ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Viaggio in Italia. Il Viaggio della Corte Costituzionale nelle Carceri
Recensione al Film di Donatella Salari
Ispirandosi al viaggio felice di Guido Piovene di “Viaggio in Italia”, secondo lo schema del tour d’iniziazione, già di stampo ottocentesco, libero e profondo al tempo stesso, la Corte Costituzionale si cimenta in un viaggio che non è ideologico né retorico, ma solo veridico.
Si dice che la parola autorità nella radice indo- europea aug indichi forza, ma contemporaneamente, suggerisce anche augere, ossia promuovere, prendere l’iniziativa dando forma, così, ad un progetto che, quasi in una dimensione sacra, già esiste e che attraverso l’autorità prende una forma presidiandone la crescita ed il destino.
L’autorità trasmette, anche una sua, come dire...? “verità” che dovrebbe esprimersi attraverso la politica e, nello stesso tempo, quella stessa autorità diviene anche relazione perché si prende cura di far esistere il singolo nella sua libertà o, diremmo più liricamente, nella sua individualità irripetibile, attraverso un adeguamento il più spontaneo possibile ad un progetto esistenziale e politico che è anche valore collettivo tanto quanto simbolico.
Se questa possibilità non si realizza, non s’invera, ovvero si rompe questa relazione, l’autorità deve potere recuperare il suo significato simbolico o, se vogliamo, sacrale perché è in questo scambio di simboli che si diventa persona ed è questa la differenza cruciale tra potere ed autorità, come tutti possiamo intuire.
Il potere è, perciò, la reificazione nel presente ed è qualcosa di risolto in se stesso senza alcuna trascendenza che assicuri lo scambio simbolico e la sua dimensione collettiva di riconoscimento in un progetto condiviso che nello Sato democratico moderno vede nella libertà e nell’uguaglianza gli attributi fondamentali.
Credo, allora, di potere sostenere che il viaggio della Corte nelle carceri italiane non nasca tanto o solo da un’esigenza di comunicazione – assolutamente utile - della Corte ma dall’acquisita consapevolezza di trasmettere quella che potremmo chiamare una propria identità che è soprattutto simbolica, ossia in grado di trasmettere quei valori di integrazione e di dignità dell’individui, tra i tanti principi che stanno tutti nella Costituzione e di trasmettere la loro immanenza, al di là delle torsioni e delle contraddizioni del gioco politico e dei suoi tatticismi su valori costituzionali non negoziabili.
Il carcere è, in questo senso, uno dei luoghi più carichi di significati perché proprio lì, attraverso la Costituzione la democrazia offre la scena dello scambio simbolico tra Stato e comunità, rinnovando le intuizioni più profonde sui valori sociali dell’uguaglianza e della funzione rieducativa della pena nel rispetto della persona umana e della sua dignità.
Il viaggio della Corte, di tappa in tappa nelle carceri italiane, da Rebibbia a San Vittore e Sollicciano è il viaggio stesso di ciascuno di noi all’interno della Costituzione e si snoda attraverso le strutture di Terni e di Genova, passando da Lecce fino a Nisida , toccando altri luoghi ,accompagnato dalle parole della Carta e dalle immagini degli istituti penitenziari inquietanti e umane al contempo.
Le parole della Costituzione, nella limpidezza del testo fondamentale fanno da collante sociale a quelle immagini e ci parlano con gli stessi interpreti non come rappresentazioni di concetti, ma enunciazione capaci di divenire “discorsi” nel quale inscrivere la forma stessa della Costituzione nella sua intersoggettività, il che è quanto dire che Costituzione è di tutti, anzi, meglio, è di tutte le persone in quanto tali e, perciò, anche di chi quelle regole ha violato.
Il linguaggio della legalità diviene, così, diegesi del racconto filmico e accompagna un viaggio che cambierà molti dei nostri pensieri sulle carceri, specialmente laddove le informazioni e le nostre strutture conoscitive su questo tema sono divenute preda di stereotipi e di preconcetti.
L’incontro sembra, perciò, rigenerare attraverso un nuovo umanesimo, il linguaggio della Costituzione che non sembra invecchiata a 70 anni dalla sua fondazione, e ci mostra tutta la finitezza e la prevedibilità di un pensiero che vorrebbe velarla d’ombra col “gettare la chiave del carcere” e comprendiamo nell’umanità di chi è ristretto quanto questa immagine diventi affermazione priva di senso o, come si è detto acutamente, getti, semmai, sul carcere un soffocante spirito erinnico che ci spinge indietro di più di mezzo secolo.
L’inedito viaggio prende inizio dal carcere di Rebibbia, presenti 12 giudici e il Presidente Giorgio Lattanzi, davanti a 220 detenuti, in diretta streaming rivolta ad altri undicimila ristretti di altre carceri d’Italia, e si snoda in sette incontri dedicati a singoli istituti penitenziari forte di una sintesi di materiale complesso fatto di incontri, di reportage dei singoli giudici, di fotografie e di interviste.
Non vi è una sceneggiatura, come ha sottolineato il Presidente Lattanzi non vi é una tesi che attraversi il racconto, ma solo l’idea di un incontro tra due mondi diversi che attraverso il linguaggio della legalità e della cura dei diritti riescono a parlarsi e a scambiarsi anche emozioni, ma senza retorica.
La Corte vuole conoscere e farsi conoscere dice il Presidente Lattanzi e, certamente, molti dei frammenti di storia rimarranno nella memoria dei giudici della Corte i quali, come qualcuno ha detto, con questo viaggio hanno potuto scandire una sorta di istruttoria informale che è anche un modo per la Corte di farsi capire, ossia, come una detenuta si è espressa interloquendo con gli eccezionali visitatori, la Costituzione è uno “scudo”.
Insomma, il carcere non è un altrove, ma è quella fiducia e quella speranza che brillano nelle lacrime del Giudice costituzionale Daria De Petris e nella fiduciosa empatia della neo Presidente della Corte Marta Cartabia.
Sommario: 1. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato. – 2. DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà.
1. Cosa prevede il dl intercettazioni, trojan ovunque e articolo 15 della Costituzione calpestato
La maggioranza ha trovato l’accordo, dopo una giornata di forti tensioni, sulle modiche introdotte al dl n°131 del 2019 in tema di intercettazioni telefoniche con cui erano state modificate le previsioni in materia introdotte dal d.lgs. n° 216 del 2017 in attuazione della legge delega di cui alla legge n°103 dello stesso anno. Già questi riferimenti chiariscono il travaglio che ha interessato e continua a interessare la disciplina delle captazioni. Nella formulazione approvata in commissione il termine fissato dalla decretazione di urgenza inizialmente fissato nel 2 marzo è stato ulteriormente prorogato di due mesi in linea con le richieste del Csm. Che peraltro aveva chiesto un termine più lungo. Si tratta dell’ennesima proroga che tuttavia in questo caso si inserisce in una autentica controriforma del d.lgs. 216 del ministro Orlando.
Il primo dato che emerge dalla riscrittura della disciplina riguarda la riassegnazione ai pubblici ministeri del controllo sulle intercettazioni, sulla loro rilevanza ai fini investigativi, sull’archivio, sui tempi del diritto della difesa di venire a conoscenza del loro contenuto e del diritto di copia sottraendolo alla polizia giudiziaria che si limiterà alla esecuzione delle attività di captazione e di ascolto.
L’ulteriore elemento significativo è il completamento della parificazione dei reati dei pubblici ufficiali e ora anche degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione con i reati di criminalità organizzata sia con riferimento ai presupposti sia in relazione alla captazione tra presenti sia in relazione ai provvedimenti d’urgenza sia in relazione con i luoghi dove è consentito l’uso del captatore informatico. Il solo riferimento all’attività di captazione oblitera tutte le altre funzioni del trojan che continuano a mancare di una specifica disciplina pur nella loro riconosciuta invasività e nel grave pregiudizio arrecato ai diritti costituzionalmente garantiti della persona.
Una disciplina particolare è prevista per le intercettazioni poste a fondamento di una misura cautelare. Nonostante l’abrogazione della previsione che consentiva al difensore di fare la trasposizione su nastro delle registrazioni deve ritenersi operante la declaratoria di incostituzionalità che consente alla difesa di chiedere all’accusa copia delle registrazioni poste a fondamento dell’ordinanza mentre resta incerta la conoscenza delle intercettazioni che il Gip ha ritenuto irrilevanti ancorché trasmesse con la richiesta cautelare. Deve invece escludersi l’accesso all’archivio per l’ascolto di quanto depositato. L’aspetto fortemente critico e inaccettabile – stando a quanto era emerso ieri dall’emendamento Grasso poi solo in parte modificato con un subemendamento – è costituito non solo dalla possibile utilizzazione delle intercettazioni per un fatto che non avrebbe consentito l’intercettazione perché non ricompreso fra i reati per i quali l’intercettazione è consentita.
E ancora, in mancanza dei presupposti per l’autorizzazione (gravi indizi e assoluta necessità della prosecuzione delle indagini) anche dall’ampliamento della cosiddetta pesca a strascico. A conferma che non c’è niente da fare e che le logiche punitive non si fermano neppure a fronte delle sentenze delle sezioni unite appena pubblicate (2 gennaio) si è cercato di modificare la disciplina dell’utilizzabilità delle captazioni in un diverso procedimento superando il vincolo della commissione. La mediazione raggiunta è insoddisfacente perché i due vincoli indicati (reati intercettabili e arresto in flagranza) consentono una piena utilizzazione probatoria che consente di avviare l’attività investigativa per un reato e acquisire elementi di altri reati del tutto estranei all’attività di indagine. Ancora più grave quanto previsto con l’uso del captatore attivato per reati di criminalità organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione che consente di usare come prova i risultati dell’intercettazione per qualsiasi altro reato di criminalità organizzata e di criminalità economica.
Si consideri cosa tutto ciò può significare con riferimento a intercettazioni ambientali in qualsiasi posto effettuate, compresi i luoghi di privata dimora. È difficile non vedere in queste norme un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mettono a rischio la riservatezza del domicilio anche perché non c’è garanzia di diffusione di quanto captato anche se estraneo alle indagini e riguardante dati soggettivamente sensibili.
ARTICOLO 15 – La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
2. DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà
Decreto intercettazioni. Confermati gli ampi poteri al Pm sotto tutti i profili, con sottrazione degli stessi alla polizia giudiziaria, come richiesto dai Procuratori della Repubblica; ampio uso del captatore informatico, anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione, parificati in tutto ai reati di criminalità organizzata; diritto di accesso dei difensori delle parti all’ascolto e alle copie delle registrazioni solo nel caso del venir meno del segreto investigativo, che è rimesso alle determinazioni della Procura.
La conversione risolve un dubbio interpretativo, confermando – quanto deciso dalla Corte costituzionale – relativamente al diritto della difesa di avere copia delle registrazioni che il Pm ha trasmesso al giudice con la richiesta delle misure cautelari. Si precisano le condizioni per l’accesso all’archivio delle registrazioni. Mentre va valutata positivamente la previsione per la quale l’intercettazione nei luoghi riservati con il trojan per i reati contro la pubblica amministrazione dovrà indicare le ragioni di questa intrusione che aggredisce la tutela costituzionale del domicilio, va valutata negativamente la disciplina dell’utilizzazione dei risultati intercettativi in altri procedimenti, diversi da quelli nei quali l’intercettazione è stata disposta.
Si prevede, infatti, che i risultati siano utilizzati come prova – in violazione della regola del divieto – se si tratta dei reati per i quali l’arresto è obbligatorio, nonché per tutti i reati che consentono il ricorso alle intercettazioni, con la specificazione della loro indispensabilità e rilevanza. A parte l’elasticità di questi criteri, si autorizza – in questo modo – la cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati.
Il dato trova una ancora più ampia estrinsecazione nel caso dei reati di criminalità organizzata e di criminalità economica: tutto ciò che emergerà dall’uso del trojan sarà utilizzabile come prova o ai sensi di quanto appena delineato, ovvero per quanto attiene ai reati della stessa natura, sempre alla luce del canone della indispensabilità da valutarsi dagli organi investigativi. Peraltro, ciò che non sarà direttamente utilizzabile, potrà costituire notitia criminis, avviando una autonoma attività di intercettazione, che sarà possibile anche nei casi appena indicati avviando una attività di captazione con il virus informatico a catena, cioè, senza fine.
Già questo basterebbe per allarmare in ordine alla lesione dei diritti di libertà che in questo modo si pregiudicano e che sono tutelati dalla Costituzione. La materia si presta a qualche considerazione più ampia in considerazione del fatto che su questo tema si erano appena pronunciate le Sezioni unite che, alla luce dei presidi della materia (principio di legalità e tutela giurisdizionale) avevano dato una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata del tema (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/879-il-regime-della-circolazione-delle-intercettazioni-dopo-la-riforma). Si vuole, cioè, sottolineare come ormai le forze politiche e il Governo, non riescano più a tener conto di quanto la giurisdizione nel suo massimo livello indica. In altri termini, il senso di inquisitorietà ha pervaso a tal punto le forze di governo che ritengono di poter calpestare anche le sentenze della Suprema Corte.
*Pubblicato su “Il Riformista”, il 19.2.2020 e il 23.2.2020.
Il mare dei diritti umani. Relazioni introduttive
(atti del Convegno di Milano 4 ottobre 2019)
Il 4 ottobre 2019 la Commissione per i diritti umani del Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Milano ha organizzato il convegno Il mare dei diritti umani. Uno sguardo tecnico-giuridico sulle vicende del Mediterraneo.
Una giornata di studi di straordinario interesse che ha visto la partecipazione di personalità del mondo forense ed accademico, tutte rivolte a testimoniare il ruolo svolto nella protezione dei diritti che ruotano attorno al “mare”. Testimonianze, esperienze e riflessioni che Giustizia insieme ha considerato di grande rilevanza, tanto da farsi promotrice della pubblicazione dei lavori dell’incontro. L’Avvocata Paola Regina ha con caparbietà reso possibile questa spes, che finalmente si realizza raccogliendo la gran parte degli interventi da destinare ai lettori della Rivista che saranno pubblicati i prossimi lunedì, sulla Rivista.
La sensazione che emerge dalla lettura dei singoli interventi è quella di un nocciolo duro di professionisti forensi votati alla tutela dei diritti fondamentali delle persone più vulnerabili. Anche nelle relazioni introduttive che saranno pubblicate in apertura emerge in modo marcato la centralità della figura dell’Avvocato come garante dei diritti della persona. Un ruolo propulsivo rispetto ai diritti protetti dalle Costituzioni e dalle Carte dei diritti fondamentali che rende il professionista legale artefice e garante dei diritti da reclamare e fare valere dinanzi al giudice, insieme al quale coltiva il desiderio di rendere effettivi, reali e concreti quei diritti “non di carta”.
Gli interventi del Prof. Tullio Scovazzi, ordinario di diritto internazionale presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, dell’Avvocata Tani, professore in "International Law of the Sea" presso l'Università di Milano-Bicocca, del professore Yasha Maccanico, rappresentate di STATEWATCH, ricercatore presso l'Università di Bristol (UK), cofondatore dell’Osservatorio solidarietà della Carta di Milano, di Daniela Padoan, scrittrice, componente dell'associazione Laudato, dell' avv. Rosa Lo Faro, avvocata di Open Arms e di Sea Eye, unitamente alla Comunicazione inviata al Procuratore della Corte penale internazionale da Omar Schatz, avvocato specializzato in controversie internazionali, contenente elementi di prova relativi ai crimini contro l’umanità commessi da pubblici ufficiali della Unione Europea e degli Stati Membri come parte di un progetto premeditato finalizzato a contenere il flusso migratorio dall’Africa sulla rotta del Mediterraneo centrale danno il senso e la misura di quanto sia stato profondo l’impegno profuso da NGO, difensori delle NGO e dei migranti nella protezione di diritti spesso considerati non diritti.
Oggi vengono pubblicate le relazioni introduttive di Paola Regina, Ileana Alesso e Simona Giannetti.
La Direzione scientifica
IL MARE DEI DIRITTI UMANI
Paola Regina, avvocato internazionalista, componente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, difensore della vittime di violazioni di diritti umani nell’ambito del sistema giuridico internazionale, rappresentante dell’Unione forense per i diritti umani e dell’Osservatorio solidarietà - Carta di Milano.
Ileana Alesso, avvocato amministrativista, componente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, impegnata nei processi a tutela dei Diritti Civili e Politici, già Consigliera di Fiducia dell’Università di Milano-Bicocca e Consigliera Ordine Avvocati Milano, Fondatrice e Presidente di FronteVerso Network.
Simona Giannetti, avvocato penalista, componente della Commissione diritti umani, difensore dei Diritti Fondamentali, membro del Direttivo di Nessuno tocchi Caino, Presidente dell’associazione Sixweeks per il Diritto alla Conoscenza.
Relazione introduttiva di Paola Regina
Da tempo assistiamo alla distorsione degli istituti giuridici nazionali ed internazionali e delle verità processuali relative ad ogni questione giuridica insorgente nell’area del mare Mediterraneo. L’idea di organizzare un convegno scientifico, promosso dalla Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, sorge dall’esigenza di ribadire il ruolo del diritto nell’ambito della società civile, chiarendo istituti giuridici e verità processuali. Riteniamo che i giuristi abbiano il dovere di assicurare quello standard minimo di garanzie relative all’esercizio da parte di ogni persona dei propri diritti e delle libertà, a presidio dello Stato di Diritto e della Democrazia.
SOMMARIO: 1. Diritto Internazionale del mare. 2. Ambito di applicazione nello spazio dei trattati a tutela dei diritti umani - nozione di giurisdizione in conformità della giurisprudenza CEDU. 3. Principi cardine del diritto internazionale nella recente giurisprudenza. 4. Conclusioni.
1. Diritto Internazionale del mare.
Il mare Mediterraneo, culla antichissima di cultura e civiltà, per via della sua posizione geografica, è al centro, da molto tempo, di un dibattito dilaniante, che ha stravolto, nel linguaggio collettivo, le categorie fondamentali del diritto internazionale.
Il diritto internazionale del mare, infatti, riveste da sempre enorme importanza, non solo per la specifica disciplina degli spazi marini nazionali ed internazionali, ma perché costituisce, da sempre, l’esempio principe di applicazione del diritto internazionale consuetudinario e pattizio. Com’è noto, il diritto internazionale entra nella sfera giuridica nazionale attraverso l’art. 10 e l’art. 117 della Costituzione italiana. Dunque, mentre la norma internazionale consuetudinaria, al momento dell’immissione nell’ordinamento interno assume rango costituzionale, la norma internazionale pattizia assume il rango della norma d’immissione nell’ordinamento italiano. Gli ultimi dati raccolti dalla Organizzazione Internazionale per le Migrazioni mostrano che il numero dei morti nel Mediterraneo, nell’arco del 2019, corrisponde alla metà dei migranti morti in tutto il mondo[1].
Al fine d’inquadrare in modo tecnico e scientifico le tematiche oggetto del presente convegno, è necessario tracciare un quadro sintetico ed esaustivo della normativa vigente nell’ambito del diritto internazionale del mare.
Lo strumento normativo di riferimento è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)[2], adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore sul piano internazionale il 16 novembre 1994, ratificata dall’Italia con Legge 2 dicembre 1994, n. 689.
Com’è noto, la Convenzione di Montego Bay:
1) delimita l’estensione della sovranità territoriale dello Stato sino a 12 miglia dalla costa, chiarendo il regime giuridico applicabile. In particolare, l’art. 2 prescrive letteralmente che “la sovranità dello Stato costiero si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne e, nel caso di uno Stato-arcipelago, delle sue acque arcipelagiche, a una fascia adiacente di mare, denominata mare territoriale. Tale sovranità si estende allo spazio aereo soprastante il mare territoriale come pure al relativo fondo marino e al suo sottosuolo. La sovranità sul mare territoriale si esercita alle condizioni della presente Convenzione e delle altre norme del diritto internazionale; mentre l’art. 3 delimita l’estensione del mare territoriale, riconoscendo il diritto di ogni Stato di fissare la larghezza del proprio mare territoriale fino a un limite massimo di 12 miglia marine, misurate a partire dalle linee di base determinate conformemente alla presente Convenzione.
2) definisce la c.d. “zona contigua” all’art. 33, disponendo che “in una zona contigua al suo mare territoriale, denominata "zona contigua", lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario al fine di: a) prevenire le violazioni delle proprie leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari e di immigrazione entro il suo territorio o mare territoriale; b) punire le violazioni delle leggi e regolamenti di cui sopra, commesse nel proprio territorio o mare territoriale. La zona contigua non può estendersi oltre 24 miglia marine dalla linea di base da cui si misura la larghezza del mare territoriale.
3) regolamenta il passaggio inoffensivo delle navi all’art. 19, chiarendo che “il passaggio è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale. Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: a) minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dello Stato costiero, o contro qualsiasi altro principio del diritto internazionale enunciato nella Carta delle Nazioni Unite; b) ogni esercitazione o manovra con armi di qualunque tipo; c) ogni atto inteso alla raccolta di informazioni a danno della difesa o della sicurezza dello Stato costiero”. Tale disposizione è venuta in rilievo nel recente caso, noto alla cronaca, relativo al passaggio della nave Sea Watch 3, al fine di valutare il carattere “inoffensivo” del passaggio di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento degli obblighi internazionali[3].
4) infine, all’art. 98, la Convenzione di Montego Bay statuisce l’obbligo di soccorso in mare, così recitando: “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa e immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.” Il secondo comma dell’art. 98 della Convezione di Montego Bay continua, sancendo per ogni Stato costiero l’obbligo di promuovere la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
L’obbligo di soccorso in mare è sancito altresì dalla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS)[4], richiede agli Stati parte “…di garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste”. Tali accordi dovranno comprendere l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di tali strutture di ricerca e soccorso, quando esse vengano ritenute praticabili e necessarie”. Infine, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR)[5] prescrive l’obbligo di “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” ed a “[…] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”.
Nell’ambito di questo sintetico quadro giuridico, è necessario inserire il divieto di respingimento sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra[6], nonché i divieti d’espulsione collettiva, sanciti dall’art. 4 del Quarto Protocollo annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[7] e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che recita letteralmente: “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene inumane e degradanti”[8].
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale[9] ricorda la superiorità gerarchica delle norme di diritto internazionale a protezione dei diritti fondamentali, prescrivendo, all’art. 19, par. 1, che “nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951e il Protocollo del 1967relativo allo status dei rifugiati e i principio di non respingimento ivi enunciato”.
All’esito di questo sintetico quadro normativo, è utile ricordare che, sulla base dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati[10], titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale, dove, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. Dunque, non vi è dubbio sul fatto il quadro normativo esposto assuma il carattere di norma imperativa inderogabile nell’ambito del sistema giuridico internazionale.
Nella primavera 2018, all’indomani del sequestro della motonave nave della ONG spagnola Proactiva Open Arms, 29 accademici europei hanno sottoscritto un documento scientifico, ponendo in evidenza le violazioni di diritto internazionale che si stavano perpetuando nell’area del Mediterraneo e suggerendo, al contempo, i rimedi internazionalistici da adottare[11].
Si ricorda, altresì, la lettera aperta pubblicata dal gruppo d’interesse di diritto internazionale del mare in data 12 giugno 2018, ove la società scientifica italiana, partendo dai fondamenti giuridici del diritto internazionale del mare e di diritto europeo, si esprime, fornendo un parere tecnico sulle questioni di maggiore interesse, che coinvolgono l’area del Mediterraneo ed il nostro Paese.[12]
2.Ambito di applicazione nello spazio dei trattati a tutela dei diritti umani - nozione di giurisdizione in conformità della giurisprudenza CEDU.
In conformità dell'articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli Stati contraenti riconoscono (in inglese “garantiscono") a tutte le persone che ricadano sotto la propria "giurisdizione" i diritti e le libertà elencati nella presente convenzione. Gli Stati contraenti sono obbligati a riconoscere o garantire diritti già propri, già insiti in ogni essere umano, in ogni persona (non in ogni cittadino e quindi a prescindere dallo status della persona). Il requisito della "giurisdizione", in conformità dell'articolo 1, è dunque una condizione sine qua non affinché possa dirsi applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In mare, è pacifica l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nelle acque territoriali, ove lo Stato contraente esercita la propria sovranità. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistente la giurisdizione di uno Stato anche nell’ipotesi in cui la nave voglia entrare nelle acque territoriali. Nel caso Women on Waves a altri c. Portogallo[13], la Corte ha ritenuto sussistente la giurisdizione del Portogallo e quindi ha potuto esaminare il caso solo perché il Portogallo aveva impedito, tramite il blocco al limite esterno al mare territoriale, l’esercizio di diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Cosa accade in alto mare, nelle acque internazionali? sulla base di quali criteri si può ritenere applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Non vi sono dubbi circa la sussistenza della giurisdizione qualora i fatti avvengano su una nave battente bandiera di uno Stato, che ha ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, nel caso Bakanova c. Lithuania[14], la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto sussistente la giurisdizione lituana per fatti avvenuti su una nave battente bandiera lituana. Data la complessità del tema, si rende necessaria una breve premessa sulla nozione di giurisdizione, alla luce della giurisprudenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La nozione di giurisdizione, in conformità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere intesa, in senso anglosassone ovvero in senso più ampio, con una valutazione caso per caso[15]. Ciò si comprende agevolmente dalla nota pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo Loizidou c. Turchia, ove la Turchia è stata ritenuta responsabile per gli atti commessi nell’area di Cipro del nord in forza dell’effettivo controllo che esercitava in quella zona[16]. Si tratta, dunque, di un effettivo controllo de iure e de facto, esercitato in un’area geografica al momento della commissione delle violazioni dei diritti fondamentali, sanciti nella CEDU.
A tal proposito, si ricorda il noto Xhavara e altri c. Italia e Albania[17], che aveva ad oggetto un incidente in acque internazionali, in cui la nave italiana ha costretto una nave albanese, carica di persone ad una manovra che l’ha poi portata a ribaltarsi. La condizione di esercizio di effettivo controllo da parte dell’Italia, ha condotto la Corte a ritenere sussistente la giurisdizione ed a ritenere sussistente una responsabilità da parte dell’Italia.
Nel noto caso Medvedyev e altri c. Francia[18], una imbarcazione francese si era impossessata del controllo di una nave per motivi di sicurezza nazionale in acque internazionali, conducendola sino a Brest. In questo caso, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso per la sussistenza della giurisdizione francese, poiché i francesi erano saliti a bordo ed avevano preso il controllo della nave.
A seguito di tale percorso giurisprudenziale, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ampliato lo spazio di applicazione della tutela delle più gravi violazioni dei diritti umani, attuando la cosiddetta “protection par ricochet”, protezione “di riflesso” dei diritti fondamentali. Basti ricordare la sentenza storica Soering c. Regno Unito[19], mediante la quale è stato impedita l’estradizione verso gli Stati Uniti del Sig. Soering, poiché sarebbe andato incontro alla detenzione nel braccio della morte in Virginia, subendo dunque una clamorosa violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Regno Unito, dunque, consegnando il Sig. Soering agli Stati Uniti avrebbe compiuto una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti.
Nel caso Saadi c. Italia[20], un cittadino tunisino era stato colpito da provvedimento di espulsione da parte delle autorità italiane, poiché sospettato di affiliazione ad organizzazioni terroristiche, nonostante quest’ultimo fosse esposto al rischio di trattamenti inumani e degradanti in Tunisia, in violazione dell’art. 3 CEDU. La Corte ritenne che il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti fosse fondato ed attuale, tenendo conto, peraltro, che la Tunisia non aveva fornito garanzie all’Italia in senso contrario. Si ritenne che il provvedimento di espulsione avesse, dunque violato l’art. 3 CEDU.
In questa sede è doveroso ricordare che, mediante la nota sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012[21], la Corte europea dei dritti dell’uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per la violazione del divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3 CEDU), per l’impossibilità di ricorso (art.13 CEDU) e per il divieto di espulsioni collettive (art. 4 IV Protocollo aggiuntivo CEDU). Si tratta del noto caso in cui sulla base degli allora vigenti accordi Italia-Libia, la marina italiana intervenne, riportando le persone in Libia. Secondo la Corte, a partire dal momento in cui sono saliti sulla nave italiana sono stati sottoposti al controllo interrotto de iure e de facto delle autorità italiane che hanno violato il divieto di respingimento in alto mare. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che, sulla base dei Report dei più accreditati Enti internazionali a tutela dei diritti umani (Human rights watch, Amnesty international, Comitato di prevenzione della tortura), le persone riportate in Libia sarebbero state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In mare, dunque, la Convenzione europea dei diritti umani si applica ogniqualvolta la vittima si trovi in uno spazio nel quale lo Stato eserciti, di fatto, diritti sovrani, rilevanti ai fini della CEDU, in conformità del diritto internazionale del mare. Da questa breve disamina della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla sussistenza della giurisdizione degli Stati firmatari della CEDU, si evince in modo molto chiaro uno dei principi cardine della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consistente nell’obbligo per gli Stati di garantire UNA EFFETTIVA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI, senza utilizzare lo spazio internazionale, come luogo dove cercare di eludere l’obbligo di rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione.
3. Principi cardine del diritto internazionale nella recente giurisprudenza.
In questa sede, appare doveroso ricordare il noto caso Cap Anamure, mediante il quale il Tribunale di Agrigento, con sentenza n. 954 del 7 ottobre 2009, ha assolto alcuni pescatori tunisini dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in applicazione delle norme imperative di soccorso in mare[22]. Le motivazioni della sentenza sono fondate sul divieto respingimento e sull’obbligo di condurre i naufraghi in un “place of safety”, in un luogo sicuro, non nel porto più vicino, sulla base della Convezione SAR. la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR).
Si rinviene l’applicazione degli stessi principi di diritto internazionale in diverse recenti pronunce ed in particolare, si ricorda il noto Decreto di rigetto di richiesta di sequestro preventivo della nave Proattiva Open Arms emesso dal Tribunale di Ragusa il 16 aprile 2018[23]. In quella sede, il giudice per le indagini preliminari aveva ricordato che le operazioni di soccorso non si esauriscono con il recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo SICURO. Per luogo sicuro deve intendersi un luogo dove la vita delle persone non è più minacciata e dove è possibile fare fronte ai bisogni ai loro bisogni fondamentali come acqua, cibo, riparo e cure sanitarie. Il Tribunale di Ragusa continua osservando che a fronte delle informazioni disponibili, la Libia NON è un luogo sicuro in quanto avvengono gravi violazioni dei diritti umani su persone trattenute in centri di detenzione, sottoposte a maltrattamenti, stupri o a lavori forzati. L’esercizio del diritto, in conformità dell’articolo 51 c.p. appare, dunque, di frequente scriminare le ipotesi accusatorie nei confronti delle ONG. Infatti, com’è noto, la disumana realtà dei numerosi centri di raccolta migranti in Libia è stata molto ben descritta dal Report on human rights situation of migrants and refugees in Lybia “Desperate and Dangerous”[24], pubblicato lo scorso 18 dicembre 2018 dall’Alto Commissariato per i diritti umani con il supporto della missione ONU in Libia.Gli orrori dei centri di raccolta e transito dei migranti in Libia sono stati oggetto della nota sentenza della Corte d’Assise del Tribunale di Milano del 10 ottobre 2017, mediante la quale, è stato condannato un torturatore di nazionalità somala, operante nei campi di detenzione libici, riconosciuto da alcune parti offese e consegnato all’autorità giudiziaria italiana. L’imputato, di soli ventiquattro anni, è risultato essere membro di un’organizzazione criminale dedita al traffico di migranti avente carattere transnazionale, tra il 2015 e il 2016 avrebbe concorso a gestire almeno due “campi di transito” situati in Libia, in cui i migranti (in questo caso tutti cittadini somali) venivano imprigionati, torturati e minacciati in attesa del pagamento del prezzo richiesto per raggiungere l’Europa. Il processo si è concluso con la condanna all’ergastolo, con tre anni di isolamento diurno, oltre che alle pene accessorie e al risarcimento dei danni nei confronti delle undici parti civili costituitesi nel giudizio. I gravi delitti che si assumono commessi in danno di centinaia di vittime dal giovane imputato sono: sequestro di persona a scopo d’estorsione aggravato dalla morte di alcuni sequestrati, violenza sessuale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sentenza emessa in primo grado è attualmente oggetto d’impugnazione in sede d’appello. Tuttavia, la ben documentata condizione dei campi di detenzione libici appare delineata e definita ormai in modo molto chiaro ed inequivocabile dagli atti processuali. Si ricorda che, in data 3 giugno 2019, è stata presentata una comunicazione alla Corte Penale Interazionale, attestante crimini contro l’umanità commessi dal 2014 al 2019 nell’area del Mediterraneo. In particolare, si deduce la responsabilità penale diretta e indiretta in capo ad alcuni Stati Europei e ad alcuni funzionari o agenti dell’Unione Europea per: 1)Morte per annegamento di oltre 19.000 civili, richiedenti asilo, in fuga da un conflitto armato, 2) Respingimento di 50.000 civili in fuga da zone di conflitto armato, 3) Responsabilità concorsuale per crimini contro l’umanità ed in particolare per deportazione, omicidio, reclusione forzata, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, persecuzione di massa[25].
Da ultimo, la recente sentenza del Tribunale di Trapani, resa il 23 maggio 2019 e depositata il 3 giugno 2019 attesta il divieto di respingimenti collettivi e l’inefficacia degli accordi con la Libia in quanto contrari a norme imperative[26]. In particolare, l’attenzione del Tribunale si è concentrata, in particolare, sulla compatibilità con il diritto internazionale del mare, ed in particolare con la Convenzione di Amburgo, del memorandum d’intesa tra Italia e Libia del febbraio 2017. La sentenza fornisce un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, concludendo che “il memorandum Italia-Libia risulta essere privo di validità, in conformità dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, poiché in contrasto con norme imperative di diritto internazionale.
4. Conclusioni
L’esame di parte della giurisprudenza evidenzia una crescente criminalizzazione delle condotte di solidarietà, condotte che, in realtà sarebbero prescritte come obbligatorie sia dal diritto internazionale, che da quello europeo. Infatti, i procedimenti giudiziari avviati nei confronti di associazioni o singole persone solidali, si sono conclusi con l’assoluzione degli stessi, poiché la condotta incriminata risulta sempre scriminata dall’esercizio del diritto. La solidarietà, prevista dall’art. 2 della Costituzione italiana, assume il carattere di principio fondamentale dell’Unione europea, codificato all’art. 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea[27]. In Francia si è giunti persino a codificare le delit de solidarieté, figura giuridica che è stata di recente oggetto di una pronuncia riformatrice del Conseil Costitutionel[28]. La crescente compressione dei diritti fondamentali in Europa è davvero allarmante. La Commissione diritti umani del Consiglio dell’ordine di Milano si è assunta l’onere di sottolineare e sostenere il potere/dovere di denuncia delle violazioni dei diritti fondamentali da parte dell’avvocatura innanzi alle Corti competenti. A seguito dello studio del fenomeno crescente di criminalizzazione della solidarietà, a Milano è stato creato un Osservatorio sulla criminalizzazione degli atti di solidarietà[29]. Infine, colgo l’occasione per ribadire, in questa sede, l’importanza fondamentale dell’educazione scolastica ed universitaria. Mai come in questo momento storico posso mai smettere di ringraziare la scuola e l’Università, non solo perché mi ha fornito gli strumenti per comprendere la realtà e lavorare, ma soprattutto perché mi consentito di sopravvivere all’orrore davanti alle torture, agli stupri, ai naufragi, alle violenze sui bambini, alla riduzione in schiavitù, senza sentire la necessità di voltarmi dall’altra parte.
Relazione introduttiva di Ileana Alesso
Poche preliminari considerazioni sul senso del convegno a cui molto teniamo come Commissione diritti umani dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
Il nostro intento è di rendere un servizio alla verità processuale e storica, in adempimento della funzione sociale della Avvocatura. Non esistono solo avamposti geografici, ci sono anche avamposti professionali. Lo è il nostro, a cui vogliamo fare onore poiché noi non facciamo gli avvocati, siamo avvocati e la frontiera dei diritti passa anche da noi, dal nostro impegno, dalla nostra responsabilità.
Ed è con riferimento alle risultanze processuali, all’accertamento dei fatti e alla responsabilità degli stessi, che preme ricordare una sentenza molto importante, pronunciata dalla Corte di Assise di Milano, Prima Sezione, Presidente dott.ssa Giovanna Ichino. Si tratta della sentenza n. 10, depositata nel dicembre del 2017, che ha svelato attraverso un puntuale accertamento dei fatti, l’orrore della realtà libica dei campi di detenzione e ha portato la stessa magistratura, a paragonarli ai noti lager scoperti con orrore alla fine della seconda guerra mondiale.
“Abbiamo una Auschwitz a 120 miglia dalle coste italiane” ha dichiarato, in una intervista a Rai News 24 lo scorso agosto, il dott. Massimo Del Bene, chirurgo che opera nel reparto chiamato “chirurgia della tortura” dell’Ospedale San Gerardo di Monza dove cercano di porre rimedio agli effetti permanenti della efferatezza subita dai migranti affinché qualcuno di loro possa, forse, recuperare l’uso degli arti. “Noi siamo l’oggettività, noi siamo dei tecnici, non facciamo politica, questi ragazzi devono avere voce, li torturano per anni … E quando si dice ‘li riportiamo indietro’”, conclude il medico, “è come se uno che scappa da Auschwitz tu lo prendi e lo riporti indietro”
E se nel corso della seconda guerra mondiale pochi sapevano dei lager, ora, grazie a questa sentenza recentemente confermata dalla Corte di Assise d’Appello, noi sappiamo, possiamo far sapere, dobbiamo far sapere.
Già abbiamo detto e scritto che ci siamo sempre chiesti come si potessero non notare tutti quei treni che finivano ad Auschwitz, macinando chilometri e chilometri attraverso tutti quei ciechi e laboriosi villaggi. Se oggi ci si vergogna delle leggi razziali –qui nel Palazzo di Giustizia di Milano su lodevole iniziativa del nostro Ordine è stata messa una targa a ricordo dei 106 colleghi ebrei espulsi dalla professione – e oggi (oltre al 27 gennaio di ogni anno che ricorda ciò che è accaduto e che non si può cambiare), abbiamo sentenze come quelle fin qui citate e siamo, quindi, in un’altra situazione.
Noi non siamo a “dopo”, siamo “durante” e quindi anche “prima” dei prossimi imminenti orrori, ed è anche partendo da questa sentenza, e dal libro “L’attualità del male” (*) che ad essa è dedicato, che in questo convegno ci interroghiamo sulla dinamiche a 360° che “attraversano” il Mediterraneo e che debbono interessare la applicazione corretta delle norme nazionali e internazionali secondo quel noto paradigma giuridico che, come giuristi, abbiamo appreso fin dalla primi anni di Università: il principio della gerarchia delle fonti, richiamato fortemente dai giudici di merito in occasione dei noti fatti della scorsa estate “calda”.
Una battuta finale sul senso del convegno, attingendo a quelle norme che fanno parte costitutiva della nostra professione e del nostro essere nel mondo. Mi riferisco alla Dichiarazione universale dei diritti umani non solo nel suo, importante, articolato normativo bensì, al suo meno valorizzato preambolo: laddove, in relazione al “riconoscimento della dignità” degli esseri umani specifica trattarsi “della dignità inerente tutti i membri della famiglia umana”.
Quel riferimento alla “famiglia umana” continua a colpirci e a rincuorarci per l’orizzonte e la limpidezza del pensiero che l’accompagna e che consente di porlo al vertice delle norme, di diritto positivo, nella gerarchia delle fonti.
* Libro collettaneo a cura di Maurizio Veglio, ASGI -Associazione per gli studi giuridici sulla immigrazione- EdizioniSEB27
Relazione introduttiva di Simona Giannetti
Il contributo, passando attraverso la Costituzione come Carta dei Diritti Fondamentali e dunque viva nello Stato di Diritto, entra nel tema del ruolo del difensore dei Diritti Umani come riconosciuto dalle Nazioni anche nella Carta dei Diritti Umani del 9 dicembre 1998, quella che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato per consensu,“Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi delle società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”. Nel dare spazio al singolo come difensore dei Diritti Umani, si affronta la figura del Relatore Speciale che l’ONU ha istituito: è di questa figura e dell’attenzione che ha dato alle donne che si occupano della difesa dei diritti umani, che si tratta anche con riguardo alle categorie e ai rischi che sono certamente maggiori di quelli corsi dagli uomini per diverse ragion. E a partire dal singolo, che si fa protettore dei diritti fondamentali, si giunge a discutere ed a riconoscere quanto la figura dell’avvocato non possa abdicare da questo ruolo, almeno perché ne ha gli strumenti e le occasioni.
Il Convegno di oggi parla di Costituzione. Quando si parla di Costituzione occorre anche ricordarsi che qualcuno, della nostra Costituzione, dovrà pure occuparsi: perché, la nostra Costituzione non è solo la “Costituzione di carta”, la Costituzione vive e lo fa nei Diritti e nelle garanzie degli individui. E questo poi altro non è che l’espressione dello Stato di Diritto. Se vogliamo essere uno Stato di Diritto, dobbiamo fare in modo che questo sia effettivo. A questo proposito mi è venuta in mente una risoluzione del 9 dicembre 1998, che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato per consensu. Si intitola : “Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi delle società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti”; è anche detta la Carta dei Diritti Umani. Quello che ci dice questa Carta è che ognuno di noi, in quanto individuo e parte dello Stato di Diritto, ha la responsabilità di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani. E allora mi sorge una domanda: ma forse l’avvocato non ha una responsabilità maggiore nella protezione dei diritti fondamentali, nel momento in cui è colui che ha a disposizione gli strumenti, ma anche ha l’occasione di poter esercitare questa protezione? L’occasione è proprio quella, in cui noi avvocati ci presentiamo dinnanzi alle giurisdizioni: è quella in cui possiamo non fare, ma essere un avvocato, se vogliamo essere i difensori dei diritti fondamentali della nostra Costituzione, e ancora prima della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Le Nazioni Unite tengono cosi tanto a questo aspetto, di riconoscere coloro che si fanno parte attiva come individui singoli o come gruppi nella società civile per la protezione dei diritti umani, che hanno previsto un Relatore Speciale. Si tratta di un membro a sé, indipendente ed esperto su un tema, che lavora in gruppo su procedure speciali dietro mandato del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite: ha il compito di occuparsi di coloro che hanno agito nella difesa dei Diritti Umani, con un mandato “ per indagare, monitorare e riferire su questioni relative a diritti umani”. Nel marzo 2019, in occasione della quarantesima sessione del Consiglio Diritti Umani della Nazioni Unite, lo Special Rapporteur sulla situazione dei difensori dei diritti umani, allora Michael Forst, ha presentato il suo rapporto annuale dedicandolo alle donne difensori dei diritti umani: il Relatore Speciale, analizzando il periodo successivo al 2011 – dopo l’ultimo rapporto – si è concentrato sui rischi e gli ostacoli di genere che le donne difensori dei diritti umani affrontano in più rispetto agli uomini, anche considerando l’impatto che hanno con le ideologie, i fondamentalismi, la militarizzazione. Ha segnalato il Relatore speciale che, tra le altre, ci sono avvocatesse per i diritti umani che rappresentano le vittime in tribunale, giornaliste che espongono questioni di interesse pubblico, donne nelle organizzazioni senza scopo di lucro o in quelle intergovernative : tutte sono molto più esposte degli uomini e le prime ad essere generalmente attaccate. E allora come non ricordare, in questa Aula Magna a proposito di donne impegnate nella difesa dei diritti umani, l’avvocata Nasrin Sotoudeh, oggi incarcerata e condannata alla pena di 38 anni di carcere e 148 frustate in Iran per aver difeso il diritto al dissenso. Io vorrei concludere con questo auspicio per tutti, qui oggi avvocati: che ogni di noi voglia essere guardiano dei Diritti, voglia essere uno di quei singoli individui che, secondo la Carta dei Diritti Umani si occupa di proteggerli, perché questo è un compito da cui non possiamo abdicare, avendone gli strumenti e le occasioni. Del resto se non avessimo adito le giurisdizioni nazionali e sovranazionali non avremmo mai avuto l’introduzione di reati come la tortura in Italia o non avremmo ottenuto sentenze della Cedu, che solo grazie all’intervento di singoli avvocati, tutori dei diritti fondamentali, sono approdate con le questioni rilevanti davanti alla giurisdizioni superiori, che hanno potuto proteggere le nostre garanzie costituzionali. E oggi allora parliamo di alcuni di questi Diritti Umani, che sono quelli che coinvolgono le persone nel mare. E anche di chi li protegge e se ne occupa.
[1] https://missingmigrants.iom.int
[2] https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/UNCLOS-TOC.htm
[3] http://www.sidiblog.org/2019/06/26/tutela-della-sicurezza-o-violazione-del-diritto-del-mare/
[4] http://www.imo.org/en/About/conventions/listofconventions/pages/international-convention-for-the-safety-of-life-at-sea-(solas),-1974.aspx
[5] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2001/05/25/001A5029/sg
[6] https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf
[7] https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf
[8] https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
[9] https://www.unodc.org/pdf/crime/a_res_55/res5525e.pdf
[10] http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041101120858
[11] https://rwi.lu.se/app/uploads/2018/03/Open-Arms-statement-def.pdf
[12] https://sidigimare.wordpress.com
[13] Women on Waves c. Portogallo (ric. n. 31276/05 – sentenza del 3 febbraio 2009); http://www.sidi-isil.org/wp-content/uploads/2010/02/DUDI-1.2010-Papanicolopulu.pdf
[14] Bakanova v. Lithuania (ric. n 11167/12 – sentenza del 31 maggio 2016), http://en.efhr.eu/2017/01/18/case-bakanova-v-lithuania-no-1116712-2016/.
[15] Cfr. De Sena - La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore -Torino.
[16] Loizidou c. Turchia (questioni preliminari) (ric. n. 15318/89)
[17] Xhavara e altri c. Italia e Albania (ric. n. 39473/98)
[18] Medvedyev e a. c. Francia ([GC], ric. n. 3394/03);
http://www.sidi-isil.org/wp-content/uploads/2010/02/DUDI-1_2009-Trevisanut.pdf
[19] Soering c. Regno Unito (sentenza resa il 7 luglio 1989)
[20] Saadi c. Italia [GC], ric. n. 37201/06
[21]https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?facetNode_1=0_8_1_60&previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU743291
[22] Vassallo Paleologo, Il caso Cap Anamour, assolto l’intervento umanitario e oggi? in https://www.a-dif.org/2018/03/19/il-caso-cap-anamur-assolto-lintervento-umanitario-e-oggi/
[23] http://questionegiustizia.it/articolo/dissequestrata-la-nave-open-arms-soccorrere-i-migranti-non-e-reato_19-04-2018.php
[24] https://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/LibyaMigrationReport.pdf
[25] https://www.statewatch.org/news/2019/jun/eu-icc-case-EU-Migration-Policies.pdf
[26] https://www.penalecontemporaneo.it/d/6754-la-legittima-difesa-dei-migranti-e-lillegittimita-dei-respingimenti-verso-la-libia-caso-vos-thalassa
[27] http://www.europarl.europa.eu/thinktank/it/document.html?reference=IPOL-LIBE_ET%282011%29453167
[28] http://www.questionegiustizia.it/articolo/il-conseil-constitutionnel-cancella-il-delit-de-so_07-09-2018.php
[29] https://www.amnesty.it/nasce-losservatorio-carta-milano-la-solidarieta-non-reato/
Il regime della “circolazione” delle intercettazioni dopo la riforma
Gaetano De Amicis
Sommario: 1. Il recente intervento nomofilattico delle Sezioni Unite. – 2. Il contrasto giurisprudenziale: i tre diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità. - 3. Le critiche mosse dalle SS.UU. ai diversi indirizzi giurisprudenziali. – 4. Il contenuto del decisum delle Sezioni Unite. – 5. Le tre regole connesse all’affermazione del principio. – 6. Il fondamento “costituzionale” della soluzione indicata dalla Suprema Corte. – 7. Le implicazioni del confronto con la giurisprudenza convenzionale. – 8. La diversa disciplina della utilizzabilità dei risultati acquisiti con il captatore informatico: problemi e prospettive.
1. Il recente intervento nomofilattico delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 51 del 28 novembre 2019, ric. Cavallo) hanno risolto un risalente contrasto giurisprudenziale, fissando alcuni punti fermi in materia di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni per i reati non rientranti fra quelli indicati nel decreto di autorizzazione del giudice.
La questione sottoposta all’esame della Suprema Corte atteneva alla corretta interpretazione dell’art. 270, c. 1, c.p.p., il quale esclude l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni «in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».
Occorreva, in particolare, determinare l’esatta portata della nozione di «procedimenti diversi», al fine di stabilire se ed entro quali limiti, come sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità prevalente e dalle stesse Sezioni Unite in una precedente pronuncia (Sez. Un., 26 giugno 2014, n. 32695, Floris), essa si riferisse ai reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, fossero emersi dalle stesse operazioni di intercettazione.
La questione di diritto in relazione alla quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è stata così sintetizzata: «se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all'art. 270 cod. proc. pen., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione.»[1].
2.Il contrasto giurisprudenziale: i tre diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità
A) Il primo orientamento, maggioritario, faceva leva, nella definizione della nozione di "procedimento diverso" di cui all'art. 270, comma 1, cod. proc. pen., su un criterio di natura - almeno tendenzialmente - sostanzialistica. Sin dalle pronunce più risalenti, i profili essenziali dell'orientamento sono stati messi a fuoco dalla giurisprudenza di legittimità: la nozione di "procedimento diverso" non coincide con quella di "diverso reato" (ex plurimis v. Sez. 6, n. 1972 del 16/05/1997, Pacini Battaglia, Rv. 210044 e, più di recente, Sez. 3, n. 52503 del 23/09/2014, Sarantsev, Rv. 261971; Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco, Rv. 257834), essendo la prima più ampia della seconda; né la nozione di "procedimento diverso" può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, quale il numero di iscrizione nell'apposito registro della notizia di reato (cfr. Sez. 6, n. 1972 del 1997, Pacini Battaglia, e, più di recente, Sez. 2, n. 27473 del 29/05/2014, Lo Re), posto che la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l'utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale (Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas); decisivo, invece, è il riferimento al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (Sez. 6, n. 5192 del 25/02/1997, Gunnella, Rv. 209306; Sez. 3, n. 29856 del 24/04/2018, La Volla, Rv. 275389).
Il legame tra la notizia di reato in relazione alla quale è stata autorizzata l'intercettazione e quella emersa dai risultati dell'intercettazione che, se riconosciuto, esclude la diversità dei procedimenti e, con essa, il divieto di utilizzazione di cui all'art. 270, comma 1, cod. proc. pen., è delineato facendo riferimento ad indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato (v., ad es., Sez. 6, n. 2135 del 10/05/1994, Rizzo, Rv. 199917 e, più di recente, Sez. 5, n. 26693 del 20/01/2015, Catanzaro, Rv. 264001; Sez. 3, n. 28516 del 28/02/2018, Marotta, Rv. 273226, nonché Sez. 2, n. 19730 del 01/04/2015, Vassallo, Rv. 263527), non potendosi risolvere nell'esistenza di un collegamento meramente fattuale ed occasionale (Sez. 3, n. 2608 del 05/11/2015, dep. 2016, Pulvirenti, Rv. 266423), ma essendo necessaria la sussistenza di una connessione ex art. 12 cod. proc. pen. ovvero di un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (Sez. 6, n. 6702 del 16/12/2014, dep. 2015, La Volla, Rv. 262496; Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas).
A questo primo orientamento ha in precedenza aderito anche Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris (che affrontò il tema qui di interesse in via solo pregiudiziale rispetto alla questione relativa alle condizioni per ritenere l'intercettazione utilizzabile in quanto corpo del reato, ma non esaminò i vari indirizzi formatisi sulla questione controversa oggi in esame, né collocò la stessa nel quadro costituzionale di riferimento).
B) Il secondo orientamento, invece, valorizzava l'inerenza delle risultanze relative a reati diversi da quelli oggetto del provvedimento autorizzativo al medesimo procedimento in cui il mezzo di ricerca della prova fosse stato disposto: in questa prospettiva si è affermato che, qualora l'intercettazione sia legittimamente autorizzata all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui emerga la conoscenza dall'attività di captazione, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, all'indispensabilità ed all'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (in tal senso v. Sez. 2, n. 9500 del 23/02/2016, De Angelis, Rv. 267784; Sez. 5, n. 26817 del 04/03/2016, Iodice, Rv. 267889; Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004; Sez. 4, n. 29907 del 08/04/2015, Della Rocca, Rv. 264382). Il dato dell'unitarietà iniziale del procedimento segna, dunque, nella prospettiva del secondo orientamento, il limite dell'operatività del divieto di utilizzazione ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen.: infatti, «sia la lettera che il contesto sistematico in cui si collocano gli artt. 266 e 270 cod. proc. pen. dimostrano che il legislatore si è posto il problema della utilizzazione dei risultati di intercettazioni legittimamente disposte per uno dei reati indicati nell'art. 266 c.p.p., trattando esplicitamente solo il caso dell'utilizzazione extra-procedimento e tuttavia riconoscendo in quel caso la possibilità di utilizzazione secondo parametri diversi da quelli indicati nell'art. 266 c.p.p.» (Sez. 6, n. 49745 del 04/10/2012, Sarra Fiore, Rv. 254056), sicché «ove le notitiae criminis riferite alle diverse figure di reato abbiano origine nell'ambito dello stesso procedimento, ancorché diano luogo a distinte iscrizioni nel registro di cui all'art. 335 cod. proc. pen. ed alla germinazione di altri procedimenti, il richiamo all'art. 270 cod. proc. pen. è del tutto fuorviante» (Sez. 6, n. 21740 del 01/03/2016, Masciotta, Rv. 266921).
C) Secondo un terzo orientamento interpretativo, più risalente nel tempo e più restrittivo nel legittimare l'utilizzazione probatoria dei risultati dell'intercettazione, al di fuori dei casi tassativamente indicati nell'art. 270 cod. proc. pen. non è consentita l'utilizzazione in un procedimento penale delle risultanze emerse da intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, neppure quando i due procedimenti siano strettamente connessi sotto il profilo oggettivo e probatorio (Sez. 3, n. 9993 del 03/07/1991, Cerra, Rv. 188356): in contrapposizione al primo orientamento, si è osservato che la nozione di "diverso procedimento" ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen. va ricollegata «al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quelli fatto oggetto delle indagini relativi ad altro, differente, anche se connesso, procedimento», sicché ricomprendere in essa la connessione o il collegamento dei procedimenti comporterebbe «la sostanziale elusione del divieto in detta disposizione sancito dal legislatore» (Sez. 4, n. 4169 del 11/12/2008, dep. 2009, Mucciarone, Rv. 242836).
D) Comune al primo e al secondo orientamento è la registrata divaricazione sul punto relativo alla necessità o meno che il reato emerso nel corso dell'intercettazione rientri nei limiti di ammissibilità dettati, in particolare, dall'art. 266 cod. proc. pen.
Proprio in tale prospettiva le SS.UU. hanno ritenuto di affrontare preliminarmente siffatto nodo problematico, evidenziando come la soluzione del relativo quesito contribuisse a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite.
Al quesito è stata data risposta affermativa sul rilievo che “l'indiscriminato, in quanto svincolato dall'osservanza dei limiti di ammissibilità previsti dalla legge, allargamento dell'area dei reati per i quali – in presenza delle condizioni delineate, rispettivamente, dal primo e dal secondo orientamento - sarebbero utilizzabili i risultati delle intercettazioni incrinerebbe il bilanciamento tra i valori costituzionali contrastanti (il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni, da una parte; dall'altra, l'interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire i loro autori) che è assicurato dall'art. 270 cod. proc. pen.: bilanciamento garantito, prima di tutto, dalla riserva assoluta di legge, che, da un lato, comporta la fissazione di limiti di ammissibilità per l'autorizzazione del mezzo di ricerca della prova e, dall'altro, impone al legislatore di individuare i reati "ulteriori" rispetto ai quali riconoscere l'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione in un ambito ben definito, ossia «limitatamente all'accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).”.
3.Le critiche mosse dalle SS.UU. ai diversi indirizzi giurisprudenziali
3.1 Nella prospettiva seguita dalle SS.UU., il secondo orientamento non può essere condiviso poichè finisce per ancorare la nozione di “diverso procedimento” a un dato formalistico, ossia l’originaria iscrizione del reato all’interno dello stesso numero di registro generale delle notizie di reato.
Questa soluzione, da un lato, non trova riscontro nel codice di rito (che non fornisce una nozione univoca di “procedimento” tale per cui si possa con certezza identificarlo nel c.d. “fascicolo”) e, dall’altro, non è idonea a garantire il rispetto dei principi costituzionali che governano la disciplina delle intercettazioni (cfr. punto 9 del considerato in diritto).
Si evidenzia, infatti, che, «svincolata da qualsiasi legame sostanziale tra il reato per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato e l’ulteriore reato emerso dai risultati della intercettazione, la definizione della portata del divieto probatorio ex art. 270 co. 1, cod. proc. pen. viene, in buona sostanza, schiacciata sul “contenitore dell’attività di indagine” e, di conseguenza, delineata sulla base di fattori relativi alla “sede” procedimentale (unitaria o separata) del tutto casuali» e si presenta, dunque, incompatibile «con la portata dell’autorizzazione giudiziale delineata dall’art. 15 Cost.» (punto 9 del considerato in diritto).
3.2.Il terzo orientamento, che fa leva sulla nozione di “procedimento” come sinonimo di “reato”, inteso quale fatto storicamente determinato (ossia, tanti procedimenti quante sono le iscrizioni ex art. 335 c.p.p.), delinea una equiparazione che, oltre a non essere suffragata dal codice di rito (che da par suo non accoglie una definizione univoca di “procedimento”), porterebbe a conseguenze paradossali, come quella di ritenere “diverso procedimento” «quello iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto-reato», oppure «quello nuovamente iscritto a seguito di riapertura delle indagini ex art. 414, comma 2, cod. proc. pen.» (punto 10 del considerato in diritto).
D’altro canto, è lo stesso legislatore ad avere distinto, all’interno dell’art. 270 c.p.p., le nozioni di “procedimento” e “reato”: infatti, quando con l’introduzione del comma 1-bis, ad opera del d.lgs. n. 216/2017, ha voluto ulteriormente limitare l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, giustificata dalla particolare intrusività del mezzo utilizzato (il «captatore informatico su dispositivo elettronico portatile»), ha fatto espresso riferimento a «reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione» e non a «procedimenti diversi» da quelli in cui sono state autorizzate.
È quindi evidente che le due nozioni non possono coincidere.
3.3. Le Sezioni Unite, invece, condividono sostanzialmente «l’impostazione di fondo del primo orientamento», che valorizza una nozione sostanziale di “diverso procedimento”, ancorata alla sussistenza o meno di un nesso fra i reati successivamente emersi e quello (o quelli) oggetto di originaria autorizzazione (cfr. punto 11 del considerato in diritto).
Tuttavia se ne discostano perché – secondo le ragioni più avanti illustrate - ritengono che tale nesso non possa essere integrato, senza violare i principi e le garanzie costituzionali alla base dell’istituto, nelle ipotesi di collegamento investigativo previste dall’art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p.
Le ipotesi ivi previste, infatti, rispondono a, del tutto occasionali, «esigenze di efficace conduzione delle indagini» e non «presuppongono quel necessario legame originario e sostanziale» che consentirebbe di ricondurre anche il reato oggetto di collegamento investigativo all’originaria autorizzazione (punto 11.2 del considerato in diritto).
3.4.Va infine osservato che la Corte non dà rilievo nelle sue argomentazioni al profilo della pretesa equazione procedimento/reato, sia in ragione delle non univoche indicazioni codicistiche, sia, soprattutto, in quanto la ritiene smentita, proprio sullo specifico terreno della disciplina delle intercettazioni, dal comma 1-bis dell'art. 270 cod. proc. pen. (introdotto dall'art. 4, d. Igs. 29 dicembre 2017, n. 216), lì dove stabilisce che i risultati delle intercettazioni operate con un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile «non possono essere utilizzati come prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione» (salvo, anche qui, che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza).
Il significato normativo del riferimento al "reato" e non già al "procedimento" è volto a distinguere il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. Solo per il captatore informatico - e, dunque, non per le intercettazioni, per così dire, "tradizionali" - tale regime viene (a parte i casi di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza) delineato con riguardo al "reato" per il quale è intervenuto il provvedimento autorizzatorio: distinzione, questa, che, smentisce il presupposto sul quale si basa il terzo orientamento.
4. Il contenuto del decisum delle Sezioni Unite
La soluzione ermeneutica individuata dalle Sezioni Unite con la richiamata sentenza restringe l’ambito di operatività del divieto di utilizzazione di cui all’art. 270, c. 1, c.p.p.
Secondo la Corte, infatti, quest’ultimo non opera «con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge».
Con riguardo a tali reati, pertanto, non sarà necessaria la verifica del carattere “indispensabile” dei risultati delle intercettazioni ai fini dell’accertamento di delitti per i quali l’arresto in flagranza di reato è previsto come obbligatorio.
Le Sezioni Unite, aderendo all’orientamento maggioritario, hanno privilegiato una nozione sostanziale e strutturale di “diverso procedimento”, rispetto alla quale risulta privo di rilevanza l’aspetto estrinseco e formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (ritenuto invece decisivo dall’opposto filone interpretativo). Diversamente dalla giurisprudenza prevalente, tuttavia, la Suprema Corte non ha inteso valorizzare qualunque tipo di nesso sul piano oggettivo, probatorio o finalistico, ma esclusivamente la connessione stricto sensu intesa tra procedimenti, la quale ricorre nelle ipotesi tipizzate dall’art. 12 c.p.p.
Soltanto in quest’ultimo caso, infatti, può essere ravvisato quel “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale il provvedimento autorizzativo all’intercettazione è stato emesso ed il reato emerso grazie ai risultati di tale operazione captativa che rende «quest’ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con i principii ricavabili dall’art. 15 Cost.», che a sua volta, come affermato dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost., 4 aprile 1973, n. 34; Corte cost., 11 luglio 1991, n. 361), vieta la possibilità di rilasciare “autorizzazioni in bianco”.
Il nesso che lega i procedimenti fra i quali è ravvisabile la connessione ex art. 12 c.p.p. si fonda infatti sull’identità, totale o parziale, della regiudicanda oggetto di ciascuno di essi: un nesso, questo, che consente di riscontrare un «legame oggettivo tra due o più reati», del tutto indipendente dalla vicenda procedimentale.
La connessione ex art. 12 cod. proc. pen. costituisce un riflesso della connessione sostanziale dei reati: con specifico riferimento all’ipotesi di connessione di cui alla lett. c) dell'art. 12 cit., in particolare, si è rilevato come essa si fondi su un «legame oggettivo tra due o più reati» (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, Patroni Griffi, Rv. 271223), un legame, dunque, indipendente dalla vicenda procedimentale. Analoga connessione sostanziale - prima ancora che processuale - sussiste in presenza, oltre che di un concorso formale di reati, di un reato continuato (lett. b), in considerazione del requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione è necessario «che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).
Non è possibile, al contrario, giungere alle medesime conclusioni con riguardo alle ipotesi di collegamento investigativo di cui all’art. 371, c. 2, lett. b), c.p.p., ove il nesso è di carattere meramente “occasionale”, intercorrendo «non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l'autorizzazione e quello messo in luce dall'intercettazione, ma tra le "conseguenze" del primo e il secondo». Con riferimento a tali diverse evenienze procedimentali, dunque, i risultati delle intercettazioni potranno essere impiegati soltanto al fine di desumere notizie di reato e di procedere alla raccolta di nuovi ed autonomi elementi di prova da porre a fondamento dell’azione penale: tale modalità di impiego, infatti, non rientra nella sfera di operatività del divieto posto dall’art. 270, c. 1, c.p.p.
La linea ermeneutica tracciata dalla Corte con questo importante arresto giurisprudenziale segna indubbiamente un punto di svolta là dove sottolinea l’esigenza che i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati solo per i reati connessi per i quali la legge consente l’attività di captazione, ossia per quei reati che figurano nel catalogo previsto dall’art. 266 c.p.p., incidendo significativamente, in tal modo, sull’impostazione delle attività d’indagine relative all’accertamento di fattispecie associative, nelle ipotesi in cui i reati-fine non siano ricompresi nella norma generale (art. 266, co. 1, cit.) che individua i limiti normativi di ammissibilità della captazione[2].
Entro tale prospettiva è evidente che potranno essere valorizzate sul piano applicativo, ad es., le implicazioni logicamente sottese al quadro di principii delineato dalla Corte di legittimità in ordine ai presupposti di configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati fine, individuati esclusivamente nell’ipotesi in cui questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso, sempre che il giudice ne verifichi puntualmente la ricorrenza dandone conto nella motivazione[3].
Occorre peraltro considerare che il rispetto dei limiti di ammissibilità costituisce una precondizione di legittimità nell’utilizzo del mezzo di ricerca della prova in esame, il cui ineludibile rispetto deriva, come si è visto, direttamente dalla sostanza dei richiamati principi costituzionali, secondo la traduzione che il legislatore ne ha fatto incrociando i dati testuali delle disposizioni normative – oggettivamente inscindibili sul piano logico-sistematico e fra loro strettamente collegate nella dinamica applicativa – di cui agli art. 266, co.1, 267, co.1, 270, co. 1, che ne prevedono i presupposti e le condizioni d’impiego in relazione con la norma di chiusura delineata dall’art. 271, co.1, c.p.p., là dove in linea generale si stabilisce, nella sua prima parte, che i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati “qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge”.
5. Le tre regole connesse all’affermazione del principio
5.1 In primo luogo, le Sezioni Unite hanno sottolineato che, in ogni caso, i risultati ottenuti sulla base dell'intercettazione autorizzata in relazione ad un diverso reato, nell’ambito di un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p., possono essere utilizzati unicamente al fine di accertare un reato rispetto al quale ricorrano i requisiti di ammissibilità di cui agli artt. 266 e 267 c.p.p., i quali sono «espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost. (…) e dell'istanza di rigorosa - e inderogabile - tassatività che da essa discende».
I limiti di ammissibilità definiscono il perimetro legale all'interno del quale il giudice deve operare le valutazioni relative alla sussistenza, nella fattispecie concreta, dei presupposti dell'autorizzazione (in ordine, ad esempio, al presupposto indiziario di cui all'art. 267 cod. proc. pen.). Pertanto, la previsione di limiti di ammissibilità delle intercettazioni (delineati in particolare per le intercettazioni "ordinarie" dall'art. 266 cod. proc. pen. attraverso il riferimento alla comminatoria edittale del reato e/o l'indicazione di tipologie generali o specifiche di fattispecie incriminatrici in relazione alle quali viene chiesta l'autorizzazione) costituisce espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni e dell'istanza di rigorosa - e inderogabile - tassatività che da essa discende (cfr. Corte cost., sent. n. 63 del 1994), riconnettendosi alla «natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 della Costituzione)» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Consentire, in caso di connessione dei reati (primo orientamento) o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto (secondo orientamento), l'utilizzazione probatoria dell'intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall'art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all'art. 15 della Costituzione» (Sez. 6, n. 4942 del 2004, Kolakowska Bozena, Rv. 229999).
5.2 Non è in discussione poi, l'orientamento, del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte, attiene solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini (Sez. 2, n. 17759 del 13/12/2016, dep. 2017, Cante, Rv. 270219; Sez. 4, n. 2596 del 03/10/2006, dep. 2007, Abate, Rv. 236115; Sez. 5, n. 23894 del 02/05/2003, Luciani, Rv. 225946; Sez. 6, n. 31 del 26/11/2002, dep. 2003, Chiarenza, Rv. 225709): orientamento, questo, del tutto in linea con le indicazioni del giudice delle leggi, secondo cui «il divieto disposto dall'art. 270 cod. proc. pen. è estraneo al tema della possibilità di dedurre "notizie di reato" dalle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di altro procedimento» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991).
5.3. D'altra parte, non viene in rilievo, nel caso in esame, l'ipotesi della conversazione intercettata che costituisca corpo del reato: al riguardo, le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che, in tema di intercettazioni, «la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato allorché essa integra di per sé la fattispecie criminosa, e, in quanto tale, è utilizzabile nel processo penale» (Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, Rv. 259776).
6.Il fondamento “costituzionale” della soluzione indicata dalla Suprema Corte
6.1. La risoluzione del contrasto giurisprudenziale nei termini sopra indicati è stata dalla Suprema Corte individuata facendo riferimento alla ratio giustificativa del divieto di utilizzazione.
Lo statuto costituzionale delle intercettazioni richiede, infatti, la predeterminazione tassativa dei presupposti di legge e un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, nonché ulteriori “garanzie” volte a ridurre al minimo la lesione oggettivamente recata ad un diritto fondamentale della persona.
Circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati è una garanzia destinata ad evitare che gli effetti dell’interferenza si moltiplichino al di là di quanto strettamente necessario per la efficacia delle attività d’indagine.
Entro questa prospettiva, in particolare, si sottolinea che il divieto di cui all’art. 270, comma 1, c.p.p. mira a mantenere costante il collegamento con le circostanze di fatto che giustificano la violazione della riservatezza e con i motivi indicati nell’autorizzazione del giudice: motivi che includono, oltre all’accertamento degli indizi di un reato ricompreso fra quelli previsti dalla legge, anche la valutazione in merito all’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini. La rottura di tale legame consentirebbe in definitiva l’utilizzazione dei risultati di intercettazioni che nessuno ha realmente autorizzato[4].
E’ opportuno rilevare, inoltre, che il controllo sulla persistenza dei presupposti (art. 267 comma 3 c.p.p.) è previsto come necessario anche per ogni proroga dell’intercettazione già autorizzata per un determinato reato: ciò sembra confermare la tesi dell’inutilizzabilità delle intercettazioni in assenza di un’autorizzazione specifica da parte del giudice.
Il divieto di utilizzazione, tuttavia, viene meno quando si scoprono delitti diversi per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Si tratta di un’ipotesi eccezionale, poichè attraverso il rinvio ad una norma dettata ad altri fini ci si riferisce sinteticamente ad un catalogo di reati considerati di maggiore allarme sociale. La scelta non ha altra logica se non quella dettata da esigenze di politica criminale, che il legislatore ha ritenuto eccessivamente sacrificate qualora dall’intercettazione si ricavi la prova di un reato particolarmente grave senza che se ne possa fare uso se non come notitia criminis.
La presenza di limiti edittali, peraltro, costituisce di per sé una garanzia contro eventuali eccessi, ed è intrinseca alla disciplina stessa delle intercettazioni, che infatti sono del tutto vietate per i reati che non superano una certa soglia di gravità.
6.2Nella prospettiva delineata dal Giudice delle leggi l'autorizzazione giudiziale non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili: essa, infatti, deve dar conto dei «soggetti da sottoporre al controllo» e dei «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991); riferimento, quest'ultimo, che rende ragione della delimitazione dell'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione ai reati riconducibili all'autorizzazione giudiziale, delimitazione che, a sua volta, è condizione essenziale affinché l'intervento giudiziale abilitativo non si trasformi, come si è visto, in una "autorizzazione in bianco".
Già con riguardo al previgente codice di rito, peraltro, la giurisprudenza costituzionale aveva chiarito che «nel processo può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l'imputazione di cui si discute» (Corte cost., sent. n. 34 del 1973).
Eccezione a tale regola è rappresentata dall'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l'accertamento di reati diversi da quelli riconducibili al provvedimento autorizzatorio motivato, ossia per l'accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza (ovvero, sotto il previgente codice di rito, il mandato di arresto obbligatorio): infatti, pur inviolabile, il diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni può essere oggetto di bilanciamento e, dunque, conoscere restrizioni o limitazioni in relazione all'«inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante», quale, nei limiti di seguito indicati, la necessità di repressione dei reati. La giurisprudenza della Consulta ha ritenuto costituzionalmente valida la deroga a due condizioni, espressione, entrambe, dell'«eccezionalità» del regime di utilizzazione per reati non riconducibili all'autorizzazione giudiziale: come si è visto, i casi eccezionali devono essere «tassativamente indicati dalla legge» e l'utilizzazione deve essere circoscritta «all'accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale», ossia per l'accertamento di «reati di maggiore gravità» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).
Fuori da tali eccezionali casi, tassativamente previsti dalla legge ed afferenti all'accertamento di reati di maggiore gravità, l'autorizzazione del giudice si connota per una piena portata abilitativa e costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all'intercettazione, ma anche il limite all'utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione: senza tale limitazione, il provvedimento autorizzatorio si trasformerebbe, come si si è detto, in un'inammissibile "autorizzazione in bianco", secondo l'icastica espressione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale.
7.Le implicazioni del confronto con la giurisprudenza convenzionale
7.1 La Corte di Strasburgo ha in più occasioni affrontato il tema dei presupposti in base ai quali può ritenersi legittima l’ingerenza nella vita privata per mezzo delle operazioni di intercettazione.
Il parametro convenzionale di riferimento è rappresentato dall’art. 8 Cedu, secondo cui l’intrusione della pubblica autorità nella vita privata e familiare nonché nel domicilio e nella corrispondenza della persona deve essere prevista dalla legge e deve costituire “una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Nell’ordinamento nazionale, dunque, deve essere prevista una base normativa, chiara e dettagliata, accessibile e prevedibile per i consociati, in forza della quale sia determinata la natura dei reati che possono dare luogo ad una intercettazione. Occorre, poi: a) che siano delimitate le categorie delle persone che possono essere sottoposte a questo strumento investigativo; b) che siano fissati i limiti di durata del mezzo di ricerca della prova; c) che sia stabilita una procedura per esaminare, utilizzare e conservare i dati ottenuti[5].
Dalla norma convenzionale, inoltre, si desume che il mezzo di ricerca della prova non solo deve perseguire uno dei fini indicati dall'art. 8, § 2, della Convenzione, ma deve essere necessario, nell'ambito di una società democratica, per il conseguimento dei predetti obiettivi. Tale ultima indicazione rimanda alla esigenza di una certa proporzionalità tra l’entità dell’ingerenza nella sfera di riservatezza, necessaria, in una società democratica, per le specifiche finalità enunciate dalla norma convenzionale, e la giustificazione addotta dai pubblici poteri.
La proporzionalità e la determinazione degli obiettivi, infine, impongono che sia attribuita ad un’autorità giudiziaria o, quantomeno, ad un organo indipendente la competenza ad autorizzare captazioni e il controllo sul ricorso a questo strumento da parte dei pubblici poteri.
In questo contesto, inoltre, la Corte EDU ha affrontato il profilo problematico dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in un procedimento diverso da quello in cui il mezzo di ricerca della prova è stato disposto, ma lo ha declinato in una prospettiva diversa da quella che è stata sviluppata dalla giurisprudenza di legittimità.
Nella logica della giurisprudenza europea, infatti, l’aspetto centrale è rappresentato dalle garanzie che l’ordinamento interno deve assicurare alla persona nei cui confronti gli esiti delle intercettazioni sono usate e che ben potrebbe essere rimasta estranea al procedimento nel quale esse sono state disposte.
In una decisione relativa al ricorso di un cittadino francese, imputato di traffico di stupefacenti e condannato a seguito dell’utilizzo di intercettazioni telefoniche acquisite in un distinto procedimento, ad esempio, la Corte EDU, pur ribadendo che la legge francese del 1991 che disciplina le intercettazioni è conforme all’art. 8 Cedu, ha riscontrato la violazione della disposizione di cui all’art. 6, par. 3, della Convenzione, censurando l’orientamento seguito dalla Cassazione francese che avrebbe privato il ricorrente della possibilità di contestare la validità delle intercettazioni acquisite in un procedimento penale diverso da quello riguardante l'imputato[6].
Secondo la giurisprudenza europea, infatti, l’interessato deve poter usufruire di un “controllo efficace” sugli atti intrusivi, idoneo a limitare l’ingerenza nella vita privata a quanto “necessario in una società democratica”. Tale possibilità di esame va riconosciuta anche nel caso in cui si utilizzino intercettazioni compiute in un processo diverso, al quale l’interessato, necessariamente, sia rimasto estraneo. In ogni caso, ai fini della valutazione dell’eventuale violazione del parametro dell’art. 6 CEDU, è necessario verificare se il procedimento, nel suo insieme, sia stato “ingiusto”.
7.2 Questo aspetto, che peraltro esula dalla questione posta al vaglio delle Sezioni unite, deve essere opportunamente considerato alla luce della disciplina italiana delle intercettazioni.
L’art. 270 cod. proc. pen., infatti, circoscrive le categorie di reati nei cui confronti possono essere utilizzate le intercettazioni compiute in un altro procedimento e consente il controllo della parte interessata, che la Corte europea generalmente individua come uno dei parametri che assicurano la legittimità dell’intrusione nella sfera privata del cittadino.
Ai sensi dell’art. 270, comma 2, cit., tuttavia, nel caso di utilizzazione di intercettazioni in procedimento diverso da quello nel quale sono state disposte, allo stato, tra gli atti che devono essere depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento non devono essere compresi i decreti autorizzativi, ma solo i verbali e le registrazioni (cfr. Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, P.M in proc. Esposito, Rv. 229244; Sez. 1, n. 38626 del 21/10/2010, Romeo, Rv. 248665; Sez. 1, n. 19791 del 6/02/2015, Alberti, Rv. 263571).
La norma citata, infatti, non richiama il disposto di cui all’art. 268, comma 4, c.p.p., che a sua volta prevede il deposito anche dei decreti autorizzativi.
La giurisprudenza, al riguardo, non esclude che l’eventuale mancanza o illegittimità dell’autorizzazione a compiere l’intercettazione possa rilevare anche nell’ambito del procedimento ad quem, ma devolve alla parte interessata sia il compito di dedurre il vizio, sia di allegare la documentazione necessaria (il decreto autorizzativo chiedendone il rilascio in copia ex art. 116 cod. proc. pen) per permettere al giudice di accertare se vi sia stato l’esercizio del potere di controllo giurisdizionale richiesto dall’art. 15 Cost. e di riconoscere l’eventuale sussistenza di una causa di illegittimità (cfr., di recente, Sez. 6, n. 41515 del 18/09/2015, Lusha, Rv. 264741).
Questo profilo di frizione tra la normativa nazionale e i parametri di legittimità fissati dalla giurisprudenza europea sembrava destinato ad essere superato, poiché l’art. 3, comma 1, lett. d), d. lgs. n. 216 del 2017, che ha riformato la disciplina delle intercettazioni, aveva sostituito nell’art. 270, comma 2, secondo periodo, c.p.p. le parole “dell’articolo 268 commi 6, 7 e 8” con le parole “degli articoli 268-bis, 268-ter e 268-quater”. Per effetto del richiamo all’art. 268-bis cod. proc. pen., dunque, ai fini dell’utilizzazione delle intercettazioni eseguite aliunde dovevano essere depositati non solo i verbali e le registrazioni, ma anche i decreti autorizzativi.
In questo modo, anche se la parte interessata non dovesse attivarsi, producendo i decreti autorizzativi, il giudice viene comunque messo in grado di valutare l’utilizzabilità della prova.
Senonchè, l’applicazione di questa norma è stata più volte differita nel succedersi dei diversi interventi normativi operati sulla materia, sino a quando, per effetto della ulteriore modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lett. g), n. 2, del recente d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, vi è stato ripristinato l’originario rinvio all’art. 268, commi 6, 7 e 8, da intendersi, pertanto, come tuttora efficace, anche se soggetto alla disciplina transitoria, come più volte successivamente modificata, di cui all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 216/17.
8.La diversa disciplina della utilizzabilità dei risultati acquisiti con il captatore informatico: problemi e prospettive
8.1 La complessiva rimodulazione della disciplina del captatore informatico ha trovato un momento di sintesi attraverso la sostituzione, nel corpo dell’art. 270 c.p.p., del comma 1-bis, a suo tempo introdotto dal d.lgs. n. 216/2017 e relativo alla utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni tra presenti operate con tale strumento d’indagine per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione.
La riforma del 2017 ne aveva escluso l’utilizzabilità, fatta eccezione per la sola ipotesi in cui quei risultati fossero «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».
Il d.l. n. 161/2019 ha seguito invece una soluzione di tutt’altro genere, prevedendo l’utilizzabilità dei risultati anche per la prova di reati diversi, purché «compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2-bis» c.p.p.
Si tratta dei delitti di criminalità organizzata (art. 51, c. 1-bis e 1-quater c.p.p.) e di quei delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione che siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
La mancata previsione del requisito della “indispensabilità” per l’accertamento del fatto alleggerisce l’onere di motivazione imposto al giudice e sembra consentire l’utilizzo dei risultati delle intercettazioni in un numero ben più ampio di casi.
La scelta di legittimare l’utilizzo “esterno” del cd. trojan è stata probabilmente influenzata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite in tema di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi rispetto a quello nell’ambito del quale sono state autorizzate le attività di captazione. Tuttavia, occorre tenere in considerazione che il giudizio de quo aveva ad oggetto operazioni di intercettazione telefonica, e non conversazioni tra presenti intercettate mediante captatore informatico[7].
Il riconoscimento dell’utilizzabilità dei risultati delle attività di intercettazione in procedimenti differenti, già idoneo a produrre effetti particolarmente invasivi, in ordine all’esercizio dei diritti di difesa, con riguardo alle intercettazioni “tradizionali”, sembra suscitare perplessità ancor maggiori per le operazioni di intercettazione ambientale effettuate mediante captatore informatico, in ragione del carattere particolarmente penetrante di questa peculiare modalità di captazione delle comunicazioni e, conseguentemente, del più elevato rischio di lesione del diritto alla riservatezza non soltanto nei confronti di soggetti terzi, estranei al procedimento e solo occasionalmente coinvolti dall’attività di ascolto, ma anche dello stesso indagato.
Occorre inoltre considerare che la proroga dell’entrata in vigore sia del d.lgs. n. 216/2017 che del d.l. n. 161/19 fa sì che l’utilizzo di questo invasivo strumento d’indagine continui ad essere impiegato facendo leva «sulle maglie larghe della prova atipica», a fronte, peraltro, di un sensibile ampliamento normativo della sua potenziale area di impiego (le modifiche apportate dalla legge n. 3/2019, infatti, sono state interpolate dal recente decreto legge con la specificazione che i delitti contro la pubblica amministrazione sono quelli commessi, oltre che dai pubblici ufficiali, anche dagli incaricati di pubblico servizio).
8.2 Il rigore con cui la riforma del 2017 aveva inteso disciplinare le intercettazioni effettuate mediante trojan horse si era tradotto anche nella previsione che i risultati non potessero essere utilizzati per la prova di reati diversi, salvo che fossero indispensabili per la prova di reati particolarmente gravi, come quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Il riferimento ai “reati diversi” invece che ai “procedimenti diversi”, che serve a regolare la stessa vicenda al di fuori dell’uso del malware su dispositivo portatile, aveva il fine di restringere l’ambito di operatività, sia pure indiretta, del trojan horse, perché non avrebbe consentito l’utilizzazione per altri reati oggetto dello stesso procedimento se non alle medesime condizioni di indispensabilità probatoria e sempre che per tali altri reati fosse previsto l’arresto obbligatorio.
La precedente, restrittiva, formulazione normativa, tuttavia, non è stata mantenuta dal recente d.l. n. 161/19, che ha ribaltato la struttura della disposizione trasformandola da norma di divieto (…i risultati …non possono essere utilizzati per la prova di reati diversi…) a norma di autorizzazione (i risultati … possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi…) – ex art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen. –, con l’unica condizione che i reati da provare rientrino nelle categorie di quelli per i quali il ricorso al trojan horse è ammesso.
Il venir meno del requisito dell’indispensabilità probatoria comporterà inevitabilmente una dilatazione della possibilità di utilizzazione dei risultati per l’accertamento di reati non indicati nella richiesta di autorizzazione, che deve comunque contenere l’indicazione delle “ragioni che rendono necessaria tale modalità di intercettazione, ossia tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, per lo svolgimento delle indagini”[8].
Ai sensi della nuova normativa, dunque, fermo restando il divieto di impiego del prodotto delle captazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali le stesse sono state disposte, «[…] i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266, comma 2 bis» c.p.p.
Secondo la precedente disposizione il divieto di utilizzo dei dati appresi trovava una deroga nel solo caso in cui essi risultassero indispensabili per l’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (art. 380 c.p.p.), laddove l’attuale quadro normativo consente di utilizzare queste risultanze per la prova di reati diversi da quelli contemplati dal decreto autorizzativo, purchè ricompresi tra i gravi crimini di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. e quelli commessi dai pubblici ufficiali o dagli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione.
La novella, in tal modo, sembra aprire la strada alla “libera” circolazione probatoria delle risultanze della captazione digitale determinando una sostanziale violazione della garanzia della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 15 Cost., con riferimento all’intercettazione confluita nel “procedimento diverso”, in assenza di qualsivoglia controllo da parte del giudice procedente[9].
Si paventa, in sostanza, il rischio che, una volta ottenuta l’autorizzazione all’impiego del malware con riferimento ad un certo reato all’interno di un determinato procedimento – e quindi anche sulla base di motivi concernenti la posizione dell’indagato in quel procedimento e per quella specifica fattispecie delittuosa – le informazioni ottenute possano essere utilizzate anche in indagini diverse e per la prova di reati differenti, benché in essi non sussistano o comunque non siano stati verificati i presupposti per l’emissione di analogo provvedimento autorizzativo.
Sulla base della formulazione letterale della nuova disposizione normativa, peraltro, deve ritenersi la inutilizzabilità degli esiti captativi per i reati – non ricompresi tra quelli indicati nell’articolo 266, comma 2-bis, c.p.p. – diversi da quello per cui è stato autorizzato l’inserimento del captatore informatico, pur quando si tratti di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza[10].
E’ altresì evidente che l’esplicito riferimento al “reato”, anziché al “procedimento”, porta con sé la ulteriore problematica relativa alla individuazione dei limiti di applicabilità al captatore informatico del quadro di principii di recente stabiliti dalle Sezioni Unite sul disposto normativo di cui all’art. 270 c.p.p. Ne deriva, di conseguenza, che la previsione contenuta nel comma 1-bis dell’art. 270 c.p.p. dovrebbe correttamente intendersi nel senso che le intercettazioni tramite captatore sono utilizzabili anche per reati diversi, purché non solo siano ricompresi tra quelli indicati dall’art. 266, comma 2-bis, c.p.p., ma siano anche connessi ex art. 12 c.p.p. con quello oggetto della intercettazione[11].
Entro tale prospettiva, dunque, è opportuno che il legislatore provveda, in sede di conversione del d.l. n. 161 del 2019, ad armonizzare la nuova previsione del comma 1-bis con il quadro di principii stabiliti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 51/2020, tenendo conto: a) del fatto che l’art. 270, co. 2, c.p.p. - che disciplina, a sua volta, le modalità di acquisizione delle intercettazioni in un “diverso procedimento” - richiama la sola disposizione del primo comma e non quella, di nuovo conio, contenuta nel comma 1-bis, con la conseguente possibilità di utilizzare i risultati delle relative intercettazioni solo nell’ambito dello stesso procedimento; b) del fatto che la clausola di riserva con la quale si apre la nuova disposizione del comma 1-bis (Fermo restando……) sta a significare che il legislatore ha inteso stabilire in linea generale nel comma 1 dell’art. 270 il regime di utilizzabilità di ogni forma di intercettazione (ivi compresa quella disposta con il cd. trojan horse), laddove la successiva disposizione racchiusa nel comma 1-bis è volta a rendere utilizzabili, nell’ambito dello stesso procedimento, i risultati delle intercettazioni operate fra presenti con lo strumento del captatore informatico per la prova di reati “diversi” da quelli oggetto del relativo decreto di autorizzazione, purchè, ovviamente, ricompresi nei limiti fissati dall’art. 266, co. 2-bis, c.p.p.
[1] L’ordinanza di rimessione così si pronunciava: “Si impone dunque la devoluzione dei ricorsi alle Sezioni Unite, perché risolvano il segnalato contrasto e stabiliscano «se a seguito di autorizzazione allo svolgimento di operazioni di intercettazione per uno dei reati di cui all'art. 266 cod. proc. pen., le conversazioni intercettate siano comunque utilizzabili per tutti i reati oggetto del procedimento e se dunque la nozione di "diverso procedimento" di cui all'art. 270 cod. proc. pen. sia applicabile solo nel caso di procedimento ab origine diverso e non anche nel caso di reato basato su notizia di reato emergente dalle stesse operazioni di intercettazione, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con il reato o i reati per i quali le intercettazioni sono state autorizzate».”. Deve prendersi atto, afferma significativamente l’ordinanza di rimessione, “della compresenza dei due diversi orientamenti, ciascuno suffragato da plurime conferme e fondati entrambi su presupposti di ordine sia semantico-letterale sia sistematico. In tale prospettiva non possono sottacersi neppure gli ulteriori, in parte connessi, ma sotterranei profili di divergenza, in rapporto alla necessità o meno di una verifica della riconducibilità dei reati venuti in evidenza al catalogo di cui all'art. 266 cod. proc. pen.”
[2] Cfr. C. PARODI, Il nuovo decreto intercettazioni: le indicazioni sulla riservatezza, in Il Penalista, 13 gennaio 2020, p. 12.
[3] Cfr., ex multis, Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Vitale, Rv. 243199; Sez. 1, n. 40318 del 04/07/2013, Corigliano, Rv. 257253.
[4] Cfr. i rilievi di G. ILLUMINATI, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni Unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in www.sistemapenale.it, 30 gennaio 2020, p. 3 ss.
[5] Da ultimo cfr., ex multis, Corte EDU del 15/05/2000, Khan c. Regno Unito; Corte EDU del 29/06/2006, Weber and Saravia c. Germania; Corte EDU del 26/04/2007, Dumitru Popescu c. Romania; Corte EDU del 10/04/2007, Paranisi c. Italia; Corte EDU del 10/02/2009, Iordachi c. Moldavia.
[6] Cfr. Corte EDU, Sez. 4, del 29/03/2005, n. 57752/00, Matheron C. Francia, in Dir. pen. proc., 2005, p. 649.
[7] C. LARINNI, La (contro)riforma delle intercettazioni: il D.L. n. 161 del 2019, in www.discrimen.it, 21 gennaio 2020, p. 7.
[8] G. SANTALUCIA, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni, in sistemapenale.it, n. 1/2020, p. 59.
[9] W. NOCERINO, Prime riflessioni a margine del nuovo decreto legge in materia di intercettazioni, in sistemapenale.it, n. 1/2020, p. 78.
[10] Al riguardo cfr. G. AMATO, Trojan applicabile ai reati degli incaricati di pubblico servizio, in Guida dir., 2020, n. 6, p. 68 ss.
[11] M. GRIFFO, Il trojan e le derive del terzo binario, in sistemapenale.it, n. 2/2020, p. 70.
La richiesta di autorizzazione a procedere sul caso Open Arms (1-20 agosto 2019). Nota a Tribunale di Palermo. Collegio per i reati ministeriali, 30 gennaio 2020*.
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. Il blocco della Open Arms davanti al porto di Lampedusa. - 2. I fatti contestati dal Tribunale dei ministri di Palermo. - 3. Il sistema gerarchico delle fonti ed il ruolo delle norme internazionali ed europee. - 4. Il falso problema dello stato di bandiera della nave soccorritrice. - 5. Diritto di accesso al territorio per i richiedenti asilo e divieto di respingimento. 6. Doverosità degli interventi di soccorso in acque internazionali in caso di distress. - 7. Conclusioni.
Mentre nei casi Diciotti e Gregoretti il dibattito sull’autorizzazione a procedere contro il senatore Salvini si basava sulla natura politica degli atti con i quali l’ex ministro dell’interno aveva bloccato lo sbarco dei naufraghi da navi militari italiane, nel caso Open Arms, per la quale il TAR del Lazio aveva sospeso il primo divieto di ingresso nelle acque territoriali, la difesa dell’ex ministro cerca di criminalizzare l’operato dei componenti dell’equipaggio della nave, adducendo che l’indicazione del Porto sicuro di sbarco (Pos) spettava alla Spagna o a Malta (e non all’Italia) e che il comandante della nave avrebbe deliberatamente rifiutato il porto sicuro, indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia ricorrendo dunque un caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I fatti accertati e le argomentazioni giuridiche formulate dal Tribunale dei ministri di Palermo, sulla base del richiamo alle norme internazionali contenuto negli art. 10, 11 e 117 della Costituzione, che “non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica”, capovolgono la prospettiva sulla base della quale l’ex Ministro dell’interno, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso nei porti italiani. Non è illecita l’attività di soccorso operata dalle ONG in acque internazionali, ma ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali ed al trattenimento prolungato dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice, sia pure allo scopo di ottenere una redistribuzione degli stessi in diversi paesi europei.
1. Il blocco della Open Arms davanti al porto di Lampedusa
La decisione del Senato che, su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo,si pronuncerà sul caso Open Arms, assume un rilievo particolare alla vigilia della probabile modifica delle norme del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che riguardano i soccorsi inalto mare operati dalle Organizzazioni non governative. La nave della omonima ONG,spagnola, tra il 14 ed il 20 agosto dello scorso anno, era stata bloccata all’ancora davanti al porto dell’isola di Lampedusa, prima che intervenisse il sequestro da parte della Procura di Agrigento, che finalmente permetteva lo sbarco a terra dei naufraghi, alcuni dei quali, in preda alla disperazione, si erano già lanciati in mare per raggiungere a nuoto la costa.
Il capo di imputazione formulato a carico del senatore Salvini è ancora una volta per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, per la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) e per aver trattenuto indebitamente a bordo della Open Arms, ormeggiata a poche centinaia di metri da Lampedusa, le 164 persone soccorse dalla nave umanitaria in tre distinti eventi SAR a partire dal primo agosto 2019. Sulla nave si trovavano numerosi minori stranieri non accompagnati, per i quali l’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 dispone il divieto di respingimento [1].
Già il primo agosto 2019, giorno nel quale veniva effettuato il primo soccorso di decine di naufraghi nella cosiddetta zona SAR (Ricerca e salvataggio) “ libica”, il Ministro dell’Interno pro-tempore, di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, con decreto emesso ai sensi dell’art. 11 comma 1-ter D. lgs. N. 286/98, come modificato dal D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019. Successivamente la Open Arms operava altri due interventi di soccorso, uno in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, l’altro nella zona SAR maltese, salvando la vita di decine di persone tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati. Tutte le competenti autorità venivano tempestivamente informate dei soccorsi. I libici non rispondevano, le autorità spagnole invitavano il comandante a rivolgersi alla centrale operativa della Guardia costiera maltese (MRCC Malta) che però rifiutava di assumere la responsabilità dei primi due eventi occorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, salvo ad offrire la propria disponibilità per i naufraghi soccorsi nel terzo intervento, quando la Open Arms si trovava vicino l’’isola di Lampedusa, in condizioni meteo tanto critiche che anche la guardia costiera italiana ne escludeva la possibilità di allontanamento verso Malta. Per questa ragione appare privo di fondamento l’assunto difensivo del senatore Salvini che continua ad accusare la Open Arms di avere intenzionalmente introdotto “clandestini” in territorio italiano e di non avere accettato il porto di sbarco sicuro (POS) tardivamente offerto dalle autorità spagnole. Come rilevano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo,“va anzitutto evidenziato l’indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini sin da quando, apprendendo dell’intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all’inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d’intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell’ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l’evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”.
Durante il periodo, nel corso del quale stazionava in acque internazionali a sud-ovest di Lampedusa in attesa di assegnazione di un POS, ed anche successivamente, quando si trovava nelle acque territoriali, in diverse occasioni la Open Arms richiedeva (congiuntamente a RCC Malta ed a I.M.R.C.C.) di effettuare delle evacuazioni mediche di migranti in precarie condizioni di salute(MEDEVAC), che alla fine venivano eseguite. Dopo l’ennesimo rifiuto delle autorità maltesi che impedivano persino l’avvicinamento della Open Arms all’isola di Malta per cercare ridosso a fronte di un progressivo peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave faceva rotta verso l’isola di Lampedusa.In quello stesso giorno, il Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (terza sezione)”[2]. Sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale, “al fine di consentire l’ingresso della Nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli)[3].
Dopo la decisione del giudice amministrativo, l’ex Ministro dell’interno, il 14 agosto 2019,reiterava il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che però non veniva sottoscritto come atto di concerto da parte di altri ministri, annunciando ricorso urgente al Consiglio di Stato (del quale non si hanno altre notizie) sostenendo che “Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”.Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo, invece,” Open Arms aveva inviato (alle autorità maltesi, n.d.a.) in data 13 agosto 2019 una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli. La centrale operativa della Guardia costiera (RCC) di Malta, con messaggio delle ore 21,17 dello stesso giorno, rispondeva a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”.
Il nuovo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture. Senza la firma di “concerto”degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta[4] e Danilo Toninelli[5], che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità.
2. I fatti contestati dal Tribunale dei ministri di Palermo
Nella notte tra il 14 ed il 15agosto la nave Open Arms ,con la scorta di due mezzi della Marina italiana, mentre il mare si ingrossava fino a burrasca, faceva ingresso nelle acque territoriali ormeggiandosi di fronte al porto di Lampedusa, come convenuto con le autorità marittime locali. Dopo una successiva richiesta pervenuta da Open Arms, ormai a ridosso di Lampedusa, che sollecitava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, il 15 agosto lo stesso ministro dell’interno sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14 agosto del Presidente del Consiglio Conte, con cui lo si era invitato “ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione”. Salvini escludeva che i migranti a bordo della nave fossero sotto la giurisdizione italiana, sostenendo invece che dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello stato di bandiera, dunque la Spagna, affermando anche di avere dato mandato all’Avvocatura dello Stato per impugnare il decreto di sospensiva del Tar Lazio, impugnativa di cui però non risulta alcuna traccia. Nello stesso giorno, in risposta al Presidente del Tribunale per i Minori di Palermo e al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale, con riferimento ai minori non accompagnati a bordo della Open Arms: ribadiva la giurisdizione spagnola in materia, e reiterava il suo rifiuto di compiere gli atti di ufficio richiesti per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Il 16 agosto il Presidente del Consiglio rispondeva ad una ennesima nota del ministro dell’interno, sollecitando lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, che ormai si trovava in acque territoriali italiane e prospettando la possibilità di configurare l’eventuale rifiuto come un’ipotesi di illegittimo respingimento, comunicando anche la disponibilità già offerta da altri paesi europei di accogliere parte dei migranti della Open Arms, “indipendentemente dalla loro età”.
A quel punto l’ex ministro dell’interno autorizzava lo sbarco dei minori non accompagnati che, soltanto il 18 agosto, su decisione della Prefettura di Agrigento e dietro comunicazione dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro dell’Interno, venivano fatti sbarcare. Nella stessa giornata diversi naufraghi si gettavano in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa di Lampedusa, e venivano recuperati da membri dell’equipaggio della stessa Open Arms.
Una successiva ispezione del Procuratore della Repubblica di Agrigento a bordo della nave accertava “condizioni emozionali estreme in un clima di altissima espressione” ove “il vissuto di morte collegato a un eventuale rimpatrio e la percezione di vita affrontando a nuoto lo specchio di mare” che li separava dall’Isola di Lampedusa “comportavano una marginalizzazione del rischio individuale e collettivo che si inseriva in un contesto di scarso controllo critico – cognitivo, con conseguente pericolo di agiti comportamentali inappropriati (mettere a repentaglio l’incolumità fisica e la vita medesima) senza possibilità, da parte di terzi, di contenere dette condotte né di arginare un ulteriore sviluppo di gravi situazioni psicopatologiche”.Lo sbarco definitivo dei naufraghi riconosciuti come maggiorenni avveniva soltanto il 20 agosto dopo l’ingresso della nave nel porto di Lampedusa, in conseguenza del provvedimento di sequestro adottato dalla Procura di Agrigento[6].
Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, la condotta riferibile personalmente al ministro Salvini, consistente nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) alla Open Arms, nel periodo intercorrente tra il 14 ed il 20 agosto 2019, sarebbe risultata “illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Gli stessi giudici rilevano come, “durante il primo segmento della vicenda, protrattosi sino al 14.8.2019, si delineasse già un obbligo esclusivo per lo Stato italiano di indicare un POS, quanto meno in relazione al concomitante obbligo gravante, in virtù delle medesime norme, sulle autorità maltesi. In effetti, in capo a queste si profilava anche il più stringente criterio di collegamento della titolarità della zona in cui era avvenuto almeno il secondo soccorso, circostanza questa strenuamente contestata da Malta e, specularmente, sostenuta dal comandante della Open Arms; alla luce di questo criterio, le richieste di sbarco e di ridosso immediatamente successive vennero, infatti, indirizzate dal comandante della Open Arms esclusivamente a Malta”.
A seguito dei reiterati rifiuti frapposti dalle autorità maltesi, che si dichiaravano tardivamente disponibili soltanto ad accettare lo sbarco dei 39 naufraghi soccorsi dalla Open Arms in zona SAR di competenza maltese nel terzo evento di salvataggio, secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, “si ritiene che l’obbligo di indicare un POS, a partire dal 14.8.2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane“.
La vicenda della Open Arms appare dunque assai diversa rispetto ai casi Diciotti[7]e Gregoretti[8], già esaminati dal Senato con esiti opposti, perché si trattava di una nave appartenente ad una ONG e il divieto di sbarco imposto dall’ex ministro dell’interno, relativo al periodo tra il 14 ed il 20 agosto 2019, non era stato condiviso dalle altre autorità di governo, pure richiamate dal decreto sicurezza n. 53/2019, che veniva convertito in legge proprio negli stessi giorni nei quali la nave spagnola soccorreva i naufraghi in zona SAR “libica”. Anche nel caso della Open Arms erano però presenti tra i naufraghi minori non accompagnati, per i quali il Tribunale dei minori di Palermo aveva adottato un ordine di sbarco immediato, sbarco che di fatto venne ritardato per diversi giorni, senza alcuna giustificazione per questa grave limitazione della loro libertà personale, in contrasto con tutte le norme internazionali e di diritto interno ( Legge Zampa n.47 del 2017) a tutela del “superiore interesse del minore”.
Nelle sue difese più recenti il senatore Salvini, a differenza di quanto gli era stato possibile nei casi Diciotti e Gregoretti, tenta di criminalizzare l’intervento di soccorso operato dalla Open Arms, giungendo a ricordare il precedente sequestro della stessa nave giunta nel porto di Pozzallo, nel marzo del 2018, ed il relativo procedimento penale ancora in corso presso il Tribunale di Ragusa, senza però fare riferimento al provvedimento di dissequestro[9] pure adottato dallo stesso Tribunale. Anche nel caso Open Arms dell’agosto 2019, dopo lo sbarco dei naufraghi a Lampedusa, conseguente al sequestro della nave, il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potevano invece configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Il GIP di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rilevava “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, anche in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.
La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di soccorsi operati da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.
3. Il sistema gerarchico delle fonti ed il ruolo delle norme internazionali ed europee.
Occorre ricordare che dal momento del suo insediamento al Viminale l’ex ministro Salvini aveva disposto nei confronti delle navi private appartenenti alle Organizzazioni non governative numerosi divieti di ingresso nei porti italiani, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018. In una prima fase si era trattato di provvedimenti informali, comunicati attraverso i social, poi si erano adottate “direttive” specifiche, rivolte espressamente alle singole navi private che avevano eseguito interventi di soccorso in acque internazionali, contenenti divieti di ingresso nelle acque territoriali, quindi, dopo il decreto sicurezza bis, si era provveduto con decreti, previsti dalla nuova normativa approvata definitivamente proprio nei giorni del caso Open Arms qui in esame. Nell’estate del 2019 veniva infatti emanato il cd. “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019),
Secondo il Tribunale dei ministri di Palermo, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019 avrebbe violato le convenzioni internazionali. Come affermano i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei[10] assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna anche in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale. Nessuna norma di diritto internazionale del mare[11] autorizza uno Stato ad esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur[12], “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.
L’art. 19 della Convenzione Unclos prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale (passaggio inoffensivo), ma al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. In base all’art. 19 comma 2 della stessa Convenzione Unclos“il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Per il ministro dell’interno l’ingresso delle navi delle ONG cariche di naufraghi avrebbero arrecato pregiudizio alla sicurezza dello Stato.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone poi gli interventi di soccorso al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC.
La Convenzione di Amburgo SAR (1979) impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “…senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979(SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare[13].Le Convenzioni internazionali sono specificate dalle Risoluzioni dell’IMO, Organizzazione internazionale del mare, agenzia delle Nazioni Unite [14].
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo rilevano come “la Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi di situazioni SAR. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”
Nessuna disposizione di diritto internazionale autorizza dunque gli stati a considerare le persone “al sicuro” su una nave tenuta a tempo indeterminato al di fuori delle acque territoriali. La nave soccorritrice può essere considerata soltanto come un luogo sicuro temporaneo[15].In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004)[16].
I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea. Si deve infatti considerare come i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016 prevedano espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R. continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sulle attività di ricerca e soccorso in mare(SAR).
4. Il falso problema dello stato di bandiera della nave soccorritrice
Ai fini della individuazione del porto di sbarco sicuro non può assumere rilievo la bandiera che batte la nave soccorritrice, argomento che ricorre ancora adesso alla base delle considerazioni difensive prodotte dal senatore Salvini davanti alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, soprattutto quando si tratta di una nave che ha già fatto ingresso nelle acque territoriali sulla base di un autorizzazione concessa dalle autorità marittime, dopo la sospensione, per effetto della ordinanza del giudice amministrativo, del divieto di ingresso adottato in precedenza dall’ex ministro dell’interno .
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.
5. Diritto di accesso al territorio per i richiedenti asilo e divieto di respingimento
Non si può infine dimenticare che la maggior parte dei naufraghi presenti a bordo della Open Arms aveva manifestato l’intenzione di chiedere asilo in Italia In base al “Considerando 26” della Direttiva 2013/32/UE, qualora i richiedenti asilo si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano trasferiti sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della stessa direttiva[17].
Per effetto del Regolamento UE Dublino III n.604/2013, attualmente in vigore, tutti i naufraghi della Open Arms dovevano essere sbarcati al più presto al fine di presentare in Italia una richiesta di protezione internazionale, anche se intendevano poi trasferirsi in un altro paese, o se un accordo europeo ne avesse previsto un ricollocamento. In base all’art. 3 del Regolamento n.604/2013/UE, gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Quanto previsto da direttive e regolamenti europei lo impone anche l’art.10 ter del Testo Unico 286/1998 in materia di immigrazione, in base al quale “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi.” (cd. approccio Hotspot).
Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di fare approdare in porto una nave, che ha soccorso naufraghi in acque internazionali, comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso in alto mare e che si trova all’interno della zona contigua o nelle acque territoriali di un determinato paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale[18]. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede peraltro la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Il prolungato trattenimento di naufraghi a bordo della nave soccorritrice non può essere utilizzato come arma di pressione sugli stati europei in vista di una possibile redistribuzione dei richiedenti asilo.
Il principio di non refoulement sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. Come ha ribadito l’UNHCR ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale. Secondo l’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro». Come afferma l’UNHCR, nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato. Nei suoi documenti ” l’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.
6. Doverosità degli interventi di soccorso in acque internazionali in caso di distress.
Si deve altresì escludere qualsiasi intento elusivo del comandante e dell’equipaggio della Open Arms che, secondo l’ex ministro dell’interno, avrebbero tentato in sostanza di agevolare l’ingresso irregolare di migranti nel territorio italiano. I soccorsi in alto mare non sono atti discrezionali ma costituiscono comportamenti dovuti. Le imbarcazioni che trasportano i migranti poi soccorsi da navi private delle ONG, nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità richiesti secondo la Convenzione SOLAS. La nozione di “distress” è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.Se ricorre una situazione di distress in alto mare il comandante di qualsiasi nave, è obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle competenti autorità marittime o politiche.
La nozione di “distress” generalmente adottata in diritto internazionale demolisce la ricostruzione dell’ingresso irregolare camuffato da soccorso, o delle “consegne concordate”, perché se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, questa tende ad impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni di soccorso o il loro ritardato arrivo producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti. Che una volta abbandonati in alto mare dai trafficanti, o affidati a “scafisti per necessità”, sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini”, che potrebbero sbarcare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti. Che invece prevedono espressamente l’ipotesi dell’ingresso per ragioni di soccorso di migranti privi di valido titolo di ingresso, per stabilire che, in assenza di una richiesta di protezione internazionale, o di specifici divieti di respingimento ( previsti dall’art. 19 del T.U. n.286/98) può essere disposto il respingimento ( art. 10 del T.U. n.286/1998) o l’espulsione ( art. 13 dello stesso Testo Unico). Ma solo dopo il loro sbarco a terra nel porto sicuro più vicino[19].
Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi che intaccano i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attività dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety[20]. Una prospettiva questa che dovrebbe essere tenuta presente sia nel procedimento penale e nel procedimento di autorizzazione a procedere sul caso Open Arms, che in sede di revisione del decreto sicurezza bis.
7. Conclusioni
Appare incontrovertibile come la decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave Open Arms, non abbia contribuito alla sicurezza dei cittadini o alla difesa delle frontiere, ma abbia prodotto in modo diretto e immediato, effetti pregiudizievoli alla sfera giuridica individuale dei migranti soccorsi da settimane e ristretti a bordo della stessa nave, come non si sarebbe verificato se il ministro dell’interno si fosse limitato ad una scelta politica di carattere generale senza violare la normativa interna ed internazionale che stabilisce procedure vincolate per lo sbarco dei naufraghi soccorsi in alto mare. Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.
Il prolungato trattenimento dei naufraghi rimasti a bordo della nave Open Arms che da Lampedusa non poteva più salpare a quel punto per il porto di Malta, come pure prospettato dal Viminale, appare riconducibile esclusivamente alle scelte del ministro dell’interno, che in quello stesso periodo, a fronte dei dinieghi frapposti da altri ministri alla reiterazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali, sospeso dal TAR Lazio, invocava i “pieni poteri”.
Non entriamo qui nel merito dei successivi sviluppi del processo penale per i reati di rifiuto di atti di ufficio e sequestro di persona, che potrebbe seguire al voto favorevole del Senato sulla autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms qui in esame. Non si può tuttavia delegare esclusivamente alla magistratura la soluzione dei problemi posti dagli ampi poteri discrezionali assegnati con il decreto sicurezza bis al ministero dell’interno. Malgrado la ventilata riforma del decreto n.53/2019, ed il possibile intervento della Corte costituzionale, il rischio che si ritorni a divieti di ingresso nelle acque territoriali, e dunque dei soccorsi operati in acque internazionali da parre delle Organizzazioni non governative, rimane assai alto. Vanno accertate tutte le responsabilità di chi ha ritardato lo sbarco dopo le operazioni di soccorso, con argomenti che appaiono privi di fondamento legale. Ma occorre abrogare anche il decreto sicurezza bis, nelle parti che riconoscono al ministro dell’interno i poteri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali in violazione delle Convenzioni internazionali, e sanzionano i soccorsi umanitari delle ONG, concedendo ai prefetti il potere di adottare la confisca amministrativa delle navi soccorritrici, con effetti che perdurano anche quando la magistratura penale esclude ogni responsabilità in capo ai soccorritori.
[1]In una nota del Tribunale dei minori di Palermo del 9 agosto 2019, questo Tribunale scriveva“come è ben noto le Convenzioni Internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D Lvo 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno.”. Lo stesso Tribunale proseguiva affermando che “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici.”
[2]https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/open-arms-tar-lazio-sospende-divieto-dingresso/
[3]Osservava il TAR Lazio, “considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”
Il TAR Lazio riteneva pertanto,” quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”.
[4]Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonchè le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità”
[5]Il ministro dei Trasporti Toninelli motivava così la sua decisione di non firmare il nuovo divieto: “Emettere un nuovo decreto identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti – spiega – esporrebbe la parte seria del governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. Questo non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti di Open Arms. La nostra linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici, poi l’Europa e in primis la Spagna inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo”.
[6]https://www.ilpost.it/2019/08/21/migranti-open-arms-sbarcati-lampedusa/
[7] http://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/701/663/
[8]https://www.a-dif.org/2020/02/09/divieti-di-ingresso-nel-mare-territoriale-e-processo-penale/
[9]http://questionegiustizia.it/articolo/dissequestrata-la-nave-open-arms-soccorrere-i-migranti-non-e-reato_19-04-2018.php
[10]http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-interno_548.php
[11] S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, Jovene, 2012.
[12]https://www.meltingpot.org/Cap-Anamur-Pubblicati-i-motivi-di-assoluzione-l-intervento.html#.XkxRrTJKj3g
[13] M. Starita, Il dovere di soccorso in mare e il “diritto di obbedire al diritto” (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, pp. 5-47.
[14]http://www.imo.org/en/KnowledgeCentre/IndexofIMOResolutions/Pages/Default.aspx
[15] Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come porto sicuro, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).
[16]http://www.imo.org/en/OurWork/Safety/RadioCommunicationsAndSearchAndRescue/SearchAndRescue/Pages/IAMSARManual.aspx
[17]Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
[18] v. T. Scovazzi, Il respingimento di un dramma umano collettivo e le sue conseguenze, in L'immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell'esperienza europea, a cura di A. Antonucci, I. Papanicolopulu e T. Scovazzi, Torino, Giappichelli, 2016, p. 45 ss.
[19]Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa al caso Sea Watch, infatti, si afferma che :”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
[20]Si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionaleassistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicementequello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia icomandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.).
* di seguito la Relazione del Tribunale di Palermo, Collegio per i reati di cui all'art. 96 Cos.
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