le persone e i beni idonei a soddisfare i loro bisogni, l’ordinamento giuridico, inteso in senso soggettivo, svolgeva, nell’ambito di questa concezione, il compito fondamentale di selezionare gli interessi, discriminandoli tra interessi meritevoli di tutela e interessi immeritevoli di tutela.
Mentre rispetto a questi ultimi non apprestava alcuna protezione, lasciandoli nudi interessi, rispetto ai primi attribuiva poteri, doveri e facoltà strumentali a consentirne la realizzazione.
Quando, nella valutazione effettuata dall’ordinamento, l’interesse meritava la massima tutela possibile, lo strumento attribuito raggiungeva la dimensione del diritto soggettivo, il quale rappresentava, dunque, il massimo, tra i poteri concessi dall’ordinamento ad un soggetto, per la tutela di un proprio interesse.
Chiovenda avverte chiaramente la difficoltà dogmatica di adattare al diritto soggettivo di azione questo sistema, non apparendo esso compatibile con l’idea della funzione pubblicistica della giurisdizione.
Se infatti l’oggetto di questa non va ricercato nella ripartizione della ragione e del torto tra i litiganti, ma nell’affermazione della volontà dello stato attraverso l’attuazione del diritto oggettivo, sembra evidente che l’esercizio del diritto di azione non verta alla realizzazione di un interesse privatistico (e cioè all’apprensione, per il soggetto attivo, di un bene della vita, con sacrificio del soggetto passivo) ma esclusivamente a rendere possibile lo svolgimento di un potere sovrano.
Chiovenda comprende, pertanto, che la collocazione dell’azione nel sistema dei diritti esigeva la configurazione di una nuova categoria di diritti soggettivi, nella quale potessero trovare contemperamento ed armonizzazione due concetti apparentemente inconciliabili.
Occorreva, cioè, che l’esercizio dell’azione permettesse, ad un tempo, l’apprensione di un bene giuridico idoneo al soddisfacimento di un bisogno privato (nel che si sarebbe realizzata l’essenza del diritto soggettivo quale potere dato dall’ordinamento per la tutela di un interesse) e l’affermazione della volontà dello Stato mediante l’attuazione del diritto obiettivo (nel che si sarebbe realizzata l’essenza della giurisdizione quale funzione pubblica, espressione della sovranità statuale).
Si trattava, quindi, di individuare una categoria di diritti nei quali l’interesse privato, coincidendo con quello pubblico all’attuazione della legge, potesse essere soddisfatto attraverso un meccanismo simile a quello in cui si estrinseca il potere autoritativo statuale.
Un meccanismo, precisamente, che, per un verso, non subordinasse la conservazione del bene della vita già presente nella sfera giuridica del titolare del diritto, all’osservanza di un dovere negativo di astensione da parte di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, secondo la modalità di esercizio e di realizzazione dei diritti assoluti; ma che, per altro verso, neppure prevedesse il conseguimento del bene della vita costituente il punto di riferimento oggettivo dell’interesse del privato, mediante l’attribuzione al soggetto passivo di un dovere positivo di cooperazione, secondo la diversa modalità operativa dei diritti relativi.
Occorreva invece riconoscere, al soggetto passivo del rapporto processuale, chiamato dinanzi al giudice, una situazione di soggezione del tutto assimilabile a quella di colui che viene attinto da un provvedimento autoritativo costituente espressione di una potestà pubblica; e, correlativamente, di individuare, nel soggetto attivo del medesimo rapporto, il potere giuridico di suscitare, con la vocatio in ius, l’attuazione della legge in proprio favore.
Nell’ “attuazione della legge” si sarebbe realizzata la funzione pubblicistica dell’azione quale mezzo attraverso il quale, sia pure su impulso del privato, si afferma tuttavia la volontà dello Stato per mezzo degli organi giurisdizionali.
Nell’attuazione della legge “in proprio favore” se ne sarebbe invece realizzata la funzione privatistica, quale diritto soggettivo strumentale al soddisfacimento dell’interesse all’apprensione di quel bene della vita che è la tutela giurisdizionale.
Rifiutata, dunque l’idea, largamente condivisa nella dottrina tedesca, secondo cui questo diritto dovesse essere diretto contro lo Stato, Chiovenda configura l’azione come un diritto contro l’avversario,[48], cui viene quindi riconosciuta la titolarità della correlativa situazione passiva di soggezione e, dopo averne ritenuto inappropriata la qualificazione di diritto facoltativo[49], sceglie di denominarlo, con felice ed incisiva espressione, diritto potestativo, dando così prova, non solo (e non tanto) della sua capacità di coniare nuovi termini giuridici[50], ma anche (e principalmente) della sua mirabile e feconda capacità di elaborazione sistematica.
3. La tutela giurisdizionale come “bene” giuridico
Con la creazione della figura del diritto potestativo Chiovenda raggiunge la quadratura del cerchio: quella di conciliare la funzione pubblicistica della giurisdizione, quale luogo di esercizio di una potestà sovrana, con la funzione privatistica del diritto soggettivo, quale potere concesso dall’ordinamento ad un soggetto per la tutela dell’intesse alla conservazione (diritto assoluto) o al conseguimento (diritto relativo) di un bene della vita idoneo a soddisfare un bisogno umano.
Sotto questo profilo, sia detto per inciso, la configurazione dell’azione quale diritto potestativo contro l’avversario si mostrava felice anche sul piano descrittivo e classificatorio, poiché la circostanza che esso fosse diretto (non alla conservazione, erga omnes, di un bene già presente nella sfera giuridica del titolare, ma) al conseguimento, erga unum, di un bene ancora estraneo alla detta sfera giuridica, consentiva di mantenere la summa divisio dei diritti soggettivi in diritti assoluti e diritti relativi.
L’azione, infatti, date le sue caratteristiche, si prestava agevolmente ad essere ricompresa nella seconda categoria, differenziandosi dal tradizionale archetipo dei diritti relativi (il credito) solo per le modalità di conseguimento del bene giuridico, che non presupponeva la realizzazione di una pretesa, attraverso la spontanea cooperazione del debitore o la coercizione della sua volontà, ma il mero esercizio di un potere unilaterale, cui seguiva una modificazione giuridica alla quale il soggetto passivo, con la chiamata in giudizio, era semplicemente assoggettato.
In tal modo, tra l’altro, si ricomponeva la simmetria del sistema, poiché anche il genus dei diritti relativi risultava suddiviso in due species (quella dei diritti di credito e quella dei diritti potestativi) alla stessa stregua del genus dei diritti assoluti, tradizionalmente articolato nelle due species dei diritti reali e dei diritti della personalità.
A questa ricostruzione del pensiero chiovendiano, che non ambisce ad assumere i caratteri indiscutibili del dogma, si potrebbe ragionevolmente obiettare che il maestro di Premosello non ha mai parlato, esplicitamente, della tutela giurisdizionale come di un bene giuridico.
L’obiezione sembrerebbe cogliere nel segno, specie se si torni ancora a riflettere sulla circostanza che nella concezione chiovendiana l’azione, come situazione soggettiva, presenta bensì il carattere dell’autonomia, ma non anche quello dell’astrattezza.
Se Chiovenda avesse chiaramente individuato nella tutela giurisdizionale un bene giuridico ulteriore e diverso rispetto a quello costituente il punto di riferimento del diritto soggettivo sostanziale, avrebbe ammesso la sussistenza del diritto di azione a prescindere dalla fondatezza della domanda.
Invece Chiovenda, pur rendendosi conto che la prestazione oggetto del rapporto processuale è soggettivamente distinta da quella che forma oggetto del rapporto sostanziale (in quanto resa non dal soggetto passivo di questo rapporto ma dall’organo dello Stato istituzionalmente preposto a fornire la tutela giuridizionale), non si spinge tuttavia a porne in luce anche la differenza oggettiva, fondata sul riconoscimento di una specifica utilità giuridica alla prestazione oggetto del diritto di azione (consistente nella tutela giurisdizionale di merito, indipendentemente dall’accoglimento o meno della domanda), distinta da quella della prestazione dovuta dal soggetto passivo del rapporto sostanziale, nella quale soltanto sembrava sostanziarsi il soddisfacimento del bisogno umano posto a fondamento dell’interesse tutelato.
Le ragioni per le quali Chiovenda evita di prendere specifica posizione su questo punto sono probabilmente due.
In primo luogo, la teoria dei beni giuridici, appartenendo, ratione materiae, al diritto sostanziale, sembrava esulare dalle competenze del processualista, il quale, una volta riconosciuta l’autonomia del diritto di azione rispetto al diritto soggettivo sostanziale – ed una volta provveduto alla sistematizzazione di tale diritto nell’ambito dei diritti soggettivi – poteva ritenersi soddisfatto, senza avvertire la necessità di dovere ulteriormente indagare sulla questione se il punto di riferimento oggettivo dell’interesse tutelato attraverso questo diritto (la tutela giurisdizionale) fosse suscettibile di essere qualificato come bene giuridico idoneo di per sé a fornire una utilità capace di soddisfare un bisogno umano o se, essendo sprovvista di tale utilità, poteva servire tale bisogno solo se avesse consentito effettivamente (e dunque, fondatamente) l’apprensione del bene finale avuto di mira con l’esercizio del diritto soggettivo sostanziale per cui quella tutela era stata invocata.
In secondo luogo, nell’ambito della scienza del diritto privato sostanziale, la teoria dei beni avrebbe vissuto proprio in quei decenni un vero e proprio sconvolgimento che avrebbe determinato la sostituzione delle certezze poste a fondamento del codice civile del 1865 (imperniato sulla centralità del diritto di proprietà) con le incertezze desumibili dalla disciplina del nuovo codice civile del 1942, fondato sulla centralità dell’impresa.
Nel codice civile del 1865, la nozione di bene giuridico era indissolubilmente legata ai due concetti della materialità e dell’idoneità a formare oggetto di proprietà (art.406 c.c. 1865).
Il carattere della materialità – in forza del quale solo le cose potevano essere considerate beni – non appariva compatibile con l’evoluzione dei rapporti economici e giuridici da una dimensione statica (fondata sul rapporto tra il proprietario e i suoi beni, mobili e, soprattutto, immobili) ad una dimensione dinamica, fondata sull’esercizio dell’attività produttiva e, più in generale, sullo svolgimento di relazioni commerciali sempre più intense.
La legislazione speciale[51], introdotta nel periodo di transizione tra i vecchi codici civile e di commercio e il nuovo codice recante una disciplina unificata nel senso della commercializzazione del diritto privato[52], poneva in luce l’esistenza di beni immateriali, ossia di utilità che, pur non essendo cose, erano tuttavia in grado di soddisfare bisogni umani, e dunque di porsi come punto di riferimento oggettivo di interessi privati che l’ordinamento poteva reputare meritevoli di tutela.
Il legislatore del 1942, avvertendo il limite della nozione contenuta nell’art.406 del codice del 1865, avrebbe eliminato il riferimento al diritto di proprietà, ma non sarebbe riuscito ad allontanarsi dalla tradizionale concezione materialistica che faceva coincidere il concetto di bene giuridico con quello di cosa.
Ne sarebbe derivato il recepimento, all’inizio del Libro III del nuovo codice civile, di una nozione incompleta e contraddittoria di bene giuridico, insufficiente a ricomprendere la più ampia fenomenologia che si riscontrava nel vivo delle relazioni economiche e che sarebbe stata in parte recepita dallo stesso codice nel Libro IV, attraverso la tipizzazione delle più rilevanti fattispecie contrattuali.
Mentre in queste figure negoziali sarebbero state rappresentate relazioni economico-giuridiche in cui il punto di riferimento oggettivo dell’interesse delle parti era costituito da utilità immateriali, quali, ad es. un’attività (art. 1703 c.c.) o un risultato (art.1655 c.c.), la nozione di bene, pur allargata a ricomprendere l’oggetto di tutti i diritti e non solo di quello di proprietà, avrebbe continuato ad essere circoscritta alle sole cose materiali (art.810 c.c.).
Gli inconvenienti di questa contraddizione sarebbero emersi nitidamente all’esito della redazione, nello stesso Libro IV, della disciplina generale del contratto e delle obbligazioni, con implicazioni negative che ancora oggi producono indesiderate conseguenze sul piano della coerenza sistematica e della correttezza applicativa.
La mancanza di una soddisfacente nozione di bene giuridico nel Libro III, avrebbe indotto il legislatore ad omettere, nella parte del Libro IV dedicata ai requisiti costitutivi del contratto (art.1325 ss. c.c.), la definizione di quello, tra i predetti requisiti, che avrebbe dovuto indicare il punto di riferimento oggettivo degli interessi perseguiti dalle parti del rapporto negoziale.
In tal modo, la nozione di oggetto del contratto, accolta dal nuovo codice, sarebbe risultata bensì rigorosamente delimitata con riguardo ai suoi necessari attributi (art.1346 c.c.) ma non anche definita quanto alla sua essenza, con risultati deprecabili, sul piano dell’unità concettuale complessiva del sistema, desumibili dal mancato raccordo – e spesso persino dalla reciproca contraddittorietà – tra le singole norme.
Accade così che lo sconcertato interprete, nel leggere la disciplina della vendita, ancora oggi debba notare come l’oggetto di questo contratto venga identificato con il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro diritto (art.1470 c.c.), il che sembra provare un po’ troppo, poiché il trasferimento è l’effetto della vendita e non può evidentemente costituirne l’oggetto.
Del resto, se non si dubita che l’oggetto della vendita di cose future sia, appunto, la ‹‹cosa futura›› (art.1472 c.c.), non si vede perché l’oggetto della vendita di cose presenti non debba essere la cosa presente.
Peraltro, nella disciplina generale dell’oggetto del contratto, le ‹‹cose future›› vengono piuttosto identificate con l’oggetto della prestazione, la quale viene a sua volta identificata con l’oggetto del contratto (art.1348 c.c.).
Ma, invece, nella disciplina generale dell’obbligazione, la prestazione viene identificata, più generalmente, con l’oggetto dell’obbligazione (art.1174 c.c.), e non del contratto, che dell’obbligazione costituisce una delle possibili fonti (art.1173 c.c.).
In una situazione nella quale l’evoluzione dei rapporti giuridici ed economici metteva in luce l’insufficienza della tradizionale nozione di bene giuridico legata ai concetti della materialità e della proprietà – e, tuttavia, la scienza giuridica del diritto sostanziale non riusciva (ed non sarebbe riuscita neppure in sede di redazione del nuovo codice civile) ad elaborare una nozione nuova e coerente, idonea a ricomprendere tutte le utilità immateriali costituenti possibili punti di riferimento di altrettanti interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico –, si può comprendere la scelta di un processualista come Chiovenda di evitare di attribuire apertis verbis alla tutela giurisdizionale, in sede di elaborazione della teoria del diritto potestativo di azione, la dignità di bene giuridico immateriale a sé stante, e di continuare invece a subordinare l’esistenza di questo diritto all’accertamento di quello avente ad oggetto il bene materiale per il conseguimento o la conservazione del quale la predetta tutela era stata invocata.
La mancata affermazione esplicita del carattere di bene giuridico immateriale della tutela giurisdizionale non vuol dire, tuttavia, che nel pensiero del maestro di Premosello essa non sia effettivamente percepita come tale.
Tale percezione risulta, anzi, evidente se si tenga presente, come ci ha ricordato un altro insigne maestro, Andrea Proto Pisani[53], che nel sistema chiovendiano assume preminente importanza la classificazione delle ‹‹varie specie di tutela giurisdizionale›› in tutela ‹‹di condanna, d’accertamento, di costituzione››, nonché la corrispondenza tra queste e le diverse specie di diritti soggettivi, tra cui spicca la figura del diritto potestativo, il quale può essere oggetto della tutela di accertamento e – soprattutto – di quella costitutiva ma ‹‹non mai›› di quella di condanna, in quanto ‹‹potere›› che ‹‹non richiede condotta altrui››.
Vi è dunque un’utilità dell’azione (ontologicamente diversa nelle diverse modalità funzionali di tutela giurisdizionale), distinta rispetto a quella del bene che costituisce il punto di riferimento dell’interesse sostanziale.
Il riconoscimento della dignità di bene giuridico alla tutela giurisdizionale in quanto tale emerge, inoltre, direi in modo definitivo e incontestabile, dal ritenuto carattere generale della tutela di mero accertamento, di cui lo stesso Proto Pisani ricorda il rilievo sistematico.
Secondo Proto Pisani, proprio il riconoscimento, nel pensiero chiovendiano, di una portata generale alla tutela di accertamento (portata generale negata, invece, anche autorevolmente, dalla dottrina del tempo[54]) costituisce, infatti, il ‹‹punto cardine dell’analisi diretta ad affermare l’autonomia del diritto di azione rispetto al diritto soggettivo sostanziale››, essendo fondato su una condizione di fatto (il c.d. “vanto” o la c.d. “contestazione”) ‹‹tale che senza l’immediato accertamento negativo o positivo l’attore ne risentirebbe danno››[55].
4. Gli attributi ontologici della tutela giurisdizionale come “bene” giuridico. Il processo da remoto come “non processo”
L’evidente, ancorché implicita, qualificazione della tutela giurisdizionale quale bene giuridico immateriale a sé stante, emerge, infine, dall’affermazione dei suoi attributi o connotati ontologici, indispensabili in funzione del raggiungimento dell’obiettivo (l’attuazione della legge in proprio favore) per il quale il diritto potestativo di azione è conferito.
Si è già evidenziato che il primo dei 204 articoli del Progetto di riforma del processo civile, elaborato da Chiovenda nell’ambito dei lavori della I sottocommissione della Commissione reale per il dopo guerra, era intitolato all’oralità e alla concentrazione processuale.
Più precisamente, in questo progetto, il processo civile è costruito intorno ai principi dell’oralità, della concentrazione processuale, dell’immediatezza e dell’identità fisica del magistrato durante tutto il corso della lite di primo grado[56].
In base al principio dell’oralità, il processo deve trovare il suo momento centrale nel dibattimento orale in udienza, ove si devono succedere, l’una dopo l’altra, le fasi di trattazione, di assunzione delle prove e di discussione.
L’assunzione delle prove si deve svolgere sotto il controllo e l’impulso continuo del giudice, cui è attribuito il potere di intervenire, anche in modo penetrante, senza formalità, per stimolare le parti e i testimoni, nonché di assumere ogni autonoma iniziativa per il chiarimento dei fatti e l’acquisizione della verità[57].
Per il principio della concentrazione, l’udienza deve essere tendenzialmente unica, rimanendo tuttavia salva sia la possibilità di rinviare al primo giorno seguente non festivo in ragione dell’ora tarda (art.58) sia la possibilità delle parti di allegare l’impedimento a comparire ovvero ad iniziare o proseguire il dibattimento (art.61).
Il principio dell’identità fisica del giudice presuppone la diretta ed immediata percezione da parte del giudice dell’attività che viene svolta in sua presenza, la mancanza della quale costituisce causa di invalidazione dell’istruttoria e presupposto della sua rinnovazione.
Infine, per il principio dell’immediatezza, la deliberazione della sentenza deve avvenire subito dopo la chiusura della trattazione.
L’attuazione di questi principi, come sarebbe dimostrato dalla disciplina processuale austriaca che ad essi si ispira e che costituisce il modello al quale occorre tendere[58], è essenziale in funzione della rapidità dell’accertamento giudiziale e dell’efficiente e tempestivo raggiungimento della finalità del processo,
Questa attuazione, peraltro, è a sua volta subordinata all’osservanza di un ulteriore principio che costituisce il presupposto dell’operatività di tutti gli altri.
Occorre, precisamente, che al rispetto del principio della immediatezza in senso oggettivo (che esprime l’esigenza che il provvedimento giudiziale segua, senza soluzione di continuità, la trattazione processuale della causa e sia emesso proprio e solo dal giudice che ad essa abbia presenziato) si accompagni il rispetto del principio dell’immediatezza in senso soggettivo (il quale esprime la necessità di assicurare il contatto diretto, in situazione di prossimità, tra il giudice e gli altri soggetti del processo e l’immediata percezione da parte del primo dell’attività posta in essere dai secondi[59]).
In altre parole, le attività consistenti nell’interrogatorio delle parti, negli interventi in funzione di stimolo o di impulso verso le parti o gli ausiliari del giudice, nel tentativo di conciliazione o di soluzione concordata della controversia, nelle iniziative a chiarimento di circostanze oscure in funzione della ricerca delle verità e infine – e soprattutto – quelle concernenti l’assunzione delle prove costituende orali e l’ascolto della discussione e delle conclusioni delle parti, possono essere proficuamente svolte soltanto nel rispetto dell’immediatezza e cioè, non solo nella reciproca vicinanza, ma sulla base di quel contatto diretto e immediato che solo la prossimità materiale in un unico locale circoscritto e reale (l’aula d’udienza) può assicurare.
Gli attributi dell’immediatezza, della oralità e della concentrazione non costituiscono meri elementi strutturali del processo chiovendiano, ma costituiscono attributi ontologici della tutela giurisdizionale, come bene giuridico, quale emerge dal sistema complessivo del maestro di Premosello.
In difetto di tali connotati, per Chiovenda non sarebbe dunque ontologicamente concepibile la tutela giurisdizionale, poiché essa non potrebbe assumere la dignità di bene giuridico costituente punto di riferimento oggettivo del diritto potestativo di azione e risulterebbe inidonea al raggiungimento della finalità della giurisdizione.
Il diritto di azione verrebbe così svuotato di ogni contenuto, poiché non sarebbe possibile, attraverso il suo esercizio, conseguire l’obiettivo per il quale risulta conferito dall’ordinamento, consistente, obiettivamente, nell’attuazione della legge e, subiettivamente, nell’ottenimento di un provvedimento sul merito della domanda.
Se volessimo, oggi, contemperare il concetto chiovendiano di tutela giurisdizionale quale “bene” giuridico, nel senso che si è cercato di precisare, con la prescrizione costituzionale in tema di giusto processo (art.111 Cost.), potremmo dire che, in funzione della giustizia del processo, a Chiovenda non basterebbe che siano assicurate l’autonomia, l’indipendenza e la posizione di terzietà e di equiditanza del giudice; che alle parti sia garantita la piena esplicazione del diritto di difesa e di quello al contraddittorio; che i testimoni siano preservati da intimidazioni o suggestioni. Egli pretenderebbe, altresì, che l’incontro di tutti questi soggetti nella celebrazione di quel momento processuale fondamentale che è l’udienza, avvenisse nel rispetto di quei principi ontologicamente legati all’essenza stessa della giurisdizione, i quali presuppongono il contatto diretto e immediato dei soggetti processuali in posizione di prossimità.
Il processo da remoto, quale processo fondato su una modalità di celebrazione dell’udienza alternativa alla relazione di prossimità tra i vari soggetti del giudizio, non sarebbe, pertanto, nella concezione chiovendiana, un processo imperfetto o sbagliato ma sarebbe un “non processo”, perché precluderebbe in radice la possibilità di svolgere la funzione istituzionale della giurisdizione e di raggiungerne il fine.
[1] V. Andrioli, in Riv. dir. proc., 1986,700.
[2] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, VIII e XI: ‹‹Uscirà quanto prima, in separato volume, la dottrina dei rapporti processuali di esecuzione e di conservazione››.
[3] Il procedimento di esecuzione non è trattato né nei Principii né nelle Istituzioni, ove del resto, secondo A. Proto Pisani, in Foro it., 1973, V, 209, Chiovenda neppure ‹‹ebbe il tempo di sistemare … la materia trattata nell’ultima parte dei Principii››.
[4] Cfr. F. Cipriani, Quel lieto evento di tanti anni fa (una visita a Premosello Chiovenda), in Riv. dir. proc., 1991, 225 ss., nonché in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 265 ss., donde saranno tratte le successive citazioni.
[5] F. Cipriani, ult. cit., 266.
[6] F. Cipriani, ult. cit., 268.
[7] F. Cipriani, ult. cit., 270, 277, 278.
[8] Sul tema v., da ultimo, B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica (un carteggio inedito dell’autunno del 1923), in Riv. dir. proc., 2018, 611 ss.
[9] F. Cipriani, Alla scoperta di Giuseppe Chiovenda, in Chiovenda, Scritti ossolani, Anzola d’Ossola, 1992, 11 ss., nonché in Scritti in onore dei Patres, cit., 287 ss., donde saranno tratte le successive citazioni.
[10] F. Cipriani, ult. cit., 290.
[11] F. Cipriani, ult. cit., 290-291.
[12] F. Cipriani, ult. cit., 291.
[13] Una conferma indiretta del fatto che la quinta “puntata” dei Principii, uscita nel 1923, corrispondeva alla sostanziale e sofferta riscrittura del manoscritto perduto nel 1920, può trarsi dalla circostanza che essa, pur essendo dedicata ai procedimenti speciali, non faceva alcuna menzione di quello monitorio, appena introdotto dalla legge 9 luglio 1922, n. 1035 (frutto del genio di Lodovico Mortara), mentre si soffermava ancora sulla autorizzazione maritale, abrogata dallo stesso Mortara, in qualità di ministro della giustizia, con la legge 19 luglio 1919, n.1176.
[14] Così proprio F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, p. 220, nota 33.
[15]G. Chiovenda (a cura di), La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione per il dopo guerra (Relazione e testo annotato), Napoli, 1920.
La Commissione Reale per il dopo guerra fu istituita, su iniziativa del Sen. Vittorio Scialoja, con legge 21 marzo 1918, n. 361, per proporre i provvedimenti necessari a risolvere i problemi giuridici ed economici del Paese dopo la fine della prima guerra mondiale. Essa si divise in due sottocommissioni, la prima per i problemi giuridici, la seconda per quelli economici. La I sottocommissione, presieduta dallo stesso Scialoja, di cui Chiovenda era devoto discepolo, si divise a sua volta in Sezioni e l’VIII Sezione, incaricata delle riforme del diritto privato, si ripartì ancora in tre Gruppi, il primo per il codice civile, il secondo per il codice di commercio e il terzo per il codice di procedura civile. Chiovenda assunse la presidenza del terzo gruppo, che si avvalse anche del contributo del giovane Enrico Redenti, anche egli legato a Scialoja per essere allievo di Vincenzo Simoncelli, che di Scialoja era stato non solo fedele discepolo (la sua sorprendete chiamata sulla cattedra di procedura civile dell’Università di Roma era stata l’arma con cui Scialoja aveva chiuso le porte del più importante ateneo italiano a Lodovico Mortara) ma anche collega fidatissimo (erano contitolari del celebre studio legale Scialoja-Simoncelli) e genero carissimo (ne aveva sposato la figlia Giulia), e che purtroppo era scomparso, prematuramente e dolorosamente, nel 1917. Con il placet di Scialoja, il terzo gruppo lavorò alacremente tra il settembre 1918 e il giugno 1919 (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 197, il quale riferisce di averne ritrovato i verbali delle riunioni tra le carte di Chiovenda a Premosello), allorché vide la luce il progetto per la riforma del procedimento civile, che lo stesso Chiovenda avrebbe illustrato il 21 dicembre successivo allo scialojano circolo giuridico di Roma, dolendosi che il il Prof. Vittorio Scialoja, all’epoca ministro degli esteri, non fosse potuto intervenire, pur essendo stato, ‹‹come presidente della sottocommissione per gli studi giuridici, l’instancabile organizzatore ed eccitatore del lavoro››.
Sul progetto, che recava ben 204 articoli, nonché sulla celeberrima relazione di accompagnamento, si tornerà, infra, nel par.4.
[16] L’art.1 del progetto chiovendiano del 1919-1920, recante la rubrica ‹‹Oralità e concentrazione processuale››, disponeva che ‹‹le cause si trattano oralmente all’udienza …››.
[17] Il termine “propaganda”, quasi a mo’ di refrain, veniva ripetutamente utilizzato dallo stesso Chiovenda, sia negli scritti che negli interventi orali, per promuovere la riforma del processo civile all’insegna dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione: cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 129, il quale riferisce che verosimilmente la “propaganda” era iniziata l’11 marzo 1906, nell’ambito di una conferenza tenuta al circolo giuridico di Napoli. Sempre secondo F. Cipriani, ult. cit., 255, l’ultimo scritto di Chiovenda sull’oralità si identificherebbe con il saggio comparso sul primo numero della Rivista di diritto processuale civile, nel gennaio del 1924, recante il titolo L’oralità e la prova.
[18] G. Fichera, La Cassazione civile e il Covid-19: ex malo bonum?, in Il Caso.it, 23 marzo 2020, 11; Id., L’adunanza camerale distanziata protocollata, in Il Caso.it, 20 aprile 2020, 4.
[19] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 10; Id., L’adunanza camerale, cit., 5.
[20] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 12; Id., L’adunanza camerale, cit., 5.
[21] F. Terrusi, La Corte di cassazione ai tempi del Coronavirus, ovvero per una nomofilachia processuale solidale, in A. Didone e F. De Santis (a cura di), Il processo civile solidale dopo la pandemia, Milano, 2020, 44 e ss., particolarmente 56.
[22] Cfr. F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 56; G. Fichera, L’adunanza camerale, cit., 6.
[23] L’evocazione del principio della libertà delle forme si ritrova anche in A. Pepe, La giustizia civile ai tempi del coronavirus, in IlCaso.it, 2020, 6.
In generale, sul tema dell’adunanza cameale civile di legittimità nel rapporto tra disciplina ordinaria e disciplina emergenziale, cfr. R. Frasca, Note sull’adunanza camerale civile in Cassazione al lume della disciplina delle forme del processo ed ora in tempi di coronavirus, in GiustiziaInsieme.it, 2020.
[24] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 58-59.
[25] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 59.
[26] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 60-61.
[27] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 61.
[28] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 13 ss.; Id., L’adunanza camerale, cit., 6 ss.
[29] L’art.83 del d.l. n. 18/2020 è stato modificato dall’art.221 d.l. 19 maggio 2020 n.34 (c.d. decreto-rilancio). Quest’ultima norma, a sua volta modificata dalla legge di conversione (l. 17 luglio 2020, n.77), disciplina le modalità di trattazione dei processi civili nel periodo 30 giugno 30 ottobre 2020, consentendo, per un verso, la partecipazione “da remoto” all’udienza delle parti e dei difensori su istanza dell’interessato (art.221, comma 6) e, per altro verso, lo svolgimento con tale modalità dell’udienza stessa, previo consenso preventivo delle parti, allorché non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, e purché l’udienza sia tenuta con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (art. 221, comma 7).
[30] G. Chiovenda, Principii, cit., IX.
[31] Cfr., sia pure in senso critico, S. Satta, Gli orientamenti pubblicistici della scienza del processo, in Riv. dir. proc. civ.,1937, I, 32 ss., nonché S. Satta, Orientamenti e disorientamenti nella scienza del processo, in Foro it., 1937, IV, 276 ss. In senso ricognitivo v. G. Tarello, Chiovenda, Giuseppe, in Dizionario Biografico Treccani, XXV, per il quale la dottrina chiovendiana «rovesciava l’idea liberale (secondo cui il processo civile è l’attività giurisdizionale pubblica al servizio dei privati) in senso autoritario (per cui anche nel processo civile l’interesse privato, con l’azione, adempie ad una funzione pubblica promuovendo, con l’attuazione della legge, un interesse dello Stato)».
[32] P. Calamandrei, Lodovico Mortara, già in Riv. dir. civ., 1937, 466, e poi in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156 ss.
[33] Così B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica, cit., 616.
[34] Così L. Mortara, Lettera, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, Padova, 1927, XIII.
[35] L. Mattirolo, Istituzioni di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1899, 7.
[36] G. Chiovenda, Azione, voce del Dizionario pratico del diritto privato, ora in G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), a cura di A. Proto Pisani, III, Milano, 1993, 3 ss., particolarmente 5.
[37] G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, Bologna, 1903, pp.128.
[38] Cfr. F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 298, secondo cui il ‹‹discorso sull’azione›› tenuto a Bologna è ‹‹il manifesto della nuova scuola››; analogamente E.T. Liebman, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. comm., 1938, I, 94, che identifica la prolusione tenuta dalla cattedra dell’Alma Mater con il ‹‹vero manifesto programmatico del nuovo indirizzo di studi››.
[39] V., in particolare, S. Satta, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, 29, nonché Id., La dottrina del diritto processuale civile (scritto nel 1974 ma pubblicato) in Riv. dir. proc., 1992, 703, il quale, attraverso la metafora del c.d. ‹‹mutamento di sesso››, ipotizza una trasformazione della disciplina da mera pratica (‹‹procedura civile››) a scienza vera e propria (‹‹diritto processuale civile››), individuandone ‹‹l’avvento›› o ‹‹addirittura la data di nascita›› nel giorno 3 febbraio 1903.
[40] Per il rilievo che la tesi dell’autonomia dell’azione viene affermata da Chiovenda ‹‹sulle orme di Adolph Wach››, cfr. F. Cipriani, Il 3 febbraio 1903 tra mito e realtà, in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, p.253.
[41] Cfr. L. Mortara, Manuale della procedura civile, I Torino, 1897, p.14, secondo cui l’azione è ‹‹il diritto di provocare l’esercizio dell’autorità giurisdizionale dello stato contro le violazioni che stimiamo patite da un nostro diritto subiettivo››.
[42] Così F. Cipriani, ult. cit., 253, nota 10.
[43] Cfr., sul tema, il perspicuo ed illuminante saggio di G. Monteleone, Domenico Viti e l’eredità scientifica di Giuseppe Chiovenda, in Giur. it., 1997, IV, 89 ss..
[44] Così F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 92.
[45] G. Chiovenda, L’azione, cit., 10: ‹‹La mera possibilità, capacità, libertà d’agire che spetta a tutti i cittadini, non per sé un diritto … ma piuttosto una condizione del diritto d’agire››.
[46] Cfr., incisivamente, G. Chiovenda, L’azione, cit., 19: ‹‹La domanda infondata è per sé atto lesivo dell’ordinamento››.
[47] C.M. Bianca, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1 e ss.; W. Cesarini Sforza, Diritto soggettivo, in Enc. dir., XII, 1964, 659 e ss.; V. Frosini, Diritto soggettivo, in Nuov. dig. it., V, 1047 e ss.. C. Maiorca, Diritto soggettivo, in Enc. giur. Treccani, XI, 1989.
[48] G. Chiovenda, L’azione, cit., 9, 11 e 14.
[49] Più che nell’esercizio di una facoltà l’esercizio dell’azione si traduce in quello di una potestà, poiché ‹‹ha per contenuto un puro potere giuridico e non un dovere altrui››: così G. Chiovenda, L’azione, cit., 20.
[50] Su tale capacità si soffermerà, non senza un pizzico di civetteria, lo stesso Chiovenda, quando, ormai maturo dominus del diritto processuale civile italiano, detterà, nel 1923, la celebre prefazione ai suoi Principii: cfr. G. Chiovenda, Principii, cit., XIII.
[51] Si allude, in particolare, al R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 e alla L. 22 aprile 1941, n. 633, i quali rappresentano forse i primi esempi positivi volti a sganciare il concetto di bene da quello di cosa, mediante il riconoscimento della dignità di beni (evidentemente, immateriali), rispettivamente, alle invenzioni industriali (protette con il diritto di brevetto) e alle opere dell’ingegno (protette con il diritto di autore).
[52]L’espressione viene largamente utilizzata dalla dottrina civilistica, in particolare da quella commercialistica, per evidenziare la tendenza del legislatore del 1942 ad attribuire prevalenza, nel nuovo codice unificato, alla disciplina contenuta nel previgente codice di commercio del 1882, anziché a quella contenuta nel previgente codice civile del 1865. Sul tema v., per tutti, G. Levi, La commercializzazione del diritto privato: il senso dell’unificazione, Milano, 1996.
[53] A. Proto Pisani, Ricordando Giuseppe Chiovenda: le note alla ‹‹Azione nel sistema dei diritti›› del 1903, in Foro it., 2003, V, 61 e ss.
[54] Lo stesso Chiovenda, nel dettare la Prefazione alla terza edizione del Trattato delle prove di Lessona, pubblicata a cura del figlio Silvio, dopo la morte prematura dell’autore, ricorderà che tra gli ‹‹argomenti›› con cui era ‹‹fecondo discorrere›› con il prefato, vi era quello dell’azione di accertamento ‹‹come figura generale del nostro diritto››, che Lessona non ammetteva, ritenendo che contro il “vanto” altrui la legge italiana non consentisse altra azione che quella risarcitoria: cfr. G. Chiovenda, Prefazione, in C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, terza ed., III e V, a cura di S. Lessona, Firenze, 1922-1924, 3 ss..
[55] A. Proto Pisani, ult. cit.
[56] G. Chiovenda, Relazione sulla proposta di riforma, in La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione per il dopo guerra, cit., 19.
[57] Cfr. M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal 700 ad oggi, Bologna, 1982, 197.
[58] Cfr. G. Chiovenda, Relazione, cit., 19, ove si sostiene, anche attraverso l’allegazione di dati statistici, che in Austria il 45% delle cause viene deciso in un mese, il 35% in tre mesi, il 15% in sei mesi, il 4% in un anno e solo l’1% in più di un anno. Va qui rilevato che per Chiovenda (e in generale per la nuova scuola “sistematica”, che attribuiva importanza fondamentale all’indagine storica e all’insegnamento della dottrina tedesca), l’ordinamento processuale austriaco rappresentava un esempio da seguire. Chiovenda, in particolare, aveva manifestato il suo ammirato interesse per la riforma predisposta in Austria da Franz Klein (entrata in vigore il 1° gennaio 1898) sin dalla prolusione al corso di libera docenza tenuto a Roma, nel 1901 (cfr. G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto (1901), in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma, 1931, p. 353 ss.).
[59] Già nel 1911, Chiovenda aveva parlato di ‹‹rapporto immediato tra giudici e le persone le cui dichiarazioni sono chiamati ad apprezzare››: cfr. G. Chiovenda, La riforma del procedimento civile, in Saggi, cit., 1993, 296.
“ELI Principles for the Covid 19 Crisis”: argini e contrappesi contro l’abuso dello stato di eccezione entro lo spazio giuridico europeo
di Enrico Camilleri
Sommario: 1. Premessa - 2. Gli ELI Principles for the Covid 19 Crisis: le ragioni di un decalogo per lo spazio giuridico europeo - 3. La struttura dei Principles - 4. I Principi di più marcato rilievo privatistico - 5. Stato di eccezione/emergenza e ordine giuridico europeo.
1. Premessa
Il carattere estremo che è proprio di uno scenario pandemico assegna di necessità alla scienza medica un ruolo di primo piano, nel discorso pubblico come nel supporto tecnico al decisore politico. Altrettanto necessario appare tuttavia anche il concorso di altre competenze ed energie intellettuali, a partire da quelle del giurista, cui tocca in special modo l’elaborazione di proposte su temi certo collaterali alla emergenza sanitaria in sé ma non per questo di secondaria importanza: si pensi a disuguaglianze, ricadute delle misure straordinarie su diritti e libertà individuali, preservazione dello stato di diritto, tanto per stare a un inventario minimo.
Prendendo le mosse dalle “disuguaglianze” socio-economiche, ad esempio, è proprio la storia ad indicarne il nesso con epidemie/pandemie, se è vero che alla maggiore letalità di queste ultime ha fatto spesso seguito un effetto di tendenziale livellamento delle prime, conseguito per via di uno shock comparabile per intensità a quello di cui si incaricano normalmente altri “cavalieri dell’Apocalisse” quali guerre, rivoluzioni o carestie[1].
Più frequente è però il palesarsi di un nesso pandemia – disuguaglianza che veda l’una fungere da fattore moltiplicatore dell’altra, anziché da suo freno. Confinato l’esito “redistributivo” ai soli casi limite più catastrofici, almeno di norma un evento pandemico finisce in altri termini con l’acuire - nel breve/medio termine - il divario nella distribuzione delle risorse e della ricchezza in genere, producendo ripercussioni economiche che impattano in misura più severa sulle fasce della popolazione in condizioni di maggiore vulnerabilità.
Non meno significative sono, d’altra parte, le ricadute che una emergenza sanitaria come quella in corso presenta a carico vuoi di prerogative individuali, vuoi dello stato di salute delle istituzioni democratiche.
Qui, invero, il conforto delle serie storiche e dell’analogia con situazioni e soluzioni già sperimentate in passato si fa più relativo, se non altro in quanto la frontiera di salvaguardia giuridica della Persona e dei suoi attributi, oltre che di evoluzione e consolidamento della rule of law non appare, almeno in thesi, già prima raggiunta a livello globale.
Può in ogni caso affermarsi come, quanto più seria sia avvertita la minaccia per la salute pubblica, tanto più pervasive e drastiche tendono ad essere le misure che i governi sono indotti ad adottare [2]. Per poco che ciò abbia luogo ecco allora imporsi la necessità di fissare o comunque rinsaldare gli argini e i contrappesi propri della democrazia liberale, pena lo scivolamento verso le pericolose distorsioni che sempre si celano dietro l’usbergo dello “stato di eccezione”; oggi invocato a tutela della salute pubblica, seppure terminologicamente dissimulato come “stato di emergenza”[3], ieri esplicitamente proclamato in guisa di état de siège (fictif ou politique), secondo il decreto napoleonico del 24 dicembre 1811, di Kriegszustand, secondo la costituzione bismarkiana (art. 68) o più genericamente di “minaccia alla sicurezza pubblica e all’ordine”, secondo la ormai nota formulazione dell’art 48 della Costituzione di Weimar[4].
2. Gli ELI Principles for the Covid 19 Crisis: le ragioni di un decalogo per lo spazio giuridico europeo
A questi temi, pur variamente declinati, è dedicato il documento “ELI Principles for the Covid 19 Crisis”, pubblicato nel mese di maggio di quest’anno dall’European Law Institute, prestigiosa organizzazione indipendente con sede a Vienna, creata per promuovere la ricerca, formulare raccomandazioni e fornire orientamenti pratici nel campo dello spazio giuridico europeo[5].
Si tratta di una “lista” di 15 Principi, concepiti a mo’ di ideale sestante di valori democratici ad uso di Stati e altre Istituzioni politiche, preceduti da un eloquente Preambolo che esplicita le premesse “teoriche” dell’iniziativa. Su tutte, la preoccupazione che le misure eccezionali adottate a livello nazionale per far fronte al dilagare del Covid-19, foriere come sono di inevitabili molteplici restrizioni a carico di diritti fondamentali e non solo, possano esorbitare dalla cornice dei principi democratici e di legalità: “It is in the greatest interest of society” – si legge infatti nel Preambolo -“that these measures against Covid-19 are imposed and enforced within the framework of established democratic principles and the rule of law”.
Da qui appunto l’auspicio che Parlamenti e Corti non patiscano altre limitazioni alla propria azione che quelle strettamente necessarie al contenimento della diffusione del virus e, in ogni caso, limitazioni “subject to democratic control”. Sul fronte economico e sociale, invece, si muove dalla presa d’atto che disposizioni quali quelle di distanziamento sociale, interdittive di determinate attività o comunque d’ostacolo alla ordinaria mobilità delle persone, fatalmente impattino sulle relazioni d’affari, oltre che sui livelli occupazionali, così da richiedere contrappesi orientati ad una gestione di sopravvenienze sperequative (hardship) che sia il più possibile conforme ai principi di solidarietà e correttezza.
Ad una illustrazione di massima dell’impianto dei Principles dedicheremo le brevi note che seguono.
Mette però conto svolgere preliminarmente almeno due considerazioni di carattere generale, la prima delle quali attiene al “taglio” del documento, costituito appunto da un elenco di Principi, per così dire, di “sistema”. Taglio scontato ove si pensi ai propositi che ispirano l’iniziativa dell’ELI, cui si addice giusto un decalogo di indicazioni generali, quantunque precisamente connotate.
Resta nondimeno che un “decalogo” il quale, ad onta del preciso suo baricentro tematico (l’emergenza da COVID-19), quasi ricalchi la parte “nobile” di un testo costituzionale avanzato, con sporgenze sia sul fronte dei rapporti sociali che delle relazioni economiche, come minimo spicca per contrasto rispetto al profluvio di norme, spesso secondarie e prive di forza di legge, che in molti Paesi – a partire dal nostro, con l’abusato e improprio strumento del DPCM - hanno sin qui scandito la metrica delle varie fasi dell’emergenza; norme sovente connotate da un livello eccessivo di dettaglio precettivo e non di rado apparse quasi avulse, quando non schiettamente in contrasto, rispetto al quadro dei principi che siamo soliti indicare come fondativi dell’ordinamento[6].
La seconda considerazione concerne invece la stessa utilità/necessità di un testo come quello in esame, in rapporto alle finalità per cui è stato redatto. Guardando ad esso da un’angolazione interna all’Unione europea si potrebbe, almeno sulle prime, essere tentati di liquidarlo come ridondante rispetto al diritto vigente e dunque piuttosto rivolto a realtà nazionali altre da quelle già riconducibili al perimetro dell’Unione; ciò, a cagione della (supposta) saldezza e condivisione dei principi che sono alla base dei Trattati europei, oltre che delle stesse Costituzioni nazionali dei Paesi membri.
Una valutazione del genere non tarderebbe, tuttavia, a rivelarsi superficiale e verrebbe presto smentita dal concorso di più elementi.
Va innanzitutto ricordato come, specie in relazione a molti Paesi dell’Europa orientale (Polonia e Ungheria in testa), si parli ormai da tempo di autentica regressione democratica, di deriva illiberale e deviazione dallo Stato di diritto[7]; senza dire delle analisi più radicali che descrivono addirittura un processo involutivo a carico dell’intera architettura europea[8].
Centrale è, inoltre, la circostanza che, almeno a far data dal Trattato di Lisbona del 2007, rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità della magistratura, controllo giurisdizionale effettivo e uguaglianza davanti alla legge sono assurti al rango di valori fondativi dell’ordinamento giuridico dell’Unione, comuni agli Stati membri[9]. Già in larga misura richiamati nel secondo e nel quarto Considerando del Preambolo al Trattato UE, essi sono poi espressamente enunciati all’articolo 2 e indirettamente evocati agli artt. 7, comma 1 e 49, comma 1 del dello stesso TUE, come la Corte di Giustizia ha in più occasioni affermato[10].
Ebbene, nonostante questo accresciuto rango e l’implicito riconoscimento di una loro maggior carica assiologica rispetto ad altri hallmarks del processo di integrazione - su tutti il funzionamento concorrenziale dei mercati - quei valori non possono dirsi di indiscussa osservanza su base continentale. Lo conferma ancora una volta la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, costretta a rimarcarne la efficacia diretta, nonché ad annettere alla loro salvaguardia la medesima importanza riservata usualmente all’applicazione uniforme del diritto euro-unitario e al c.d. effetto utile[11].
Lo conferma in secondo luogo la elaborazione della systemic deficiencies doctrine, dispositivo teorico per distinguere sporadiche violazioni di (o minacce a) diritti fondamentali da parte di norme municipali, rispetto a forme più pervasive e gravi di “breach of law”, le quali tradiscano il fallimento o comunque l’insufficienza dei contrappesi interni al singolo sistema nazionale e minaccino dunque di mettere capo a conflitti inter-sistemici[12]. E lo conferma, infine, la proposta della Commissione europea di un “Regolamento sulla tutela del bilancio dell'Unione in caso di carenze generalizzate riguardanti lo Stato di diritto negli Stati membri [13], il cui Considerando n. 3 emblematicamente recita che “Lo Stato di diritto è una condizione sine qua non per la tutela degli altri valori fondamentali su cui si fonda l'Unione, quali la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e il rispetto dei diritti umani”.
Ultimo - non certo però per importanza - è poi il dato costituito dalla cronaca dei mesi scorsi, che ha visto riesplodere ad esempio un “caso Ungheria” proprio in relazione al proclamato stato di emergenza (potenzialmente a tempo indeterminato) per far fronte alla emergenza sanitaria, alla conseguente assunzione di pieni poteri da parte del Primo ministro Orbán e alla sospensione dell’attività parlamentare; o che ha fatto registrare non poche critiche e censure nei riguardi di svariati passaggi politico-istituzionali della gestione della crisi da parte di più di un governo nazionale, a partire dal nostro.
Tutto ciò considerato, dunque, neppure il perimetro dell’Unione europea può a ben vedere intendersi immune rispetto ai rischi di “regressioni democratiche”, per citare ancora la icastica espressione impiegata da Rupnik per descrivere lo stato in cui versano molti Paesi membri del quadrante Est; non a caso, del resto, è stato lo stesso Commissario europeo alla Giustizia a dichiarare essere intendimento della Commissione quello della difesa dello stato di diritto “durante e dopo la crisi” sanitaria, aggiungendo che il tema “è diventato negli anni una vera preoccupazione del Consiglio europeo, alla stregua delle questioni economiche o di bilancio pubblico”[14].
3. La struttura dei Principles
Una disamina dei Principles dell’ELI può essere condotta seguendo due schemi possibili; l’uno, costituito da una lettura d’insieme e dalla estrapolazione qua e là di spunti critici o ipotesi di lavoro, magari de lege ferenda; l’altro invece tutto centrato sulla specola dell’esperienza nazionale, posto che ciascuna delle indicazioni che compongono il decalogo suggerisce valutazioni in controluce delle diverse opzioni di policy e/o disposizioni municipali.
L’economia di questa note non consente per vero che di coltivare il primo approccio, sicché ci si limiterà solo a qualche incursione nel diritto italiano, in corrispondenza di quei passaggi del “decalogo” che appaiono più ricchi di suggestioni, vuoi in ordine a provvedimenti già varati, vuoi a provvedimenti che si rende opportuno varare, specie in relazione a classi di fattispecie che appaiono bisognose di soluzioni più funzionali di quelle già disponibili de iure condito.
Fatta questa breve premessa metodologica, può dirsi subito che i “Principles for the Covid 19 crisis” presentano una struttura scomponibile per blocchi tematici, il primo dei quali (costituito dai Principles 1 e 2) si presenta come di più ampia prospettiva e maggiore tensione ideale.
Il decalogo si apre infatti (Principle 1) con un richiamo a valori, principi e libertà fondamentali, enunciati a più livelli della gerarchia delle fonti del diritto dell’UE e non (TUE, TFUE, Carta europea dei Diritti, ECHR) e la cui preservazione è posta quale necessità non derogabile, fatte salve le circostanziate compressioni dettate dalle esigenze di contenimento della pandemia, in ogni caso ammissibili solo se ed in quanto adeguate, proporzionate, delimitate temporalmente e sottoposte comunque al vaglio di Parlamento e magistratura. Nessuna limitazione, quand’anche conforme alle condizioni di massima appena indicate, è invece ritenuta legittimamente configurabile in tema di libertà di espressione, libertà di stampa e accesso degli individui alla tutela giurisdizionale.
Segue, quindi, il Principio n. 2, dedicato alla non discriminazione.
Vi si afferma opportunamente come la crisi da Covid-19 non possa costituire occasione o giustificazione per discriminare gli individui in base alla loro nazionalità o ad altri “criteri”, né tantomeno per avallare applicazioni discriminatorie di specifiche misure emergenziali. Rilievo a sé è dedicato, poi, al “divieto” di discriminazioni nella erogazione di prestazioni sanitarie, come nella fornitura di beni e servizi che, normalmente di largo accesso, rischino di divenire risorse scarse in tempo di crisi.
Basti pensare a quei beni maggiormente connessi con la sfera della salute individuale, i quali hanno fatto registrare, specie nelle fasi iniziali dello scoppio della emergenza, severi squilibri tra domanda e offerta a livello mondiale: dalle banali ma indispensabili mascherine, fino a beni di maggior valore e contenuto tecnologico, quali i ventilatori polmonari. Le une e gli altri sono stati infatti non solo oggetto di fallimenti di mercato, a partire da pratiche commerciali abusive lungo la filiera distributiva, ma soprattutto di tentazioni “nazionalistiche” da parte di singoli governi, propensi a favorire il prioritario soddisfacimento della propria domanda interna, in spregio palese delle regole stesse del mercato unico europeo oltre che dei valori solidaristici e, appunto, del divieto di discriminazioni di ogni sorta, a partire da quelle legate alla nazionalità.
Un secondo nucleo tematico omogeneo è riconducibile ai capisaldi della democrazia liberale e dello stato di diritto; esso è costituito dai Principi 3, 4 e 5, rispettivamente dedicati a “Democracy”, “Lawmaking” e “Justice System”.
Con particolare enfasi è intanto sottolineato come l’emergenza in atto, in nessun caso e per nessuna ragione, possa legittimare misure che, anche al di là delle intenzioni perseguite, rischino di esitare uno scenario di tipo repressivo o autoritario, con indebolimento delle Istituzioni democratiche e preclusione del diritto dei cittadini ad un governo democratico. Ai Parlamenti deve essere preservata pienezza di attribuzioni e prerogative, oltre che demandato il controllo sulle iniziative di maggior rilievo assunte dai governi; inoltre, le elezioni durante la fase dell’emergenza è raccomandato si tengano solo a condizione del pieno rispetto delle procedure che ne presidiano il carattere libero e democratico. Il ruolo del Parlamento è, ancora, richiamato in ordine alla produzione normativa, laddove è infatti sottolineata (Principle n. 4) la necessità che i governi non abusino degli strumenti tipici della normazione d’urgenza, specie al fine di assicurarsi specifici privilegi o anche solo l’ampliamento dei propri poteri e soprattutto che rimettano quanto prima possibile al fisiologico vaglio (e dibattito) parlamentare quei provvedimenti che sia stato necessario adottare in condizioni emergenziali ma che si reputi poi utile mantenere anche oltre il venir meno delle originarie ragioni di urgenza che ne hanno dettato l’emanazione.
E’ inoltre ribadita la necessità che tutte le fonti del diritto, quantunque varate in fase emergenziale, soddisfino comunque un criterio di conformità alla Costituzione, al diritto della UE nonché alle altre fonti di rango superiore, specie in merito alla tutela dei diritti fondamentali.
Quanto all’amministrazione della giustizia (Principle 5), si sottolinea come l’emergenza non ne possa legittimare sospensioni di sorta; la funzione giurisdizionale dovrebbe, in altri termini, venire comunque assicurata, con ogni mezzo tecnico a disposizione (inclusi gli strumenti di collegamento da remoto) e il più possibile con regolarità, essendo peraltro avvertito come precipuo compito degli Stati quello di assicurare la sospensione o la estensione dei termini di prescrizione dei diritti, di modo che chi intenda conseguirne la tutela giurisdizionale non patisca gli effetti negativi di una ridotta attività delle Corti o di una limitata possibilità di adirle.
Proseguendo con l’analisi sommaria del documento possono, ancora, isolarsi i Principles 6, 7 e 8, dedicati a specifici diritti e libertà individuali; segnatamente, alla tutela della privacy, nel segno della minima invasività e proporzionalità degli accessi a dati personali dei singoli che si impongano sull’altare della salute pubblica, nonché alla eccezionalità delle misure che determinino chiusure dei confini e che limitino i movimenti di beni e servizi all’interno della UE.
Seguono quindi le previsioni che potrebbero dirsi rivolte alle ricadute della pandemia sul tessuto sociale (Principles 9 e 11) ed economico (Principles 9, 10,12,13 e14), in relazione alle quali emerge una forte intonazione solidaristica ed una coerenza di fondo con il paradigma dell’economia sociale di mercato.
Esclusivamente di ambito sociale è, così, la proiezione del Principle 11, dedicato all’Istruzione: vi viene espresso l’auspicio che le attività educative proseguano con la massima continuità possibile, anche sfruttando gli strumenti per l’insegnamento e le verifiche di apprendimento a distanza, avendo cura in particolare di prevenire il manifestarsi su questo cruciale terreno di ricadute discriminatorie del c.d. digital divide.
Idealmente a metà tra la dimensione dei rapporti sociali e di quelli economici si colloca diversamente il Principio n. 9, intitolato “Employment and the economy”. Per suo tramite, a valle di misure emergenziali (a partire da quella più radicale di lockdown) che abbiano danneggiato imprese e lavoratori, è promossa l’attuazione di interventi pubblici di sostegno, purché compatibili con la disciplina europea sugli Aiuti di Stato e particolarmente orientati a ridurre la perdita di posti di lavoro[15]. Coerentemente è poi suggerito (comma 4) di adottare legislazioni nazionali che, a fronte dei sostegni economici concessi, inducano le stesse imprese beneficiarie a non corrispondere dividendi agli azionisti o bonus e altri benefit finanziari per il management.
Di esclusiva pertinenza al campo delle relazioni di mercato sono viceversa i Principi 10, 12, 13 e 14, i quali presentano anzi una caratura schiettamente privatistica e sui cui ci si soffermerà nel paragrafo seguente.
A chiusura del decalogo è invece posto il Principio n. 15, contenente l’importante indicazione sul ritorno alla normalità. Un monito, a ben vedere, rivolto ai governi nazionali, invitati a rendere note quanto prima possibile le tappe successive che scandiranno la revoca delle misure emergenziali e il pieno ripristino della rule of law, con l’auspicio comunque di un attento monitoraggio da parte delle istituzioni dell’Unione europea.
4. I Principi di più marcato rilievo privatistico
Come anticipato, i Principi nn. 10,12,13 e 14 attengono alle relazioni intersoggettive di marca patrimoniale.
Il Principio n. 10, intitolato Continuity of Relationships at a distance, è volto a preservare condizioni minime di possibilità e continuità delle relazioni contrattuali, attraverso l’impiego di strumenti tecnici di comunicazione a distanza.
Nel dettaglio, il primo comma è incentrato sulla conclusione dei contratti, nonché sulla possibilità di compiere gli atti ad essa prodromici, a tale scopo raccomandando il varo di strumenti legislativi adeguati, anche in ordine all’esercizio da remoto delle funzioni notarili; il comma secondo, da leggere peraltro in stretto raccordo con il successivo Principle 13, è riservato invece alla preservazione della possibilità di adempimento delle obbligazioni contrattuali.
Nel presupposto che le misure c.d. di distanziamento sociale possano di fatto impedire l’esecuzione dei contratti in essere, viene caldeggiata una disciplina nazionale che non solo favorisca, ove possibile, adempimenti “a distanza”, ma che soprattutto impronti a proporzionalità le limitazioni alle ordinarie interazioni soggettive.
Seguono quindi i Principi 12 (Moratorium on regular payments) e 13 (Force majeure and hardship), senza dubbio tra i più densi di significato e spunti, almeno sul piano civilistico; essi toccano infatti tanto il debito privato (anche di natura fiscale) e la sua gestione, quanto il governo delle relazioni contrattuali interessate da uno stravolgimento dell’economia dell’affare.
La prima “disposizione” propugna la mitigazione degli effetti più dirompenti della crisi a carico del tessuto economico, mediante moratoria dei pagamenti scaduti o in scadenza, specie per debiti fiscali, affitti e mutui; una vera e propria sospensione dei termini di esigibilità dei relativi crediti, da associare all’invarianza degli importi dovuti, non suscettibili infatti di ulteriori incrementi per interessi in pendenza della moratoria stessa, nonché alla correlativa sospensione del decorso prescrizionale.
Sono inoltre suggeriti provvedimenti municipali di interruzione delle procedure esecutive e/o di insolvenza, in presenza di sofferenze di cassa o crisi di liquidità, strettamente correlate alla emergenza pandemica. Infine, con un esplicito richiamo al principio di solidarietà sociale, è ipotizzato il varo di misure orientate alla esdebitazione parziale o totale.
Si tratta certo di linee di azione dal forte connotato emergenziale, come tali invero già rintracciabili nella legislazione di molti Stati dell’Unione[16]. Non tutte le normative interne possono però dirsi appieno coerenti con il “compasso allargato” che ispira la proposta dell’European Law Institute.
Stando al caso italiano, ad esempio, il riferimento più immediato va al D.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”), poi convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 7, i cui articoli 54 e 56 hanno disposto, rispettivamente, un più esteso accesso al c.d. Fondo Gasparrini[17] per i debitori coinvolti in rapporti di mutuo per l’acquisto di prima casa, nonché la sospensione (fino al 30 settembre) delle rate a scadere relative a i rapporti di credito ad esecuzione periodica che vedano micro imprese o piccole imprese in posizione debitoria verso banche o altri intermediari finanziari ovvero, ancora, la proroga (parimenti al 30 settembre 2020) degli altri rapporti di credito[18] di cui sempre piccole e micro imprese siano parte.
Senonché, basterà rilevare come, in relazione a quanto disposto dall’art 56, spicchi la preservata feneratizietà dei rapporti, anche durante il periodo di moratoria[19]; mentre l’articolo 54 - che pure mette capo ad una deroga estensiva dei requisiti di accesso allo strumento già istituito e normato dai commi 475-480 della l. 244/2007 – con il prevedere che il Fondo di solidarietà, su richiesta del mutuatario, provveda al pagamento degli interessi compensativi “nella misura pari al 50% degli interessi maturati sul debito residuo durante il periodo di sospensione”, lascia residuare quanto meno l’incertezza circa l’esaurirsi o meno delle spettanze della banca.
Si aggiunga poi come nessuna previsione è stata dedicata, nel provvedimento richiamato come in altri successivi, ai rapporti locatizi, quanto meno nel senso di una esplicita moratoria – s’intende, a certe precise condizioni - sul debito pecuniario dei conduttori, tanto nei rapporti di tipo abitativo che di tipo commerciale.
Sempre rimanendo alla prospettiva domestica, mette infine conto rilevare come il riferimento alle misure esdebitative rimandi certo ad istituti e rimedi già presenti nell’ arsenale legislativo - dal sovraindebitamento del consumatore alle disposizioni contenute nel nuovo Codice della crisi di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), di ormai imminente entrata in vigore – nonché agli ulteriori che scaturiranno dal recepimento della Direttiva UE n. 1023/2019[20].
Difficile però non scorgere nella indicazione conclusiva del Principle 12 anche la stura all’avvio di un più ambizioso ripensamento della gestione del debito privato e dei rapporti obbligatori in genere, proiettato al di là delle stesse contingenze pandemiche e sviluppato lungo tracce ormai sempre più pronunciate nel sistema, quali il temperamento del principio di “indistruttibilità” dell’obbligazione pecuniaria e di sua insensibilità alla sopravvenuta impotenza finanziaria del debitore, nonché il diverso atteggiarsi della garanzia patrimoniale[21]. Nella medesima direzione, del resto, sebbene in traiettoria macroeconomica, militano recenti, autorevoli interventi, a partire da quello di Mario Draghi nell’ormai celebre intervista al Financial Times[22], in cui l’ex Presidente della BCE ha preconizzato l’innalzamento permanente dei livelli di debito pubblico, accompagnato però proprio da una massiccia cancellazione dei debiti privati.
Passando, poi, alla lettura del Principle 13, esso fornisce indicazioni – per quanto generali – concernenti il diritto dei contratti, precisamente nel segno della previsione o della più puntuale valorizzazione di tecniche rimediali orientate alla gestione di situazioni di impossibilità sopravvenuta delle prestazioni, di forza maggiore o di eccessiva onerosità sopravvenuta.
In presenza di adempimenti contrattuali che l’emergenza Covid-19 precluda temporaneamente o definitivamente, anche solo per factum principis, le disposizioni nazionali in tema, appunto, di impossibilità sopravvenuta o forza maggiore devono risultare effettive e assicurare soluzioni ragionevoli sul piano della ottimale distribuzione del rischio e del rispetto del principio di buona fede.
A fronte di prestazioni divenute eccessivamente onerose viene, poi, propugnata la valorizzazione o in ogni caso la introduzione di tecniche di rinegoziazione del contratto, nel segno del principio di buona fede, mentre è l’ossequio al principio di solidarietà sociale ad essere invocato ai fini di una distribuzione (tra le parti) dei rischi legati allo scioglimento di contratti, ivi comprese ad es. le cancellazioni di prenotazioni di viaggio.
Anche tali previsioni suggeriscono, per vero, una pur sommaria incursione nel diritto italiano, ove i dispositivi rimediali, codicistici e non, compongono un quadro di tutele sì di buon livello ma a ben vedere non ancora ottimale, per lo meno rispetto alle sfide poste dall’emergenza pandemica.
Se si pensa alle tecniche di reazione /gestione delle sopravvenienze, rinvenibili tanto nella disciplina delle obbligazioni in generale (art 1256 cod. civ.), quanto soprattutto in quella generale del contratto (artt. 1463, 1464 e 1467 cod. civ.), non tarda infatti ad emergere la netta propensione del sistema verso esiti piuttosto liquidatori (risoluzione) che manutentivi (rinegoziazione) del rapporto, questi ultimi essendo di norma asimmetricamente affidati alla scelta del solo contraente contro cui sia domandata la risoluzione (con l’offerta di riconduzione ad equità ex art. 1467, comma 3, cod. civ.), mentre conformati in senso “bilaterale” solo entro gli angusti margini del regime di singoli tipi contrattuali (si pensi all’articolo 1664 cod. civ., dettato in tema di appalto).
Con particolare riguardo alle sopravvenienze sperequative del contratto può quindi senz’altro denunciarsi la carenza, nel sistema, di una chiara e generale previsione che orienti (rectius, vincoli) i contraenti verso una rinegoziazione del rapporto secondo buona fede[23]; non solo, peraltro, in relazione alle classiche sperequazioni “eccessive”, bensì anche a quelle semplicemente “significative”, tra cui rientrano di certo quelle legate a eventi imprevedibili ed eccezionali che abbiano sensibilmente mutato l’economia dell’affare a detrimento di una soltanto delle parti, tenuta a prestazioni per l’appunto divenute ben più onerose del previsto. Al vuoto legislativo potrebbe però sopperire un auspicabilmente breve iter legislativo di riforma del codice civile, avviato mesi addietro con il DDL di delega al Governo (DDL Senato 1151) e recante fra l’altro la proposta di inserimento di un nuovo art 1468 bis, concernente giusto il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretenderne la rinegoziazione secondo buona fede[24].
In disparte dalla prospettiva della rinegoziazione degli squilibri sopravvenuti (anche solo significativi), l’emergenza ha peraltro messo in esponente la questione delle interferenze esterne che, specie le misure per il contrato alla diffusione del Covid-19, possono generare a carico dell’attività esecutiva, preservata sì in astratto possibile ma al prezzo di uno sforzo irragionevole del debitore.
Il legislatore italiano ha qui provato ad abbozzare una risposta in sede di “legislazione d’emergenza”; tale è in particolare comma 6 bis dell’art. 3 del d.l. 23 febbraio, n. 6, inserito ad opera dell’art. 91, comma 1°, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, poi convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto e' sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilita' del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La disposizione, nondimeno, pur chiaramente orientata alla esenzione di ogni responsabilità del debitore che si renda inadempiente in ragione dei sacrifici/costi irragionevoli che avrebbe viceversa dovuto affrontare per eseguire correttamente e tempestivamente la prestazione, si segnala per il carattere equivoco quando non lacunoso del suo testo. Basti dire, nel primo senso, del fuorviante richiamo all’articolo 1223 c.c., che ratione materiae parrebbe militare piuttosto nel senso di una limitazione che non di una esenzione della responsabilità; nella seconda prospettiva, invece, può sottolinearsi la omessa menzione di possibili condotte “reattive” da parte del creditore insoddisfatto in contratti sinallagmatici, a partire dalla possibilità o meno che questi si avvalga della exceptio inadimpleti contractus [25].
Resta, a questo punto da dire brevemente del Principio n. 14 (Exemption of liability for simple negligence), il quale prefigura la opportunità di una sorta di scudo civilistico – per lo meno fino alle soglie della colpa grave - per gli operatori sanitari che prestino servizio la propria attività a beneficio di pazienti Covid, rispetto ai rischi che eventi avversi lascino emergere profili di loro responsabilità civile. Una opzione, questa, già oggetto di dibattito anche nel nostro Paese ed in specie non troppo distante da alcune tra le proposte più meditate che sono state formulate nei mesi scorsi, tra cui quella di riassorbire entro la nozione di “speciale difficoltà” ex art 2236 c.c. anche la assenza di specifiche linee guida validate da precedenti esperienze cliniche e di ponderare un recupero dell’art 3 della legge 189/2012[26].
5. Stato di eccezione/emergenza e ordine giuridico europeo
Abbozzata così una sintetica disamina del decalogo ELI, non resta che svolgere qualche breve considerazione conclusiva.
Lungo l’ideale percorso che dal richiamo ai valori fondamentali si snoda, come descritto, fino alle ipotesi di scudo civilistico per gli operatori sanitari, si coglie intanto una rappresentazione quasi plastica del carattere proteiforme della crisi generata da questa pandemia, la quale nel breve volgere di pochi mesi ha trasceso la dimensione primigenia di “semplice” minaccia globale alla salute pubblica.
La prospettiva della diffusione del contagio ha costituito e costituisce infatti l’innesco di un perverso effetto domino che in virtù delle contromisure che sollecita/impone ai governi di adottare, ridonda in multiple linee di faglia, che bisecano la sfera individuale come quella sociale, il piano economico come quello politico. Quanto dire di una moltiplicazione dei fronti di crisi e di una estensione del delle minacce da contenere, non più solo circoscritti alla vita dei singoli ma alle stesse loro condizioni di vita, materiali e non.
Le plurime emergenze in atto non sono però ugualmente percepite, né contrastate; ad “emergenze dichiarate”, che polarizzano l’interesse dell’opinione pubblica, se ne affiancano altrettante meno avvertite e financo latenti.
Appartengono senz’altro al primo gruppo quelle che interessano il tessuto sociale ed economico, sotto forma di perdita di posti di lavoro, crisi d’impresa, crisi del debito privato, limitato accesso all’istruzione. Ad esse si è indirizzata di necessità la più parte dei provvedimenti “emergenziali” di governi e autorità pubbliche, come è ad esempio bene sintetizzato in un passaggio delle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, presentate lo scorso 29 maggio: “Il Governo italiano si è mosso secondo le medesime priorità che hanno guidato gli interventi a livello internazionale, concentrandosi sulla capacità di risposta del settore sanitario e sugli aiuti ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese” [27].
Per poco che assuma però un ruolo eminente nella gestione di quelle che abbiamo per comodità definito “emergenze dichiarate”, l’esecutivo si fa in pari tempo, oltre che propulsore di iniziative e contromisure più o meno efficaci e tempestive, altresì virtuale epicentro di un’onda d’urto che minaccia i “check and balances” della democrazia liberale. E sta per l’appunto in ciò l’emergenza sottotraccia, la quale attiene alla tenuta di valori fondamentali quali diritti e libertà della Persona, stato di diritto, separazione dei poteri, indipendenza della magistratura.
La proclamazione di uno stato di emergenza, in altri termini, non solo dilata lo spettro dell’azione governativa ma di essa modifica la cifra, facendone azione solitaria, tendenzialmente affrancata dal contrappunto parlamentare come dal controllo giurisdizionale. Ciò invera una lacerazione nella trama del tessuto democratico, importa sovrapposizione tra potere esecutivo e legislativo ma soprattutto produce quel fenomeno che è stato bene descritto come di separazione della forza di legge dalla legge[28]: quanto dire degli stilemi più classici e sinistri dello stato di eccezione, veste giuridica formale dello stato di necessità.
Senonché, lo spazio giuridico europeo non tollera né una versione schmittiana dello stato di eccezione, quale decisione che soverchia (e sospende) la norma, l’una e l’altra assunte pur sempre quali espressioni di sovranità; né tantomeno la diversa prospettazione che vi scorge un’essenza non giuridica e la qualifica come “anomia che risulta dalla sospensione del diritto”[29]. Entro quel perimetro, insieme istituzionale e geografico, può darsi al più una editio minor dello stato di eccezione, ossia una deviazione circostanziata e temporalmente limitata dal corso normale dell’ordinamento, non semplicemente interna ad un Rahmenordnung bensì irregimentata entro uno Stufenbau, al cui vertice devono permanere saldi i valori fondativi dell’Unione europea, comuni agli Stati membri.
Questo è ciò che i Principles dell’ELI hanno l’ambizione di esplicitare, ma si tratta a ben vedere piuttosto di una pagina da scrivere che una di una dinamica già acclarata. Nécessité fait loi: resta qui racchiusa la minaccia del disordine e di uno sviluppo regressivo da cui l’ordine giuridico europeo deve riuscire completamente a emanciparsi.
[1] Cfr. W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, Bologna, 2017, spec. 391 e ss. In particolare nelle società agrarie del passato, questo esito finale di livellamento delle diseguaglianze passava anche per un drastico freno alla crescita della popolazione, secondo il modello dei “freni positivi” (checks), teorizzato da Malthus: cfr. T. Malthus, An Essay on the Principle of Population, London, 1798, 12 e ss.
[2] E’ questo il “paradigma di governo” icasticamente definito come “biosicurezza”: cfr. già P. Zylberman, Tempètes microbiennes : Essai sur la politique de sécurité sanitaire dans le monde transatlantique, Parigi, 2013, passim.cfr. altresì G. Agamben, Lo stato di eccezione, 2003, 11.
[3] Cfr. Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020. Sulla inconsistenza del distinguo tra “stato di emergenza” e “stato di eccezione” si vedano le acute considerazioni di G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet 30 luglio 2020, disponibile all’indirizzo https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-stato-di-eccezione-e-stato-di-emergenza
[4] Imprescindibile, in proposito, ancora il rinvio a G. Agamben, Lo stato di eccezione, cit., passim ma spec. 21 e ss. Cfr. altresì A.Wirsching, Weimar, cent’anni dopo. La storia e l’eredità: bilancio di un’esperienza controversa, Roma, 2019, 38 e ss.
[5] Il testo è reperibile sul sito web dell’ELI, (https://www.europeanlawinstitute.eu/news-events/news-contd/news/eli-publishes-principles-for-the-covid-19 crisis/?tx_news_pi1%5Bcontroller%5D=News&tx_news_pi1%5Baction%5D=detail&cHash=32885703f7c5c5e3a1b4f6753c6c73e2). Per la traduzione italiana cfr. P. Sirena, I Principi dello European Law Institute sulla Pandemia di Covid 19, in Riv. Dir. Civ., 4/2020, 891 e ss.
[6] Basta al riguardo fare riferimento ai reiterati interventi critici di Sabino Cassese, in ordine al carattere improprio dello strumento del DPCM, nonché, da ultimo, in ordine sulla stessa iniziativa di protrarre lo stato di emergenza: cfr. https://www.corriere.it/politica/20_luglio_28/cassese-governo-basta-forzature-si-torni-normalita-c9b3027c-d10a-11ea-b3cf-26aaa2253468.shtml
[7] J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Roma 2019, 211 -214 e ss.
[8] Così in particolare J. Zielonka, Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale, Bari, 2018, passim.
[9] Cfr Bonelli, From a Community of Law to a Union of values, 13 EU Courts (2017), 793.
[10] Cfr Kadi e Al Barakaat International Foundation/Consiglio e Commissione, C‑402/05 P e C‑415/05 P, parr. 303 e 304. cfr. altresì C-621/18, parr. 62-63 Andy Wightman versus Secretary of State for Exiting the European Union.
[11] Cfr. ad esempio Corte di Giustizia Case C- 284/16 Slowakische Republik V. Achmea BV, par 34.
[12] Cfr A. Von Bogdandy, Principles of a systemic deficiencies doctrine: how to protect checks and balances in the Member States, Common Market Law Review, 57 (2020), 705 e ss. ma spec 715 e ss.
[13] COM (2018) 324 final.
[14] Cfr. l’intervista rilasciata da Didier Reynders a Beda Romano per Il Sole 24 Ore, apparsa sul quotidiano di venerdì 15 maggio 2020, p. 25.
[15] Evidente appare, al riguardo, l’adesione paradigma dell’economia sociale di mercato (peraltro espressamente evocato dall’art. 3 TUE) e, con esso, a quella dose di politicità (e dunque di flessibilità) che costituisce passato e presente del diritto della concorrenza in ambito comunitario, all’insegna di un bilanciamento costante tra efficienza economica ed interessi di carattere più generale: cfr. M. Libertini, voce Concorrenza, in Enc. Dir., Ann. III, Milano 2010, 189 e ss; D. Zimmer, Consumer welfare, economic freedom and the moral quality of competition law: comments on Gregory Werden and Victor Vanberg, in J. Drexl – W. Kerber- R. Podszun (edited by), Competition Policy and the Economic Approach. Foundations and Limitations, Cheltenham, 2011, 72 e ss., ma spec. 77-78.
[16] Si pensi, ad esempio, al novellato § 240 della Legge introduttiva al codice civile tedesco (EGBGB) ovvero, per quanto riguarda la Spagna, al Real Decreto-ley 11/2020, del 31 marzo 2020, “por el que se adoptan medidas urgentes complementarias en el a´mbito social y econo´mico para hacer frente al COVID-19”.
[17] Fondo di solidarietà per i mutui per l'acquisto della prima casa.
[18] Aperture di credito a revoca, prestiti accordati a fronte di anticipi su crediti esistenti al 29 febbraio 2020 e prestiti non rateali con scadenza contrattuale prima del 30 settembre 2020.
[19] In argomento si veda M.R. Maugeri, L’emergenza Covid-19 e la sospensione dei mutui per l’acquisto della prima casa, in Giustiziacivile.com, 22 aprile 2020. Si veda altresì l’orientamento del Collegio di Coordinamento dell’ABF, seppur riferito ai provvedimenti di moratoria dei pagamenti, dettati ex lege in relazione agli eventi sismici concernenti l’Abruzzo e l’Emilia-Romagna: Coll. di Coord., decisione n. 210/2020.
[20] Segnatamente il “quadro di ristrutturazione preventiva”, previsto dall’articolo 5.
[21] Si vedano, nella medesima direzione, gli spunti di riflessione proposti da Roppo in V. Roppo e R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza, in questa Rivista, 10, disponibile all’indirizzo https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1033-contratto-e-covid-19-dall-emergenza-sanitaria-all-emergenza-economica-di-vincenzo-roppo-e-roberto-natoli.
[22] Intervista del 25 marzo 2020, ancora disponibile sul sito web del quotidiano all’indirizzo https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b
[23] Non già inferibile dal sistema, per lo meno negli stringenti termini di “obbligo”, come pure opinato da alcuni Autori: si vedano in proposito le condivisibili considerazioni critiche di F. Benatti, Contratto e Covid: possibili scenari, in Banca Borsa Titoli di credito, n. 2/2020, 198 e ss., ma spec. 207 e ss. Una panoramica ad ampio spettro circa le ricadute dell’emergenza sanitaria sul terreno delle relazioni di mercato in generale è quella offerta da V. Roppo e R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza, cit.
[24] Si vedano, sul punto, gli spunti contenuti nel documento intitolato “Una riflessione ed una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia”, 4 e ss. , elaborato dall’Associazione Civilisti Italiani e reperibile sul sito web della stessa Associazione (https://www.civilistiitaliani.eu/images/notizie/Una_riflessione_ed_una_proposta_per_la_migliore_tutela_dei_soggetti_pregiudicati_dagli_effetti_della_pandemia.pdf)
[25] Cfr. per tutti A.M. Benedetti, Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: brevi note sul decreto Cura-Italia, I Contratti, 2020, p. 213 ss.; G. De Cristofaro, Rispetto delle misure di contenimento adottate per contrastare la diffusione del virus Covid-19 ed esonero del debitore da responsabilità per inadempimento, NLCC, 3/2020, 571 e ss. Appaiono viceversa improntate a maggiore linearità ed efficienza le disposizioni adottate in relazione a titoli di viaggio e pacchetti turistici (cfr. art 28 D.L. 9/2020), nonché al “Rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione dei contratti di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura” (art 88, DL 18/2020, conv. con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27). Con particolare riguardo agli interventi “emergenziali” dedicati al trasporto aereo si rinvia agli approfondimenti critici di A. Palmigiano, Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo e dei pacchetti turistici, e Id., Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo, apparsi entrambi su questa Rivista e consultabili rispettivamente agli indirizzi www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/919-emergenza-coronavirus-le-tutele-nel-settore-del-trasporto-aereo-e-dei-pacchetti-turistici e https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1150-emergenza-coronavirus-le-tutele-nel-settore-del-trasporto-aereo-di-alessandro-palmigiano
[26] Si veda, in tal senso, il documento “Una riflessione ed una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia”, pp. 2-3, elaborato dall’Associazione Civilisti Italiani , reperibile sul sito web della stessa Associazione (https://www.civilistiitaliani.eu/images/notizie/Una_riflessione_ed_una_proposta_per_la_migliore_tutela_dei_soggetti_pregiudicati_dagli_effetti_della_pandemia.pdf)
[27] Cfr. Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, Relazione annuale 2019, p. 8
[28] Cfr. ancora G. Agamben, Lo stato di eccezione, cit., 51-52.
[29] Cfr. Agamben, op. ult. cit., 66. Lo stesso A. (33-34) mostra efficacemente i limiti delle teorie più classiche che riducono la disputa sullo stato di eccezione ad una semplice questione “topografica”, al suo collocarsi cioè all’interno o all’esterno dell’ordinamento.
Recensione di Christine von Borries a INVISIBILI di Caroline Criado Perez
Questo saggio illustra, dati alla mano, le disuguaglianze e ingiustizie che subiscono ancora oggi nel campo del lavoro, della cura della famiglia, della carriera, della medicina e in tanti altri, le donne. Di come le evidenti differenze biologiche e culturali, il numero di ore che la donna dedica alla cura della casa, del compagno o marito e dei figli, diventano dei gap incolmabili per trovare e mantenere un lavoro. Per la possibilità di fare carriera al pari dei colleghi uomini, per ottenere salari, contributi e pensioni analoghe.
E mentre le donne spendono dalle 3 alle 6 ore giornaliere in questi compiti non retribuiti, diventano parallelamente invisibili agli occhi della società. Da qui il titolo del libro. La scrittrice utilizzando dati scientifici, ricerche e statistiche, spesso troppo carenti e incomplete quando si tratta di esaminare il mondo femminile, affronta in modo oggettivo ma anche spiritoso i tanti campi in cui le donne subiscono trattamenti diversi.
La difficoltà di donne con pari capacità e livello culturale rispetto agli uomini nel fare carriera viene attribuita dall’autrice al fatto che spesso chi decide sulle promozioni sono uomini. Che stabiliscono meriti e regole su loro misura. Una delle frasi emblematiche del libro è che spesso i bisogni delle donne non vengono considerati né riconosciuti, perché per riconoscere un bisogno bisogna provarlo. Ad esempio una startup composta da donne che proponeva un nuovo modello di Tiralatte innovativo con un enorme potenziale di guadagno (al mondo ne esiste uno solo poco efficiente, doloroso e scomodo) non ha trovato finanziatori – che sono quasi sempre uomini – perché non ne hanno compreso l’utilità.
Il libro offre numerosi spunti ed esempi.
Dai trasporti pubblici pensati spesso da uomini e che quindi si attagliano soprattutto alle loro esigenze. Anche se è l’uomo che spesso usufruisce dell’unica macchina familiare. Normalmente l’uomo esce di casa per andare al lavoro e ritorna. Mentre la donna fa un percorso totalmente diverso dato che deve accompagnare uno o più figli a scuola, fare la spesa, andare al lavoro, e nel pomeriggio portare i figli alle loro attività. Di qui l’esigenza di cambiare il percorso medio in molti paesi che va dalla periferia al centro, aggiungendo percorsi circolari e far sì che un biglietto non valga per un’unica corsa ma consenta di prendere più mezzi.
Durante la maternità, in molti paesi del mondo, non vengono pagati né lo stipendio né i contributi dopo uno/due mesi dal parto con conseguente necessità per la maggior parte delle donne di tornare presto al lavoro o di licenziarsi per potere accudire i figli. Non vengono ancora oggi studiati gli effetti di sostanze chimiche sulle lavoratrici donne, spesso lavoratrici autonome. Ad esempio dei prodotti cosmetici usati dalle estetiste o dei prodotti utilizzati nelle industrie in cui si fabbricano oggetti plastici. Anche se la scienza medica ha dimostrato che le caratteristiche fisiche della donna la espongono ad un maggiore assorbimento di alcuni tipi di sostanze cancerogene con conseguenti gravi patologie.
In alcune nazioni , ad esempio in India, mancano bagni pubblici. Così le donne sono costrette a fare i propri bisogni all’aperto con conseguenti incremento esponenziale di molestie e violenze sessuali. Che spesso non vengono denunciate, sia che avvengano all’aperto, ma anche sugli autobus o sui posti di lavoro perché non sono sempre adeguatamente perseguiti. Sarebbe facile e anche economico adottare degli accorgimenti per evitare che tanti di questi episodi avvengano.
Una delle prove più lampanti delle sperequazioni nella carriera, riguarda la New York Philharmonic Orchestra di Philadelphia. Fino agli anni Settanta era in gran parte composta da uomini. Fino a che, a seguito di un ricorso proposto da alcune donne escluse, si è adottata la audizione al buio. I candidati suonano nascosti da un paravento. Da allora si è arrivati a una composizione paritaria tra entrambi i sessi.
Ancora oggi l’essere donna rende più difficile il superamento dei concorsi universitari. Laddove si è adottatala la tecnica del doppio anonimato, di chi partecipa al concorso e di chi corregge le prove scritte, i risultati sono molto più equilibrati.
Le tute indossate dai militari e dei ricercatori che si recano ad esempio in zone dalle temperature molto rigide sono state progettate per un uomo di corporatura media. Con il risultato che per fare i propri bisogni fisiologici la donna deve sfilarsi totalmente la tuta. Lo stesso vale per la forma degli zaini e degli scarponi, che non tengono minimamente conto delle evidenti differenze della corporature femminile. Con conseguenti disagi e a volte lesioni.
Viene smontato il luogo comune che la donna ci mette più tempo in bagno e che per questo nei bagni pubblici si creano le code. Se volete scoprire il perché leggetelo.
Apprendiamo di come in campo medico i libri di istruzione superiore dedicano pochissime pagine al corpo femminile e la maggior parte a quello maschile. Il dramma è che anche nella ricerca sono soprattutto cellule maschili e successivamente topi maschi e uomini a fare da cavia per testare i medicinali. Che di conseguenza funzionano soprattutto per gli uomini e molto meno per le donne. Che hanno un organismo differente. Donne che spesso hanno anche sintomi diversi, ad esempio dell’infarto, che spesso non vengono riconosciuti tempestivamente dai medici. Malattie che necessitano di cure e di una dieta diversa. Nonostante ciò, molte aziende farmaceutiche ancora oggi non sono obbligate a dare conto di come e su chi testano i loro farmaci. Farmaci che quindi non faranno lo stesso effetto se assunti da donne.
Un altro capitolo parla di musica. Di come la tastiera del pianoforte sia stata ideata e creata per una mano maschile di almeno 22,5 cm. Una donna media ce l’ha più piccola e quindi per allenarsi si sottopone a sforzi e tensioni maggiori. Con conseguente stress tra sforzo e possibili lesioni. Nei concorsi di Pianoforte vincono spesso gli uomini e le poche donne che hanno la mano grande. Fino a che è un pianista, Christopher Donison, di corporatura minuta ha inventato una tastiera adatta a chi ha mani piccole. Che ancora oggi è vista con sospetto nonostante sia stata inventata da un uomo!
Noi donne magistrato siamo certamente una categoria privilegiata rispetto a tante altre lavoratrici o casalinghe. Se guardiamo però a come sono occupati i posti semi direttivi e direttivi, ci accorgiamo di quanto sia ancora lungo il percorso che abbiamo davanti. E allora ben venga l’informazione, una maggiore consapevolezza sia degli uomini che delle donne e anche le tanto vituperate quote di genere. Finché saranno necessarie a ripristinare un equilibrio.
Non sono necessarie solo nel paese più paritario al mondo: l’Islanda. Paese unico per eguaglianza dei diritti e della rappresentanza femminile in ogni tipo di carriera. Dove più volte e per anni ci sono state Prime Ministre donna.
Per scuotere le coscienze il 24 ottobre del 74 fu proclamato il primo sciopero generale femminile. Tutte le donne del paese incrociarono le braccia e uscirono per strada per protestare.
E per vari giorni non lavorarono, non pulirono, non cucinarono, non accudirono i figli e i mariti. Farete un regalo a voi stessi se dedicherete qualche ora di tempo a leggere questo libro straordinario che strappa veli ancora oggi troppo pesanti che oscurano la vista sulla realtà.
Realtà che per essere cambiata deve essere prima conosciuta.
Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato?
(nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369)
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. Il caso di specie. 2. Le questioni giuridiche. 3. Brevi considerazioni conclusive.
1. La recente pronuncia del Consiglio di Stato (7 luglio 2020, n. 4369) ha offerto una preziosa occasione per riflettere, ancora una volta, sulla natura giuridica del giudizio di ottemperanza e sull’ampiezza dei poteri di cognizione da riconoscersi al giudice dell’ottemperanza medesima, in relazione all’oggetto del giudicato, in particolare allorché si tratti di dare compiuta attuazione a sentenze del giudice civile.
La questione originava da una sentenza passata in giudicato del giudice ordinario del lavoro con cui era stato riconosciuto al lavoratore esposto al rischio amianto il diritto a beneficiare del ricalcolo della pensione contributiva per ogni anno di lavoro svolto con esposizione all’agente patogeno, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13, comma 8, della l. n. 257/1992.
In particolare, la sentenza disponeva che si procedesse alla supervalutazione della pensione contributiva per gli anni di esposizione all’inalazione di fibre di amianto, da calcolarsi moltiplicando il coefficiente pari a 1,5 per il periodo di contribuzione individuato per un arco temporale definito (dal 15.12. 1960 al 31.12.1985). Pertanto, si condannava l’INPS al pagamento delle differenze sulla pensione e alla maggior somma dovuta a titolo di rivalutazione monetaria, oltre che al pagamento degli interessi legali maturati.
Tuttavia, il lavoratore, in esecuzione della sentenza, chiedeva che gli venisse riconosciuta una ulteriore maggiorazione di anzianità (di 12 anni e mezzo) rispetto a quella contributiva complessiva già conseguita (pari a 39 anni circa), per un totale di 52 anni di anzianità, sul presupposto che la sentenza passata in giudicato avesse implicitamente accertato il proprio diritto alla riliquidazione della pensione sulla base di tutta l’anzianità contributiva.
Si opponeva l’INPS, contestando che, diversamente, tale calcolo non poteva che essere effettuato sulla base dell’anzianità contributiva utilmente valutabile, il cui limite massimo, imposto dalla legge, nello specifico ambito del Fondo trasporti, era pari a 36 anni di contribuzione.
Veniva, pertanto, adito in sede di ottemperanza il Tar del Lazio che, in applicazione del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. lavoro, n. 17528/2002; n. 7556/2014; n. 27677/2011; n. 5419/2020), fatto proprio anche dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. III, n. 1718/2018), riteneva che il diritto alla rivalutazione contributiva di cui all’art. 13 della l. n. 257/1992, poiché funzionale ad agevolare il conseguimento della pensione massima per i lavori esposti a rischio amianto che non avessero raggiunto il massimo della prestazione conseguibile, implicasse che il ricalcolo della pensione a seguito dell’applicazione della suddetta rivalutazione dovesse avvenire entro e non oltre i limiti della massima anzianità contributiva, ope legis stabiliti.
Era proposto appello al Consiglio di Stato sul presupposto che il Tar Lazio, così decidendo, avesse inopinatamente compresso il diritto alla riliquidazione della pensione entro i limiti ordinamentali, violando quanto implicitamente accertato con sentenza passata in giudicato, ossia il diritto al superamento del tetto massimo contributivo ai fini del ricalcolo della pensione.
2. Il Consiglio di Stato respingeva l’appello, perché infondato, facendo leva su alcune rilevanti argomentazioni.
Innanzitutto, si confutava la tesi secondo cui in sede di cognizione civile si fosse formato giudicato implicito relativamente all’eccezione di merito, sollevata dall’INPS, intesa a determinare il tetto massimo del montante contributivo. Piuttosto, si riteneva che il giudice civile fosse rimasto silente sul punto, non affrontando specificatamente la questione.
Più specificatamente, si riteneva che, nel caso di specie, il giudicato civile si fosse limitato a riconoscere il solo diritto alla rivalutazione dell’anzianità per via dell’accertata esposizione all’amianto, senza nulla sancire in ordine al diritto ad ottenere la liquidazione della pensione sulla base di tutta l’anzianità contributiva, per come complessivamente maturata, a prescindere dal rispetto del limite legale.
Il Consiglio di Stato, quindi, acclarava che il giudice civile non si fosse espresso sulla questione sollevata dall’INPS e che la statuizione di condanna al pagamento delle differenze di trattamento retributivo, conseguenti a supervalutazione da esposizione ad amianto, non contenesse alcuna indicazione, nemmeno nella parte motivazionale, sulle modalità di calcolo dell’anzianità contributiva e alla riconduzione entro i limiti ordinamentali.
Di conseguenza, richiamando il consolidato principio per cui il giudicato civile copra il dedotto e il deducibile, il Consiglio di Stato riteneva di escludere che tale ultima questione (afferente il possibile superamento del limite del tetto contributivo) potesse ritenersi implicitamente affrontata e decisa in quella sede, poiché estranea all’oggetto del contendere, non costituendo un passaggio logico-pregiudiziale necessariamente implicato nel percorso argomentativo e motivazionale di cui in sentenza, rimasta neutra rispetto al tema.
Pertanto, si riteneva che l’oggetto del contendere su cui si era formato giudicato, avesse riguardato specificatamente il riconoscimento del beneficio di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257/1992, beneficio, si ribadiva, previsto esclusivamente al fine di agevolare il conseguimento della pensione massima ai lavoratori esposti al rischio amianto, ottenibile da coloro che non avessero raggiunto il massimo della prestazione conseguibile.
Circoscritto l’oggetto del giudicato in stretta aderenza alla res controversa e chiarito, di conseguenza, che nel caso di specie il giudicato “silente” non avesse comportato la formazione di un giudicato implicito su questioni, pur eccepite ma non affrontate, collegate ma logicamente consequenziali a quelle oggetto del decisum, il Consiglio di Stato, ai fini dell’ottemperanza[1], riteneva di poter comunque garantire puntuale attuazione del giudicato formatosi in sede di cognizione civile, procedendo all’applicazione del medesimo in conformità con le regole ordinamentali, le sole capaci di ricondurre l’ottemperanza a conclusioni coerenti con il sistema normativo.
Facendo leva sul criterio di stretta continenza che deve orientare il giudice amministrativo nell’esecuzione del giudicato civile (o più in generale, nell’esecuzione di pronunce emesse da organi appartenenti a plessi giurisdizionali diversi), il Consiglio di Stato giungeva a ritenere che fosse consentito integrare il precetto di cui in sentenza, mediante l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento (ex art. 12 disp. att.), così da colmare lo spazio regolativo lasciato vuoto dal giudicato, senza incorrere in alcuna manipolazione interpretativa del decisum.
La pronuncia, dunque, sebbene si ponga formalmente in linea con il costante e risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa che riconosce la sussistenza di limiti stringenti ai generalmente penetranti poteri di cognizione spettanti al giudice dell’ottemperanza nell’ipotesi in cui si tratti di dare esecuzione al giudicato civile[2], merita di essere segnalata perché esplicita alcuni importanti principi per la comprensione delle tecniche giurisdizionali di attuazione del giudicato, invitando a riflettere sull’ampiezza e sui limiti dei poteri, di cognizione prima che di esecuzione, spettanti al giudice amministrativo in qualità di giudice dell’ottemperanza del giudicato civile e sulla peculiare natura giuridica dell’ottemperanza, che è da considerarsi complessa anche in tali ipotesi[3].
Si ritiene, infatti, che la natura giuridica e la funzione di un istituto processuale non possa mutare in ragione dell’imputabilità del giudicato, che ne formerà oggetto di attuazione e che ne costituisce presupposto processuale, a un organo appartenente ad altro plesso giurisdizionale.
Certamente l’asserzione merita chiarimenti, posto che non è assolutamente da confutare la diversità ontologica che corre fra l’assetto dei rapporti scaturenti dai due tipi di sentenza, del giudice civile e del giudice amministrativo, la diversità degli obblighi di conformazione gravanti sulla p.a. in conseguenza del giudicato amministrativo piuttosto che civile e, di conseguenza, il diverso grado di penetrazione e di ampiezza dei poteri cognitori spettanti al giudice dell’ottemperanza a garanzia della compiuta attuazione del giudicato, a seconda che ricorra l’una o piuttosto l’altra ipotesi[4].
Sicuramente, nell’ipotesi di ottemperanza di provvedimenti del giudice civile è da negare la sussistenza di poteri di accertamento su elementi esterni al provvedimento da eseguirsi o su questioni non ricadenti nell’oggetto del giudicato né implicitamente coperte dal giudicato stesso, in ragione dei vincoli derivanti dal riparto di giurisdizione che escludono, a pena di violazione dei limiti esterni[5], un’attività di cognizione su materie rientranti nell’altrui giurisdizione.
E in aderenza a siffatta prospettiva si pone la pronuncia che si commenta, posto che essa muove proprio dal principio fondamentale di stretta continenza interpretativo-cognitoria del giudice dell’ottemperanza al contenuto e all’oggetto del giudicato civile, in funzione della corretta attuazione del precetto ivi espresso, nonché – si aggiunge – a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale, ai sensi e per gli effetti degli artt. 24 e 113 della Cost.
Infatti, sebbene sia pacifico che la natura poliforme del giudizio di ottemperanza e la poliedricità delle forme di tutela iviapprestabili non ne consenta una reductio ad unitatem[6], ciò non permette di accantonare la tesi della ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, perché la complessità intrinseca dell’ottemperanza stessa (recte: delle forme di tutela apprestabili con il giudizio di ottemperanza) non collima con il diverso assunto che mira a riconoscerne natura giuridica e funzione unitaria.
Lungi dal poter considerare il giudice dell’ottemperanza alla stregua di giudice di mera esecuzione, non fosse altro perché Egli è il giudice naturale del potere amministrativo, o per meglio dire della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni a carico della p.a. che dal giudicato discendono o che in esso trovano legittimo presupposto[7], ciò che muta è il contenuto della domanda, anche in ragione del diverso presupposto processuale[8], da cui deriva il diverso atteggiarsi dei poteri di cognizione del giudice dell’ottemperanza, senza per questo poter ritenere di escluderne qualsiasi margine d’intervento.
In conformità con le origini storiche dell’istituto[9], sorto come rimedio per dare attuazione alle sentenze del giudice ordinario emesse nei confronti della p.a. (ex art. 4 L.A.C.) e poi, in via pretoria esteso anche all’esecuzione delle sentenze del G.A., il giudizio di ottemperanza assolve la fondamentale funzione di garantire effettiva «giustizia nell’amministrazione», perseguendo piuttosto l’obiettivo del buon funzionamento dell’amministrazione pubblica, obbligata a conformarsi al giudicato[10], a garanzia dell’effettività della tutela del privato coinvolto nell’esercizio dell’attività amministrativa, non solo discrezionale bensì vincolata[11], prima ancora che quello della responsabilità civile della amministrazione medesima[12].
Pertanto, posto che il giudizio di ottemperanza richiede l’attuazione di una regola espressa in sentenza e che spesso la medesima si appalesa incompleta o indeterminata, l’ampiezza dei poteri cognitori del giudice dell’ottemperanza può dirsi inversamente proporzionale al grado di astrattezza e autonomia – rispetto al giudizio di cognizione – del contenuto del precetto espresso nel titolo esecutivo, che tendenzialmente dovrebbe offrire al G.A. tutti gli elementi per ricavare le coordinate operative da imporre alla p.a., in assenza dei quali il provvedimento resta ineseguibile[13].
Ciò porta certamente a distinguere le ipotesi di condanna generica, in cui il dictum posto dal giudice ordinario non è passibile d’integrazione nemmeno in via interpretativa, essendo indispensabili ulteriori accertamenti, in fatto e in diritto, da compiersi dinanzi al giudice munito di giurisdizione[14], da quelle di condanna (rectius: giudicato) implicita[15], in cui invece l’integrazione è meramente apparente, perché frutto della esplicitazione di questioni o accertamenti che, costituendo presupposto logico indispensabile per la soluzione di questioni su cui invece si è formato giudicato esplicito, debbono ritenersi implicitamente accertate e risolte, e ancora, le ipotesi di giudicato silente non implicito bensì incompleto[16].
Secondo la sentenza che si annota nel caso di specie il giudicato presenterebbe un vuoto regolativo in ragione del fatto che il dispositivo di cui in sentenza non esplicita compiutamente le obbligazioni gravanti sulla p.a. a garanzia della corretta esecuzione del giudicato, lasciando margini d’incertezza in relazione al faciendum[17].
Rimane il dubbio se di fronte a un parziale non liquet del giudice di cognizione su questioni, pur eccepite in giudizio ma non specificatamente affrontate, si formi effettivamente giudicato o meno, dal momento che questo copre, ancor prima del deciso, il dedotto (e il deducibile). A fronte del dubbio sta però il fatto che se al giudice dell’esecuzione di regola è precluso completare il dispositivo contenuto in sentenza compiendo accertamenti su questioni di merito esterne al giudicato, il giudice dell’ottemperanza non può considerarsi alla stregua di mero giudice di esecuzione – a maggior ragione oggi in cui le derive evolutive di quest’ultimo giudizio, sempre più proteso verso l’eterointegrazione del titolo esecutivo, impongono di rimarcare la specialità del primo[18] . Il bilanciamento concretamente operato nel caso di specie ha portato il giudice amministrativo a ritenere possibile che, in mancanza di una espressa statuizione nella sentenza, il giudicato potesse essere integrato in via interpretativa come se si fosse in presenza di un dispositivo incompleto.
Esclusa la possibilità di qualificare l’ipotesi di cui al caso di specie alla stregua di una condanna generica[19], posto che al giudice amministrativo erano stati forniti tutti i parametri per il calcolo del quantum dovuto, il giudice amministrativo ha dunque ritenuto di poter procedere a un’interpretazione e applicazione del giudicato (attraverso la lettura del dispositivo e della motivazione a sentenza) conforme alle regole ordinamentali.
Conseguentemente, «l’effetto arricchente»[20] che ne è derivato è stato legato all’interpretazione sistematica e all’applicazione della normativa in questione e il problema del non liquet è stato superato mediante l’applicazione dei criteri generali d’interpretazione della legge, di cui all’art 12 disp. att., che permettono una lettura del dispositivo coerente con il sistema normativo vigente, evitando manipolazioni interpretative ed extra ordinem del decisum.
Il non liquet del giudice civile sulla questione “connessa”, in via succedanea, alla materia oggetto del contendere, su cui si era formato giudicato, è stato così spiegato in ragione di un silente rinvio all’inderogabile disciplina di legge che fissa le soglie massime del tetto contributivo[21].
La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato, è evidente, si preoccupa di bilanciare esigenza di certezza delle regole e principio di effettività della tutela sfruttando al massimo le potenzialità offerte dalla natura cognitoria del giudizio di ottemperanza per contestualizzare il dispositivo della sentenza nel quadro normativo di riferimento [22].
I poteri interpretativi e cognitori spesi nel caso di specie dal giudice dell’ottemperanza sembrerebbero così non avere integrato il decisum con accertamenti di merito ricadenti nell’altrui giurisdizione.
Pare doveroso sottolineare che, al mutare del presupposto, giudicato civile piuttosto che giudicato amministrativo, e delle modalità con cui è esplicato, ciò che muta non è la natura giuridica e la funzione del giudizio di ottemperanza, piuttosto le caratteristiche e l’estensione del potere di cognizione del giudice dell’ottemperanza medesima.
Allorché si domandi esecuzione del giudicato civile, nelle peculiari ipotesi di profili non espressamente esplicitati in sentenza, il diverso atteggiarsi dei poteri di cognizione del g.a. è condizionato dall’oggetto del giudicato e dal suo contenuto[23], per come esplicato in sentenza, oltre a essere vincolato al rispetto dei criteri di riparto della giurisdizione, che inevitabilmente, impediscono al giudice dell’ottemperanza di effettuare accertamenti extra ordinem ma non di integrare il precetto contenuto nella sentenza del g.o. attraverso un’attività d’interpretazione conforme alle regole e ai principi generali dell’ordinamento giuridico, in stretta aderenza all’oggetto del giudicato.
Giova ricordare un antico brocardo latino, ubi remedium ibi ius[24], ove il concetto di “rimedio”, colto nella sua valenza sostanziale dell’effettività della tutela è incontrovertibilmente legato al concetto di ius, di diritto oggettivamente inteso. Principio che riecheggia i ben noti e insuperati insegnamenti di autorevoli Maestri del diritto processuale civile[25] che, nell’avviare la riflessione sulla estensione e sui limiti dell’attuazione della legge nel processo, hanno posto una pietra miliare ancor oggi valida per il sistema processuale generalmente considerato, per cui «il processo deve dare per quanto è possibile … a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire».
Pertanto, nell’ipotesi di esecuzione dei provvedimenti del giudice civile (ex art. 112, co. 2, lett.c), è sullo scivoloso crinale del distinguo fra interpretazione e integrazione (interna o esterna) del giudicato che si attagliano i poteri di cognizione del giudice dell’ottemperanza, da esercitarsi in equilibrio fra legalità ed effettività della tutela, al fine di evitare di travalicare i limiti esterni della giurisdizione.
Torna, dunque, la vexata quaestio dell’individuazione dell’oggetto della res iudicata, dell’ampiezza dell’ambito oggettivo di efficacia del giudicato medesimo, da discernere attraverso oculata attività interpretativa della sentenza, quale bilanciata sintesi fra comando e giudizio, fra dictum contenuto nel dispositivo e ragioni giuridiche espresse in motivazione[26], su i cui profili problematici non è possibile soffermarsi in questa sede.
Questione complessa che, tuttavia, non esclude anzi rimarca l’esistenza di poteri di cognizione interna al giudicato, esercitabili dal g.a. anche ad integrazione del dispositivo incompleto, a garanzia dell’effettività della tutela in conformità alle regole ordinamentali.
3. Volendo ripercorrere gli insegnamenti d’illustre dottrina[27], non resta che ribadire che l’ottemperanza sia sempre necessariamente giudizio di cognizione prima che di esecuzione, sebbene diverso sia il grado di penetrazione dei poteri del giudice ai fini della compiuta conformazione dell’attività amministrativa agli obblighi discendenti dal giudicato.
Ciò si spiega in ragione del fatto che il giudizio di ottemperanza sia sempre necessariamente volto prima all’accertamento puntuale degli obblighi derivanti dal giudicato[28], sia civile sia amministrativo, e di conseguenza all’attuazione[29] del medesimo.
A differenza del giudizio di esecuzione, il giudice dell’ottemperanza non guarda solamente al titolo esecutivo, bensì al giudicato nella sua completezza, ossia alla complessità di rapporti giuridici ad esso sottesi.
Ciò garantisce un maggior grado di penetrazione ed estensione dell’attività d’interpretazione, fino a consentire di spingerla sino ai margini d’integrazione del dispositivo ove tale attività di cognizione abbia ad oggetto questioni implicitamente coperte dal giudicato. Nel caso di specie il Consiglio di Stato ha ricompreso nel suddetto margine l'ipotesi del giudicato silente ma “incompleto”[30], ritenendo che l’attività interpretativo-integrativa del dispositivo possa spingersi oltre il dispositivo guardando alle regole ordinamentali che disciplinano compiutamente il rapporto giuridico oggetto di controversia, al precipuo fine di dare attuazione al giudicato in maniera conforme ad esse. E un percorso che viene seguito nell'intento di evitare eterointegrazioni manipolative del decisum e di garantire al contempo l'effettività della tutela, nella evidente consapevolezza di muoversi sul crinale dell'eccesso di potere giurisdizionale.
Pertanto, emerge chiaramente come l’ottemperanza di sentenze del giudice civile implichi per il g.a. uno sforzo interpretativo maggiore, dovendo Egli chiarire, interpretandoli, gli esatti contenuti del giudicato[31]; ragione, questa, che sottolinea carattere e natura cognitoria del giudizio.
Concludendo, il sapiente bilanciamento fra interpretazione e legittima integrazione del dispositivo, nei limiti di cui si è detto, necessitata dalla compiuta individuazione degli obblighi discendenti dal giudicato, per come accertati dal giudice ordinario, in uno con quelli discendenti dalla legge, fa dell’ottemperanza strumento di attuazione del giudicato, espressione del contemperamento fra limite giurisdizionale, legalità processuale e ordinamentale, effettività e concentrazione della tutela (ex art. 113 Cost.).
* * *
[1] Sul giudizio di ottemperanza, per un inquadramento generale: A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018. Più specificatamente sul tema, cfr.: M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 195 ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990; Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII Convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna, Milano, 1983, fra cui v.: F.G. Scoca, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza; C. Calabrò, L’ottemperanza come prosecuzione del «giudizio amministrativo»; A. Sorrentino, Provvedimenti elusivi e giudizio di ottemperanza; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52 ss.; M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in federalismi, 2010; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 119 e ss., ibidem: A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss; N. Paoloantonio, Riapertura del processo, giurisprudenza CEDU e giudicato nazionale: un irragionevole orientamento della Corte Costituzionale, in Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 275 e ss.; ibidem, I. Raiola, Esecutività della sentenza ed efficacia preclusiva o conformativa, 289 e ss.; A.M. Angiuli, Esecutività della sentenza ed efficacia conformativa o preclusiva. Profili introduttivi, 319 e ss.; Aa.Vv. Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018.
[2] Non a caso generalmente ricorrere la tralaticia affermazione per cui nel giudizio di ottemperanza di un giudicato civile il momento cognitorio sia da considerarsi ridotto rispetto al momento esecutivo, ragion per cui deve ritenersi che in tal caso, i tratti del giudizio di ottemperanza siano piuttosto quelli del processo esecutivo e solo minimamente di un giudizio cognitorio. F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018, 163-258.
[3] Per una puntuale ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, sia con riferimento al giudicato civile sia a quello amministrativo, cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario,Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019.
[4] A. Storto, Tra esecuzione e ottemperanza dei provvedimenti del giudice civile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op.cit., 373 - 398, che richiama M. Nigro, Giustizia amministrativa, III° ed., Bologna, 1983.
[5] Sulla violazione dei limiti esterni di giurisdizione, breviter: F.G. Scoca, Riflessioni sui criteri di riparto delle giurisdizioni (ordinaria e amministrativa), in Dir. proc. amm. 1989, 549 ss.; Id., Piccola storia di un serrato “dialogo” fra giudici: la vicenda della c.d. pregiudizialità amministrativa, in Scritti in memoria di Roberto Maramma, vol. II, Napoli, 2012, 1009 ss.; R. Villata, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009; Id., Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 2, 285-301; Id., Sui motivi inerenti alla giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2015, 3, 632-645; Id., La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai «cavalieri dell’apocalisse»?, in Riv. dir. proc., 2017, 1, 106-111; Id., La Corte di cassazione non rinuncia al programma di imporre al Consiglio di Stato le proprie tesi in tema di responsabilità della pubblica amministrazione attribuendo la veste di questione di giurisdizione a un profilo squisitamente di merito, in Dir. proc. amm., 2009, 1, 236-240; Id., Scritti in tema di questioni di giurisdizione: tra giudice ordinario e giudice amministrativo, Milano, 2019; M.A. Sandulli, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Giust. amm., 2006, fasc. 3, pp. 569-574; E. Follieri, Il sindacato della Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Giustamm.it, 2014; C.E. Gallo, Il controllo della Corte di Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, op. cit., 229 e ss.; ibidem: R. Rordorf, Il rifiuto di giurisdizione, 239 e ss.; A. Caia, L’eccesso di potere di giurisdizione, 249 e ss.; M.A. Sandulli, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, 325 e ss.; A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione: osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Memorandum sulle tre giurisdizioni superiori, in Foro it., 2018, fasc. II, parte V, 57-136; M.C. Cavallaro, Riflessioni sulle giurisdizioni: il riparto di giurisdizione e la tutela delle situazioni soggettive dopo il codice del processo amministrativo, Milano, 2018; A. Police – F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il Processo, 1, 2019, 113-150; F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Il libro dell’anno del diritto, 2019.
[6] A. Storto, Tra esecuzione e ottemperanza dei provvedimenti del giudice civile, op.cit.
[7] Cons. di Stato, Ad. Pl., 15 gennaio 2013, n. 2 con nota di A. Travi, in Foro it., 2014, III, 712; nonché M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’adunanza plenaria n. 2/2013, in Dir. proc. amm., 2015, 384 ss.
[8] Si veda: Cons. Stato, 16 maggio 2016, n. 1956: «L’azione di ottemperanza, lungi dal costituire soltanto uno strumento per l’esecuzione della sentenza e/o di altro provvedimento a essa equiparabile, evidenzia profili diversi per quanto attiene non solo al «presupposto», cioè al provvedimento per il quale l’ottemperanza può essere chiesta, ma anche ai «contenuti» che la stessa può assumere …». Cfr. anche: F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.
[9] Cfr.: E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1964; A.M. Sandulli, Consistenza ed estensione dell’obbligo delle autorità amministrative di conformarsi ai giudicati, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, ora in Aldo M. Sandulli, Scritti giuridici, vol. V, Napoli, 1990.
[10] Sul giudicato: F. Benvenuti, Giudicato (dir. amm.), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969. Si veda altresì: M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989; A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it; A. Lolli, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo, Milano, 2002; L. Maruotti, Il giudicato, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), Padova, 2014. Per una lettura del giudicato in una prospettiva sovranazionale, nell’ambito del network della nomofilachia europea: A. Barone, La nomofilachia “oltre i confini”; G. Tropea, Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo “interno” ed “esterno” tra Corti, entrambi in Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, op.cit.
[11] Per l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza con riguardo a tutte le sentenze, passate in giudicato, emesse dal G.O. nei confronti della P.A., finanche in riferimento a quelle che impongono un’attività vincolata: Cons. Stato, Ad. Pl., 10 aprile 2012, n. 2.
[12] Cfr. B.G. Mattarella, La natura del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione dei giudicati del giudice civile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op. cit., 335 - 339.
[13] C. Delle Donne, Le decisioni del giudice civile e il lodo arbitrale: l’ambito della cognizione, le tecniche di redazione, il titolo esecutivo e il contenuto ottemperabile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op.cit., consultabile anche sul sito della giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it); F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 4, 1025 - 1047.
[14] Cons. Stato, 13 maggio 2016, n. 1952; Cons. Stato, 21 dicembre 2011, n. 6773.
[15] Sulle problematiche connesse alla condanna implicita fondamentali le sentenze della Cassazione: Cass. Civ., 31 gennaio 2012, 1367 e Cass. Civ., 26 gennaio 2005, n. 1619, nonché Cons. Stato, 13 maggio 2016, n. 1952; Id., 14 aprile 2016, n. 1499, su cui cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, op. cit., 172. Sui poteri del giudice dell’ottemperanza nelle ipotesi di condanna generica e di condanna implicita cfr.: F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.; F. D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice ordinario, rinvenibile sul sito della giustizia amministrativa.
[16] Si chiariranno meglio nel prosieguo i termini dell’incompletezza.
[17] F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, op. cit.
[18] Sul tema, si leggano gli Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), ora in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., B. Capponi - A. Storto (a cura di), op.cit.
[19] La cui ottemperanza, come noto, è preclusa al Giudice amministrativo. Cfr.
[20] Così, specificatamente, si legge in sentenza.
[21] Non a caso l’orientamento della Cassazione Civile, pur richiamata dal g.a., sul punto, è stabile e conforme da tempo, non consentendo per il ricalcolo della pensione per esposizione all’amianto, lo sforamento del limite contributivo massimo previsto dalla legge.
[22] A.M. Sandulli, I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, 21 novembre 2018, consultabile al sito www.federalismi.it,.
[23] S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987.
[24] Per una disamina critica del concetto, attualizzato al moderno contesto giuridico, anche in prospettiva comparata fra ordinamenti di civil law e common law, cfr.: G. Smorto, Sul significato di “rimedi”, in Europa e dir. priv., 2014, 1, 159 - 200.
[25] Si allude all’insegnamento del Chiovenda, Istituzioni del diritto processuale civile, vol. I e II, Napoli, 1933-1934, su cui v. A. Proto Pisani, Nel centenario del magistero di Giuseppe Chiovenda: la tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, in Foro it., 2002, 125 - 130.
[26] Chiaramente sul tema: F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel giudizio amministrativo, op. cit.
[27] M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, op. cit.
[28] Sul tema cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, op. cit.
[29] Può farsi altresì notare che il termine «attuazione» è quello espressamente adoperato dal legislatore nell’art 112 c.p.a., a ribadire la diversità ontologica dell’ottemperanza rispetto al giudizio di esecuzione, propriamente inteso.
[30] Questa volta l’attributo “incompleto” è posto tra virgolette perché si sono chiariti i termini dell’incompletezza, legati non già all’oggetto del giudicato, all’accertamento di questioni di merito relative al rapporto giuridico controverso, bensì alla esplicitazione (mediante interpretazione sistematica e conseguente applicazione) del complessivo quadro normativo di riferimento.
[31] F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.
Il difetto di contraddittorio rilevato in appello non comporta l'annullamento con rinvio.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578)
di Enrico Zampetti
SOMMARIO: 1. L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578. 2. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di primo grado. 3. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di appello. 4. Considerazioni a margine della soluzione adottata dall’ordinanza.
1. L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578.
L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578 afferma alcuni rilevanti principi in materia di contraddittorio nel giudizio di primo grado e in appello, nell’obiettivo di coniugare le ragioni del diritto di difesa con l’esigenza di una ragionevole durata dei processi.
La vicenda trae origine da una procedura concorsuale bandita da un’amministrazione provinciale per la copertura di n. 5 posti in categoria D. La candidata classificatasi nona e all’ultimo posto della graduatoria ricorreva al TAR Piemonte avverso gli atti del procedimento concorsuale, deducendo vizi procedurali idonei a inficiare l’intera procedura, ma il ricorso veniva notificato soltanto a tre degli otto soggetti controinteressati utilmente collocati in graduatoria. Il TAR respingeva nel merito il ricorso senza previamente disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati non evocati in giudizio. Sebbene il TAR non lo abbia precisato espressamente, la mancata integrazione del contradditorio risulterebbe giustificata dall’applicazione al caso di specie dell’articolo 49, co.2, c.p.a., che, come noto, permette al giudice di non disporre l’integrazione del contraddittorio “nel caso in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato”.
Chiamata a pronunciarsi sull’appello avverso la decisione del TAR, la Sezione II del Consiglio di Stato, con l’ordinanza in commento, rileva preliminarmente la mancata pienezza del contraddittorio nel giudizio di primo grado, pur a fronte della deduzione nel ricorso originario di vizi astrattamente idonei ad inficiare l’intera procedura e, come tali, potenzialmente lesivi delle posizioni giuridiche di tutti i soggetti collocati in graduatoria. Tuttavia, nella ricostruzione dell’ordinanza, l’assenza di un contradittorio pieno nel giudizio di primo grado non darebbe luogo ad un “vizio originario di costituzione del rapporto processuale”, poiché la mancata integrazione del contradditorio sarebbe dipesa da ragioni di economia processuale, nel rispetto della previsione di cui al citato articolo 49, co.2. Il fatto che il difetto di contraddittorio non rifletta un “vizio originario di costituzione del rapporto processuale” escluderebbe che il giudice di appello sia tenuto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a., sul presupposto che il difetto di contraddittorio rilevante agli effetti del rinvio sia soltanto quello identificabile in un vizio del procedimento giurisdizionale.
Tanto precisato, la Sezione dichiara esplicitamente di non ritenere l’appello “manifestamente” irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato, esprimendo in ciò una valutazione meramente preliminare sull’impugnazione proposta, che di fatto contrasta con la valutazione che a suo tempo aveva indotto il primo giudice a non disporre l’integrazione del contraddittorio. Sulla base di tale valutazione, l’ordinanza ritiene pertanto necessario disporre in appello, ai sensi dell’articolo 95, co.3 c.p.a., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati già pretermessi in primo grado, al fine di garantire nel giudizio di secondo grado il loro diritto di difesa, “alla luce della potenziale lesività degli esiti dell’odierno giudizio sulle relative posizioni”. Secondo l’ordinanza, l’integrazione del contradittorio (solo) in appello rappresenterebbe un giusto punto di equilibrio tra le ragioni di economia processuale e il diritto di difesa dei controinteressati, poiché “solo in tal modo, ritiene la Sezione, non si pregiudicano le ragioni di economia processuale, al contempo eludendo la regola, che riflette il principio di parità delle parti, secondo cui l’integrità del contraddittorio assume valenza pregiudiziale rispetto a qualsiasi tipi di decisione”. Conseguentemente, senza decidere definitivamente sul ricorso, la pronuncia ordina alla ricorrente di provvedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti utilmente collocati nella graduatoria concorsuale.
Se questa è, in sintesi, la soluzione adottata dal Consiglio di Stato, per meglio coglierne l’esatta portata è opportuno soffermarsi sinteticamente sulla disciplina che regola il contraddittorio nel giudizio di primo e secondo grado.
2. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di primo grado.
Nel processo amministrativo di primo grado, la disciplina sul contraddittorio relativa all’azione di annullamento è recata principalmente nel combinato disposto degli articoli 41 e 49 c.p.a[i]: il co. 2 dell’articolo 41 prevede che “quando sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge …” (v. anche art. 27 c.p.a.); il co.1 dell’articolo 49 stabilisce che “quando il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati, il presidente o il collegio ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri”.
Le richiamate previsioni non presentano particolari problemi applicativi, risolvendosi nella regola per cui il giudizio è correttamente instaurato con la notifica del ricorso ad almeno uno dei soggetti controinteressati, salvo il dovere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti di quei controinteressati ai quali il ricorso non sia stato inizialmente notificato. La disciplina attua pienamente il diritto di difesa costituzionalmente garantito, assicurando che tutti i soggetti controinteressati rispetto all’iniziativa giurisdizionale del ricorrente siano messi in condizione di partecipare al giudizio a tutela delle rispettive situazioni giuridiche. Può aggiungersi che, se il ricorrente non procede ad integrare il contraddittorio nel termine assegnato dal giudice, il ricorso è dichiarato improcedibile ai sensi dell'articolo 35 c.p.a. (articolo 49, co.3. c.p.a.).
In questo quadro di riferimento, il già richiamato co.2 dell’articolo 49 c.p.a. consente eccezionalmente di derogare alla pienezza del contraddittorio, nelle ipotesi in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato nel merito. La norma prevede testualmente che “l’integrazione del contraddittorio non è ordinata nel caso in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato: in tali casi il collegio provvede con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’articolo 74”, disponendo che, nei casi indicati, il giudice possa decidere la controversia con sentenza in forma semplificata senza previamente disporre l’integrazione del contradditorio, anche ove il ricorrente abbia evocato in giudizio solo alcuni dei soggetti controinteressati[ii]. All’evidenza, la previsione sacrifica il diritto di difesa nell’intento di assicurare una più rapida durata del processo, privando di fatto del contraddittorio processuale i controinteressati pretermessi, negli specifici casi in cui la decisione giurisdizionale non possa arrecare loro pregiudizio. Non è certamente questa la sede per approfondire la questione, ma è indubbio che la norma presenti delle criticità rispetto alla garanzia costituzionale del diritto di difesa sancita nell’articolo 24 Cost. Non è, infatti, un caso che, anteriormente al codice del processo amministrativo, in un contesto che non contemplava l’analoga previsione oggi recata nell’articolo 49, co.2, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato abbia affermato che il principio del contraddittorio, quale cardine di tutto il diritto processuale, non può subire limitazioni nemmeno nelle ipotesi in cui il ricorso venga rigettato, poiché l’apporto dei controinteressati potrebbe sempre contribuire a “consolidare i motivi posti alla base della decisione di rigetto”, sia attraverso la mera contestazione delle censure dedotte nel ricorso, sia attraverso la proposizione di un eventuale ricorso incidentale ampliativo del thema decidendum[iii].
Senonchè, la più recente giurisprudenza non mette adeguatamente in luce questi aspetti, ma tende piuttosto a valorizzare l’articolo 49, co.2, nella sua compiuta aderenza “ai principi di accelerazione e di concentrazione processuale”, sottolineando come la disciplina del nuovo codice miri ad evitare “l'inutile protrarsi del processo medesimo mediante l'imposizione di incombenti intuitivamente inutili rispetto ad un esito che le risultanze già acquisite consentono di definire sfavorevole per le tesi della parte ricorrente”[iv].
3. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di appello.
Nel giudizio di appello la disciplina sul contraddittorio è recata nell’articolo 95 c.p.a: il co. 1 prevede che “l’impugnazione della sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti è notificata, a tutte le parti in causa e, negli altri casi, alle parti che hanno interesse a contraddire”; il co. 3 stabilisce che “se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti di cui al comma 1, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere seguita, nonché la successiva udienza di trattazione” [v]. Con i dovuti adattamenti, le richiamate previsioni ribadiscono per il giudizio di secondo grado quanto stabilito dagli artt. 41, co. 2 e 49, co.1 c.p.a. per il giudizio di primo grado, richiedendo che il ricorso in appello sia notificato a tutte le parti in causa e che, ove il ricorso non sia stato notificato nei confronti di tutte le parti, il giudice di appello debba ordinare l’integrazione del contraddittorio. Anche in tal caso, l’impugnazione è dichiarata improcedibile se l’integrazione del contradditorio non viene effettuata nel termine assegnato dal giudice (art. 95, co.4, c.p.a.).
Il co. 5 dell’articolo 95 c.p.a. ripropone, invece, per il giudizio di appello la previsione sancita per il giudizio di primo grado dall’articolo 49, co.2 c.p.a., disponendo che “il Consiglio di Stato, se riconosce che l’impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, può non ordinare l’integrazione del contraddittorio, quando l’impugnazione di altre parti è preclusa o esclusa”. Una lettura della norma coerente con i precedenti commi 1 e 3 dello stesso articolo 95 indurrebbe a circoscriverne l’applicazione alle sole ipotesi in cui il difetto del contraddittorio si riscontri nel giudizio di appello, quando cioè l’appellante abbia notificato il ricorso soltanto ad alcuna delle parti del primo giudizio. In questi casi, al giudice di appello sarebbe consentito di decidere direttamente la causa senza disporre l’integrazione del contraddittorio, esattamente per le stesse ragioni di economia processuale che giustificano l’analoga previsione del giudizio di primo grado. Senonchè, nella giurisprudenza amministrativa si è largamente affermata un’interpretazione estensiva della norma, ritenuta più aderente al principio di economia processuale, in base alla quale, nei casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’impugnazione, il giudice di secondo grado potrebbe non disporre l’integrazione del contraddittorio, non solo nelle ipotesi in cui il contraddittorio sia carente in appello ma integro in primo grado, ma anche nelle diverse ipotesi in cui il contraddittorio non si sia pienamente realizzato sin dal giudizio di primo grado[vi]. Le implicazioni di questo orientamento vanno adeguatamente sottolineate, perché, tradizionalmente, il difetto di contraddittorio in primo grado rappresenta una delle cause di rimessione al primo giudice, con la specifica finalità di garantire un contraddittorio integro sin dal primo grado di giudizio. Ad ogni modo, le argomentazioni a sostegno dell’interpretazione estensiva poggiano sempre sul fatto che il rigetto dell’appello non possa di per sé pregiudicare il controinteressato pretermesso in primo grado, quantomeno nei casi in cui l’appello sia proposto dall’originario ricorrente avverso la pronuncia che ha respinto il ricorso. Sicchè, in questi casi, la rimessione della causa al primo giudice non arrecherebbe alcun vantaggio al controinteressato, ma determinerebbe soltanto un ingiustificato allungamento dei tempi processuali[vii].
Come si è anticipato, il contraddittorio viene in rilievo anche nella disciplina sulla rimessione prevista dall’articolo 105 c.p.a, che, accanto alla “lesione del diritto di difesa”, annovera espressamente la “mancanza di contraddittorio” tra le cause di annullamento con rinvio, nell’obiettivo di garantire la pienezza del contraddittorio sin dal primo grado di giudizio[viii]. La concreta portata della disciplina è stata recentemente puntualizzata dalle decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 10,11,14 e 15 del 2018[ix], che hanno sottolineato come le due espressioni “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio” siano “ambedue riconducibili alle menomazione del contraddittorio lato sensu inteso”, poiché in entrambi i casi “è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, nel senso che lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa o di beneficiare dell’integrità del contraddittorio”. Se la “lesione del diritto di difesa” integrerebbe “un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio”, che si traduce “nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato”, la “mancanza del contraddittorio” sarebbe, invece, riconducibile all’ipotesi “in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte”, sicchè “il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento”[x]. Nei casi in cui il contraddittorio è mancato ma avrebbe dovuto essere integro, lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, con la conseguenza che il giudice di appello è tenuto a rimettere la causa al primo giudice, affinchè al controinteressato pretermesso sia garantito il pieno esercizio del diritto di difesa.
4. Considerazioni a margine della soluzione adottata dall’ordinanza.
La pronuncia in commento si limita ad ordinare in appello l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati pretermessi in primo grado, senza rinviare la causa al primo giudice e così realizzare sin dal primo grado la pienezza del contraddittorio. Secondo l’ordinanza, l’integrazione del contraddittorio si renderebbe necessaria in ragione della valutazione di non manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’impugnazione, compiuta in via meramente preliminare dallo stesso giudice di appello. Poiché un eventuale accoglimento dell’appello pregiudicherebbe i controinteressati pretermessi in primo grado, essi dovrebbero poter prendere parte al giudizio di secondo grado a tutela delle rispettive situazioni giuridiche, non applicandosi in questi casi la deroga alla pienezza del contraddittorio prevista dagli articoli 49, co.2 e 95, co. 5 c.p.a. Così disponendo, l’ordinanza mira a coniugare il diritto di difesa con il principio di ragionevole durata del processo, individuando il giusto punto di equilibrio in una soluzione che, se esclude la rimessione al giudice di primo grado, assicura il contraddittorio quantomeno nel giudizio di appello. Senonchè, nel caso in cui il ricorso in appello dovesse essere definitivamente accolto, i controinteressati pretermessi in primo grado, ma ammessi al contraddittorio nel giudizio di secondo grado, si vedrebbero pregiudicati da una decisione giurisdizionale rispetto alla quale non potrebbero più esperire alcuna impugnazione di merito, essendo ipotizzabile soltanto un eventuale ricorso in cassazione per motivi di giurisdizione. Il che significa che, pur partecipando al giudizio di appello, i suddetti controinteressati subirebbero la decisione ad essi sfavorevole senza beneficiare e aver beneficiato di un doppio grado di giudizio, di cui, invece, il ricorrente e i controinteressati evocati in primo grado hanno beneficiato.
Pertanto, se pur ispirata da apprezzabili esigenze di economia processuale, la soluzione di limitare al giudizio d’appello la pienezza del contraddittorio appare arrecare un eccessivo sacrificio al diritto di difesa, sia perché impedisce ai controinteressati di esercitare sin dal primo grado le ordinarie garanzie difensive, sia perché di fatto li priva di un doppio grado di giudizio. Va aggiunto che, quantomeno in linea teorica, alle stesse obiezioni si espone il già ricordato orientamento che, nell’interpretare estensivamente l’articolo 95, co.5, reputa superfluo integrare il contraddittorio sin dal primo grado, nelle ipotesi in cui l’impugnazione sia riconosciuta “irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata”. Tuttavia, in questi casi, la mancata integrazione del contraddittorio può trovare una giustificazione nel fatto che gli esiti dell’appello di per sé non pregiudicano il controinteressato pretermesso. Diversamente, nella vicenda oggetto dell’ordinanza in commento, non è affatto scontato che l’esito dell’impugnazione coincida con una decisione di rigetto, come appunto rivela l’espressa valutazione preliminare sulla non manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso d’appello.
Piuttosto, una soluzione diversa da quella adottata dal Consiglio di Stato, più aderente e rispettosa del diritto di difesa, sarebbe quella di rinviare la causa al giudice di primo grado, così da garantire che tutti i soggetti controinteressati possano esercitare sin dal primo grado di giudizio le rispettive prerogative difensive, nel rispetto dell’articolo 24, co 2, Cost., che, è bene sottolinearlo, afferma l’inviolabilità del diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”. Al contempo, la rimessione garantirebbe anche ai controinteressati originariamente pretermessi di beneficiare del doppio grado di giudizio. Questa soluzione sembra perfettamente compatibile con l’articolo 105 c.p.a, poiché la norma, come si è già ricordato, annovera espressamente tra le cause di rimessione proprio il difetto di contraddittorio e la lesione del diritto di difesa. Né potrebbe utilmente opporsi la circostanza che nel caso di specie il difetto di contraddittorio non integrerebbe un error in procedendo, in quanto giustificato dall’applicazione dell’articolo 49, co.2, c.p.a. Se, infatti, il giudice di secondo grado ritiene che il ricorso in appello non sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato, di fatto sta esprimendo una valutazione contrastante rispetto a quella a suo tempo compiuta dal primo giudice, in base della quale non era stato integrato il contraddittorio in applicazione dell’articolo 49, co.2, c.p.a. Il che dimostra che il difetto di contraddittorio perpetratosi nel giudizio di primo grado è il frutto di un’applicazione della norma che lo stesso giudice di secondo grado considera in qualche modo errata, laddove esprime una valutazione preliminare di non manifesta inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso d’appello (e quindi, in sostanza, del ricorso di primo grado). Ciò è sufficiente a confermare che il difetto di contraddittorio riscontrato nel giudizio di primo grado sia il frutto di un errore del primo giudice tale da integrare l’ipotesi di rimessione prevista dall’articolo 105 c.p.a..
Dal punto di vista della ragionevole durata del processo, una soluzione incentrata sulla rimessione è certamente meno soddisfacente di quella adottata dall’ordinanza in commento, ma probabilmente più coerente con i canoni del diritto di difesa. Ad ogni modo, il solo prospettarla rivela la necessità di una più ampia riflessione su quale debba essere il giusto punto di equilibrio tra le ragioni del diritto di difesa e l’esigenza di una ragionevole durata del processo, riflessione meritevole di un approfondimento che i limiti della presente nota non consentono di svolgere in questa sede.
* * *
[i] Sulla disciplina del contraddittorio nel giudizio di primo grado, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 249 ss.; R. DE NICTOLIS, a cura di, Processo amministrativo - formulario commentato, Milano, 2019, 641 ss.; D.TRAINA, commento agli artt. 40-49 c.p.a., inCodice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, Milano, 2015, 563 ss.; F. CANGELLI, Le parti, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2011, 219 ss.
[ii] Sull’articolo 49, co. 2. c.p.a., P. PATRITO, Lo svolgimento del giudizio e le decisioni emesse in camera di consiglio, in Il nuovo processo amministrativo, commentario sistematico diretto da R. CARANTA, Bologna, 2011, 406; sulla sentenza in forma semplificata e la sua disciplina, F. RISSO, La sentenza in forma semplificata, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FFRANCARIO e M.A. SANDULLI, Napoli, 2019, 125 ss.
[iii] Cons. St., Ad. Pl., 17 ottobre 1994 n. 13, in Dir. proc. amm., 2/1996, con nota di C.E.GALLO, Omessa integrazione del contraddittorio e rinvio al giudice di primo grado nel giudizio amministrativo, 336 ss e di S. MENCHINI, La rimessione della causa al primo giudice nell’appello amministrativo, 352 ss.
[iv] Cons. St.,Sez. IV, 12 giugno 2013 n. 3261.
[v] Sulla disciplina del contraddittorio nel giudizio di appello, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 334 ss.; R. DE NICTOLIS, a cura di, Processo amministrativo - formulario commentato, cit., 1735 ss.; F.P.LUISO, commento agli artt. 91- 99 c.p.a., in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, cit., 889 ss.; A. ZITO, Le impugnazioni, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, cit., 409 ss.
[vi] La giurisprudenza è solita affermare che “la disposizione di cui all'art. 95 comma 5, espressiva del principio di economia dei mezzi giuridici, conclusivamente, deve essere intesa nel senso che il giudice d'appello, ove riconosca che l'impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, può (anche) non annullare la decisione di primo grado, ove il contraddittorio sia stato carente in detto grado di giudizio, ove l'impugnazione di altre parti è preclusa o esclusa” (Cons. St., Sez. IV, 9 febbraio 2012 n. 688); in termini, Cons. St., Sez. IV, n. 3261/2013, cit.; Cons. St., Sez. IV, 7 dicembre 2015 n. 5571; Cons. St., Sez. III, 27 maggio 2013 n. 2893; Cons. St., Sez. III, 28 ottobre 2013 n. 5172.
[vii] Cons. St., Sez. III, 27 maggio 2013/2893, cit.: “ragioni di economia processuale e l’interesse a una ragionevole durata del processo fanno ritenere non necessario disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati non evocati nel giudizio di primo grado, quando nel merito l’appello è infondato”.
[viii] Sulla disciplina della rimessione recata nel codice del processo amministrativo, D. CORLETTO, commento all’articolo 105 c.p.a., in Il processo amministrativo, a cura di A. QUARANTA – V. LOPILATO, Milano, 2011, 810 ss.; F.P.LUISO, Le impugnazioni, in Il codice del processo amministrativo, a cura di R.VILLATA – B. SASSANI, Torino, 2012, 1207 ss.; R. DE NICTOLIS - M. NUNZIATA, commento all’articolo 105 c.p.a. in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, cit., 965 ss.; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 338 ss.
[ix] Cons. St., Ad. Pl., 30 luglio 2018 n. 10; Cons. St., Ad. Pl., 30 luglio 2018 n. 11; Cons. St., Ad. Pl, 5 settembre 2018 n. 14; Cons. St., Ad. Pl., 28 settembre 2018 n. 15; per approfondimenti in merito alle decisioni dell’Adunanza Plenaria, M.A. SANDULLI, Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado sulle domande declinate o pretermesse dal TAR. La Plenaria definisce i confini del rinvio al primo giudice e stigmatizza la motivazione apparente delle sentenze, in Federalismi.it, 2018; A. CASSATELLA, La Plenaria limita i casi di rinvio al giudice di primo grado, in Giorn. dir. amm., 2/2019, 207 ss.; A TRAVI, nota a Cons. St., Ad. pl., decisioni 30.7.2018 n. 10, 5 settembre 2018 n. 14, 28 settembre 2018 n. 15, in Foro it., 2018, III, 546 ss.; A. SQUAZZONI, Ancora in tema di rinvio o giudizio diretto del Consiglio di Stato. Brevi note a margine dell’Adunanza Plenaria, in Dir. proc. amm., 2/2019, 616 ss; C.E.GALLO, Omessa pronuncia e annullamento con rinvio da parte del Giudice di appello nel processo amministrativo, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FFRANCARIO e M.A. SANDULLI, cit., 81 ss.; E. ZAMPETTI, Riflessioni a margine delle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 10.11 e 15 del 2018 in tema di annullamento con rinvio, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FRANCARIO e M.A. SANDULLI, cit., 427 ss.
[x] Cons. St., Ad. Pl., n. 10/2018, cit.
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