I rapporti patrimoniali della famiglia tra solidarietà e autoresponsabilità*
di Gabriella Luccioli
1. Seguendo il titolo della tavola rotonda, i principi di solidarietà e di autoresponsabilità, nella molteplicità delle loro declinazioni e applicazioni, costituiranno il filo conduttore del nostro dibattito.
Peraltro la stessa composizione di questa tavola rotonda lascia intendere che la riflessione non si svilupperà solo sul piano tecnico giuridico, ma implicherà valutazioni di tipo sociologico.
I principi di solidarietà ed autoresponsabilità sono stati reiteratamente invocati dalla giurisprudenza a fondamento sia di indirizzi consolidati sia di orientamenti innovativi, e spesso il richiamo dell’uno o dell’altro con riferimento al medesimo testo normativo ha portato a soluzioni del tutto diversificate.
Tale constatazione rende evidente che si tratta di principi da utilizzare con prudenza, in quanto segnati da ampi margini di approssimazione e densi di implicazioni metagiuridiche, e quindi suscettibili di rivestire portata diversa e di assumere connotazioni ideologiche, riflettendo pregiudizi più o meno consapevoli. Come scriveva Hanna Arendt, ogni ideologia tende fanaticamente ad abolire la vita particolare del mondo nel nome universale dell’Idea.
Il prof. Sesta ricorda che la solidarietà consiste in un impegno etico e sociale verso gli altri che si manifesta in uno sforzo attivo e gratuito teso a considerare le esigenze e i disagi di chi ha bisogno di aiuto.
Rilevo che si tratta di un concetto con un ampio tasso di indeterminatezza: quanto deve essere intenso questo sforzo di condivisione? A quale livello esso deve arrestarsi perché si ritenga adempiuto il dovere di solidarietà?
Ed il principio di autoresponsabilità può essere così pressante da annullare il riconoscimento dei sacrifici di una vita, e quindi il rispetto della propria dignità?
Io credo che nell’ attuale fase storica la scommessa stia non tanto nella prevalenza dell’uno o dell’altro principio, ma nel conseguimento di un equo contemperamento tra una visione che conferisce valore crescente ai diritti fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza di tale valore con altri principi ed interessi di rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione di assoluta prevalenza, se non quello di dignità.
2. Procedendo ad una opportuna diversificazione dei rapporti tra adulti da quelli tra genitori e figli, per quanto concerne il primo ordine di relazioni non è infrequente nella giurisprudenza più recente il richiamo al principio di autoresponsabilità. Espressione significativa di tale indirizzo è la nota sentenza Lamorgese n. 11504 del 2017, che distaccandosi da un orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato subordinò la spettanza dell’assegno di divorzio all’applicazione del criterio unico della non titolarità di redditi sufficienti a garantire l’indipendenza economica, con un completo azzeramento dei parametri di quantificazione indicati dal comma 6 dell’ art. 5, ed in particolare di quelli diretti a garantire la funzione compensativa dell’ assegno. Tale decisione, come è noto, sostituì ad un criterio relativo, concreto e specifico, che aveva riguardo alle condizioni economiche di una determinata coppia ed al contesto in cui essa era inserita, un criterio di carattere generale, astratto ed assoluto, identificato nell’ autosufficienza di una persona singola e priva di passato, così riducendo significativamente gli spazi per il riconoscimento dell’assegno. Detta sentenza, nell’ adombrare che l’interpretazione consolidata in giurisprudenza da circa 27 anni determinasse una sorta di illegittima locupletazione o una rendita parassitaria del richiedente, cui occorreva porre subito termine, si ispirava chiaramente a valutazioni di tipo etico/economico, celando dietro il richiamo al principio di autoresponsabilità considerazioni di ordine prettamente ideologico.
La successiva pronuncia delle SS.UU. n. 18287 del 2018, nel porre rimedio agli effetti distorsivi dell’ incauto overruling del 2017, si è reiteratamente riferita al principio di solidarietà lì dove - affermando che i criteri di cui alla prima parte del comma 6 dell’ art. 5 della legge sul divorzio integrano il parametro di riferimento per decidere sia sulla attribuzione che sulla quantificazione dell’ assegno - ha attribuito rilevanza preminente al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno dei coniugi, così dandosi carico della funzione perequativa/compensativa dell’assegno, che si affianca a quella assistenziale. Le Sezioni Unite hanno in tal modo restituito rilievo e dignità al vissuto della coppia prima dello scioglimento del matrimonio, ritenendo che non possa esistere cesura tra la situazione attuale del coniuge richiedente ed il suo percorso matrimoniale, atteso che il divorzio pone termine al vincolo, ma non azzera il passato e non sopprime le conseguenze attuali delle modalità con le quali la vita in comune si è dispiegata. Esse hanno così recuperato il valore della solidarietà postconiugale, ponendo gli artt. 2 e 29 Cost. alla base dei rapporti economici dei coniugi anche dopo lo scioglimento del vincolo.
Non intendo ritornare in questa sede sulle molte perplessità che suscita l’approdo delle Sezioni Unite nella scelta della terza via, che unificando le fasi dell’ an e del quantum debeatur postula la valutazione integrata di tutti i criteri indicati nel comma 6 dell’art. 5, senza tuttavia configurare un indice o un valore cui detti criteri debbano essere rapportati. Mi preme ora soltanto evidenziare che detta sentenza evoca il principio di autoresponsabilità che connota la definizione e condivisione dei ruoli familiari associandolo al richiamato valore della solidarietà postconiugale, intesa come solidarietà del caso concreto, secondo la definizione di Massimo Bianca.
In questa visione solidarietà, autodeterminazione ed autoresponsabilità non si pongono più in termini antitetici, ma si integrano nella prospettiva di un modello di famiglia aderente all’ evoluzione della società e del costume.
Ed anche l’ordinanza n. 28995 del 2020, che ha sollecitato la remissione alle Sezioni Unite della questione della automaticità o meno della cessazione dell’obbligo di versamento dell’assegno divorzile nel caso di nuova convivenza del beneficiario, nel dubitare della correttezza dell’orientamento più recente incline all’automatismo degli effetti estintivi ha evocato la funzione compensativa dell’assegno, e quindi il principio di solidarietà postconiugale.
È agevole riscontrare nell’ordinanza di remissione la ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà postconiugale, sul rilievo che se pure il primo chiama gli ex coniugi che costituiscono una stabile convivenza con soggetti terzi a scelte consapevoli di vita anche a detrimento di pregresse posizioni di vantaggio, tuttavia esso non può sterilizzare il secondo, persistendo in ragione della funzione perequativa/compensativa dell’assegno l’esigenza di riconoscere all’ ex coniuge economicamente più debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione - tanto più consistente nei matrimoni di lunga durata e con la presenza di figli - nella prospettiva di un modello di unione coniugale incentrata sulla parità dei ruoli in essa rivestiti, che proietta la sua operatività anche nella definizione degli assetti economici postconiugali.
Spetta ora alle Sezioni Unite decidere se ribadire il principio di automatismo dell’effetto estintivo o affidare al giudice del caso concreto l’accertamento del diritto alla conservazione dell’ assegno divorzile, dopo aver verificato che esso abbia svolto in passato una funzione perequativa/compensativa.
Resta peraltro la difficoltà di configurare l’assegno di divorzio, che secondo la legge va corrisposto senza limiti di tempo (salvi ovviamente provvedimenti successivi di modifica o di revoca) come strumento idoneo a compensare i sacrifici compiuti da uno dei coniugi nell’ interesse del nucleo familiare.
3. Quanto ai rapporti tra genitori e figli, fermo l’obbligo costituzionalmente imposto dall’art. 30 comma 1 ai genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, la questione più dibattuta concerne la durata dell’obbligo di mantenimento della prole oltre la maggiore età. Come è noto, con ordinanza n. 17183 del 2020 la Cassazione, richiamando in termini assorbenti il principio di autoresponsabilità del figlio maggiorenne, ha affermato che detto obbligo cessa di diritto al raggiungimento della maggiore età e che spetta al figlio ultradiciottenne agire in giudizio per il riconoscimento del relativo diritto, dimostrando in via autonoma di non essere in colpa per il suo stato di perdurante dipendenza economica.
Va innanzi tutto rilevato che tale summa divisio tra il prima e il dopo il compimento dei 18 anni appare stridente con il più elementare buon senso e produce l’effetto di liberare automaticamente a quella data da ogni dovere di contribuzione il genitore non convivente e di costringere il figlio a promuovere un separato giudizio, con i suoi costi e i suoi tempi, per dimostrare, accollandosi il relativo onere, non solo di aver curato con ogni possibile impegno la propria preparazione, ma anche di avere con pari impegno operato nella ricerca di un lavoro.
È facile osservare in contrario che non è ravvisabile alcuna estinzione o sospensione del diritto al mantenimento al sopraggiungere della maggiore età, atteso che sul piano assiologico i doveri verso i figli nascono dalla filiazione e prescindono dall’esistenza di poteri nei loro confronti.
Inoltre l’impostazione seguita nell’ ordinanza in esame determina una inammissibile differenziazione tra figli di genitori separati o divorziati e figli di genitori uniti e comporta sostanzialmente che nelle more sia accollato unicamente sull’ altro genitore convivente (generalmente la madre) il peso del mantenimento del giovane.
Ed ancora, imporre al figlio maggiorenne la ricerca di qualsiasi lavoro e l’attivazione in qualunque direzione per raggiungere una qualche autonomia significa ignorare che costituisce preciso dovere dei genitori, ovviamente nei limiti delle loro possibilità economiche, rispettare le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni della prole, secondo il chiaro disposto degli artt. 147 e 315 bis, primo comma, c.c.
Evocare in modo così pressante il principio di autoresponsabilità dimenticando quel valore di solidarietà che dà senso alle relazioni familiari significa aderire ad una visione dell’impegno dovuto dalle giovani generazioni con la quale si può in linea astratta anche convenire, ma che stride fortemente con la drammatica realtà del nostro Paese e con le enormi difficoltà dei giovani di realizzare le proprie aspirazioni lavorative e anche di inserirsi comunque nel mercato del lavoro; significa insomma perdere di vista quel ruolo di sensore sociale che il giudice è chiamato ad assumere al fine di enucleare dalla realtà i diritti delle persone.
Neppure il tanto contestato disegno di legge Pillon, che pare fortunatamente accantonato dal Parlamento, era arrivato a tanto, limitandosi a fissare a 25 anni l’età massima per la spettanza dell’assegno.
Si tratta a mio avviso di una decisione di miope reazione ad un indirizzo consolidato in nome di una ideologia, peraltro fondata su una lettura errata dell’art. 337 septies c.c. e del tutto sganciata dalla realtà economica e sociale del nostro Paese.
Va altresì considerato che autoresponsabilità significa anche responsabilità verso se stessi, significa rispetto per delle scelte personali difficili, che talvolta richiedono tempi lunghi di preparazione (pensiamo al concorso in magistratura), che magari non sono coronate da successo al primo tentativo, a fronte delle quali - come ricordavo - si pone il dovere dei genitori, sempre ovviamente che ne abbiano la capacità economica, di supporto e di incoraggiamento in nome del principio di solidarietà; significa rispetto per le legittime aspirazioni e le specifiche attitudini dei figli, che costituiscono presupposto per la realizzazione della loro dignità.
Si tratta insomma di riconoscere quel diritto al futuro dei giovani che la Costituzione riconosce e garantisce. Come ha osservato Gianfranco Gilardi in una nota critica all’ordinanza per Giustizia Insieme, le posizioni assunte dalla Cassazione hanno il sapore di un invito ad arrangiarsi alle nuove generazioni, abbandonate a se stesse, trascurando che nell’ impianto complessivo della Costituzione si esprime l’ impegno di costruzione del presente anche come garanzia di tutela del futuro, in un continuum in cui le generazioni che oggi si affacciano al mondo siano viste come beneficiarie e, insieme, artefici del progetto ….di vivere una vita serena e dignitosa.
Ancora una volta dietro il richiamo da parte della Cassazione al principio di autoresponsabilità si nascondono motivazioni di carattere ideologico.
Fortunatamente la giurisprudenza della Cassazione sembra aver messo da parte i principi enunciati nella richiamata ordinanza n. del 2021. Le ordinanze 2020 n. 19077, 2020 n. 21752 e 2021 n. 23318 sono infatti tornate all’orientamento originario, secondo il quale il giudice non può a priori fissare un termine finale all’obbligo di versamento dell’assegno, dovendo la cessazione di esso accertarsi a posteriori in conseguenza di fatti sopravvenuti idonei a determinare tale effetto, con onere della prova a carico del genitore onerato.
4. Mi avvio alla conclusione. In una materia come quella di cui qui ci occupiamo è evidente la difficoltà del compito del giudice, chiamato ad affrontare situazioni complesse e delicate inquadrandole in una cornice di legalità, nel rispetto dei precetti costituzionali e della normativa sovranazionale. La varietà delle situazioni e delle esigenze da considerare rende evidente che la risposta di giustizia non può essere affidata ad algoritmi, come da alcuni prospettato, ma richiede un forte affinamento della professionalità del magistrato, prudenza istituzionale, libertà dai pregiudizi, capacità di uscire dalla prigione del fanatismo ideologico, costante attenzione alla direzione della bussola verso quel nucleo forte di principi che esaltano la dignità della persona, nella sua dimensione individuale e sociale.
Ed allora, al di là di improprie formule definitorie, occorre aver riguardo alla effettiva salvaguardia della persona, anche e soprattutto quando a chiedere giustizia sono i soggetti più vulnerabili o le vittime di contesti sociali fortemente discriminatori, ponendo estrema attenzione alle situazioni concrete ed agli specifici bisogni da tutelare: è questo, a mio avviso, che una società profondamente democratica si aspetta dai suoi giudici.
In nessuna materia come in questa una corretta percezione delle dinamiche familiari, in una società ancora permeata di modelli stereotipati, costituisce il misuratore più importante della validità della soluzione di diritto adottata, e prima ancora della sua conformità alle esigenze di giustizia sostanziale.
A fronte delle richiamate incongruenze del sistema vigente appare evidente la necessità di una complessiva e sistematica rivisitazione da parte del legislatore degli assetti economici postmatrimoniali, che superando l’impostazione attuale che pone l’assegno di divorzio come unico strumento disponibile per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra le parti dia finalmente spazio - superando le note resistenze della giurisprudenza - agli accordi privati dei soggetti interessati, introducendo nel nostro ordinamento i prenuptial agreements in vista della crisi familiare.
È ormai acquisizione generalmente condivisa che soltanto la libera autodeterminazione dei coniugi o futuri coniugi nella fase progettuale o anche nel corso della vita matrimoniale, immune dalle asprezze che generalmente segnano la fase patologica del rapporto, può realmente proteggere la coppia dalle distorsioni del conflitto e dalle reciproche rivendicazioni che generalmente segnano tale momento.
A detto intervento, da lungo tempo sollecitato da molti osservatori, induce anche la scarsa applicazione del regime di comunione legale tra i coniugi, che nella prospettiva del legislatore del 1975 costituiva espressione della massima solidarietà familiare ed integrava valido strumento per la realizzazione dell’istanza paritaria e per la valorizzazione del lavoro di cura all’ interno della famiglia. Le statistiche sul punto evidenziano l’alto tasso di impopolarità e l’obsolescenza di tale regime patrimoniale, determinata anche dall’incremento del numero delle separazioni e dei divorzi, che induce i nubendi a favorire il regime separatista, così da evitare i complessi problemi giuridici attinenti allo scioglimento della comunione.
Va ancora considerato che la sempre più marcata frequenza di matrimoni di italiani con cittadini stranieri può comportare, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 30 della legge n. 218 del 1995, che eventuali accordi stipulati tra i coniugi trovino attuazione in Italia.
Sui molti interrogativi suscitati dall’applicazione dei principi di solidarietà ed autoresponsabilità svolgeranno le loro riflessioni il professor Sesta, che porterà la voce dell’accademia, l’avvocata Ruo, che illustrerà il punto di vista della difesa, ossia della parte che pone la domanda di giustizia e si fa spesso promotrice di istanze di tutela di nuovi diritti, intuendo prima di altri le inadeguatezze ed i limiti dello strumentario attualmente disponibile, la professoressa Saraceno, che ci confermerà quanto i principi astratti di cui il diritto si nutre devono essere riempiti di contenuti e di sostanza attraverso l’analisi delle condizioni nelle quali solidarietà e autoresponsabilità si esplicano nella nostra società.
*Intervento introduttivo della tavola rotonda coordinata dalla Presidente Maria Gabriella Luccioli al corso su "Il punto sugli aspetti patrimoniali del diritto di famiglia" organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Sezione Corte di Cassazione nei giorni 15-17 settembre 2021.