ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L'Italia delle stragi, a cura di Angelo Ventrone
recensione di Philip Willan
Il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana ha portato un profluvio di libri sul periodo della strategia della tensione in Italia. Fra i più interessanti è "L'Italia delle stragi", scritto da sette magistrati che hanno indagato sul terrorismo in quell'epoca (Pietro Calogero, Leonardo Grassi, Claudio Nunziata, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone, Vito Zincani, Giampaolo Zorzi) e curato da Angelo Ventrone.
Il libro si pone l'obiettivo di chiarire "cosa possiamo dire di sapere con certezza dopo così tanto tempo, quali sono le verità raggiunte e le piste che ancora si possono aprire." Gli attentati di destra hanno provocato 135 morti e circa 560 feriti, un numero di vittime senza paragone in altri paesi occidentali, con l'eccezione del terrorismo separatista e nazionalista in Spagna ed Irlanda del Nord.
Ventrone segnala nella sua introduzione i risultati altalenanti dei processi e il ruolo dei depistaggi, che hanno creato l'impressione che non si è riuscito a scoprire i responsabili delle stragi. Per molti non era ancora chiaro se i tentativi di golpe fossero "colpi di Stato da operetta" oppure "qualcosa di molto serio e minaccioso."
Invece i risultati delle inchieste della magistratura sono andati oltre quello che viene spesso percepito dall'opinione pubblica. "Se non sempre sono riuscito a trovare le prove definitive per individuare i singoli colpevoli, hanno però identificato con precisione gli ambiente politici da cui la strategia eversiva è nata: i gruppi neofascisti e neonazisti, e in particolare Ordine Nuovo," scrive Ventrone.
Ha sicuramente inciso sugli eventi la scomoda posizione italiana nel quadro internazionale dell'epoca e le divisioni all'interno dello stato sul percorso da seguire, divisioni che hanno portato a complicità fra rappresentanti dello stato ed eversori. "Lo Stato si mostra quindi internamente diviso tra chi incoraggia e favorisce i terroristi, e chi li persegue," osserva Ventrone. E conclude: "Certo, c'è ancora molto da fare, in particolare, continua a sfuggire il ruolo degli attori internazionali."
Gli ostacoli che hanno frenato il lavoro dei magistrati inquirenti sono forse difficili da immaginare oggi. Il depistaggio era spesso intrinseco all'ideazione delle stragi, data la volontà dei perpetratori di fare cadere la colpa su i loro nemici politici, la sinistra o gli anarchici. Le inchieste sono poi state intralciate da servitori infedeli dello stato fra i ranghi della polizia, i carabinieri e i servizi segreti, e, in qualche caso, anche dei magistrati.
Per Pietro Calogero, il Sifar del Gen. Giovanni de Lorenzo era "una sorta di succursale della Cia e il gestore degli interessi del governo Usa nella guerra al Partito comunista e ai movimenti di sinistra in Italia." Federico D'Amato, dalla parte del Viminale, era pienamente impegnato, per conto della loggia P2, nell'attuazione di un "programma di guerra non ortodossa contro il comunismo", mentre intratteneva stretti rapporti con la rete informativa dei paesi dell'Occidente e, in modo particolare, con la Cia.
Nel suo capitolo sulla strage dell'Italicus, Leonardo Grassi segnala il ruolo depistante di Mario Marsili, pm ad Arezzo, genero di Licio Gelli, e piduista. Marsili riceve dichiarazioni da una testimone importante, Alessandra De Bellis, che accusa suo marito, Augusto Cauchi, di aver svolto un ruolo nella strage. "Per invalidare le sue accuse contro Cauchi, la De Bellis viene sottoposta a devastanti trattamenti psichiatrici che una successiva perizia ha rivelato essere stati del tutto incongrui," scrive Grassi. Due dei ricoveri della donna coincidono con i tempi in cui il giudice istruttore di Bologna, Vito Zincani, ne ha richiesto la testimonianza.
In un capitolo sull'attentato alla stazione di Bologna, lo stesso Zincani ricostruisce un episodio grottesco che ha riguardato Valerio Fioravanti, l'esponente dei Nar condannato per la strage. Durante il servizio militare Fioravanti trafuga 144 bombe a mano da usare per attentati dinamitardi. "Benchè sia emerso che i Servizi segreti fossero perfettamente al corrente che autore del clamoroso furto era Valerio Fioravanti, nulla viene fatto per rintracciare le bombe e impedire che siano utilizzate," scrive Zincani.
"La vicenda ha dell'incredibile," aggiunge. "Fioravanti, infatti, viene processato e condannato a soli 8 mesi di reclusione con i doppi benefici di legge, unicamente per furto d'uso militare (per aver cioè utilizzato indebitamente nel trasporto delle bombe la Campagnola dell'esercito) e per violata consegna. E quindi lasciato libero di fare uso degli ordigni a proprio piacimento."
Il clima ostile nei confronti degli investigatori viene sottolineato da Giuliano Turone nel suo racconto su "P2 e destra eversiva". Avendo lavorato troppo bene, la Commissione parlamentare sulla P2 non viene rinnovata dopo la pubblicazione della sua relazione nel 1984 e la sua presidente, Tina Anselmi, viene emarginata dalla vita politica. "Nelle successive elezioni politiche, infatti, il suo partito (la Dc) la inserirà volutamente in un collegio perdente," scrive Turone.
Nella sua interessante riflessione sulla Rosa dei Venti, l'organizzazione eversiva da lui scoperta nel 1974, Giovanni Tamburino accenna alla possibilità che chi ha destabilizzato l'Italia per creare quella che Ventrone chiama una "democrazia blindata" abbia passato come strumento dalla destra eversiva all'estremismo di sinistra. Cita una lettera del 18 marzo 1973 a Dario Zagolin, un collaboratore del Sid che utilizzava una società padovana di cosmetici per finanziare la sua rete di informatori.
Zagolin ha stretti rapporti con la Rosa dei Venti e golpisti genovesi, e la missiva riferisce a un "accenno alla concorrenza" in notizie precedentemente fornite. "Ritengo sia meglio accellerare i tempi," scrive l'interlocutore, che si firma con una sigla indecifrabile. Per Tamburino quella "concorrenza" potrebbe riferirsi all'azione sempre più cruenta delle nuove Brigate rosse.
"'Concorrenza' non significa altro che la possibilità di rivolgersi ad altri gruppi da utilizzare per la stessa, irrinunciabile, strategia," scrive il magistrato. "E dunque comprensibile perchè dalla metà del 1974 venga inaugurata una piu sofisticata linea volta a usare le formazioni dell'estrema sinistra in funzione anticomunista." Si tratta di un "cambio di spalla del fucile, dalla destra alla sinistra".
Per Tamburino questo cambiamento di linea è culminato nell'operazione che ha portato all'eliminazione delle idee politiche di Aldo Moro. In un secondo intervento, sul golpe bianco di Edgardo Sogno, osserva: ""La linea concorrenziale condurrà nel marzo 1978 all'uccisione del politico italiano che aveva aperto il dialogo con il Partito comunista." Il progetto originalmente concepito da Sogno, un eroe della Resistanza al nazifascismo che si è dedicato nel dopoguerra al conflitto globale contro il comunismo, "si realizzerà per altra via".
Tamburino suggerisce che ci siano altri fattori, oltre alla politica e l'ideologia, dietro l'uso della violenza terrorista. Tra questi la massoneria e gli interessi economici, ambedue più resistenti nel tempo della politica nell'occupazione del potere. "Sono i grandi interessi economici che conducono a uccidere, a fare le guerre e a realizzare le stragi," osserva. "Troppe volte si è andati infatti alla ricerca della logica del terrorista piuttosto che verificare l'interesse economico retrostante. La domanda 'perchè si uccide?' va spesso tradotta nella domanda 'chi paga per uccidere?'"
Il libro racconta le vicende dei protagonisti del terrorismo e delle forze occulte, anche internazionali, che gli stavano dietro. Vale però la pena di ricordare il clima di violenza spicciola che sottostava agli atti di terrorismo omicidiario e ne offriva il brodo di cultura. La normalità della violenza politica in quell'epoca è messa in evidenza dallo storico Miguel Gotor nel suo libro "L'Italia nel novecento". Sullo sfondo delle azioni eclatanti c'era un interminabile sequela di scontri di strada che lasciavano i parenti "straziati dal dolore, il più delle volte, alla vana ricerca, ormai da decenni, di verità e giustizia."
La mancata chiarezza su quei fatti, secondo Gotor, è stato un fallimento della magistratura e della società, spesso segnato dall'omertà e dalla reticenza di vittime e testimoni. La consequenza è stata un riflusso nel privato e un rifiuto dell'impegno politico o sociale a favore della collettività. "Quelle migliaia di azioni, pressochè quotidiane, sgorgarono da una pratica della violenza politica senza uguali nelle democrazie occidentali e formarono un interminabile e tragico coro di sottofondo, che accompagnò lo stragismo neofascista e gli attentati in serie del "Partito armato", aumentando a dismisura il livello della destabilizzazione in atto e il sentimento di insicurezza psicologica e sociale dei cittadini e delle famiglie italiane," scrive.
I cattivi maestri e i burattinai avranno esasperato ancora di più quelle anime, ma non potevano scrivere certe pagine di sangue senza la partecipazione volenterosa di molti burattini, disposti a prendere a legnate il nemico politico. Il tutto scivolando inesorabilmente verso gli esiti di morte ricercati da chi manovrava dietro le quinte.
Scritta da esperti con esperienza di prima mano, "L'Italia delle stragi" avvicina la documentazione giudiziaria alla storiografia per aumentare la nostra comprensione di un periodo eccezionale - quindici anni di attività cospirative - che non ha paragoni in altre democrazie occidentali. Un capitolo scritto da Guido Salvini, un magistrato al centro di polemiche vivaci e scoperte fondamentali, l'avrebbe forse arricchito ancora di più.
Un libro analogo sulla manipolazione del terrorismo di sinistra, scritto dai magistrati che hanno indagato sul campo, sarebbe un'altra bella sfida. Una vicenda forse ancora più complessa, fatta di tradimenti, ricatti ed inganni, servirebbe a riempire un altro buco nella storia misteriosa dell'Italia del secolo scorso. Passato abbastanza tempo, il ruolo delle due superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica, potrebbe forse finalmente essere raccontato, per una storia di ideali stravolti dal realpolitik rivoluzionario.
Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione di Bruno Montanari
Al tempo del “coronavirus” il tema dell’informazione mostra tutta quella sua intrinseca valenza, che in tempi meno apparentemente “contagiosi” sembra non richiamare la medesima attenzione. Segnalo che già in questo secondo rigo della proposizione di esordio ho usato una espressione giocata su quel profilo dell’immediatezza reattiva che l’informazione, non da oggi, prevalentemente insegue; l’espressione è: “meno apparentemente contagiosi sembra…” segnata dall’avverbio “apparentemente” e dal verbo “sembra”.
E’ sull’apparire e sul sembrare, entrambi verbi che incarnano la contingenza, che si determina quell’immediatezza reattiva che l’informazione oggi affida al “linguaggio”; da qui una prima chiarificazione, destinata a distinguere le finalità dei processi comunicativi in generale. Mi spiego.
Ho parlato di “linguaggio” e non di “parola”; tra i due termini vi è differenza. La “parola” è ciò che innerva il pensiero, così come la figura antica e classica del Logos suggerisce. Altra cosa è il “linguaggio”, che è costituito da sequenze di parole, o in quanto insiemi grammaticali idonei all’argomentazione, o, anche, come semplici emissioni sonore, dotate però di capacità suggestiva atte quindi a indurre reattività. Più si assottiglia la “parola”, come luogo di concretizzazione del pensiero, più si accresce la forza suggestiva dei linguaggi. Le tecnologie comunicative, che vanno diffondendosi, proprio a causa della loro struttura ingegneristica, operano percorsi linguistici, linguaggi, che esse stesse organizzano, sempre più suggestivamente efficaci, che annientano la “parola” come consustanziale al pensare ed al “pensiero”. Un linguaggio funzionale a stimolare la reattività si muove sul piano della immediatezza e, sostituendosi al pensare, annulla la categoria della “temporalità”. Ne segue che l’a-temporalità, che ne costituisce il modello espressivo, prende il posto che la temporalità del pensare avrebbe nel decidere e nell’agire di ciascuna persona, destinataria del linguaggio e fruitore dell’informazione in esso contenuta. L’attuale tecnologia comunicativa colpisce direttamente, infatti, le persone, cogliendole nella loro singolarità, e intercettandone im-mediatamente le istanze, i bisogni, i disagi, le paure… Ciò che viene investito e manipolato in maniera anche inavvertita e subliminale è quello spazio di vita che possiamo definire l’ “orto di casa”: quel mondo del quale ciascuno di noi vuole mantenere il controllo, pena lo spaesamento e l’insicurezza. L’effetto è duplice: la sostituzione del c.d. “impatto”, che si concretizza nella “immediatezza” della reattività, alla “lentezza” del pensiero (l’espressione è il titolo di un libro del 2014 di Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna) e il liquefarsi di ogni spazio relazionale e associativo, come momenti esistenziali di compensazione ed elaborazione della solitudine e del ragionamento. Tutto si risolve in una rete di segnali brevi, che arrivano in modalità reattiva, creando, a livello del proprio privato, l’illusione della “amicizia”; illusione, appunto, poiché non vi sono occhi che si guardano né sonorità di voci che si intrecciano. Al cospetto di un like ognuno resta stretto nella propria singolarità e con la personale solitudine di vita. Maffei insegna che la tecnologia dell’impatto e dell’immediatezza modifica il funzionamento delle aree cerebrali, mettendo a riposo quelle che presiedono al pensiero. Nasce così quella che altrove ho definito l’epoca del “post-pensiero”, nella quale lo smartphone ed il cane-giocattolo hanno preso il posto degli occhi e della voce dell’altro e degli altri.
Ho ritenuto di svolgere questa premessa per mettere in luce su quali aspetti di fondo, propri della struttura linguistica dei messaggi, occorra riflettere quando si parla di comunicazione, prima ancora dei consueti profili della libertà dell’informazione e del diritto-dovere di fornirla da parte degli addetti ai lavori.
Alla questione della “struttura linguistica” ne segue una seconda, anch’essa preliminare agli aspetti “normativi” e che in qualche misura dovrebbe orientarli, perché va ad incidere non sulla modalità espressiva, ma più direttamente sui “contenuti”; anche se “modalità espressiva” e “contenuti” sono interdipendenti.
“Informare” vuol dire “mettere in forma” o “dare forma” ad un “qualcosa”, che può essere un evento della natura, un pensiero, un discorso, uno scritto e così via. Il primo elemento è dunque la centralità costitutiva della “forma”: se la “cosa” non si mostrasse in virtù di una forma non sarebbe osservabile e, poi, leggibile e nel caso comunicabile. Dunque informare significa mettere in forma un “qualcosa” che ha già una sua forma. E’ quanto sperimenta quotidianamente il mondo del diritto con la forma che costituisce il tessuto normativo e, leggendolo, lo interpreta.
Proprio l’analogia con l’operazione interpretativa dei giuristi consente di mostrare i profili che strutturano i contenuti dei processi informativi. Come per l’interpretazione normativa anche l’informazione ha una struttura comunicativa ternaria: una “cosa” da comunicare, un soggetto attore della comunicazione ed un destinatario.
E’ una operazione attraverso la quale viene messa in forma quella che comunemente si chiama “realtà”, cui, altrettanto comunemente, si aggiunge l’aggettivo “oggettiva”. E’ dentro su questo meccanismo, ad un tempo comunicativo e speculativo, che occorre addentrarsi. Innanzitutto, cosa vuol dire “realtà oggettiva”? Vuol dire, nella percezione comune, che le “cose sono” o “stanno” così come vengono comunicate. Il punto, invece, è che una tale “realtà” corrisponde, come sottolineava Cassirer nelle lezioni amburghesi del ‘21 – ’22 aventi ad oggetto la relatività di Einstein, al “punto di vista” dell’attore della comunicazione, reso “oggettivo” dalla legittimazione della sua competenza o posizione professionale. In altre parole, ciò che comunemente definiamo “realtà” è sempre, di necessità, la rappresentazione di una elaborazione mentale del soggetto. Non è, infatti, la “cosa” ad auto definirsi, ma è il soggetto, che la incontra e la osserva, a rappresentarla innanzitutto a sé e poi agli altri. Ed è su questa scissione tra sé e gli altri “destinatari” che può inserirsi un processo di possibile alterazione comunicativa, nel senso che l’attore può decidere, per ragioni sue proprie, di fornire una rappresentazione diversa da quella che egli ha costruito per sé. In ogni caso, però, la “realtà” coincide comunque con una rappresentazione del soggetto; per questo i processi comunicativi hanno bisogno di riferimenti argomentativi per trovare condivisione, oltre che ascolto, ed è ancora per questo che la medesima “cosa” si offre a rappresentazioni diverse. Esattamente come l’interpretazione normativa.
Vi è poi la seconda rappresentazione, quella che si costruisce il destinatario; e questa dipende dalla forma dell’atto comunicativo. Dipende, cioè, da come l’attore della comunicazione usa il linguaggio allo scopo di mettere in forma (in-formare) quella “realtà” che intende diffondere. Per questo ho ritenuto di svolgere le osservazioni sulla funzione comunicativa affidata alla modalità linguistica, la quale, come si ricorderà, può assumere due paradigmi. Quello comunicativo-riflessivo, che Maffei definirebbe “lento”, fondato sulla argomentazione, che induce il destinatario alla riflessione razionale e critica; esercita cioè quella funzione neurale che produce il pensare (è sempre Maffei che lo spiega). E quello, oggi di moda, costruito sulla forza di impatto di termini capaci di suscitare un’ immediata re-azione nel destinatario. Si pensi, come esempio significativo, alla odierna comunicazione politica (sia nostrana che internazionale), fatta di frasi brevi, spesso icastiche ed apodittiche; prive cioè di argomentazione e totalmente assertive. Non è senza ragione che, oggi, la politica non sia più costruita con “visioni del mondo”, progetti, pensieri, e confronti dialettici, ma sulla mera contingenza, messa in forma da leaders alla testa di quelli che il linguaggio dei social definisce followers. E’ un tipo di comunicazione che costruisce una “realtà” priva della struttura argomentativa della discutibilità, poiché la contingenza, coincidendo con il darsi di una fattualità puntistica, è per sua struttura epistemologica non discutibile. E non è senza significato che tale tipo di comunicazione-informazione sia determinata contenutisticamente da esperti di linguaggi dotati di incisività immediata delle rappresentazioni prodotte. Ne segue che per loro costituzione intrinseca tali processi comunicativi aprono ad una alternativa secca: condivisione integrale o conflitto altrettanto integrale. Per questo il mondo politico è popolato esclusivamente da “capi” e “seguaci” e non da persone pensanti.
Ho cercato di descrivere, sia pure sommariamente, la struttura dei processi comunicativi che oggi costituiscono l’informazione genericamente intesa, sia quella messa in opera direttamente dal personale politico, sia quella più generale veicolata dai media. Ho soprattutto cercato di sottolineare che l’espressione “realtà oggettiva” è epistemologicamente priva di significato, poiché ogni atto umano è “per natura” soggettivo, in quanto originato dai sensi ed elaborato dal cervello di un uomo. E’ sempre, dunque, ricordando Cassirer, il “punto di vista” di un soggetto che disegna quella rappresentazione detta “realtà”.
Credo, allora, che la consapevolezza di quest’ultimo profilo sia così decisiva da chiamare in causa la responsabilità dell’attore della comunicazione; responsabilità che si coniuga con due profili: quello della libertà, poiché non si può essere responsabili se non si è liberi; e quello della onestà intellettuale, altrimenti definibile come “lealtà”, che soprattutto i protagonisti dei media dovrebbero avere a cuore. Certo, anche i destinatari dovrebbero porsi un problema che li riguarda in prima persona se vogliono avere la dignità di uomini liberi: quello di saper distinguere le “bufale” a effetto da una informazione e comunicazione che sicuramente è meno immediata ed emotivamente attraente, ma proprio per questo è capace di suscitare riflessione e pensiero; riflessione e pensiero, che non possono che essere quelli propri del soggetto che la riceve, ma giustificati e non soddisfatti da un misero, immediato e contingente like.
Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus
di Tomaso Epidendio
sommario: 1.Premessa - 2.Lo stato di eccezione in “senso forte” e “in senso debole”- 3.Giustiziabilità, temporaneità e proporzione
1.Premessa
In limine una domanda: ha ancora un senso discutere di diritto mentre si è assediati dall’epidemia e i morti vengono portati fuori dalle città a bordo di mezzi militari?
Si succedono i decreti d’urgenza (del Governo, delle Regioni, di diversi Ministeri), si restringono progressivamente le libertà di circolazione e di iniziativa economica, si profila l’applicazione di norme incriminatrici di progressiva gravità per chi violi le disposizioni dei decreti legge e della normativa secondaria (emanata in base ad essi); nel contempo i processi vengono rinviati d’ufficio e sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia, vengono attribuiti poteri straordinari ai dirigenti degli uffici giudiziari e a varie autorità amministrative.
Le istituzioni rispondono così alla “nuda vita” che reclama il suo diritto alla sopravvivenza, alla paura primaria di morire: in tutto questo, può davvero avere ancora un senso discutere di questa produzione normativa in termini di principio di legalità e di riserva di legge, di rispetto dei limiti della decretazione d’urgenza, di riparto di competenze statali e regionali, di competenze giurisdizionali e amministrative, di norme penali “in bianco”, di sussumibilità in fattispecie di incriminazione sulla base di argomenti letterali, sistematici, a contrario, o teleologici.
Non si rischia forse di assomigliare ai padri conciliari della leggenda, che vuole impegnati a discutere del sesso degli angeli mentre Bisanzio sta per cadere assediata dai Turchi, o – peggio ancora – non si rischia di far la fine del don Ferrante manzoniano che, tentando arguti sillogismi aristotelici, finisce per morire di peste prendendosela con le stelle come un eroe di Metastasio mentre la sua famosa libreria è dispersa su per i muriccioli?
Io credo che, proprio quando la “nuda vita” entra in gioco e si affaccia nel diritto l’irrazionalismo della paura, il diritto sembra eclissarsi e, per dirla con Benjamin, rischia di diventare “violenza pura”, i giuristi, la classe forense e tutti gli operatori giuridici non solo “possono”, ma “devono” parlare.
Il problema è il “modo” in cui parlare: esso deve essere adeguato al contesto in cui interviene questa decretazione d’urgenza (legislativa e amministrativa) e la cui analisi, se trattata con le ordinarie categorie giuridiche, finirebbe per apparire autoreferenziale e forse un poco vacua.
2. Lo stato di eccezione in “senso forte” e “in senso debole”
Occorre guardare in faccia la realtà e prendere atto che non ci troviamo di fronte a una semplice “normazione emergenziale”, ma viviamo in una condizione affatto particolare, che sembra ricordare da vicino quella usualmente descritta come “stato di eccezione”.
Con questa espressione, non si designa, infatti, una semplice situazione che costituisce una eccezione rispetto a una regola, o genericamente una normativa eccezionale, ma una sorta di sospensione dell’ordine giuridico vigente prevista da quel medesimo ordine giuridico, una sorta di “autonegazione del diritto”, che si situa in una zona intermedia tra il giuridico e l’extra-giuridico, tra la legge e il mero esercizio della forza. Agamben, ad esempio, individua efficacemente l’archetipo dello “stato di eccezione” nel iustitium del diritto romano, proclamato in caso di grave pericolo per la Repubblica da un senatus consultum ultimum, che determinava la momentanea sospensione delle leggi con l’attribuzione ai magistrati di un potere illimitato: non si trattava, dunque, di una presa di potere rivoluzionaria, basata solo sulla sola forza, ma dell’esercizio di poteri che, pur sganciati da vincoli legali nel loro esercizio, restavano pur sempre fondati, nella loro genesi, sul diritto che, quasi paradossalmente, applicandosi si auto-sospendeva; un diritto che negandosi si afferma come tale.
Questo “stato di eccezione”, inteso in senso forte, non sembra abbia alcuno spazio nel nostro ordinamento: manca (per fortuna) una norma come l’art. 48 della Costituzione di Weimar o come la Costituzione del Brumaio che, durante la rivoluzione francese, aveva consentito di proclamare lo “stato di assedio”: nessuno può neppure lontanamente sognarsi di sospendere il diritto, a meno di non farlo con un atto di mera forza, che come tale si porrebbe totalmente al di fuori del diritto. L’art. 1 della nostra Costituzione è chiaro: la sovranità appartiene al popolo che, tuttavia, la può esercitare solo nelle forme e nei limiti della Costituzione. Nessuna possibilità di sospensione del diritto, nessuno spazio ad aree di indistinzione tra diritto e mera forza.
E’ pur vero che esistono nella Costituzione molteplici riferimenti a situazioni eccezionali legittimanti (art. 13 e 81 Cost.), a situazioni di urgenza (artt. 13, 21, 72, 73 e 77 Cost.), a situazioni di necessità (art.13, 50 e 77 Cost.): infine, ma non per importanza, l’art. 16 Cost. stabilisce che possano essere poste limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno per “motivi di sanità o di sicurezza”, ma solo se previste dalla “legge” e “in generale”. Nessuna di queste disposizioni, tuttavia, ammette che si possa “sospendere” il diritto e attribuire ad alcuno “pieni poteri”, non per ragioni di sanità pubblica e, anche per lo “stato di guerra” (artt. 78 e 87 Cost.), è previsto che sia dichiarato dal Presidente della Repubblica a seguito di delibera del Parlamento, il quale conferisce al “Governo” i “poteri necessari”, così come solo per “il tempo di guerra” è possibile “derogare” (non sospendere) i principi del giusto processo ex art. 111 Cost.; gli stessi Tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione “stabilita dalla legge” (art. 103 Cost.) e ancora solo “per legge” può essere prorogata la durata in carica delle Camere (art. 60 Cost.). Troppo vicini erano, del resto e per fortuna, i tristi epiloghi dei “totalitarismi” e i nostri padri costituenti li avevano ben presenti e hanno inteso preservarcene. Sarebbe davvero un peccato non fare tesoro dell’eredità che in questo senso ci è stata consegnata.
Occorre fare attenzione, dunque, ad ogni forzatura filosofica che veda stati di eccezione dove vi è solo cattivo diritto o addirittura soltanto esecrabili “atti di forza”.
Eppure credo esista uno stato di eccezione in “senso debole”, che è quello che descrive la situazione che stiamo vivendo.
Da un lato, infatti, la normazione primaria e secondaria che è stata oggi adottata non sembra inscrivibile in una “mera” normativa dell’emergenza, come tante ve ne sono state anche nel passato relativamente recente (si pensi alla legislazione in materia di terrorismo): la “normazione emergenziale”, in questa accezione, trova sì la sua causa legittimante in una situazione extra-giuridica di emergenza, che giustifica, sotto il profilo della ragionevolezza e della accettabilità politica, una disciplina di particolare rigore che, tuttavia, non attribuisce poteri extra-ordinem, nel senso di poteri attribuiti a soggetti che normalmente ne sono privi e rispetto a quali non è possibile alcun controllo sul loro esercizio, come avviene nello stato di eccezione in “senso forte”.
D’altro canto, la decretazione d’urgenza che stiamo trattando, attribuisce sì poteri eccezionali, ma non sembra sottrarli ad alcun controllo, non apre cioè una situazione di “anomia” come quella che caratterizzerebbe uno stato di eccezione in senso forte: sembra pur sempre possibile ricorrere alla giustizia amministrativa per annullare atti che siano illegittimi o ricorrere alla Corte costituzionale perché dichiari l’illegittimità costituzionale di atti aventi forza di legge, che costituiscono la base legale degli atti amministrativi adottati ai vari livelli (Statali, regionali, ecc…).
Ci troviamo, dunque, di fronte a una normativa che, per un verso, prevede l’attribuzione di poteri eccezionali che trovano la loro legittimazione genetica in una situazione di grave pericolo per la sopravvivenza dello Stato (nella sua stessa dimensione essenziale di sopravvivenza del “popolo”) e, in questo, essa si avvicina a un vero e proprio stato di eccezione; per altro verso, tuttavia, questi poteri non sono del tutto sottratti al “diritto”, ma essi non possono essere “valutati” secondo le “ordinarie” categorie giuridiche: la situazione induce cioè a ritenere “ragionevole” una valutazione giuridica secondo categorie “non ordinarie” e ciò, si badi bene, vale non solo in malam partem (si pensi alle pesanti limitazioni di varie libertà e imposizioni di obblighi assistiti da sanzioni penali), ma anche in bonam partem (si pensi alle giuste rivendicazioni di strumenti penitenziari eccezionali da parte dell’Associazione dei Professori di Diritto penale, per tutelare i detenuti dal pericolo di contagio).
Orbene questa situazione – che si caratterizza per l’attribuzione di poteri eccezionali (come in qualsiasi stato di eccezione), i quali, tuttavia, non sono sottratti a qualsiasi controllo giuridico (non introducono cioè uno stato di totale “anomia” come per lo stato di eccezione in senso forte), ma sollecitano la loro valutazione secondo peculiari categorie giuridiche, essendo “sospese” quelle ordinarie – può essere chiamata stato di eccezione “in senso debole”.
Riconoscere in questi casi uno “stato di eccezione”, nel “senso debole” che si è precisato, non è un inutile bizantinismo, ma serve a salvaguardare da un duplice e concretissimo rischio.
In primo luogo evitare che, di fronte a situazioni extra-giuridiche eccezionali, che spingono la popolazione a ritenere accettabili limitazioni dei diritti fondamentali altrimenti impensabili, queste limitazioni possano ritenersi giuridicamente ordinarie, legittimabili attraverso le ordinarie categorie giuridiche, così da determinare una sorta di “assuefazione” alla compressione di diritti fondamentali, una “normalità della eccezione” che finisca per legittimare la compressione di diritti oltre la situazione eccezionale e che, come storicamente è purtroppo avvenuto, potrebbe avere esiti catastrofici per la tenuta dell’ordinamento.
In secondo luogo riconoscere che questo stato di eccezione ha le sue categorie, che consentono di circoscriverlo e contenerlo giuridicamente, cosicché anche durante la permanenza di situazioni eccezionali non si può ritenere che il diritto abdichi a se stesso e che vi sia uno “stato di eccezione” nel senso classico del termine, del “iustitium” romano, che come detto non è ammesso dalla nostra Costituzione, ma senza neppure trascurare il peso che la situazione extra-giuridica eccezionale ha sull’esistenza del diritto e che determina lo “stato di eccezione” nel senso più limitato che ho inteso attribuirgli in questa sede, così da rispondere alla possibile accusa di “donferrantismo” e di incomprensione da parte del ceto politico e in genere dai non giuristi e rendere efficace una discussione in termini giuridici che, si faccia attenzione, lascia aperta la questione della compatibilità costituzionale di uno stato di eccezione anche in senso debole quale quello delineato dalla normativa in esame.
3.Giustiziabilità, temporaneità e proporzione
Prima di entrare più nel dettaglio della normativa ed esaminare la compatibilità con la Costituzione dello stato di eccezione in senso debole, occorre precisare (in senso stipulativo-descrittivo) quali siano le categorie giuridiche “sostitutive” di quelle “ordinarie”, che operano nello stato di eccezione in “senso debole”.
La prima, che lo distingue dallo stato di eccezione in senso forte, è quella della “giustiziabilità”.
Il pericolo del contagio, infatti, ben può giustificare il rinvio delle udienze e financo una parziale paralisi dell’attività giudiziaria (alle ulteriori condizioni della temporaneità e della proporzione che si tratteranno di seguito), ma non potrebbe consentire di sospendere il controllo giurisdizionale sulla stessa normativa di eccezione e sulla compressione di diritti fondamentali, anche durante lo stato di eccezione. Da qui l’importanza e l’accettabilità di forme altrimenti impensabili di celebrazione di talune udienze e di deposito degli atti e dei provvedimenti giurisdizionali, che consentano di salvaguardare la vita degli operatori e al contempo assicurare la tutela dei diritti fondamentali. Dall’altro l’opportunità, contro la teoria cd. “inflazionistica” dei diritti fondamentali, di ridiscutere lo statuto “fondamentale” dei diritti, proprio per evitare che una indiscriminata equiparazione di tutti i diritti porti a una “notte hegeliana dei diritti” stessi, in cui, cioè, tutti i diritti siano vacche nere indistinguibili nella notte, e tutte ugualmente sacrificabili di fronte all’emergenza: non tutti i diritti sono uguali e solo alcuni sono “fondamentali” e “inalienabili”.
La seconda è quella della “temporaneità”.
Lo stato di eccezione può essere tale solo fino a che la situazione extra-giuridica di esiziale gravità sussista e, dunque, la correlata normativa non può che essere temporalmente limitata al perdurare della situazione di fatto e non può consolidare compressioni definitive di alcun diritto.
La terza è quella della “proporzione” dei poteri previsti.
Intendo proporzione nel senso tecnico-specifico di poteri “idonei” a uno scopo legittimo”, rappresentato dalla tutela del bene-vita di ciascuno, esposto a rischio eccezionale dalla situazione-extragiuridica verificatasi, “necessari” a tale scopo e tali da comportare il “minor sacrificio” degli altri beni (libertà personale, d’impresa, ecc…). Un principio, cioè, che consenta la controllabilità della sua osservanza non attraverso impalpabili ed evanescenti criteri di soggettiva ragionevolezza, ma secondo un “test” che verifichi la sussistenza di “scopo legittimo”, “idoneità”, “necessità” e “minor sacrificio necessario” rispetto a tale scopo.
Così ricostruita, attraverso le pertinenti categorie, l’identità dello stato di eccezione in senso debole, si può passare ad esaminare la normativa adottata negli odierni frangenti e procedere alle relative valutazioni, anche di compatibilità costituzionale.
Indicazioni operative in tema di procedimenti iscritti per art. 650 c.p. prima del D.L. 25-3-2020 n.19
di Manuela Fasolato
A seguito dell’entrata in vigore – il 26 marzo 2020 - del D.L. n. 19/2020 del 25 marzo, sono state introdotte (art.4) sanzioni amministrative per le violazioni delle misure di cui all’art.2, comma 1, e art.3, irrogate le prime dal Prefetto e le seconde dalle autorità che le hanno disposte ( v. https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-dell-emergenza-covid-19/953-gli-illeciti-amministrativi-il-nuovo-reato-di-infrazione-dell-obbligo-di-quarantena-e-il-delitto-di-epidemia-colposa-effetti-del-dl-19-20-su-procedimenti-e-misure-in-corso)
Rimane reato solo la violazione della misura di cui all’art.1, comma 2 lett e) , punita ai sensi dell’art. 260 regio decreto 27/7/1934 n.1265, come modificato dal comma 7, salvo che il fatto costituisca violazione dell’art.452 c.p. o comunque più grave reato.
E’ previsto altresì che le disposizioni dell’art. 4 che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applichino anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del D.L. n.19/2020 e vi è nel D.L. n.19/2020 il richiamo, in quanto compatibili, alle disposizioni degli artt.101 e 102 del Decreto legislativo 30 dicembre 1999 n.507.
Per i procedimenti penali, pertanto, per i quali l'azione penale non e' stata ancora esercitata, la trasmissione degli atti alle autorità amministrative competenti e' disposta direttamente dal Pubblico Ministero[1] e la segreteria penale procederà per i procedimenti gia' iscritti a Mod 21, ancora pendenti, alla annotazione della trasmissione per competenza alla Autorità amministrativa – trasmissione disposta con provvedimento del PM - nel registro delle notizie di reato con apposita compilazione della relativa voce a SICP.
Per le notizie che pervengono dal 26 marzo – o che pur pervenute prima, non sono ancora state iscritte - la iscrizione sarà effettuata a Mod 45 e sarà fatta annotazione della trasmissione per competenza alla Autorità amministrativa – trasmissione disposta da provvedimento del PM - nell’apposito registro.
La previsione della trasmissione diretta da parte del Pubblico Ministero all’autorità amministrativa competente – giusto il richiamo all’art.102 D.Lgs n.507/1999 – consente di evitare che gli uffici del Giudice per le indagini preliminari siano intasati da procedimenti penali con richiesta di archiviazione, con conseguente ritardo anche per le autorità amministrative nell’iter di irrogazione della sanzione amministrativa.
Nel caso siano stati emessi sequestri preventivi, il Pubblico Ministero è competente nella fase delle indagini ai sensi dell’art.321, comma 3 cpp , a revocare la misura cautelare reale con decreto motivato stante l’intervenuta depenalizzazione.
Si allega per quanto di utilità l’OdS n.29/2020 emesso con indicazioni operative date alla Segreteria penale, per la corretta chiusura informatica del fascicolo così definito e per la sua tracciabilità, al fine di evitare problematiche di false pendenze o altri disguidi, in alcuni casi occorsi in occasione della scorsa depenalizzazione parziale dell’art. 2 comma 1.bis del D.L. 12 settembre 1983 n.463, conv. con modif. in L 11/11/83 n.638, sostituito dall’art.3 comma 6 del D.Lgs 15 gennaio 2016 n. 8, attuativo della L 28/4/2014 n.67, rilevati per alcuni uffici requirenti nel corso di ispezioni ministeriali successive.
[1]Cfr. Art.102 D.Lgs n.507/1999 commi 1, 2 e 3:
1. Nei casi previsti dall'articolo 100, comma 1, l'autorita' giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, dispone la trasmissione all'autorita' amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.
2. Se l'azione penale non e' stata ancora esercitata, la trasmissione degli atti e' disposta direttamente dal pubblico ministero, che, in caso di procedimento gia' iscritto, annota la trasmissione nel registro delle notizie di reato. Se il reato risulta estinto per qualunque causa, il pubblico ministero richiede l'archiviazione a norma del codice di procedura penale; la richiesta ed il decreto del giudice che la accoglie possono avere ad oggetto anche elenchi cumulativi di procedimenti.
3. Se l'azione penale e' stata esercitata, il giudice, ove l'imputato o il pubblico ministero non si oppongano, pronuncia, in camera di consiglio, sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1.
Sull’emergenza (annunciata) del Servizio sanitario nazionale
di Alice Cauduro e Paolo Liberati
Sommario: 1.Quarant’anni di Servizio sanitario nazionale; 2.Federalismo sanitario e suo finanziamento; 3.Competenze dell’Unione europea e intervento pubblico nell’economia (sanitaria); 4.Dall’emergenza all’ordinaria amministrazione: come invertire la rotta.
1. Quarant’anni di Servizio sanitario nazionale.
Nel 1978 una delle leggi più innovative della storia repubblicana ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), affermando che la Repubblica tutela la salute “senza distinzioni di condizioni individuali o sociali e secondo le modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio” (art. 1 legge n. 833/1978); dunque secondo un modello universalistico che, nel tempo, è stato da più parti criticato e ridimensionato in ragione della sua presunta insostenibilità economica, e recentemente anestetizzato da un accentuato processo di regionalizzazione della sanità di cui oggi si discute fino alle più estreme conseguenze del regionalismo differenziato. Con il risultato che, di fronte all’attuale pandemia, si assiste a modalità di reazione non uniformi, tante quanti sono i sistemi sanitari regionali, condizionate da un percorso di forte riduzione delle risorse dedicate, con conseguente compressione della copertura universale e frammentazione dell’uniformità delle prestazioni sul territorio nazionale.
Un percorso che affonda le sue radici ideologiche negli anni Novanta, nella asserita necessità di privatizzare ed esternalizzare, di ridurre il ruolo dello Stato, di riorganizzare il settore sanitario sulla base del modello aziendalistico[1], ed è proseguito nei decenni successivi, prima con la riforma costituzionale del 2001, che ha modificato il riparto di competenze tra Stato e Regioni anche in materia di salute, poi con le regole economiche europee, in ultimo quelle sul vincolo degli Stati al pareggio di bilancio. Si tratta di passaggi che hanno determinato, a legislazione vigente, la perdita di effettività dei principi introdotti con la legge del 1978. L’enorme valore del SSN viene riscoperto in tempi emergenziali di fronte all’evidente difficoltà dell’amministrazione sanitaria. Non si nega che questa sia una situazione eccezionale; il mondo intero è coinvolto, non soltanto i Paesi poveri che vivono in uno stato di emergenza sanitaria permanente; ma in Italia ciò che sta accadendo è in parte il risultato di un discutibile adattamento nazionale alle trasformazioni economiche degli ultimi venti anni. Al riguardo, si è pensato, in linea generale, che un sistema di welfare su larga scala fosse incompatibile con le richieste di competitività e flessibilità determinate dalla globalizzazione del sistema economico. Ma anziché spingere verso approcci altrettanto globalizzati ai sistemi sociali, come per esempio la creazione di una struttura sociale europea, l’Italia (e in parte anche l’Europa) si è orientata verso una frantumazione regionale del sistema sanitario nazionale. Sostenendo dogmaticamente, e più o meno implicitamente, che una scala ridotta delle coperture sociali potesse essere la migliore risposta di fronte a sistemi economici che lavorano su scala globale.
Una tendenza che ha coinvolto, negli anni, anche altre forme di intervento pubblico, fino a raggiungere la configurazione estrema, in casi specifici, di spostamento verso il settore privato di alcune prestazioni sociali, come nel caso del welfare aziendale, o anche di forme di collaborazione pubblico-privato, quali il project financing o il partenariato istituzionale che indirettamente contribuiscono a sottrarre risorse e controllo gestionale pubblico. Tendenza fondata sull’idea (o sull’ideologia) che uno Stato centralizzato sia necessariamente in contrasto con un modello di sviluppo globalizzato che riduce la possibilità di proteggere il mercato interno, e che si nutre di una costante preoccupazione per il funzionamento dei mercati e per la garanzia della competitività territoriale, come se quest’ultima non dipendesse, in ultima istanza, dal grado di copertura sociale. Fattori che hanno certamente rivestito un ruolo rilevante nel comprimere le pretese redistributive dei governi nazionali, conseguenza diretta del condizionamento che gli stessi mercati spesso esercitano nei confronti della democrazia come strumento di decisione collettiva. L’opportunità che i governi centrali adottassero una modalità decisionale snella e in linea con le necessità di un sistema economico più aperto si è così confusa con la compressione dell’universalismo come criterio di fruizione dei servizi sociali, un obiettivo di cui il federalismo sanitario, in Italia, si è fatto interprete.
2. Federalismo sanitario e suo finanziamento.
L’accidentato percorso del federalismo italiano, tuttora incompleto, ha comunque prodotto un esito: la frammentazione regionale del SSN, stimolata dal rilevante ammontare di risorse pubbliche che la sanità richiede, circa 110 miliardi di euro. Ci si accorge però oggi, con ritardo, che un federalismo sanitario figlio di iniziali istanze di secessione, e non di propositi di coordinamento e solidarietà nazionale, può rappresentare un problema. Si tratta di un federalismo cha ha affondato le sue radici nella speranza che una parte del Paese potesse fare a meno dell’altra, una speranza implicitamente alimentata dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, in cui i territori, e il gettito territoriale delle imposte, sono divenuti più importanti dei bisogni di una comunità nazionale. Infatti la Costituzione italiana stabilisce che gli enti territoriali “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (art. 119, co. 3), individuando un assetto profondamente diverso da quello che precedeva la riforma del titolo V del 2001, in cui si disponeva che “alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali” (già art. 119 co. 2). Risulta evidente che l’impulso federalista degli anni recenti, attraverso il riferimento esplicito ai territori, abbia sia rafforzato la pretesa delle Regioni di vedersi riconosciuta una titolarità sul gettito dei tributi erariali in ragione della provenienza territoriale, sia aperto la strada al finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite alle Regioni a prescindere da uno specifico riferimento al bisogno.
Un federalismo, per le regioni a statuto ordinario, analogo al modello delle regioni a statuto speciale, non a caso proprio per ciò che concerne l’adozione del criterio territoriale per l’assegnazione delle risorse tributarie. Una logica, quella della frammentazione del sistema tributario, che è coerente con la logica di frammentazione dei servizi sociali nazionali. Contrariamente all’esigenza che un assetto decentrato efficiente abbia bisogno di un governo centrale forte, in Italia il processo si è rovesciato, perché l’azione politica delle Regioni, negli anni recenti, è stata mirata a indebolire le competenze del governo centrale, a minarne l’autorità e l’efficienza, a sminuirne il potere decisionale, a risolvere nel contenzioso giurisdizionale i problemi di coordinamento che qualsiasi Stato decentrato deve affrontare. Anche se la Costituzione italiana assegna allo Stato la competenza esclusiva in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio dello Stato” (art. 117 co. 2 lett. m Cost.), l’adozione di modelli organizzativi differenti su tutto il territorio nazionale ne impedisce (di fatto) l’uguaglianza di accesso secondo il principio ispiratore della legge n. 833/1978.
È in questa prospettiva che si debbono interpretare molti dei passaggi compiuti in questi anni per la costruzione del decentramento e del federalismo fiscale. Nel campo del fabbisogno necessario per i livelli essenziali di assistenza, ad esempio, il ricorso a criteri standard di determinazione – come rimedio alla spesa storica – ha costituito in molti casi l’argomento scientifico per legittimare tagli di spesa, e per mascherare il condizionamento di quegli stessi livelli alle disponibilità finanziarie. Producendo così da un lato sistemi sanitari regionali a 20 velocità, una replica fedele delle diseguaglianze economiche del Paese, e dall’altro una contrazione di spesa pubblica, soprattutto a seguito dell’introduzione dei piani di rientro per le Regioni con deficit sanitari. Un provvedimento, quello dei piani di rientro, che ha certamente sortito benefici effetti contabili, migliorando il bilancio delle strutture sanitarie, ma ha anche ampliato i divari regionali in termini di personale sanitario attraverso il blocco del turnover e ridotto al minimo gli investimenti di lungo termine, con conseguenze niente affatto trascurabili sulla qualità percepita, sulla mobilità sanitaria interregionale, e sul grado di adempimento nella fornitura dei livelli essenziali di assistenza.[2] Una contrazione della spesa pubblica che indebolisce quindi gli obiettivi universalistici del servizio sanitario nazionale. Al riguardo, la spiegazione utilizzata per giustificare la compressione della spesa sanitaria, a partire dal 2008, si fonda su una sua crescita eccessiva dal 2000 al 2007 (da circa 67 a 101 miliardi di euro). Si tratta, tuttavia, di numeri che celano l’impossibilità, per molte Regioni, di soddisfare l’erogazione di servizi sanitari con risorse correnti. In quel periodo, infatti, maturano – per l’insieme di Asl e ospedali – debiti verso fornitori (più o meno occulti) pari a circa 50 miliardi di euro, il cui pagamento viene rinviato nel tempo e costringe molte Regioni ad indebitarsi a costi elevati per compensare i generalizzati problemi di cassa, celando così la reale portata dei fabbisogni sanitari. Un elemento, quello del debito occulto, che inizia a palesarsi proprio dopo l’introduzione dei piani di rientro per le Regioni in deficit.
Dal lato del finanziamento dei livelli essenziali sanitari, inoltre, ci si confronta da venti anni con l’ambiguità di un sistema che impiega sia tributi propri delle Regioni (in particolare Irap e addizionale Irpef) sia compartecipazioni al gettito di tributi erariali (in particolare l’Iva), violando così una regola aurea dei sistemi di decentramento, cioè quella di finanziare con risorse centrali i servizi che incorporano la fornitura di livelli essenziali di rilevanza nazionale. In materia di finanziamento, peraltro, si condividono i dubbi di costituzionalità sollevati riguardo alla compartecipazione alla spesa sanitaria attraverso i ticket perché in contrasto col principio universalistico di accesso alle cure.[3]
Il maggior difetto di questo sistema, negli anni, è stato quello di coltivare una sorta di illusione sanitaria, l’illusione dell’universalismo contro la realtà della selezione all’accesso. Da un lato, infatti, la carenza di risorse a disposizione del sistema sanitario ha stimolato il ricorso a strutture private che sono in grado di fornire prestazioni sanitarie a costi pieni inferiori al ticket imposto sulle prestazioni pubbliche e, soprattutto, in tempi rapidi. Dall’altro, la carenza di risorse ha incentivato lo sviluppo di sistemi sanitari regionali che potremmo definire di “sanità leggera”, non strutturati per l’emergenza. Si tratta di strutture, dunque, intrinsecamente deboli. Con punte di eccellenza, ma anche con rilevanti segnali di inefficacia rispetto ai bisogni della popolazione, come la mobilità sanitaria interregionale (prevalentemente da Sud a Nord) certamente dimostra. D’altra parte, l’efficienza in emergenza richiederebbe “inefficienza” in tempi di pace, un assetto che il nostro sistema economico e politico non è stato più disposto a considerare, pur alimentando l’illusione che il sistema sanitario sia ancora universalistico.
3. Competenze dell’Unione europea e intervento pubblico nell’economia (sanitaria).
L’intervento pubblico in economia (anche sanitaria) ha trovato nel tempo un limite nelle norme dell’Unione europea a tutela del mercato interno e della concorrenza (artt. 106 ss. TFUE); si ritiene che la nostra costituzione economica (artt. 41 ss. Cost.) ne sia ormai condizionata al punto da far dimenticare che la tutela dei diritti apprestata dalle norme economiche dell’Unione non può che ricomprendere anche quella della persona. Il settore della tutela della salute rientra ancora oggi tra le competenze degli Stati membri, come anche le politiche fiscali e le scelte di finanza pubblica; tuttavia il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce che “nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione sia garantito un livello elevato di protezione della salute umana” (art. 168) e che, anche nel settore della tutela della salute, l’Unione possa svolgere azioni di sostegno, coordinamento e completamento delle azioni degli Stati membri (art. 6), che scelgono quale modello sanitario adottare (es. servizio sanitario nazionale in Italia, assicurazione sociale di malattia in Francia etc.), quante risorse investire nel settore sanitario e quali prestazioni siano da considerarsi essenziali. Al riguardo, alcuni dati possono servire a tradurre in termini quantitativi le riflessioni generali sopra avanzate. La sanità pubblica italiana rappresenta circa il 6,5% del prodotto interno lordo, contro il 9,6% delle Germania, il 9,5% della Francia, il 7,6% del Regno Unito. Un dato, il nostro, comparabile solo a quello spagnolo (6,3%), con il cui modello – si vedrà più avanti – si condividono anche alcune problematiche.[4] Il livello di spesa pubblica piuttosto ridotto ha avuto negli anni conseguenze sulla spesa privata sostenuta direttamente dalle famiglie (out-of-pocket) per compensare le carenze del SSN. È sufficiente osservare, al riguardo, che nel 2008 l’incidenza della spesa privata sulla spesa sanitaria totale era sostanzialmente simile in Francia, Germania e Italia (tra il 21 e il 23%); dieci anni dopo, mentre Francia e Germania hanno attivato politiche in grado di incrementare il grado di copertura pubblica della spesa totale, l’Italia si è diretta in senso contrario, con un’incidenza ora pari a circa il 26% della spesa sanitaria totale, circa 10 punti percentuali in più di Francia e Germania. In termini assoluti, ciò significa un esborso diretto delle famiglie pari a circa 36 miliardi, a cui si devono aggiungere circa 3 miliardi coperti dalle assicurazioni private. Si tratta di varie tipologie di prestazioni, ma con una particolare concentrazione sui settori in cui il servizio pubblico si manifesta sostanzialmente assente, soprattutto nelle regioni meridionali, come ad esempio l’assistenza alle cronicità e ai lungodegenti, e l’assistenza residenziale o domiciliare per la cura e riabilitazione post ospedaliera.
In Italia, negli ultimi dieci anni, si osserva una perdita di 70 mila posti letto, più di 300 reparti chiusi e un incremento della spesa sanitaria pubblica del 10 per cento, contro il 37 per cento della media Ocse. Significa 3,2 posti letto per mille abitanti, la Francia ne ha 6, la Germania ne ha 8. Significa 4.600 posti letto pubblici di terapia intensiva per degenza ordinaria su tutto il territorio nazionale, cioè 7,6 posti per 100 mila abitanti, o se si preferisce terapie intensive pubbliche per lo 0,0076% della popolazione, ai quali si aggiunge un limitato numero di posti nel privato convenzionato che innalza la disponibilità a 8,42 per 100 mila abitanti. In Germania, si arriva a circa 30 posti per 100 mila abitanti. I posti per la cura dei casi acuti, in Italia, sono 2,6 per 1000 abitanti, contro una media europea di 3,7; la Germania, per 1000 abitanti ne ha 6. Se si guarda al futuro del caso italiano, poi, si dovrà anche tenere conto che l’elevata età media dei medici attualmente in servizio (più della metà dei medici ha più di 55 anni, al ventesimo posto in Europa nella classifica per età) porrà un problema di pensionamenti e reintegri già nel breve periodo. Secondo i dati dell’ANAAO, tra il 2019 e il 2025, si prevedono pensionamenti per più di 37 mila medici, e reintegri di nuovi specializzati solo per poco più di 22 mila unità.[5] Una sanità regionale leggera, quella italiana, che coltiva il mito dell’universalismo, ma che sembra procedere nella direzione opposta.
4. Dall’emergenza all’ordinaria amministrazione: come invertire la rotta.
Quando il servizio sanitario ha bisogno di eroi, significa che qualcosa non funziona; le poche risorse aggiuntive attivate con i recenti decreti saranno l’ennesima rappresentazione che la politica sociale di questo Paese è ancora una volta emergenziale e di corte vedute. Al riguardo, il nostro caso presenta numerose similitudini con quello spagnolo, e – di conseguenza – alcuni rimedi possibili sono analoghi.[6] Ci sono due direzioni principali da percorrere che la pandemia dovrebbe aver reso palesi anche a chi in questi anni si è ostinato a non vedere. La prima riguarda i rapporti tra Stato centrale e Regioni in materia di sistema sanitario, da risolversi, a nostro avviso, con un ridimensionamento del federalismo sanitario e una rivisitazione complessiva dei modelli di federalismo asimmetrico. Ciò sarà possibile soltanto nella misura in cui le Regioni cesseranno di essere istituzioni estrattive e antagoniste del governo centrale; nel caso opposto, ci si dovrà rassegnare alla legittimazione definitiva del divario territoriale, questione che agita il nostro Paese dai tempi pre-unitari, ma che sta agitando – ad esempio – anche la Spagna in ragione della forte connotazione autonomistica di almeno due aree geografiche, la Catalogna e i Paesi Baschi, alle prese con i recenti trasferimenti di potere in capo al governo centrale in materia di sanità, trasporti e affari interni.
La seconda direzione è relativa alle modalità – da sperare non più rimandabili – con cui in Italia si farà fronte a decenni di riduzione degli investimenti in sanità. C’è da ritenere che sia questo il principale fattore che impedisce, al momento, di fronteggiare la pandemia. La capacità di resistenza di un sistema sanitario richiede medici professionisti su larga scala, piuttosto che la pratica del numero chiuso nel sistema universitario; una disponibilità di strutture avanzate e di emergenza in eccesso rispetto al numero ordinario di richieste; la produzione interna e l’immagazzinaggio di materiale protettivo, specialistico e diagnostico; la formazione e l’assunzione di personale paramedico, piuttosto che blocchi del turnover motivati da questioni contabili; il recupero delle strutture pubbliche a tempo pieno, piuttosto che la loro destinazione all’attività privata, da affiancarsi a retribuzioni adeguate che rendano merito al lavoro dei medici e del personale paramedico; un aumento dei fondi destinati alla ricerca scientifica, piuttosto che incentivi fiscali ai fondi sanitari integrativi; richiede infine una decisa perequazione infrastrutturale tra le diverse Regioni del paese. Anche coloro che sono affascinati dalla competizione territoriale, non possono non riconoscere che per competere è necessario che il campo di gioco sia lo stesso per tutti; un obiettivo che solo un governo centrale forte e delle Regioni ugualmente forti possono raggiungere. Al riguardo, occorrerebbe mettere in cima all’agenda politica un progetto di sanità europea, a partire da un intervento pubblico sovranazionale in grado di superare logiche di mercato e austerità, con un’allocazione delle risorse orientata secondo le priorità che le tradizioni costituzionali degli Stati membri indicano per la tutela dei diritti delle persone.[7]
[1] Per la legislazione degli anni Novanta in tale senso si ricordano, in specie, i d.lgs. n. 502/1992; n. 517/1993; n. 229/1999.
[2] Si veda al riguardo il saggio di Lagravinese R. e Resce G. (2020), La Sanità nel Mezzogiorno tra crisi economica e vincoli finanziari, in Coco G. De Vincenti C., Una questione nazionale: il Mezzogiorno da “problema” a “opportunità”, Il Mulino, Bologna.
[3] Sui dubbi di costituzionalità dei ticket in sanità “perché in contrasto con il carattere universale e perciò uguale e gratuito del diritto alla salute”, Ferrajoli L. (2019), Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, p. 74; sul fondamento costituzionale del finanziamento del servizio universale nel principio di eguaglianza sostanziale e nell’obbligo di contribuzione tributaria (artt. 3, co. 2 e 53 Cost.) sia consentito rinviare a Cauduro A., Liberati P.(2019), Brevi note sul servizio universale, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2019, p. 131 ss.
[4] Per maggiori dettagli si rimanda a Gabriele S. (2019), Lo stato della sanità in Italia, Focus tematico n.6, Ufficio Parlamentare di Bilancio.
[5] I settori specialistici considerati sono Pediatria, Anestesia e Rianimazione, Medicina d’urgenza, Medicina interna, Chirurgia generale, Radiodiagnostica, Malattie dell’apparato cardiovascolare, Ginecologia ed ostetricia, Psichiatria, Ortopedia e Traumatologia. I dati sono di fonte ANAAO – Assomed come elaborati da Borrelli G., Quanto è grave la carenza di medici negli ospedali italiani?, Datajournalism, 23 gennaio 2019.
[6] Si veda Legido-Quigley H., Mateos-Garcia J.T., Regulez Campos V., Gea Sànchez M., Muntaner C., McKee M., (2020) “The resilience of the Spanish health system against the COVID-19 pandemic”, The Lancet, www.thelancet.com/public-health.
[7] Sul tema, in riferimento alla Costituzione italiana, per tutti, Carlassare L. (2013), Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo. it, fasc. 1/2013, p. 10.
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