ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Svelare le simulazioni: apporti delle neuroscienze alla ricerca della verità giudiziaria
Santo Di Nuovo
È frequente in ambito forense il tentativo di falsificare le proprie condizioni psichiche, che può essere messo in atto, volontariamente o meno, per ottenerne dei vantaggi in sede giudiziale. Le tecniche d’indagine psicologiche e neuroscientifiche cercano di svelare questo tentativo, che costituisce la grande sfida della diagnosi peritale in ambito forense.
Esistono diverse forme di falsificazione. La simulazione (malingering) consiste nell’inventare sintomi che non esistono, o esagerare quelli che esistono, allo scopo di trarne vantaggi sul piano giuridico-forense: per esempio, ottenere una dichiarazione di incapacità che esime in tutto o in parte dalla responsabilità. Nel campo del diritto civile, simulare (o aggravare) una patologia può essere utile anche per ottenere benefici quali il riconoscimento di invalidità, o di un suo grado non corrispondente alle reali condizioni psichiche della persona. Al contrario, la dissimulazione serve a nascondere delle patologie e fingere la normalità, per evitare provvedimenti negativi quali interdizione o inabilitazione, o perdita della potestà genitoriale.
In questo contesto ci occuperemo soprattutto del primo aspetto, quello simulativo, che si realizza quando fingere una patologia mira a trarre dei benefici in termini di deresponsabilizzazione sul piano giudiziario.
Test psicodiagnostici come gli inventari di personalità (come il MMPI o il PAI) o proiettivi come il test di Rorschach, o le prove neuropsicologiche per l’esame cognitivo, consentono di avvalersi di alcuni indici che fanno sospettare una simulazione. Per i primi esistono punteggi derivanti da scale di ‘menzogna’ (scale L - Lie) o da altre scale di controllo, che valutano una generale disposizione alla falsificazione del test e quindi alla simulazione di “essere peggio di come si è”, per ridurre la responsabilità accertabile in termini diagnostici psicometrici. Per il test delle macchie di Rorschach, la letteratura sull’argomento riporta come elementi frequenti nella simulazione una produzione troppo bassa – in soggetti per altri versi normali – o al contrario troppo alta, con numerose risposte bizzarre o strane; risposte confabulatorie accuratamente costruite; forti incongruenze o dislivelli di rendimento, alternando risposte ‘normali’ con altre tipiche delle più gravi patologie, anche diverse tra loro.
Quanto ai test neuropsicologici, la simulazione è centrata soprattutto sugli aspetti di memoria. In generale, se le prove sono abbastanza facili, i simulatori manifestano rendimento ben più scadente rispetto ai soggetti veramente patologici, collocandosi molto al di sotto della soglia delle risposte casuali. Anche nel caso di persone che tentano di amplificare il danno, pur realmente esistente, le prestazioni risultano significativamente inferiori di quanto ci si può attendere in relazione alla tipologia del loro deficit, accertabile con altri metodi strumentali.
L’ipotesi di simulazione, formulata a partire da singoli test, va inserita in un quadro valutativo che include dati anamnestici, osservazione prolungata in situazioni di vita quotidiana, e controlli neurologici e clinici diversi.
Esistono strumenti appositamente escogitati per tentare di scoprire il malingering, utili nel settore giudiziario, tra cui la Symptom Validity Technique (test a scelta forzata su decisioni molto semplici, in cui il simulatore tende a rispondere sempre in modo strano e bizzarro), alcune prove molto facili di riconoscimento di cifre, di memoria implicita, memoria autobiografica e memoria libera; e ancora, la Structured Interview of Reported Symptoms (SIRS), che mediante una verifica incrociata sul riferimento a sintomi rari, improbabili o assurdi, e sulla incoerenza delle risposte, consente di categorizzare i soggetti in onesti, indefiniti, simulatori.
Fra i tanti modi escogitati per decifrare i tentativi di falsificazione delle riposte (faking) per eludere la responsabilità in ambito giudiziario, emergono sempre più quelli basati sulle neuroscienze.
I tentativi di ‘lettura del cervello’ per supportare l’esame giudiziario di accertamento della responsabilità e delle possibili alterazioni sono molto antichi. Risalgono infatti ai primi del ’900 i tentativi di individuare le risposte menzognere durante gli interrogatori, misurando i cambiamenti di parametri fisiologici come la pressione arteriosa. Più avanti, fra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso, furono messe a punto le ‘macchine della verità’: poligrafi che registrano contemporaneamente diverse tipologie di risposte fisiologiche ed elettroencefalografiche a stimoli potenzialmente perturbanti sul piano emotivo, in modo da evidenziare le differenze fra le dichiarazioni coscienti (che possono essere volontariamente alterate) e le attivazioni inconsapevoli presunte ‘veritiere’. Questi tentativi di ‘scoprire le menzogne’ (le macchine furono definite anche lie detector) e smascherare le alterazioni della responsabilità, ebbero a loro volta smascherati ben presto i propri limiti: le persone non rispondono allo stesso modo agli stimoli che dovrebbero alterare la loro reattività, per cui persone oneste, temendo di essere ingiustamente incriminate, alterano i parametri psicofisiologici e possono risultare ansiose nel rispondere ad accuse anche infondate; mentre persone abituate all’inganno possono non manifestare alcuna ansia anche davanti a stimoli potenzialmente compromettenti. Si arrivò ad utilizzare delle sostanze come il tiopental sodico (Pentothal) per facilitare la disinibizione, ma paradossalmente questo può portare a mescolare verità e fantasia più che nella risposta cosciente. Secondo l’Accademia delle Scienze statunitense questi strumenti hanno soglie di sicurezza inaccettabili in valutazioni di tipo giuridico; la Corte Federale statunitense ha dichiarato non affidabili le prove basate su questi strumenti.
Più recentemente, visti i limiti delle misurazioni psicofisiologiche ai fini giudiziari, si è tentato di rivolgersi all’esame diretto del funzionamento cerebrale registrando le risposte elettroencefalografiche – ad esempio, il potenziale P300 che si attiva in risposta a stimoli significativi per la memoria – che sarebbero peculiari del ricordo che solo chi è a conoscenza di certi specifici fatti può attivare. Ma anche in questo caso l’attendibilità dei risultati non è sufficiente. Si può essere a conoscenza di un fatto, e quindi attivare queste risposte di percezione latente, ma ciò non equivale con certezza a essere colpevoli: gli stessi potenziali possono essere attivati da chi ha sentito riferire di un evento, o ne ha visto le immagini sui media. Oppure essere stati presenti, e tacerlo per paura di essere coinvolti, non vuol dire necessariamente essere attori del reato.
Le ultime scoperte delle neuroscienze per scoprire la responsabilità al di là di ciò che una persona coscientemente dice tendono a cercare tracce delle menzogne in una sorta di “lettura diretta della mente” (Mind-reading). L’attivazione delle aree cerebrali e della rete di loro connessioni vengono registrate in un base-line, ad esempio mediate risonanza magnetica funzionale (fMRI): l’attività cerebrale precedentemente registrata relativamente a certe frasi o emozioni può predire l’attivazione di un analogo stato mentale successivo. È possibile studiare delle tracce – analoghe alle impronte digitali, e perciò denominate Brain Fingerprinting – che le menzogne lasciano nel cervello e possono essere registrate da apposite strumentazioni che valutano le variazioni dell’attività cerebrale provocate da un evento critico.
Uno studio sperimentale ha monitorato il cervello di 25 persone mentre rispondevano a una serie di domande a cui potevano mentire o rispondere con la verità. Le menzogne pare vengano elaborate soprattutto nelle regioni cerebrali frontali e pre-frontali, ma anche in un’altra area (una parte della corteccia anteriore) deputata a elaborare, anche senza consapevolezza, situazioni problematiche o pericolose. Esiste una precisa risposta registrabile – e quindi utilizzabile a fini giudiziari – che riflette il tentativo di sopprimere un’informazione vera.
Sullo stesso principio si basa il Brain Fingerprinting Lab fondato da Lawrence Farwell, che ovviamente interessò subito FBI e CIA, interessate ad avere strumenti in grado di fornire indicazioni più attendibili rispetto al tradizionale lie detector. Quando una persona sottoposta a interrogatorio o a giudizio dice una menzogna per nascondere la propria responsabilità, si attivano aree cerebrali diverse e più numerose rispetto a quando dice la verità, in quanto deve anche sopprimere attivamente le informazioni che sa essere vere. Vedendo delle immagini mentre viene registrato il funzionamento cerebrale, il cervello emette segnali più rapidi se riconosce un’immagine familiare. Questa “impronta digitale cerebrale” depositata nella memoria viene decodificata, e successivamente, di fronte a scene critiche per il soggetto sottoposto a interrogatorio, può essere usata per trarre deduzioni relativamente alla sincerità della risposta fornita verbalmente.
Anche in questo caso però la Defense Intelligence Agency statunitense ha contestato la mancanza di controllo dei possibili artefatti tecnici: basta muovere troppo la lingua, o un muscolo, perché si creino variazioni spurie che rendono inattendibile la prova. Al di là dei problemi ‘tecnici’ il famoso neuroscienziato Michael Gazzaniga ha riconosciuto che le informazioni ricavate da questo tipo di registrazioni cerebrali hanno una inattendibilità di base dovuta alla complessità delle variabili in gioco, oltre che una scarsa discriminatività, in quanto piccole imprecisioni o errori di valutazione possono essere valutati allo stesso modo di rilevanti menzogne. Considerato che in tribunale vanno prese in considerazione prove certe “al di là di ogni ragionevole dubbio”, questi modi di individuare la responsabilità personale non sembrano destinati ad avere il successo auspicato da chi presume di poter così andare oltre ciò che la persona stessa riferisce.
Una considerazione di tipo generale può farsi rispetto alla logica che sottende queste tecniche di “lettura del pensiero”, oggi applicata ad aree diverse, dalla neuro-economia al marketing alla analisi della personalità, oltre che al campo giuridico. Ci si dovrebbe affidare, per conoscere ciò che la mente veramente elabora, a tecniche che accedono direttamente ai suoi fondamenti neurobiologici, piuttosto che alle parole e ai report soggettivi su esse fondati, che potrebbero alterare (coscientemente o meno) la ‘realtà’ dei processi mentali. Questa logica è pericolosa per la psicologia e per l’approccio scientifico in generale, perché riattiva – ammantandola di nuove tecniche ‘oggettive’ – la diffidenza verso quanto la persona stessa percepisce e riferisce di sé stessa, che pareva definitivamente tramontata, o comunque ridimensionata, dopo il superamento delle remore behavioristiche, riduttive in funzione di una conoscenza adeguata delle realtà complesse. La logica giuridica è tentata di accettare queste ‘prove’, da cui è potenzialmente attratta in quanto le presume ‘oggettive’, anche se poi – come abbiamo visto – è costretta a riconoscerne l’insufficienza. La ‘verità’ scientifica nelle procedure giudiziarie, piuttosto che affidarsi a singoli indicatori, va (ri)costruita attraverso una molteplicità di essi, e la attendibilità complessiva degli strumenti usati va riferita alla integrazione della valutazione che l’organo decisorio attua in sede processuale.
Riferimenti bibliografici per approfondimenti
Aa. Vv. The Polygraph and Lie Detection, National Academies Press, Washington, 2003.
Binder L., Deception and malingering, in A. Puente, R. McCaffrey (Eds.), Handbook of neuropsychological assessment, Plenum Press, New York 1992, pp. 353-374.
S. Di Nuovo, Che cos’è la verità? È possibile trovarla scientificamente? In Siculorum Gymnasium LXXI, 2018 (4), pp. 31-54.
I. Ganguli, Watching the Brain Lie: Can fMRI replace the polygraph?, in The Scientist, 2007, 21, p. 40.
G. Iverson, M. Franzen, L. McCracken, Evaluation of an objective assessment technique for detection of malingered memory deficits, in Law and Human Behavior, 1991, 15, pp. 667-676
W. Mittenberg, C. Patton, E. M. Conyock, D. C. Condit, Base rates of malingering and symptom exaggeration, in Journal of Clinical and Experimental Neuropsychology, 2002, 24, pp. 1094-1102.
B. E. Netter, D. J. Viglione, An empirical study of malingering schizophrenia on the Rorschach, in Journal of Personality Assessment,1994, 62, pp. 45-57
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R. Rogers (Ed.), Clinical measurement of malingering and deception, 2nd ed., Guilford, New York, 1997.
Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie?
Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079 [1]
di Calogero Ferrara
La Corte di Cassazione con la sentenza 8 luglio 2019 n. 47079 si pronuncia, per la prima volta, sul delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. introdotto con la legge 14 luglio 2017 n. 110 all’esito di un travagliato iter parlamentare, adottando una interpretazione estensiva della fattispecie e intervenendo sugli aspetti più controversi e “oscuri” del dettato normativo, fornendo delle vere e proprie “linee guida”.
I fatti
Con sentenza dell’8 luglio 2019 n. 47079, la Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni di Taranto con la quale era stata disposta l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di sei minorenni in quanto indiziati, in concorso con due maggiorenni, dei delitti di tortura aggravata di cui all’art.613-bis, comma 4, c.p., così come introdotto dalla Legge n. 110 del 14 luglio 2017, oltre che dei reati di danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona. Le condotte oggetto i contestazione erano state commesse nei confronti di un uomo di sessantasei anni (poi deceduto il 23 aprile 2019, in data successiva ai fatti), affetto da disturbi psichici ed in condizioni di minorata difesa e che, anche per questo motivo, era stato individuato quale bersaglio dal gruppo di “bulli” poi sottoposti a custodia.
In particolare, dalle attività investigative si accertava che gli indagati erano soliti organizzare delle vere e proprie spedizioni punitive, principalmente durante le ore notturne, in occasione delle quali si recavano presso l’abitazione della loro vittima - dagli stessi considerato un soggetto insano di mente - per farne fonte di divertimento (calci alla porta dell’abitazione, lancio di pietre alle finestre e percosse). A seguito dell’intervento delle Forze dell’Ordine, richiesto da alcuni vicini di casa in data 5 aprile 2019, la vittima si era finalmente decisa a sporgere denuncia nella quale rappresentava che, già da diversi anni, subiva vessazioni e molestie tanto da averlo indotto a non uscire più da casa, neanche per fare la spesa minima per le proprie necessità.
L’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere veniva impugnata per erronea valutazione degli indizi di colpevolezza[2] e, soprattutto per quel che ci riguarda, per violazione di legge in relazione alla configurazione del nuovo reato di tortura. Con riferimento a detto ultimo profilo, si riteneva che le condotte contestate non apparivano idonee ad integrare, inter alias, né l’abitualità né il trattamento disumano e degradante o crudele richiesto dall’art.613-bis c.p. e che il trauma psichico della vittima, idoneo ad integrare la fattispecie, doveva essere verificabile su base scientifica.
2. Il delitto di tortura di cui all’art.613-bis c.p. e la “terza via” seguita dal legislatore italiano
Con l’introduzione dell’art. 613-bis c.p. l’Italia ha, finalmente, adempiuto agli obblighi di criminalizzazione e repressione penale del reato di tortura derivanti dalla ratifica della Convenzione dell’ONU del 1984 e dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.
Fino all’entrata in vigore della Legge n.110/2017, infatti, la tortura era oggetto di repressione penale in quanto crimine di guerra (art. 185-bis del codice penale militare di guerra) ed entro i suoi limitati ambiti applicativi, con la conseguenza che, a seguito delle note vicende del G8 di Genova, lo Stato italiano era stato condannato numerose volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[3] per l’inaccettabile lacuna normativa del nostro ordinamento.
Con la sentenza in commento, per la prima volta dalla sua introduzione, i giudici di legittimità forniscono (ancorché in fase cautelare) una completa e dettagliata disamina del reato di tortura, di cui suggeriscono un’interpretazione teleologica e convenzionalmente orientata, in adempimento degli obblighi di cui all’art. 117, co. 1 Cost.
Nell’iter motivazionale traspare, infatti, l’intento della Corte di ampliare l’ambito applicativo della nuova fattispecie, senza tuttavia distaccarsi dalla lettera della norma, sì da superare – quantomeno in un primo stadio applicativo - alcune criticità connesse all’infelice e farraginosa formulazione legislativa. Tale operazione viene realizzata prendendo spunto, oltre che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche da quella nazionale sviluppatasi intorno al reato di atti persecutori (c.d. stalking; sanzionato dall’art. 612 bis c.p.); fattispecie quest’ultima che mostra diverse somiglianze con il neo introdotto reato di tortura. Le affinità tra le due fattispecie di reato si colgono avendo riguardo tanto alla loro struttura (si tratta in entrambi i casi di reati abituali di evento), quanto alla descrizione dell’evento dedotto costituito, in entrambi i casi, dal turbamento psicologico subito dalla vittima (l’evento viene descritto come trauma psichico dall’art. 613-bis c.p. e come grave e perdurante stato di ansia nell’art. 612-bis c.p.).
A tale proposito non appare inopportuno segnalare che nella più recente giurisprudenza di legittimità si è aperta una strada per un’ampia interpretazione dell’art. 612-bis c.p., tanto da ritenerlo configurabile anche nelle ipotesi di bullismo scolastico[4]. Tale evoluzione, invero, non sembra sfuggire alla sentenza in commento, e ciò in considerazione della peculiarità dei fatti oggetto di giudizio che vedono implicati soggetti minori di età, dediti alla realizzazione di condotte tipiche del c.d. bullismo di branco: basti pensare che gli indagati si organizzavano tramite una chat di gruppo al fine di realizzare reiterati atti di violenza tutti diretti verso lo stesso soggetto, in quanto persona insana di mente e quindi considerata incapace di difendersi.
Ciò premesso, appare preliminarmente opportuno procedere ad una breve analisi del reato di tortura ex art. 613-bis c.p., evidenziandone tanto i punti di contatto quanto le discordanze rispetto alle fonti internazionali e convenzionali che parimenti sanciscono il divieto di tortura.
La norma ha introdotto una fattispecie a disvalore progressivo che incrimina tanto le ipotesi di tortura c.d. comune (comma 1), in cui non rileva la qualifica del soggetto agente, quanto quelle di tortura c.d. di Stato (comma 2), commesse da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. L’art. 613-bis c.p. introduce un reato a forma vincolata (violenze o minacce gravi, crudeltà) con evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); a condotta abituale per talune modalità della condotta (violenze o minacce), ma non per altre modalità di realizzazione (agire con crudeltà), cui si aggiungono due elementi: il reato deve essere commesso mediante più condotte, salvo che non comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Il delitto in questione si caratterizza per essere ricco di elementi descrittivi che ne delineano la struttura e pertanto - sia per la complessità del dettato normativo sia, ancora oggi, per la mancanza di linee guida dottrinarie o giurisprudenziali uniformi e cristallizzate - si presta a dubbi interpretativi che la sentenza in commento ha cercato di diradare.
Nel dare un quadro generale d’insieme delle caratteristiche del nuovo art. 613-bis c.p. e del contesto giuridico nazionale e sovranazionale all’interno del quale si è inserito, la Cassazione ha sottolineato il carattere innovativo della fattispecie incriminatrice nazionale rispetto alle indicazioni provenienti dalle fonti internazionali e convenzionali. Infatti, se da un lato la Convenzione dell’ONU del 1984 limita la definizione di tortura alle sole ipotesi in cui viene perpetrata dalle autorità statali[5] (cd. tortura di Stato), dall’altro lato l’art. 3 della CEDU gode di una formulazione per certi aspetti più elastica, includendo nella sua definizione la tortura cd. comune ma escludendone quelle forme di trattamento ad essa non parificabili per intensità e/o gravità[6].
Pertanto, la Corte ha rimarcato come il legislatore italiano nella scelta della formulazione dell’art. 613-bis c.p. ha prediletto una terza opzione prevedendo un reato comune (comma 1) a cui si accompagna un aggravamento di pena ove “i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”. La soluzione adottata appare in linea con la necessità di accordare al reato in esame la massima portata applicativa, anche alla luce della realtà criminologica che dimostra come la tortura, oltre a configurarsi nell’ambito dei rapporti verticali tra Stato e cittadino, possa parimenti assumere una dimensione interprivatistica. D’altronde tale interpretazione appare quella più conforme all’adempimento degli obblighi internazionali e convenzionali oltre che dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che allarga il divieto di tortura a tutti i soggetti dell’ordinamento a prescindere dalla qualità soggettiva dell’autore della condotta.
Poste queste premesse, la sentenza in commento sembra tenere in considerazione le preoccupazioni avanzate dal Commissario per i diritti umani Nils Muiznieks[7] di un possibile indebolimento della protezione apprestata alla tortura perpetrata da autorità statali in favore della tortura comune, “considering the particularly serious nature of this human rights violation”. Come rilevato dalla Corte, invece, l’art. 613-bis c.p si caratterizza per una più ampia portata applicativa rispetto allo standard minimo di tutela fissato dall’art. 1 della Convenzione dell’ONU del 1984 con la conseguenza che deve escludersi una violazione degli obblighi di incriminazione internazionali da parte del legislatore.
Per quanto più precisamente concerne la qualificazione giuridica del secondo comma dell’art. 613-bis c.p. (“fatti commessi da pubblico ufficiale a incaricato di pubblico servizio”) la Corte ne ha confermato la natura di circostanza aggravante speciale[8]. Detta configurazione non appare, tuttavia condivisa da alcuni commentatori della fattispecie i quali suggeriscono di elevare il dettato del secondo comma a rango di fattispecie autonoma di reato[9]. A favore dell’opzione per il reato proprio si porrebbe, inter alia, la definizione di cui all’art. 1 CAT – che limita l’obbligo di incriminazione ai soli fatti commessi da un pubblico ufficiale o da persona che agisce in sua veste - insieme alla considerazione che l’aggravante sarebbe, come tale, neutralizzabile nell’ambito del giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.
La soluzione suggerita dalla dottrina non sembra tuttavia in linea con l’intenzione del legislatore, richiamata dalla Corte, che in tal senso è chiara, dato che di “fattispecie aggravate” del reato di tortura parlano i dossier del Servizio Studi della Camera dei Deputati, né lascia dubbi l’analisi dei lavori parlamentari[10]. Il riconoscimento della natura di circostanza ai fatti di tortura commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio appare, altresì, imposto dal rilievo attribuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione al criterio strutturale per la qualificazione della fattispecie come circostanza o come reato[11]: ove infatti la descrizione dei fatti viene operata mediante rinvio ad altra figura criminosa (come, nel caso di specie, in cui si parla di “i fatti di cui al primo comma”), si deve intendere che ci si trova dinnanzi ad una circostanza.
3. Natura della fattispecie, violenze gravi e trattamento inumano e degradante.
A fronte delle doglianze relative alla mancanza del requisito della abitualità della azione, poiché le condotte contestate non solo non erano connotate da violenza grave ma dovevano altresì essere considerate singolarmente ed isolate l’una dall’altra, la Corte si è dovuta interrogare, innanzitutto, sulla natura del reato di tortura, chiedendosi nello specifico quali debbano essere le caratteristiche delle condotte che tale delitto contempla, quantomeno nella formulazione di cui al primo comma.
Il giudice di legittimità ha ritenuto che la fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. ha natura di reato solo eventualmente abituale, in quanto la reiterazione nel tempo di violenze o minacce gravi non è richiesta ove l’agente agisca con crudeltà ovvero ove il fatto comporti un “trattamento disumano e degradante per la dignità della persona”.
Il focus della decisione ha avuto, altresì, ad oggetto il requisito della gravità della condotta, anche in considerazione della poca chiarezza sul punto nei lavori preparatori della legge 110/2017[12], e sul punto la Corte ha fornito una duplice chiave di lettura, sia sulla interpretazione dell’aggettivo “gravi” sia sul suo riferimento alle violenze o alle sole minacce. La soluzione accolta nella sentenza in commento è stata quella di intenderlo riferito a entrambe le ipotesi, e ciò per due ordini di argomentazioni: da un lato sarebbe difficile, naturalisticamente, ricondurre le acute sofferenze e i verificabili traumi a violenze non connotate dal requisito della gravità e, dall’altro lato, il principio di proporzionalità impone una commisurazione tra l’entità della risposta sanzionatoria (nel caso di specie la reclusione da quattro a dieci anni) e la entità (rectius “gravità”) della condotta delittuosa. Alla luce di tali premesse, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente detta ipotesi in considerazione delle sofferenze patite dalla vittima, derivanti da una pluralità di condotte, ognuna di esse connotata da grave violenza - sia sulle cose che sulla persona - oltre che da crudeltà[13].
Altro profilo oggetto di disamina è stato quello del “trattamento inumano e degradante” subito dalla vittima, contestato in sede di impugnazione poiché ritenuto sussistente solo nel caso in cui vengano usate tecniche quale quelle del waterboarding, elettroshock, bruciature e simili.
In proposito appare necessario sottolineare che il reato di tortura previsto dall’art. 613-bis c.p. ha una maggiore portata applicativa rispetto alla formulazione dell’art. 3 CEDU. Il legislatore del 2017, infatti, non ha recepito la distinzione sviluppatasi nella giurisprudenza della Corte EDU che, da sempre, ha escluso dal concetto di tortura in senso stretto quelle condotte che comportano per la vittima “soltanto” un trattamento degradante o disumano. Secondo la ricostruzione proposta dalla Corte di Strasburgo, la differenza risiede nella intensità e nella qualità della sofferenza inflitta: molto grave e crudele nella tortura, di particolare intensità nel trattamento inumano, atta a provocare umiliazione e sofferenza morale nel trattamento degradante.
La Corte di legittimità ha, piuttosto, valutato la peculiarità della nuova fattispecie incriminatrice alla luce dell’esperienza penale internazionale in cui si inserisce e da cui si ricava che la tortura – anche secondo l’interpretazione più evoluta della giurisprudenza convenzionale - deve essere intesa anche sotto il profilo psicologico, non potendosi escludere dalla sua definizione quelle ipotesi in cui la tortura non lascia tracce visibili sul corpo. È infatti innegabile come tali forme di tortura si realizzano tramite l’uso di un sistema di tecniche particolarmente sofisticato volto ad infliggere del dolore[14] e come tale in contrasto con la tutela dell’inviolabilità della persona che l’art.613-bis c.p. intende accordare. Il problema appare assumere particolare rilievo con riguardo alla cd. tortura bianca, che viene eseguita con strumenti ricercati che non lasciano traccia nel corpo, ma che sono comunque in grado di alterare la percezione del torturato fino a procurare stati psicotici[15].
Pertanto nella sentenza in oggetto si sottolinea che il trattamento inumano e degradante risulta integrato anche in quelle ipotesi in cui si verifica una mortificazione o un annientamento di diritti fondamentali della persona che costituiscono il nucleo della sua dignità, dovendosi avere riguardo esclusivo all’esito offensivo - a cui gli aggettivi “inumano” e “degradante” si riferiscono - e non anche al comportamento dell’agente. Il disvalore della condotta, ossia la crudeltà e la gravità delle minacce e delle violenze perpetrate, tuttalpiù dovrà dedursi dalle caratteristiche del caso di specie, da valutarsi anche alla stregua dello scopo dell’atto e delle sofferenze inflitte ed alle condizioni di vulnerabilità e minorata difesa della vittima.
4. Sulla verificabilità del trauma e sulla minorata difesa della vittima
Le condotte come sopra tipizzate devono essere dirette a cagionare “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico” ad un soggetto che si trova o in condizione di restrizione della libertà personale ovvero in condizione di minorata difesa.
Nel caso di specie sia la sussistenza dell’evento (verificabile trauma psichico) sia la condizione presupposta (minorata difesa) venivano contestate, in particolare ritenendosi che, da un lato, la vittima era già una persona che era solita chiudersi in casa senza dare segni di vita e, dall’altro lato, che la verificabilità del trauma psichico avrebbe dovuto essere compiuta su base scientifica.
Anche sotto questi due aspetti la sentenza in commento fornisce una interpretazione convenzionalmente orientata ed ampliativa della fattispecie.
In relazione alla “precondizione” di minorata difesa, invero, l’art. 613-bis c.p. eleva la condizione di minorata difesa da circostanza aggravante comune (art. 61, n. 5 c.p.) ad elemento costitutivo del reato, che viene posto in chiusura di un elenco di situazioni che, al contrario, presuppongono l’esistenza di un rapporto qualificato tra il soggetto attivo ed il soggetto passivo (“una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”).
La Cassazione, facendo leva su un’argomentazione di carattere letterale, ha constatato che la struttura del dettato legislativo, includendo la minorata difesa tra le caratteristiche del soggetto passivo, suggerisce di volervi ricomprendere anche quelle ipotesi in cui, pur difettando tanto la preventiva privazione della libertà personale quanto il rapporto qualificato tra il soggetto agente e la vittima, quest’ultima si trovi in ogni caso in una situazione di particolare vulnerabilità[16]. La valutazione di tale status, tuttavia, così come già evidenziato nelle decisioni dei giudici EDU, deve essere compiuta alla luce di una adeguata contestualizzazione del comportamento che tenga contro delle circostanze e delle peculiarità proprie, tanto soggettive quanto oggettive, del caso concreto.
La suddetta esigenza di contestualizzazione d’altronde, come notato dalla Corte, era stata già evidenziata in passato dalla giurisprudenza sviluppatasi intorno all’aggravante comune della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5 c.p[17]. Mutuando pertanto le indicazioni provenienti dalla suddetta elaborazione giurisprudenziale, la Corte ha ritenuto che la minorata difesa ricorra quando la vittima non possa opporre resistenza, a fronte della condotta criminosa, a causa di particolari fattori ambientali, temporali o personali, non essendo tuttavia a tal fine necessario che la difesa si presenti impossibile. In tal senso non appare casuale che la Cassazione abbia richiamato proprio quella giurisprudenza estensiva che, sulla base di tali premesse, afferma che ai fini della configurabilità dell’aggravante della minorata difesa è sufficiente che la condotta si compia in orario notturno[18].
Sulla base di tali presupposti, pertanto, la sentenza in argomento ha ritenuto sussistente la condizione della minorata difesa poiché la vittima, non solo veniva tormentato dal gruppo di bulli principalmente durante le ore notturne, ma questi era una persona già affetta da disturbi psichiatrici di cui gli stessi indagati erano consapevoli, posto che nelle loro conversazioni erano soliti chiamarlo “pazzo” e che proprio per tale ragione avevano deciso di prenderlo di mira. La decisione, pertanto, si inserisce all’interno di quel filone interpretativo, sviluppatosi nell’ambito della giurisprudenza convenzionale, che suggerisce di calare la valutazione del comportamento nel contesto circostante sì da tenere in debita considerazione tutte le circostanze del caso, tanto oggettive (orario e luogo dell’azione) quanto soggettive (condizioni fisiche e psichiche, età, sesso, stato di salute della vittima); conseguentemente la portata applicativa del nuovo reato sarà destinata ad ampliarsi o restringersi all’interno delle maglie di una valutazione delle caratteristiche tanto oggettive (orario notturno), quando soggettive (condizioni di vulnerabilità della vittima) del caso concreto.
Per quanto, invece, riguarda l’elemento della verificabilità del trauma psichico, è necessario premettere che già nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione dell’art. 613-bis c.p., la Commissione Costituzionale e il Commissario per i Diritti Umani avevano manifestato forte perplessità circa la portata dell’aggettivo “verificabile”. Tale diffidenza trovava concorde anche taluni dei primi commentatori che temevano che potesse essere inteso nel senso di imporre un accertamento del trauma psichico di natura tecnica da espletarsi tramite apposita perizia[19].
La necessità di fornire una adeguata interpretazione del requisito ha spinto la Corte, in via preliminare, ad interrogarsi sul significato da attribuire alla locuzione “trauma psichico” e nella ricerca di una definizione coerente con la ratio incriminatrice della fattispecie, optando per una nozione di tipo tecnico-psicologico. In tale ottica, per i giudici di legittimità, rientra nel concetto di trauma qualsiasi evento che, per le sue caratteristiche, risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale. Di talché integra il trauma psichico un evento critico, sotto il profilo psicologico, che si presta ad una rapida soluzione senza che sia necessario che l’esperienza dolorosa si traduca in una sindrome di trauma psicologico strutturato necessariamente idoneo a determinare effetti duraturi.
Fatta questa premessa, come anticipato il reato di tortura presenta forti affinità con il reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), non solo avuto riguardo al bene giuridico che le due fattispecie incriminatrici intendono tutelare, ma soprattutto in considerazione della struttura dell’evento. In entrambe le ipotesi, infatti, gli eventi (alternativi) previsti fanno riferimento ad un turbamento che si produce nella sfera psicologica del soggetto passivo: il verificabile trauma psichico da un lato ed il perdurante e grave stato d’ansia o di paura dell’altro[20].
Questa affinità normativa non è sfuggita alla Corte di Cassazione la quale, mutuando la giurisprudenza formatasi intorno al reato di atti persecutori, ha relativizzato - e per certi aspetti anche neutralizzato – la portata del requisito della verificabilità del trauma proprio. Sotto un profilo prettamente probatorio, trattandosi di un evento che attiene al “foro interno”, pertanto naturalisticamente insondabile, l’accertamento della ricorrenza del “trauma psichico” non deve essere oggetto di riscontro nosografico o peritale, potendo dedursi da un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali; e ciò in considerazione del fatto che l’evento è integrato anche da un semplice trauma temporaneo, anche non inquadrabile in una categoria predefinita. In tale ottica, assumono fondamentale rilievo “le dichiarazioni della stessa vittima del reato, i suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, avuto altresì riguardo tanto all’astratta idoneità della condotta a cagionare l’effetto destabilizzante in una persona comune, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui la stessa è stata consumata”. Viene, in conclusione, esclusa la necessità di dovere ricorrere ad un giudizio medico per accertare la sussistenza del trauma psichico poiché una siffatta soluzione porterebbe ad inaccettabili conseguenze nei casi, come quello di specie, in cui la vittima delle violenze o delle minacce deceda nelle more delle indagini, conseguentemente o meno alle condotte lesive perpetrate nei suoi confronti.
Nel rigettare le contestazioni mosse, la Corte ha fatto leva sul precario stato psicofisico in cui era stata rinvenuta la vittima al momento dell’intervento delle forze dell’ordine, a cui era stato per l’appunto ravvisato un trauma psichico riconducibile alla c.d. sindrome da evitamento[21], per tale intendendosi quella “modalità di pensiero che non consente ad un individuo di affrontare una situazione temuta”.
5. Sul concorso di persone nel reato di tortura
Ulteriore ed ultimo passaggio di rilievo affrontato dalla sentenza in commento attiene alla valutazione del contributo concorsuale nella realizzazione della fattispecie criminosa, atteso che tra i responsabili era stato, anche, indicato un soggetto che, oltre a sostenere di essere estraneo ai fatti, non era neanche membro della chat di gruppo tramite la quale venivano coordinate le spedizioni punitive e che la sua partecipazione si era limitata ad un unico episodio.
Sul punto, la Corte non ha esitato ad aderire alla teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo del concorso di persone nel reato non restringendo l’ambito applicativo dell’art. 110 c.p. alle sole ipotesi in cui il contributo concorsuale si pone in diretto rapporto causale con la realizzazione del reato. Ormai, infatti, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la configurabilità della fattispecie del concorso di persone deve necessariamente estendersi anche a quelle ipotesi in cui la condotta partecipativa realizzi un apprezzabile contributo, sia che esso si esplichi tramite il rafforzamento dell’intento criminoso o tramite l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti. La Corte ha sottolineato come in tali casi il partecipe aumenta comunque le possibilità di riuscita del reato, diminuendo il rischio di insuccesso. È sufficiente quindi che possa rinvenirsi una semplice agevolazione nella attuazione della condotta criminosa, non essendo necessario, affinché si configuri il concorso del partecipe, che il contributo concorsuale si ponga come condicio sine qua non del reato, richiedendosi solo una facilitazione della condotta delittuosa.
Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato che la consapevole adesione ai fatti di violenza e crudeltà contestati era stata correttamente dedotta dal giudice della cautela dalla partecipazione dei ricorrenti a più episodi tra quelli in contestazione e dalla adesione degli stessi alla chat di gruppo, all’interno della quale venivano inoltre scambiati i video delle loro “imprese”. Dai suddetti video non solo si evince l’attiva partecipazione degli indagati ma anche la spirale di disperazione in cui versava la vittima e ciò vale a dedurre, altresì, la consapevolezza degli indagati di inserirsi all’interno di una serie reiterata di condotte la cui ripetizione non ha fatto altro che rafforzare l’intento criminoso di ciascuno di loro.
Sempre sulla scia di un’interpretazione ampia dell’art. 110 c.p., e per ciò che più specificatamente concerne la posizione del ricorrente che asseriva di avere preso parte ad un unico episodio dei tre in contestazione, la Cassazione non ha ritenuto che tale circostanza vale ad escluderne la responsabilità concorsuale. In particolare, posta la natura solo eventualmente abituale del reato di tortura, la Corte ha osservato che anche questo unico apporto partecipativo presentava i caratteri dell’agire crudele poiché proprio durante detta scorribanda gli indagati si erano introdotti nell’abitazione della vittima, violentandola e violandone l’unico rifugio dal mondo. Non a caso, a seguito del suddetto episodio, l’uomo si era rinchiuso in casa fino all’arrivo delle forze dell’ordine. Pertanto, anche la partecipazione ad un unico episodio era sintomatica della adesione alla condotta di tortura, collaborando per il miglior esito dell’impresa criminale.
[1] Questo articolo è stato redatto con la collaborazione della Dott.ssa Marta Durante, tirocinante ex art. 73 D.P.R. 69/2013 presso la Procura di della Repubblica di Palermo.
[2] In particolare i ricorrenti lamentavano l’erronea valutazione degli indizi e l’inattendibilità delle fonti di prova dichiarativa – costituite dalle dichiarazioni confessorie di uno dei coindagati – non raffrontate con i contrastanti elementi provenienti dai video acquisiti ed analizzati dai consulenti tecnici e dagli investigatori.
[3] Da ultimo cfr. Corte EDU, sez. I, sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia; Corte EDU, sez. IV, sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia.
[4] Cass. Pen., sez. V, 27 aprile 2017, n. 28623. Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha confermando le condanne ex art. 612-bis c.p. inflitte a quattro ragazzi che, all'epoca dei fatti minorenni studenti di un istituto tecnico, avevano preso di mira, per due anni, un compagno di scuola, picchiandolo e insultandolo, a turno, fino a indurlo, dopo essere finito in ospedale, a lasciare la scuola per trasferirsi in Piemonte.
[5] L’art. 1 CAT così recita: << il termine “tortura” designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o si intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad essere inerenti o da esse provocate. 2. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia.>>.
[6] Ai sensi dell’art.3 CEDU "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti."
[7] Il testo integrale della lettera indirizzata dal Commissario per i diritti umani ai presidenti di Camera e Senato in data 21 giugno 2017 è reperibile sul sito del Consiglio d’Europa, all’indirizzo https://www.coe.int/it/web/commissioner/-/commissioner-muiznieks-urges-italian-parliament-to-adopt-a-law-on-torture-which-is-fully-compliant-with-international-human-rights-standards.
[8] Si specifica che tale ricostruzione è stata confermata dai giudici di legittimità che si sono pronunciati sui ricorsi presentati dagli altri due coindagati maggiorenni: cfr. Cass. Pen., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208. Così anche G. Fiandaca – E. Musco, Legge Orlando (disciplina penale). Il nuovo reato di tortura – Aggiornamento redazionale 2017, Zanichelli, Bologna, 15.
[9] Cfr. in proposito F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati. Parere reso nel corso dell'audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, pubblicato in www.dirittopenalecontemporaneo.it in data 25 settembre 2014; A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[10] Dossier n. 149/2 del 6 giugno 2017, Schede di lettura; dossier n. 285 del 21 giugno 2017, Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale.
[11] Cass. SS. UU., 26 giugno 2002, n. 26351.
[12] Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l'esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2, ove, da un lato, si afferma: «La condotta deve essere stata connotata da almeno uno dei seguenti elementi: violenze, minacce gravi, crudeltà»; dall'altro, si annovera fra i requisiti della fattispecie: «Il requisito della gravità delle violenze e delle minacce». Del resto negli stessi LL.PP. si legge in Dossier n. 285 del 21 giugno 2017, Elementi per la valutazione degli aspetti di legittimità costituzionale, p. 3: «si valuti se la locuzione utilizzata (“violenze o minacce gravi”) consenta di riferire univocamente la gravità anche alle violenze», che riprende le osservazioni formulate dalla Commissione Affari Costituzionali (in sede consultiva), il 22 giugno 2017, circa, in particolare, l'opportunità di chiarire.
[13] Invero, nella ricostruzione dell’impianto accusatorio i ricorrenti, consapevoli della debolezza psichica della loro vittima organizzavano tramite una chat di gruppo delle incursioni - principalmente in orario notturno - in cui aggredivano la loro vittima, ne violavano il domicilio o si appropriavano del suo denaro. Inoltre, come evidenziato dalla Corte, la gravità e la crudeltà dei fatti contestati non venivano meno anche di fronte alla incensuratezza ed alla giovane età degli indagati, i quali agivano senza alcuna motivazione, salvo quella di trarre piacere da azioni dirette ad infliggere sofferenza ad un essere umano approfittando del suo precario stato psico-fisico.
[14] P. Gori, Articolo 3 CEDU. Trattamenti inumani e degradanti, la giurisprudenza della Corte e il suo impatto sul diritto dei detenuti, in L'altro diritto, 2015.
[15] A.Menegatto-M.Zamperini, Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie, Mimesis, 2016, p. 57: «Per esempio il metodo delle ‘cinque tecniche' è costituito da forme di tortura a distanza che compromettono gravemente le capacità sensoriali, violentando l'udito, la vista, l'orientamento spazio-temporale. Le vittime sono lasciate per lunghe ore isolate in piccole celle, talvolta al buio, in silenzio, al freddo e senza indumenti. La reclusione può essere soggetta a una rotazione in vari luoghi, per impedire al prigioniero di sviluppare una certa famigliarità ambientale. Proprio l'ambiente è sottoposto a sistematiche manipolazioni: arbitraria alternanza di silenzio/rumore, con urla improvvise oppure musica ad alto volume; controllo della luce, anche facendo ricorso all'incappucciamento. L'equilibrio psico-fisico è intaccato alterando il ritmo sonno/veglia: il prigioniero è tenuto perennemente sveglio oppure ridestato improvvisamente agli inizi della fase REM, con musica o rumori lancinanti. La stress-position (essere costretti ad assumere per tempo prolungato determinate posture) provoca dolore acuto a muscoli e articolazioni. L'emozione–arma più usata è la paura, come nel tipico caso di annuncio di esecuzioni sommarie; note a tutti sono le vicende di Abu Ghraib, carcere dove i soldati nordamericani aizzavano cani senza museruola contro prigionieri adolescenti, scommettendo su chi per primo, dal terrore, avrebbe perso il controllo di vescica e sfinteri».
[16] A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[17] «L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
[18] Cass. Pen., Sez. V, 26 febbraio 2018, n. 20480. In senso parzialmente difforme Cass. Pen., Sez. III, 9 gennaio 2019, n. 733 ha ristretto l’applicazione dell’aggravante a quelle ipotesi in cui, oltre all’orario notturno, sia possibile dedurre ulteriori concrete limitazioni della capacità di difesa sia pubblica che privata.
[19] S. Preziosi, Il delitto di tortura fra codice e diritto sovranazionale, in Cassazione Penale, fasc. 4, 1 aprile 2019, pag. 1766.
[20] A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1 giugno 2019, pag. 811.
[21]Si precisa che la Cassazione fino a questo momento aveva preso in analisi la sindrome da evitamento quale elemento, tra gli altri, da cui dedurre l’incapacità di intendere e di volere dell’agente, e quindi la sua inimputabilità.
Uno sconosciuto deus ex machina
di Silvana Grasso
Dalla sua foto nell’ovale di maiolica sorride. Ha dieci anni Rossella e due trecce lunghe corrono come fiumi sul suo petto scarno, petto di bambina. Fiera delle sue trecce, nella foto in bianco e nero, tradita appena dalla vecchiaia della maiolica, sorride all’alea del futuro che non avrà. Il suo, incistato in un mite eterno presente, non subirà quelle rapine, quegli sfregi che reca con sé il futuro di chi il futuro lo vive, lo progetta, vi s’accampa, v’invecchia. Rossella è scampata al futuro, la sua lebbra non l’ha contagiata, da cent’anni vive nel catasto magico del presente, dove impossibile è invecchiare, trasfigurarsi, trasfigurare e per questo i suoi occhi per sempre avranno la luce della prim’alba sul mare. Non invecchierà Rossella e nemmeno gli altri ragazzi della sua età o poco più grandi, con cui da quasi cent’anni divide questo spicchio di cimitero, alla rampa tre, in cui fresie gelsomini giacinti gerani sbocciano tutto l’anno, concimati solo dalla pietà, innaffiati solo dal cielo, perché da tempo chi fiori vi portava è morto, di vecchiaia o di dolore, e la sua tomba è due rampe di scale sotto. Fiorisce e sboccia Natura a dispetto del tempo delle stagioni dello scirocco e persino di quella gelata che fa strazio di gemme e semi ovunque, ma non in quello spicchio di cimitero dove solo i ragazzi hanno avuto il pass, quasi un ostello della gioventù in cui condividere solo con altri ragazzi pane di semola con la marmellata di fichi fatta in casa, spremute di limoni e per dessert tanta allegria. Qui non entra Thanatos, qui, nel cimitero dei ragazzi, non detta le sue leggi e la sua Lex niente vale. Eppure per quella Lex Orfeo perse la sua amata e, sbranato e fatto a pezzi dalle femmine di Tracia che per dolore disdegnò, non smise mai d’invocarne l’amato nome Euridice Euridice. Fanno famiglia i ragazzi della rampa tre, che in vita non si conobbero mai, qualcuno è morto milite nella prima guerra mondiale, qualcuno nella seconda, da marinaio affondato assieme alla sua nave onorando la patria, come si legge sulla tomba vuota, che non consola la madre sua. Sorridono come Silvia, ragazzetta ignara delle parche, sorrideva in un giorno qualunque d’un maggio odoroso mentre Giacomo, che ragazzo non fu mai, trascinava la soma d’una vita senza vita, la zavorra di giorni mesi anni affanni e un illecito postdatato rimando di felicità. Sorridono come la ragazzetta Cretide “che tante favole sapeva e tanti bei giochi, compagna dolcissima e chiacchierina” (Antologia palatina, VII) sorrideva 2.300 anni fa. Solo nella miseria della Vita contano i giorni i mesi gli anni le ore, il veniale calcolo del tempo, nel feudo della Morte, jus naturale, conta solo l’infinito tempo del dolore della rimembranza della nostalgia, che non si sanano mai, ipoteche a vita sulla Vita. Non si guardano ma sono vicini, seppur in vialetti diversi, Rossella e Pietro, morti di malattia lo stesso anno, il 1924, solo che Pietro, morto a 15 anni, ha nella sua bella foto il viso austero di chi, adolescente, fa già sul serio. Rigenerati dalla pietà, alberi selvaggiamente cresciuti senza potatura custodiscono, numi tutelari, presenze di famiglia, i ragazzi che invece sono stati potati. Un alloro e una pomelia sono ormai tutt’uno, un albero nuovo sconosciuto alla botanica, quasi mimassero, per foglie e rami, un abbraccio di cuore e carne, ma forse questa è solo suggestione, la mia. Fa scudo alla tomba del ragazzo Pietro e, per un tratto, a quella accanto, e le due tombe vi restano quasi celate come una nave greca coi suoi tesori nei fondali del nostro mare di Sicilia, in un’eterna gravidanza aerea e liquida. Confina col cielo questo monstrum di natura, guerriero armato di giganti petunie rosse, confina col cielo, i suoi vuoti i suoi pieni, i suoi tramonti che non tramontano e, come il gigante del mito, Argo dai cento occhi, non li molla d’un istante i suoi ragazzi. Thanatos, fermo una rampa prima, non lui reclamare recidere contendere né dare ordini alle sue serve, le Parche, che grate lo ringraziano. Erinni materne e miti da furenti che furono, per ordine d’uno sconosciuto deus ex machina. Non è Atena quel deus che le sue furie le fece eumenidi, non è nemmeno Apollo che al matricida Oreste salvò la vita. E’ un cuore gigante di rami e fiori rossi, un cuore che non subisce infarti il deus ex machina, sconosciuto alle divinità d’Olimpo, alto quasi tre metri. La Natura gli ha dato forma di cuore, ma solo chi non ha fretta, chi guarda in alto, chi non teme il cielo, se ne accorge. Chissà quale furto di vento portò alla rampa tre i semi d’un alloro e una pomelia o quale rogatoria divina. Anche questo appartiene al segreto della Morte che supera il segreto della Vita, che giustizia invoca e sentenza d’assoluzione, che disperando dell’umano può solo confidare nel mito o nel divino. Osò Polissena, figlia di Priamo ed Ecuba, figlia di Troia gloriosa, osò anche Antigone, figlia d’Edipo, assolvere la Morte e quelle leggi d’Ade che “eguagliano tutti”(Antigone, Sofocle). Osò e morì, leggi divine onorando non leggi umane e transeunti né una tirannide “che poteva fare e dire qualunque cosa”(ibidem) né il pavido tiranno, Creonte, e i suoi proclami “fintanto che vivo io non sarà una femmina a comandare”(ibidem). Evertere dall’umano per il divino è esso stesso jus non scriptum, ma questo non importa ai ragazzi della rampa tre. Sono là, a due passi dal Vulcano, che da sempre legifera sulla stoltezza umana. Sono là, con le loro foto ingenue e sbiadite, nutriti di sole luna albe tramonti. Non hanno domande da fare, né aspettano un Edgard Lee Master nostrano che, pur bravo, ne vìoli la minima vita vissuta, il lungo trine dei sogni, l’avventura di quel domani che rimase foglio intonso d’un misterioso almanacco. Ricusano, come giudice infedele, anche un poeta, in buona o mala fede, comunque traditore di quel che furono, di quel che vissero, comunque contrabbandiere di menzogne spese come Arte. Ci pensano da sé a raccontarsi non come li raccontò la Vita, piccoli malati deboli ingenui e moribondi, ma come li racconta da cent’anni il miglior menestrello giocoliere trapezista clown, la Morte, siano morti soldatini in guerra, “esempio fulgido di patrio onore” o ragazzine morte di tubercolosi, cui la patria nulla chiedeva se non d’essere virtuose. E sono state virtuose Saretta, morta all’alba dell’otto dicembre, la madre disperata lo racconta sulla stele, quasi che Maria Immacolata fosse venuta a prenderla per mano la sua bimba e consegnarla immacolata a Dio Padre. La tomba racconta, la foto racconta, il dolore della madre racconta, non c’è spazio per interpretazioni suggestioni contaminazioni addizioni manipolazioni. Non c’è spazio per il troppo e il superfluo, qui detta legge l’essenziale, la Vita è logorroica, la morte no, qui detta legge il fatale: non si può derubricare il reato d’esistere.
Respingimenti illeciti e diritto d’asilo:è sufficiente il risarcimento in denaro? Nota a Trib. Roma 28.11.2019 n. 22917.
di Rita Russo
1.- Il fatto.
Un gruppo di cittadini eritrei in fuga dal proprio paese raggiunge la Libia e da qui si imbarca verso l’Italia. Il 30 giugno del 2009, a poche miglia da Lampedusa, ma ancora in acque internazionali, il motore dell’imbarcazione entra in avaria e una nave della Marina italiana provvede a soccorrere i naufraghi che, una volta a bordo, manifestano l’intenzione di chiedere asilo. Nonostante ciò e malgrado le loro proteste, il comandante della nave li consegna ad una nave libica che nel frattempo ha affiancato la nave italiana. Dopo un periodo di detenzione in Libia, i profughi, una volta liberati, si mettono nuovamente in viaggio, via terra, e giungono in Israele. Qui subiscono altri periodi di detenzione, e, una volta ritornati in libertà, nel timore di un ulteriore respingimento verso l’Eritrea, inoltrano una citazione contro lo Stato italiano, il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa e il Ministero degli affari esteri, chiedendo il risarcimento del danno per l’ingiusto respingimento ed anche di poter fare ingresso in Italia, al fine di inoltrare domanda di protezione internazionale.
Le amministrazioni convenute si difendono deducendo che il salvataggio è avvenuto in acque internazionali e che nessuno tra le persone soccorse ha fatto richiesta di protezione internazionale. Deducono inoltre che la consegna è avvenuta in esecuzione del Trattato di amicizia firmato con la Libia nel 2008.
La vicenda non è un caso isolato: alcune agenzie internazionali e tra queste anche Human Rights Watch e UNHCR denunciano che, nel corso del 2009, l’Italia avrebbe effettuato nove operazioni in alto mare, rinviando in Libia 834 persone di nazionalità somala, eritrea e nigeriana. Una di queste operazioni, avvenuta il 6 maggio 2009, di poco precedente a quella esaminata dal Tribunale romano, riguardava undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, che, raccolti in mare da navi italiane e consegnati alla autorità libiche senza alcuna preventiva identificazione, hanno presentato ricorso alla Corte EDU (primo ricorrente Hirsi Jamaa); la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per averli respinti collettivamente, senza neppure identificarli, verso un paese dove non erano protetti dai rimpatri arbitrari, poiché la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra[1].
Due diverse questioni sono quindi sul tappeto: la prima è la richiesta risarcitoria per la violazione del divieto di respingimento; la seconda è quella dell’accesso alle procedure per il riconoscimento del diritto di asilo.
2.- Il divieto di respingimento.
Il divieto di respingimento o non refoulement è enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, ma anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: “Le espulsioni collettive sono vietate. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La norma fonde ed armonizza i principi enunciati dalla Convenzione EDU rispettivamente nell’art. 4 prot. 4 (divieto di espulsioni collettive) e negli artt. 2 e 3 (diritto alla vita; divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). Nella nostra Costituzione questo divieto è connesso al disposto dell’art. 10 (diritto di asilo) ma ancora prima agli artt. 2 e 3, trattandosi della protezione di un diritto fondamentale dell’uomo, e in ultima analisi della tutela della sua dignità, fondamento stesso di tutti i diritti fondamentali[2].
Di recente, anche la Corte di giustizia dell’UE si è soffermata sul concetto di dignità, con particolare riferimento ai diritti dei migranti ed ha affermato che il divieto imposto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (proibizione di tortura e trattamenti degradanti, corrispondente all’art 3 CEDU) ha carattere generale ed assoluto ed è strettamente legato al rispetto della dignità umana. La Corte UE rileva che anche nei paesi dell’Unione possono darsi in concreto specifiche carenze sistematiche, generalizzate o che colpiscono gruppi determinati di persone (nella specie i migranti) e che raggiungono livelli di gravità tali da integrare trattamento degradante[3].
Nel diritto nazionale, il principio è recepito dall’art. 19 del D.lgs. 286/1998 il quale prevede che “in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. La norma è stata di recente ampliata e rafforzata con l’inserimento del comma I bis, aggiunto dall’art. 3 della legge 110/2017: “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Questa integrazione normativa allinea la legislazione nazionale ai principi della Carta di Nizza e alle sentenze rese dalla CGUE, e restringe il residuo margine di discrezionalità accordato in materia agli Stati membri; correlando infatti il divieto di respingimento alla tutela contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti lo si definisce in termini di inderogabilità[4]. Inoltre la norma contiene un interessante riferimento alla necessità di tenere conto delle “violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani” richiamando in sostanza, in un testo di diritto positivo interno, quella equivalenza, più volte predicata dalle Corti internazionali, tra la tortura e i trattamenti gravemente lesivi della dignità umana.
Si comprende quindi perché il divieto di respingimento è applicabile non soltanto ai rifugiati o ai richiedenti asilo, ma anche a coloro che non hanno avuto ancora la possibilità di fare domanda per ottenere lo status, ovvero non hanno intenzione di presentarla[5].
La norma deve essere rispettata anche in alto mare, giacché in tale zona gli Stati non sono esenti dai propri obblighi giuridici, ivi compresi quelli derivanti dal diritto internazionale[6]. Il divieto è rigoroso, e non va incontro ad eccezioni[7]; tuttavia non comporta l’obbligo per lo Stato di accogliere nel proprio territorio la persona, dal momento che lo Stato interessato può optare per la soluzione dell’avvio verso un paese terzo sicuro, cioè un paese dove il soggetto non corre il rischio di pena di morte, tortura o trattamenti degradanti o di un respingimento verso paesi ove è esposto a tale rischio.
In questo quadro normativo, rileva il giudice romano, gli obblighi derivanti da un eventuale accordo bilaterale sono recessivi: in ogni caso non pare potersi desumere dall’esame del “Trattato di amicizia” con la Libia, invocato dallo Stato a giustificazione della consegna, una espressa autorizzazione ad operare respingimenti verso questo paese. Del resto anche la Corte EDU, nella già citata sentenza Hirsi, sottolinea che le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso, da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti dalla Convenzione.
Ciò posto, la prima questione, anche in virtù della sostanziale assimilabilità con il caso Hirsi, non presenta particolari difficoltà in punto di diritto, trattandosi piuttosto di una questione di fatto: si deve accertare se le persone salvate in mare sono state respinte verso un paese dove vi è il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, e che lo Stato italiano fosse di ciò consapevole.
Dopo una articolata istruttoria, il Tribunale accerta che effettivamente il salvataggio è avvenuto in acque internazionali e che gli attori, una volta compreso che stavano per essere riconsegnati alle autorità libiche, hanno espresso la intenzione di chiedere la protezione internazionale, dichiarandosi rifugiati, esposti al rischio di persecuzioni e danni gravi nel loro paese di origine. In questa parte dell’istruttoria il giudice escute testimoni ed esamina documenti, seguendo le regole proprie del processo civile ordinario, quale è in effetti quello intentato dai cittadini eritrei. Si tratta infatti non già di una domanda di protezione internazionale, che segue il rito camerale speciale disegnato dal D.lgs. 25/2008 e dell’art. 737 c.p.c., ma di una ordinaria azione di risarcimento del danno. Anche la richiesta di ottenere l’ingresso in Italia per presentare la domanda di protezione interazionale segue il rito ordinario, in quanto presentata come domanda risarcitoria in forma specifica, e diretta, nella prospettazione degli attori, alla rimessione in pristino della situazione precedente alla condotta contestata. Il Tribunale la qualificherà come domanda di accertamento del diritto a chiedere la protezione internazionale, con il che, tuttavia, essa non perde la sua natura di azione di cognizione ordinaria.
L’istruttoria, dunque, inizia come di consueto, con la escussione dei testi e l’esame di documenti; ciò consente di accertare che gli attori sono effettivamente le persone salvate dalla nave italiana, che hanno manifestato a bordo la loro condizione di persone in fuga dalla persecuzione e la intenzione di richiedere asilo, e che, nonostante ciò, sono stati consegnati alla nave libica. I testi escussi riferiscono inoltre che in Libia gli attori sono stati incarcerati subendo torture.
A questo punto, tuttavia, manca un tassello, e cioè la prova che lo Stato italiano fosse -o poteva diligentemente essere- consapevole del rischio di trattamenti inumani e di rimpatrio forzato. Qui si verifica uno switch dell’istruttoria verso le regole proprie dei procedimenti di protezione internazionale e cioè il ricorso alle country of origin information (COI). Nella procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, infatti, vige la regola del dovere di cooperazione da parte del giudice e una specificazione di questa regola è la acquisizione d’ufficio delle COI, secondo quanto dispone l’art. 8 comma 3 del D.lgs. 25/2008[8]. Si utilizza dunque una regola prevista per un procedimento speciale, derogatoria del principio previsto dall’art. 2697 c.c., all’interno di un procedimento ordinario. La ratio della deroga è però la medesima: la condizione degli attori è quella di persone in fuga dal paese di origine, che hanno manifestato l’intenzione di richiedere asilo, e a cui si può richiedere che facciano ogni sforzo per circostanziare e documentare la domanda, ma non anche che possano dare prova nella loro interezza dei fatti politici, sociali ed economici del loro paese d’origine, dei paesi di transito e di rinvio e delle relazioni tra l’Italia e questi paesi.
In siffatti casi la Corte EDU tiene conto della situazione reale di persone in fuga, temendo per la loro salute o addirittura per la loro vita: non si può pretendere che tali persone abbiano con loro tutti i documenti e tutti i rapporti ufficiali per provare ogni dettaglio della loro storia. Così la Corte EDU fa riferimento – e a sua volta lo pretende dalle autorità interne – a rapporti ufficiali internazionali facilmente reperibili[9].
Il giudice romano osserva che al momento dei fatti erano già stati diffusi dei rapporti, realizzati da accreditate organizzazioni internazionali, nei quali venivano denunciate e condannate le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia, peraltro richiamati anche nella sentenza Hirsi. Pertanto le autorità italiane erano nelle condizioni di sapere che la Libia, Stato che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e nel quale non è previsto un sistema nazionale di asilo, non potesse considerarsi, all’epoca dei fatti di causa, approdo sicuro, con concreto rischio che i migranti venissero arrestati, sottoposti a violenze, nonché respinti verso l’Eritrea.
Accertato l’illecito, il risarcimento del danno non patrimoniale subìto, per il respingimento collettivo e per essere stati avviati ad un paese non sicuro, è liquidato in via equitativa in euro 15.000,00 ciascuno, in linea con le liquidazioni operate dalla Corte EDU nel caso Hirsi.
2.- La richiesta di protezione internazionale.
La questione più spinosa è tuttavia quella relativa alla richiesta di protezione internazionale.
Gli attori, questo è il dato che emerge dalla istruttoria, sono stati salvati in acque internazionali e già sulla nave hanno dichiarato la loro qualità di rifugiati e hanno espresso l’intenzione di richiedere asilo, deducendo che in Eritrea sono esposti a gravi persecuzioni.
Con l’atto di citazione chiedono una “restituzione in pristino” e cioè l’ingresso nel territorio italiano per presentare la domanda di protezione internazionale; il Tribunale ritiene però che non si tratti di un risarcimento del danno in forma specifica, quanto di accertare se i richiedenti asilo abbiano diritto a presentare allo Stato italiano la domanda di protezione internazionale pur trovandosi all’estero.
L’ingresso in Italia è considerato necessario dalla difesa perché, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 del D.lgs. 25/2008, la domanda deve essere presentata personalmente presso l'ufficio di polizia di frontiera all'atto dell'ingresso nel territorio nazionale o presso l'ufficio della questura competente in base al luogo di dimora del richiedente. La norma non prevede altre modalità di presentazione della domanda, presupponendo che il soggetto sia presente sul territorio nazionale e prenda contatto diretto con l’autorità. In tal senso anche l’art. 3 della Direttiva 2013/33/UE (La presente direttiva si applica a tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro) e l’art. 20 della Regolamento UE n.604/2013 (La procedura di determinazione dello Stato membro competente è avviata non appena una domanda di protezione internazionale è presentata per la prima volta in uno Stato membro) considerano la presenza sul territorio come presupposto di fatto della presentazione della domanda.
Di contro, essere a bordo di una nave italiana, per effetto di un salvataggio in acque internazionali, non significa, quantomeno ai fini che qui ci interessano, essere entrati in Italia, né essere automaticamente avviati all’ingresso nel territorio.
Come si è detto, lo Stato non ha obbligo di accoglimento perché potrebbe, senza violare il divieto di respingimento, avviare le persone soccorse verso un paese terzo sicuro, anche non appartenente alla UE, purché non si tratti di un paese ove si rischia il rimpatrio forzato[10]. Le persone salvate in acque internazionali, nel momento in cui salgono su una nave italiana non maturano il diritto all’ingresso sul territorio italiano, ma allo sbarco in luogo sicuro[11]; hanno quindi diritto a non subire respingimento. Della tutela di questi diritti assume la responsabilità lo Stato che ha prestato i soccorsi, tanto che, come si è visto nel caso Hirsi, può essere condannato se non rispetta queste regole.
Il divieto di respingimento, per quanto connesso con il diritto di asilo, copre un area parzialmente diversa di tutela dei diritti umani e in certo qual modo più vasta: ne possono fruire ad esempio anche coloro che non hanno diritto né al riconoscimento dello status di rifugiato, né alla protezione sussidiaria perché attinti da una delle cause di esclusione di cui agli artt. 10 e 16 del D.lgs. 251/2007[12]. L’art. 32 comma 3 del D.lgs. 25/2005, nel testo riformato dal D.L. 113/2018 dispone infatti che “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all’articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura “protezione speciale” salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga”. In precedenza, il DPR n. 394/1999 consentiva in questi casi un rilascio di soggiorno per motivi umanitari.
La Corte EDU, inoltre, ha più volte precisato che la finalità del divieto di espulsioni collettive è quella di prevenire la possibilità che si verifichino espulsioni di stranieri sulla base della loro mera appartenenza ad un gruppo e senza la necessaria attenzione per le peculiarità del caso concreto, e che ciò può avvenire anche nel caso di persone che non hanno interesse a presentare domanda di protezione internazionale, ma a cui deve essere data la possibilità reale ed effettiva di far valere gli argomenti contrari all’espulsione, e che questi siano esaminati in modo adeguato dalle autorità[13]. Analogamente, l’art. 4 comma 3 del Reg. UE 656/201 dispone che, durante una operazione di soccorso, prima che le persone siano sbarcate si deve informarle della loro destinazione in un modo per loro comprensibile e dar loro l’opportunità di esprimere le eventuali ragioni per cui ritengono che uno sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non respingimento.
Si è visto che la violazione del divieto di respingimento comporta delle conseguenze patrimoniali, ma da essa discende anche il diritto all’ingresso nel territorio dello Stato?
Prima di esaminare la risposta data dal Tribunale di Roma è bene rammentare una particolarità del caso di specie e cioè che gli attori prima di essere consegnati alle autorità libiche hanno dichiarato la loro qualità di rifugiati ed espresso la loro intenzione di presentare domanda di protezione internazionale, e ciò è stato impedito dal respingimento.
Se avessero reso questa dichiarazione in territorio nazionale, alla frontiera ovvero in acque territoriali, ciò avrebbe avviato le procedure per la verifica e il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale.
Il diritto alla protezione internazionale comprende, infatti, anche il diritto ad essere informato sulle relative procedure e ad essere agevolato nella presentazione delle domande di asilo (Direttiva 2013/32/UE) dalle persone che per prime entrano a contratto con lo straniero o con l’apolide presente sul territorio, alla frontiera o in acque nazionali. La stessa Direttiva prevede, al considerando 27, che “i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che hanno espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale sono richiedenti protezione internazionale” e che “gli Stati membri dovrebbero registrare il fatto che tali persone sono richiedenti protezione internazionale” pur se l’art 6 par. 3 prevede che “gli Stati membri possono esigere che le domande di protezione internazionale siano introdotte personalmente e/o in un luogo designato”. Di conseguenza, l’art. 2 del D.lgs. 142/2015, sulle procedure di accoglienza, attuativo delle Direttive 2013/33/UE e 2013/32/UE, dichiara che richiedente asilo non è soltanto la persona che ha presentato la domanda, ma anche colui che ha manifestato questa intenzione. Ma ancor prima che queste Direttive fossero recepite dalla legislazione nazionale, la Corte di Cassazione ha ritenuto che sussistendo anche la semplice “indicazione” che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire loro informazioni sulla possibilità di farlo, e di agevolare l'accesso alla procedura di asilo[14]. In questa sentenza è importante il riferimento, oltre che alle Direttive in parola anche a quanto osservato dalla Corte EDU nel caso Hirsi: « la mancanza di informazioni costituisce uno dei principali ostacoli all'accesso alle procedure d'asilo. Ribadisce quindi l'importanza di garantire alle persone interessate da una misura di allontanamento, le cui conseguenze sono potenzialmente irreversibili, il diritto di ottenere informazioni sufficienti a consentire loro di avere un accesso effettivo alle procedure e di sostenere i loro ricorsi».
Si può quindi affermare che oggi si è raggiunto, tramite questi arresti giurisprudenziali e la correlativa apertura legislativa, un punto fermo: manifestare, in territorio nazionale o alla frontiera, l’intenzione di richiedere la protezione internazionale pone il soggetto nella stessa posizione di chi ha presentato formalmente la domanda; egli deve considerarsi un richiedente asilo e quindi ha diritto alla collaborazione dello Stato per l’accesso alle procedure di riconoscimento. Non a caso, la giurisprudenza di merito ha spesso tutelato in via d’urgenza il diritto alla ricezione della domanda di protezione, escludendo che le questure o altre autorità ammnistrative possano sottoporla a vaglio preliminare di ammissibilità ovvero subordinarla a condizioni[15].
Ponendo questi principi in relazione con il divieto di respingimento, e tenendo presenti le responsabilità che assume il soggetto soccorritore, ne consegue che se la richiesta di asilo è fatta, sia pure con una semplice dichiarazione, fuori dal territorio nazionale ma a un soccorritore tenuto al rispetto degli obblighi internazionali, quest’ultimo dovrebbe assicurarsi che la richiesta informale possa trasformarsi in un ricorso effettivo, nel proprio territorio o avviando i profughi verso uno Stato che tutela il diritto di asilo.
Riproponiamo adesso la domanda di cui sopra, specificandola meglio: quid iuris se, manifestata l’intenzione di chiedere asilo ad una autorità che ha la scelta tra accogliere nel proprio territorio i profughi o avviarli in un paese sicuro, ove parimenti i profughi possono fare valere i diritti connessi alla loro condizione, l’autorità vanifica questo diritto operando un illecito respingimento?
Il Tribunale di Roma risolve la questione facendo diretta applicazione dell’art.10 comma 3 della Costituzione: riconosce ed accerta il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, ma rimette alla competente autorità amministrativa nell’ambito della propria discrezionalità il compito di individuare “le forme” per attuare questo diritto.
Il giudice richiama, nella motivazione della sentenza, la corrente interpretazione, data dalla Corte di Cassazione ma anche dalle Corti sovranazionali, per la quale il diritto alla protezione internazionale è un diritto “pieno e perfetto”; il procedimento non incide sull’insorgenza del diritto ma serve ad accertarlo e riconoscerlo come diritto fondamentale ad esso preesistente[16]. Il riconoscimento dello status di rifugiato, come prevede il considerando 21 della Direttiva 2011/95/UE, è un atto ricognitivo e la qualità di persona avente diritto alla protezione e non dipende dal riconoscimento [17].
Rese queste premesse, il giudice romano osserva che qualora un richiedente protezione internazionale non possa presentare la relativa domanda, in quanto non presente sul territorio italiano per circostanze allo stesso non imputabili ed anzi riconducibili ad un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, sarebbe in contrasto con l’art. 10 comma 3 Cost. limitare il suo diritto a richiedere protezione. Si configurerebbe in questi casi un vuoto di tutela inammissibile, in un sistema che, a più livelli, riconosce e garantisce il diritto di asilo nelle diverse declinazioni volte a tutelare (anche) la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione di principi costituzionali e della Carta dei Diritti dell’Unione Europea.
La diretta applicazione dell’art. 10 della Costituzione non è una novità nel panorama della giurisprudenza italiana. Prima ancora della piena attuazione delle direttive europee in materia di protezione internazionale, poiché l’attribuzione dello status di rifugiato si riteneva non esaustiva rispetto alle molteplici esigenze di tutela, era data attuazione diretta all’asilo costituzionale, configurato dalla giurisprudenza come un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento»[18]. Le sezioni unite della Corte di Cassazione avevano così affermato il carattere precettivo e l'immediata operatività dalla norma costituzionale in quanto essa, seppure necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo, individuando nell'impedimento all'esercizio delle libertà democratiche la causa di giustificazione del diritto medesimo e indicando l'effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata[19].
Il successivo recepimento delle direttive europee, tuttavia, e la emanazione di una legislazione di dettaglio che ha previsto anche, quali misure complementari al riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria, ha portato la giurisprudenza ad affermare che, una volta resa esaustiva la tutela normativa, non sussiste più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui al citato art.10[20]. Sembrava così raggiunto un punto fermo, con il definitivo abbandono della tesi della applicazione diretta del diritto di asilo, ma le recenti riforme legislative, ed in particolare il c.d. decreto sicurezza (D.L. 113/2018) con la abrogazione legislativa della misura della protezione umanitaria, atipica e di chiusura del sistema, hanno riaperto il dibattito e portato giurisprudenza e dottrina ad esplorare nuovamente questo territorio[21]. L’operazione nasce per neutralizzare gli effetti della forzata tipizzazione del sistema di tutela, ed anche per evitare ingiustificate disparità di trattamento, dal momento che il fatto costitutivo del diritto del richiedente non è la domanda, né il provvedimento dell’autorità, bensì il verificarsi delle condizioni del diritto al permesso di soggiorno[22]; la tesi però ruota su un concetto di carattere generale e cioè che l’incompletezza del quadro normativo lascia spazio alla tutela realizzata mediante una diretta applicazione della norma costituzionale.
In altre parole, il sistema patisce l’horror vacui, e se non si riesce a proteggere un diritto fondamentale a rilevanza costituzionale tramite una norma di diritto positivo, si ricorre alla diretta applicazione della norma costituzionale che salvaguarda quel bene della vita.
Anche il caso odierno ci mette di fronte ad un vuoto di regolazione normativa, perché non è espressamente previsto quale sorte debba avere la richiesta di protezione internazionale non inoltrata a causa di un comportamento illecito dell’autorità, se il soggetto non è presente sul territorio nazionale per effetto di questa condotta illecita.
Da qui il richiamo al diritto costituzionale d’asilo inteso non come forma di protezione riconosciuta ed applicata direttamente alla persona, ma declinato nei termini di diritto di ingresso nello Stato italiano al fine di accedere alla procedura di riconoscimento, e quindi condizionato dal successivo riconoscimento del diritto, come peraltro affermato, in passato, dalla Corte di Cassazione, in una sentenza citata dallo stesso Tribunale: “in assenza di una legge organica sull'asilo politico (che ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e concessione), attuativa del dettato costituzionale, può affermarsi che il diritto di asilo deve intendersi non tanto come un diritto all'ingresso nel territorio dello Stato, quanto piuttosto, e anzitutto, come il diritto dello straniero di accedervi al fine di essere annesso alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico”[23]. Deve però notarsi che la sentenza della Cassazione richiamata ha la sua peculiare ragion d’essere in un contesto storico in cui la giurisprudenza si sforzava di adeguare il sistema alle regole sovranazionali non interamente recepite ed attuate e non sembra che possa utilizzarsi per predicare una generalizzato obbligo di accoglimento o di ingresso, né è in questi termini utilizzata dal Tribunale romano, che individua un rimedio alle conseguenze di un illecito, per neutralizzarne gli effetti demolitori del diritto di asilo, pur precisando che il diritto di ingresso non è un risarcimento in forma specifica e cioè una sorta di rimessione in pristino stato, come la difesa delle parti lo qualifica.
Si nota qui la cura di delimitare l’ambito di operatività del decisum, nei termini rigorosi delle conseguenze dell’accertamento di un atto illecito, impeditivo dell’effettivo esercizio del diritto; sarebbe quindi erroneo interpretare la sentenza come riconoscimento di un illimitato diritto di accesso al territorio dello Stato italiano esteso a tutti coloro che, ovunque si trovano, versino in una condizione di fatto idonea a fondare la domanda di protezione internazionale.
Sono possibili ulteriori considerazioni.
Nella fattispecie è stato violato anche (forse in primo luogo) il diritto ad un ricorso effettivo (art. 6 e 13 CEDU), o, per dirla con le parole dell’art 24 della Costituzione, il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e ciò a causa del comportamento di soggetti che erano invece tenuti alla cooperazione, nella consapevolezza che i naufraghi avevano manifestato l’intenzione di chiedere la protezione[24]. Nella sentenza in esame è infatti sottesa la considerazione che, senza (l’illegittimo) respingimento, i cittadini eritrei, secondo l’id quod plerumque accidit, avrebbero varcato la frontiera dello Stato italiano o di un altro Stato ove avrebbero potuto presentare la domanda di asilo e non solo manifestare l’intenzione. Più probabilmente, la frontiera dello Stato italiano: non sembra infatti prospettata l’ipotesi che, in alternativa alla consegna alla Libia, gli attori avrebbero potuto essere indirizzati in un pase terzo sicuro.
Immaginiamo ora che lo straniero presente alla frontiera, o dopo avere varcato il confine, manifesti verbalmente la intenzione di chiedere asilo alla autorità competente e nonostante questo venga respinto: la sua istanza non dovrebbe essere considerata validamente formulata e quindi avviate le procedure per formalizzare la richiesta e portarla all’esame del giudicante? Ove si consideri ciò che oggi dispone il D.lgs. 142/2015 la risposta non può che essere positiva; nello stesso momento in cui ha manifestato l’intenzione, il cittadino straniero ha maturato il diritto all’esame individuale della sua domanda, che deve essere verbalizzata e inoltrata, e alle procedure di accoglienza (art 2,3,4, del D.lgs. 142/2015; art. 26 D.lgs. 25/2008). Ma, se illecitamente respinto dopo l’ingresso, come potrebbe il cittadino straniero far valere, oltre confine, il suo diritto al completamento delle procedure di accoglienza ingiustamente negate? Potrebbe invero richiedere il risarcimento del danno con una ordinaria citazione, ma per insistere nella domanda di asilo, posto che la procedura non prevede un accesso diretto al giudice, non avrebbe altra scelta che rivolgersi alla autorità nazionali per via indiretta, e cioè inoltrando una istanza a mezzo posta o presentandosi alla rappresentanza diplomatica, non diversamente da quanto avviene avviene per il soggetto che, trovandosi all’estero, intende impugnare le decisioni della Commissione territoriale, ai sensi dell’art. 35 bis comma 2 del D.lgs. 25/2008.
Tornando quindi al caso che ci riguarda, è vero che in ipotesi del soccorso in alto mare lo straniero non ha ancora varcato la frontiera, ma è indubbio che l’illecito respingimento ha impedito di conseguire il risultato utile e cioè l’accesso ad un equo processo in un paese che riconosce il diritto di asilo.
Se così è, si potrebbe dire che il risultato utile e cioè la tutela del diritto violato potrebbe perseguirsi anche tramite una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata, -non solo dall’art. 10 ma anche dagli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nonché delle norme sovranazionali prima richiamate- degli artt. 6, 26 e 35 bis del D.lgs. 25/2008, ritenendo che la domanda di protezione possa presentarsi anche per posta o tramite la rappresentanza diplomatica, se la sua regolare presentazione è stata impedita, dopo la chiara manifestazione della volontà di chiedere asilo, da un illecito respingimento.
Questo peraltro consentirebbe alla autorità amministrativa di non fare entrare lo straniero nel territorio dello Stato prima della presentazione della domanda. Non è da escludere infatti che, nonostante l’ampio il margine di discrezionalità che la sentenza romana accorda alla autorità amministrativa competente sulla attuazione della tutela, possano crearsi delle difficoltà per questo ingresso anticipato nello Stato italiano. Ritenendo regolare e accettando una domanda presentata tramite rappresentanza diplomatica, o per posta, sempre sul presupposto che sia prima accertato l’illecito respingimento, e che alle sue conseguenze non sia stato altrimenti posto rimedio (ad esempio con la successiva accoglienza in un paese sicuro), si posticiperebbe l’ingresso nello Stato italiano, subordinandolo alla effettiva presentazione della domanda, a seguito della quale può rilasciarsi il permesso di soggiorno per richiesta di asilo.
[1] Corte EDU, Grande Camera, Hirsi Jamaa e altri c. Italia (ricorso n. 27765/09) 23.2.2012
[2] RUGGERI, Appunti per uno studio sulla dignità̀ dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in Rivista AIC 2011,1
[3] CGUE, sentt. del 19.3.2019, nelle cause C-163/17 e C-297/17 e altre.
[4] Si veda la storica sentenza della Corte EDU 10 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito,
“il divieto è assoluto e, secondo il diritto internazionale, non può esserci alcuna giustificazione per azioni contrarie alle disposizioni che proibiscono la tortura o altri trattamenti inumani”. Si vedano anche, Corte EDU, 11 luglio 2000, Jabari c. Turchia, causa n. 40035/98; 5 maggio 2009, Sellem c. Italia, causa n. 12584/08; 24 marzo 2009, O. c. Italy, causa n. 37257/06; 24 febbraio 2009, Ben Khemais c. Italia, causa n. 246/07; 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, causa n. 37201/06.
[5] Corte EDU, 21 ottobre 2014, Sharifi and Others v. Italy and Greece.
[6] Si veda il Reg. (UE) n. 656/2014, e in particolare i considerando 8, 12, 13,
[7] CGUE grande sezione, cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, 14 maggio 2019.
[8]Cass. Sez. un 27310/2008; Cass. Sez. VI 17929/2016; Cass. Sez. I 29056/2019
[9] V. A. De Gaetano Immigrazione e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo: Breve panoramica della giurisprudenza della CEDU, relazione al seminario Il diritto dell’immigrazione nella giurisprudenza delle Corti europee., Roma, Corte di Cassazione 14 aprile 2016, http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/RELAZIONE_DE_GAETANO_1.pdf
[10] Corte EDU, Hirsi c. Italia cit.
[11] Convenzione SAR di Amburgo, 27 aprile 1979 ratificata con legge 3 aprile 1989 1n. 47
[12] Cass. civ sez. I, n. 5358/2019
[13] Si veda Corte EDU Grande Camera, 15.12. 2016, Khlaifia e altri c. Italia
[14]Cass. civ. sez. VI n. 5926/2015 e Cass. civ. sez. VI n. 10743/2017
[15] Trib. Trieste 22.6.2018, in Questione Giustizia 5.9.2018; Trib. Roma 25.11.2019, in www.meltingpot.org
[16] Cass. Sez.. Un. n. 29460/2019
[17] CGUE, Grande sezione, 14.5.2019, cause C- 391/16, C.77/17 e C-78/18
[18] Cass. civ. sez. un. n. 4674/1997; Cass. civ. n. 10686/2012.
[19] Cass. Sez. un. N. 907/1999
[20] Cass. civ. n. 10686/2012.
[21] BENVENUTI in Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri, in Dir., Imm., Citt. 1/2019, parla di un possibile “grande ritorno” nelle aule giudiziarie del diritto di asilo costituzionale.
[22] C.M. BIANCA La legge non dispone che per l’avvenire, cit.
[23] Cass. civ. n. 25028/2005
[24] Il diritto di agire in giudizio implica che i tribunali devono essere accessibili e le persone non devono essere ostacolate nelle loro richieste; v. Corte EDU, Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975, ove la Corte ha precisato che il diritto ad un equo processo implica il diritto di accesso alla giustizia. Nella specie si trattava di un detenuto cui era stato negato un colloquio con un avvocato dopo avere manifestato l’intenzione di intentare causa nei confronti di un funzionario dei servizi penitenziari.
Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici
di Davide Galliani e Lello Magi*
1. La Corte cost., con sent. 23 ottobre 2019, n. 253, ha dichiarato incostituzionale la presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto che, potendolo fare, non collabora con la giustizia. Da questa presunzione assoluta derivava l’impossibilità di accedere ad ogni benefico penitenziario (e quindi al permesso premio, oggetto della pronuncia) e ad ogni misura alternativa alla detenzione (come l’affidamento in prova, la semilibertà e la liberazione condizionale, non toccate dalla decisione). Altro non rimaneva al detenuto, se non il differimento della pena per infermità fisica e, dopo la sent. 99/2019 della stessa Corte, anche per grave infermità psichica (e della grazia da parte del Capo dello Stato non serve dare conto)[1].
2. La sentenza contiene nel dispositivo anche una parte additiva: la relativizzazione della presunzione comporta la necessità di acquisire elementi tali da escludere, non solo l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino. Prima di radiografare la sentenza sia consentita qualche considerazione introduttiva.
Da un lato, almeno per chi conosce la materia, non si è alle prese con una sentenza rivoluzionaria. Magari per alcuni inattesa, ma non un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, in riferimento alle presunzioni assolute, l’orientamento della Consulta è stato chiarissimo. La decisione individualizzata, caso per caso, affidata al giudice, è la pietra costituzionale intorno alla quale la Corte è intervenuta per smontare le presunzioni assolute e valorizzare l’obbligo di motivazione. Il giudice costituzionale interviene a difesa del ruolo del giudice e della sua attitudine a inverare la ragionevolezza e la proporzionalità degli interventi limitativi dei diritti di libertà, a dispetto di un legislatore che, con le presunzioni assolute, ne paralizza il mestiere[2].
Dall’altro lato, nessuna rivoluzione anche perché la pronuncia non è una monade isolata. È solo per questioni temporali che le due ordinanze di remissione, della Cassazione (caso Cannizzaro) e del Tribunale di sorveglianza di Perugia (caso Pavone), non hanno utilizzato il parametro di cui all’art. 117, I c., Cost.: la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte di Strasburgo è stata depositata il 13 giugno 2019, troppo tardi per le due ordinanze, rispettivamente, del 20 novembre 2018 e del 28 maggio 2019. Ed anche se divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, prima dell’udienza pubblica della Corte costituzionale (22 ottobre 2019), la sentenza della Corte di Strasburgo non poteva avere un ruolo dei più rilevanti: non tanto per il differente punto di partenza, la liberazione condizionale e non il permesso premio, quanto (appunto) per la mancanza, negli atti di promovimento, del parametro costituzionale di cui all’art. 117, I c., Cost.[3].
Questo tuttavia non significa che la Consulta sia stata indifferente alla sentenza Viola, anzi, in alcuni passaggi motivazionali della n. 253 chiunque può scorgere riflessioni molto simili a quelle sviluppate a Strasburgo, pur nell’ambito di un percorso argomentativo che – già in premessa e quasi a tacitare le ricorrenti manifestazioni di dissenso basate sul mero comunicato stampa – esclude che l’oggetto del giudizio ricomprenda – in quanto tale – la legittimità costituzionale del cd. ergastolo ostativo e sottolinea come del solo permesso premio “si fa questione”[4].
3. Vediamo i quattro più importanti passaggi a fondamento della sentenza. In primo luogo, dietro il ridimensionamento della portata della presunzione di pericolosità (non più superabile solo attraverso la scelta collaborativa, dunque non più assoluta in assenza della medesima) si coglie una nettissima differenziazione tra opzioni di politica investigativa e finalismo del trattamento penitenziario. Parole taglienti: se correlato alla centralità della scelta collaborativa il regime ostativo “prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario” (§ 8.1, II cpv., cons. dir.). La detenzione non ha questo scopo. Il legislatore può premiare una scelta collaborativa del detenuto, mentre non è consentita la “inflizione” (§ 8.1, V cpv.) di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante. Un concetto che taglia la testa ad ogni pretesa vetero-retribuzionista, spalancando le porte alla ragionevolezza, unico moderno portato – costituzionalmente ammissibile – della retribuzione: la gravità della pena deve essere proporzionale alla gravità del reato, pertanto, in fase di esecuzione, non può esistere una ulteriore “afflizione” per via di una scelta, quella di non collaborare, che non può porsi come antecedente fattuale di un trattamento peggiorativo ricollegato ad una presunzione, non altrimenti vincibile, di pericolosità. La scelta di non collaborare non può – di per sé – rappresentare il presupposto di un trattamento deteriore, proprio in ragione del fatto che non può imporsi al detenuto quello “scambio” avente finalità diverse (progressione investigativa) rispetto a quelle strettamente e costituzionalmente trattamentali.
3.1. Questo il secondo passaggio da evidenziare. Non un vero e proprio diritto al silenzio, che riguarda il processo, ma di certo la libertà di non collaborare, che deve essere riconosciuta in fase di esecuzione, senza alcuna distinzione. Ti premio se collabori, ma non ti posso sanzionare (rectius: affliggere) se non lo fai[5].
3.3. In terzo luogo, restando agli esiti, la Corte – ferma restando la sottolineatura della riferibilità della pronunzia alla sola frazione del trattamento rappresentata dal permesso premio – ha gioco facile nel dichiarare l’illegittimità costituzionale consequenziale, estendendo gli effetti della pronuncia dalla partecipazione/agevolazione alle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p. a tutti i reati previsti nel I c. dell’art. 4 bis o.p. Stiamo sempre parlando di richiesta di permesso, non di meno non sarebbe stato sostenibile abbattere la presunzione assoluta di pericolosità sociale per la partecipazione/agevolazione mafiosa e mantenerla in piedi ad es. per il peculato. La Corte non le manda a dire: se non intervenisse con una ablazione generalizzata si avrebbe una “paradossale disparità”, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali “possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza” (§ 12, VI cpv.). Parole cristalline: nell’elenco del I c. dell’art. 4 bis o.p. (che, secondo la Corte, è frutto di scelte di politica criminale “non sempre tra loro coordinate”) vi sono reati per i quali la collaborazione “è priva di giustificazione” per accedere ai benefici e non vi è niente da dimostrare riguardo all’attualità dei collegamenti…dato che il sodalizio non è mai esistito. Si colgono evidenti segnali di critica verso la eterogeneità dei reati raggruppati all’interno della disposizione di legge[6].
3.4. Infine, in quarto luogo. In tutta la motivazione della sentenza si ragiona solo di due funzioni della pena, entrambe speciali, una positiva, la risocializzazione, una negativa, prevenire la commissione di nuovi reati. Anche in questo caso, si percorre un sentiero già tracciato in precedenza, in particolare, anche se con toni più vistosi, nella 149/2018. Nella sentenza qui in commento ci si spinge a sostenere “il carattere necessario alla luce della Costituzione” (§ 9, XI cpv.) della funzione di prevenzione speciale negativa. Non vi è nulla sul punto da obiettare, se non qualche appunto rispetto alle conseguenze che la stessa Corte ne fa derivare.
4. Come abbiamo detto in apertura, la Corte dichiara sì incostituzionale – per come strutturata – la presunzione assoluta di pericolosità sociale oggetto di scrutinio, ma in motivazione (nell’intero § 9) e nel dispositivo scende in modo creativo sul terreno delle regole probatorie, finendo con il sostituire al precedente statuto regolativo – di cui afferma la contrarietà ai principi evocati dai giudici remittenti – un diverso criterio di ripartizione e, per il vero, di particolare peso dell’onere probatorio gravante sull’aspirante al permesso. La premessa logica di tale intervento additivo è chiara: non si nega la validità, sul piano delle massime di esperienza, di una presunzione semplice, correlata alla dimensione storico-sociologica del fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, tale qui da legittimare, sul fronte della attualità della pericolosità, una inversione delle ordinarie dinamiche dimostrative che porti alla acquisizione, a fini di superamento di detta presunzione, di “congrui e specifici elementi”[7]. Si richiede, al contempo, che la valutazione del giudice tenga conto delle possibili evoluzioni della personalità del soggetto ristretto, in ciò valorizzando non solo il percorso individuale e le eventuali mutazioni degli scenari esterni, ma soprattutto un fattore per nulla estraneo alle precedenti pronunzie della Corte sul tema generale della pericolosità: il tempo trascorso[8]. Rispetto a tale profilo la coerenza è massima: dato che in discussione vi è la partecipazione all’associazione mafiosa (da qui parte la Corte, “assorbendo” l’agevolazione); dato che, per valutare il superamento di ciò che resta una presunzione relativa, ossia l’attualità dei collegamenti, vi devono essere criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio; ebbene, dato questo, la Corte introduce un ulteriore criterio, oltre alla verifica della non attualità dei collegamenti, prevista sin dall’introduzione del regime ostativo.
Un nuovo necessario criterio, dice la Corte, perché derivante dalla Costituzione, che consiste nella necessaria esclusione – a fini concessori – del pericolo di ripristino dei collegamenti “tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Difficile non avvertire, sul punto, una qualche perplessità. Il giudice costituzionale indossa le vesti del legislatore, peraltro come se intendesse anticiparne eventuali interventi. Ma, al di là di tale – pur significativo – aspetto, ci si chiede quale sia la dimensione effettuale e concreta di simile peripezia probatoria, che tende a differenziare la prova di un “fatto” (presenza o meno di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata) dalla prova negativa (inesistenza) di un semplice pericolo. Evidente che, in tale dimensione, non soltanto si inverte legittimamente – sulla base della presunzione relativa – la dinamica probatoria (con onere di allegazione gravante sull’aspirante), ma si innova l’oggetto della prova, ossia la proposizione da provare. La modifica non è di poco momento, sia per il suo oggetto sia per l’ambito ove si colloca. Se è vero che ci si trova – pur sempre – nel campo delle valutazioni di pericolosità soggettiva (il permesso si nega per questo e la attualità dei collegamenti è antecedente logico di una perdurante pericolosità), è anche vero che siamo già nell’ambito di un giudizio prognostico che – per logica comune – contiene margini di preoccupante soggettivismo, ove non rigidamente basato sull’analisi delle pregresse condotte della persona, cui si unisce la considerazione dei possibili mutamenti (interni e di contesto) intervenuti medio tempore[9]. In simile scenario, la Corte tende a valorizzare, in chiave di rafforzamento della presunzione, il contenuto delle informazioni ricevute dalle autorità competenti affermando che, se le informazioni pervenute, in specie dal comitato ordine e sicurezza pubblica, depongono in senso negativo allora “incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno” (così si chiude il § 9). Non si tratta, dunque, esclusivamente di una diversa ripartizione dei pesi dimostrativi figlia della presunzione, quanto dell’adozione di un criterio dimostrativo che sembra ricollegare alla concessione del “semplice permesso” la constatazione (in funzione di riequilibrio della assenza di scelta collaborativa) da parte del giudice di un mutamento profondo della persona e del contesto, tale da escludere anche un semplice pericolo di riattivazione di contatti orientati alla manifestazione di pericolosità.
Probabilmente, non resta che attendere il diritto vivente e la elaborazione collettiva di canoni dimostrativi compatibili con la logica dimostrativa di fatti, anche se assunti quali meri indicatori del richiamato pericolo. Formuliamo solo due auspici. In primo luogo, l’adozione di forme procedimentali (e ritocchi ordinamentali) che, data la necessaria ampiezza delle attività cognitive da svolgersi, siano rispettosi del contraddittorio sulle particolari fonti informative valorizzate nella decisione della Corte. In secondo luogo, va detto che andrebbe meditata, in simile contesto, l’estensione di regole o principi che, tipici della cognizione, hanno una così sicura copertura costituzionale che meriterebbero di essere utilizzati anche altrove, appunto in sorveglianza, nei momenti cognitivi da cui dipenda il mantenimento di una forma di afflizione aggiuntiva. Non è certo estranea al tema dei giudizi di pericolosità, pur se governati da presunzioni relative, la necessità di andare oltre formule stereotipate, con apprezzamento in concreto del portato probatorio di elementi di fatto, lì dove ciò incida sulle aspirazioni al godimento di frammenti di libertà, il che rimanda a principi generali della valutazione della prova, sia pure modellati sul particolare oggetto da provare.
* Il testo rappresenta il frutto del dialogo che da molto tempo intercorre tra i due autori, senza possibilità di scinderne la responsabilità, che pertanto va attribuita ad entrambi. Una versione ridotta di questo scritto è in corso di pubblicazione per Quaderni Costituzionali.
[1] Il riferimento alla liberazione condizionale – che non è misura alternativa alla detenzione ma causa di estinzione della pena – è qui operato sul piano esclusivamente funzionale, ben consapevoli del fatto che il regime della ostatività deriva – in tal caso – da autonoma previsione di legge (l’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991) che estende a tale istituto lo statuto particolare di cui all’art. 4 bis o. p.
[2] Ci sarebbe molto da scrivere a questo proposito, non fosse altro perché il nostro ordinamento è ancora affollato di automatismi legislativi, che condividono con le presunzioni assolute la volontà di togliere il giudice dalla scena che invece per Costituzione gli spetta. E non pochi automatismi riguardano proprio la pena perpetua, la massima pena prevista nel nostro ordinamento. Per fare tre esempi: l’automatica perdita della potestà genitoriale per chi è condannato all’ergastolo, l’automatica libertà vigilata di cinque anni per l’ergastolano che ottiene la liberazione condizionale, l’imposizione dell’isolamento diurno, ancora una volta automatico, per chi è condannato per due o più delitti ciascuno punito con la pena perpetua. Ad ogni modo, è davvero innegabile che il sentiero ora percorso dalla sentenza 253/2019 assomiglia ad un’autostrada più che ad una viuzza.
[3] Parametro invocato da una delle parti private (il ricorrente in Cassazione) nell’atto di intervento, atto che tuttavia – come evidenziato in sentenza – non può determinare l’ampliamento dell’oggetto del giudizio incidentale, tramite addizione di un parametro di potenziale illegittimità non recepito nella ordinanza di rimessione.
[4] Vi sarebbero altre notazioni introduttive di particolare importanza, ma, per ragioni di spazio, non possiamo soffermarci. Solo quattro velocissime considerazioni: 1) l’ordinanza di rimessione della Cassazione è stata sollecitata da una penetrante requisitoria della Procura Generale, il che valorizza anche il senso del contraddittorio in sede di legittimità; 2) nelle more delle due decisioni, prima di Strasburgo e ora della Consulta, la dottrina ha “affiancato” i giudici, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione (amicus curiae, libri, articoli, convegni); 3) la Corte evidenzia come ad essere tecnicamente rilevante è la restrizione del potere valutativo del giudice, che nei casi portati a scrutinio non può soppesare le ragioni della scelta di non prestare collaborazione, in quanto basata sul mero titolo di reato, confermando che in tali casi la rilevanza della questione deriva, di per sé, dalla eventuale rimozione del limite valutativo, al di là della concreta utilità di cui le parti potrebbero beneficiare in caso di accoglimento della quaestio ; 4) non possiamo non evidenziare che il legislatore tende, di recente, a percorrere sentieri ben diversi – quanto alla sottostante considerazione dei principi fondamentali in gioco –, e ciò non tanto nelle uscite pubbliche da parte di alcuni esponenti politici quanto nelle leggi approvate. A nulla sono serviti gli appelli alla cautela: nel momento in cui il legislatore ha esteso il regime ostativo di prima fascia ad una ennesima serie di altre fattispecie, questa volta in materia di reati contro la pubblica amministrazione, erano già pendenti a Strasburgo e alla Consulta il caso Viola e il caso Cannizzaro. La divaricazione tra gli approdi delle Corti – in punto di ragionevolezza e valorizzazione degli obiettivi rieducativi – e la rincorsa verso l’idea di “fissità” della pena è del tutto evidente e non può non destare preoccupazione, quantomeno tra i giuristi.
[5] Solo un piccolo appunto. La Corte – pur se in aderenza alla descritta dimensione della rilevanza della quaestio in termini di idoneità alla mera rimozione del limite valutativo – non approfondisce i motivi che possono spingere una persona a non collaborare con la giustizia. Ne indica solo due, ma senza approfondire: “un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi, ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati” (§ 8.1, XII cpv.). Sul punto è comprensibile il self restraint della Corte, che peraltro non manca di evidenziare che la presunzione assoluta impedisce al giudice valutare ogni cosa, comprese le ragioni della mancata collaborazione. Non di meno, qualche parola in più sarebbe stata utile. Quel che la Corte non dice è bene comunque ricordarlo: non sempre, ma in molti casi la non collaborazione dipende dalla paura di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei famigliari. Di certo vi è una cosa: se esiste il diritto al silenzio (rectius, la libertà di non collaborare), ogni motivo dietro a questo diritto-libertà potrà ora essere valutato dal giudice. E da questo punto di vista l’esperienza insegna che uno dei problemi principali non è tanto la denuncia a carico di terzi (in fin dei conti, questo significa collaborare) e nemmeno il rischio di autoincriminazioni per fatti non ancora giudicati (in questi casi, in effetti, la chiamata in correità può determinare la “uscita” dal regime ostativo), quanto la paura che genera la scelta di collaborare.
[6] Pende, sul tema, questione relativa all’avvenuto inserimento del reato di peculato nel catalogo di cui all’art.4 bis I c., sollevata dalla Corte di Cassazione (ord. n. 31853 del 2019). Così come la sentenza n. 253 ha pesato rispetto alla successiva n. 263, che ha dichiarato incostituzionale l’estensione del regime ostativo ai minori, allo stesso modo avrà un indubbio rilievo in riferimento alla giurisprudenza successiva riguardante il regime ostativo, sul versante – di certo diverso ma affine – della ragionevolezza della selezione delle fattispecie cui attribuire un effetto di “accentuata pericolosità” dell’autore.
[7] In tale assetto si intravede convergenza con recenti arresti dell’organo nomofilattico in tema di prevenzione personale (Cass. Sez. Un. 2018, Gattuso), lì dove, pur nella rilevante promozione e stabilizzazione di un approccio teso alla individualizzazione e alla necessaria espressione di motivazione in positivo sulla attualità della pericolosità, si riafferma la constatazione di una generale tendenza alla stabilità di simili vincoli relazionali.
[8] Pur non espressamente citata, è d’obbligo il riferimento alla decisione n. 291 del 2013, con cui la Corte ha parificato la disciplina delle misure di prevenzione – rimaste sospese per esecuzione della pena – e misure di sicurezza personali, con rivalutazione obbligatoria anche per le prime della attualità della pericolosità al momento della postergata esecuzione, osservando che “… già il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato…”.
[9] Su tali temi, riafferma il fondamento logico e la natura bifasica dei giudizi prognostici di pericolosità soggettiva la stessa Corte Costituzionale, in tema di prevenzione, nella recente sentenza n. 24 del 2019.
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