ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’immunità giurisdizionale ristretta degli Stati ed il rapporto di lavoro dipendente (in margine a Cass. Sez. U. 27/12/2019, n. 34474) di Franco De Stefano, Consigliere della Corte suprema di cassazione
Sommario: 1. Inquadramento del problema. - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite. - 3. La soluzione delle Sezioni Unite. - 4. L’immunità giurisdizionale degli Stati. - 5. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento del problema.
Le Sezioni Unite tornano sulla giurisdizione in materia di rapporto di lavoro del dipendente di uno Stato estero, ribadendo il principio generale della c.d. immunità ristretta e quindi ammettendo la giurisdizione dello Stato ove si svolge quel rapporto (c.d. Stato del foro), ma soltanto per i profili che non involgono l’esercizio di potestà in senso lato pubblicistiche: e, cioè, per gli aspetti sostanzialmente patrimoniali, ma non anche per quelli di reintegrazione o variamente ricondotti, nella loro impostazione originaria, ad un sistema imperniato sulla tutela del posto di lavoro non soltanto obbligatoria.
Il tema conserva la sua attualità, nonostante l’evoluzione del sistema nazionale, ormai incentrato sull’istituto dei contratti a tutela crescente e quindi caratterizzato anch’esso dal sensibile ridimensionamento delle differenze tra le ricadute applicative delle due opzioni legislative, per essere grandemente ridotto anche a favore del dipendente di un datore di lavoro nazionale il cumulo dei rimedi apprestati.
Infatti, l’ambito delle potestà pubblicistiche direttamente coinvolte consente ancora oggi di ritagliare un nucleo comunque di ampiezza sensibile di controversie sottratte alla giurisdizione del giudice ove deve svolgersi il rapporto di lavoro; mentre riveste sicuro interesse anche la delineazione, all’attualità, dell’ambito di estrinsecazione degli acta iure imperii, che si intreccia con la tematica della persistenza o meno dei limiti all’immunità – sempre più coerentemente ricostruita come prerogativa e non come diritto dello Stato – in caso di delicta imperii.
2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.
La fattispecie esaminata dalla sentenza in rassegna riguarda il licenziamento di una lavoratrice impiegata presso il Consolato dello Stato del Perù in Firenze, intimatole per giusta causa nell’agosto del 2009, consistente nella condotta violenta tenuta nei confronti di una collega e, in particolare, per averla minacciata, strattonata e colpita ad un braccio.
I giudici di merito avevano negato l’ammissibilità della produzione di documenti coperti dalla garanzia diplomatica dell’inviolabilità, ma comunque escluso l’attribuibilità alla ricorrente della lite con un collega di gravità tale da giustificare la sanzione, così condannando il convenuto Consolato al pagamento di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (ai sensi dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), al contempo dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda di reintegrazione proposta ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (nel testo anteriore anche alla prima delle più recenti riforme e, cioè, di quella di cui alla legge 28 giugno 2012, n. 92).
Il ricorso per cassazione della lavoratrice ha invocato: la disciplina internazionale sulle relazioni consolari ed in particolare gli artt. 33 e 61 della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 (ratificata in Italia con legge 9 agosto 1967, n. 804), in merito all’utilizzo di alcuni documenti prodotti dalla lavoratrice, ma ritenuti protetti dall’inviolabilità dell’archivio consolare, nonostante la loro acquisizione formale all’esito di un regolare procedimento amministrativo e comunque la loro attinenza ad un rapporto di lavoro subordinato, con conseguente estraneità all’estrinsecazione della sovranità dello Stato estero; la configurabilità della prestazione di un consenso almeno implicito da parte di quest’ultimo alla giurisdizione italiana; il principio della c.d. immunità ristretta dello Stato estero, che appunto esclude l’operatività dell’immunità quando gli atti compiuti dai soggetti internazionali stranieri nell’ordinamento locale non siano riconducibili all’esercizio di poteri sovrani, ma rientrino nell’esercizio dello ius privatorum.
Ha riguardato invece l’applicazione delle norme sulla notificazione del ricorso introduttivo e l’accertamento dell’insussistenza della condotta integrante il presupposto per l’irrogato licenziamento il ricorso incidentale del Consolato del Perù in Firenze.
3. La soluzione delle Sezioni Unite.
La sentenza 27/12/2019, n. 34474, ha disatteso tutti i motivi di entrambi i ricorsi, rigettando nel merito il terzo di quello principale, sull’estensione della c.d. immunità ristretta.
In particolare, essa ha escluso l’ammissibilità del motivo sui documenti la cui produzione è stata reputata inammissibile in quanto protetti dall’inviolabilità degli archivi consolari, poiché in ricorso non ne era stato trascritto il testo, non ne erano stati riportati o riassunti i passi significativi, nonostante fosse indispensabile, per valutare la correttezza del giudizio espresso dai giudici del merito, conoscerne appunto il contenuto: ed è stato quindi ritenuto precluso l’accesso diretto agli atti del giudizio di merito e, di conseguenza, non rispettato l’art. 366, n. 4, cod. proc. civ. per genericità del mezzo di censura dovuta all’impossibilità di valutare, in base al testo dell’atto di impugnazione, la decisività probatoria ai fini della qualificazione del licenziamento come ingiurioso e diffamatorio.
Ancora, è stata esclusa l’ammissibilità del motivo sull’omesso esame dei documenti da cui desumere invece l’accettazione della giurisdizione italiana da parte dello Stato del Perù, in difetto di indicazioni, in ricorso, di quale fatto principale o secondario, avente carattere decisivo, non sarebbe stato esaminato dalla Corte territoriale, o di specificazione dei termini, atti e relativi momenti o sedi processuali di allegazione e prova dell’esistenza tra le parti di un contratto o dichiarazione espressa dinanzi al Tribunale o una comunicazione scritta con la quale, a norma dell’art. 7 della Convenzione di New York del 2 dicembre 2004, lo Stato del Perù avrebbe espresso il consenso all’esercizio della giurisdizione italiana in senso derogatorio rispetto a quanto previsto dall’art. 11, § 2 della medesima Convenzione.
È stato invece respinto nel merito il terzo motivo del ricorso principale, con riaffermazione delle conclusioni della precedente giurisprudenza di legittimità[1] in punto di inoperatività del principio internazionalistico dell’immunità assoluta - par in parem non habet iudicium (il quale, in altre fonti, è indicato nella versione par in parem non habet imperium[2]) - soltanto per quei rapporti non riconducibili all’esercizio di poteri sovrani dello Stato estero (c.d. immunità ristretta): conclusione che, all’esito di un ampio excursus, è riconosciuta come codificata appunto dalla appena richiamata Convenzione di New York e, comunque, operante nel nostro ordinamento quale norma internazionale consuetudinaria[3] ed alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, richiamata sul punto Corte EDU 18/01/2011, Guadagnino c/ Italia, che ha precisato che le limitazioni all’assoggettamento degli Stati alla giurisdizione del Paese dove il rapporto è sorto e si è svolto si conciliano con l’art. 6 § 1 CEDU solo quando perseguono un fine legittimo ed in presenza di un rapporto ragionevole e proporzionato tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.
In base a tali principi è stata ammessa la giurisdizione del giudice del luogo dove il rapporto di lavoro si svolge per quanto riguarda i profili patrimoniali, ma non per quelli relativi alla reintegrazione nel posto di lavoro, investendo detta pretesa in via diretta l’esercizio di poteri pubblicistici dell’ente straniero[4]: ed infatti in tali casi l’esame sulla fondatezza della domanda del lavoratore comporterebbe apprezzamenti, indagini o statuizioni che possono incidere o interferire su atti o comportamenti dello Stato estero (o di un ente pubblico attraverso il quale lo Stato estero operi per perseguire anche in via indiretta le proprie finalità istituzionali), espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione[5].
Infine, i due motivi di ricorso incidentale sono stati disattesi: quello in tema di pretesa inesistenza della notificazione, alla stregua della giurisprudenza ormai consolidatasi sul punto e che confina tale qualificazione ad ipotesi estreme (Cass. Sez. U. 14916/16), qui evidentemente non ricorrenti; quello in tema di apprezzamento delle prove, per l’inammissibilità di una tale censura in sede di legittimità, soprattutto dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimità (fin da Cass. Sez. U. 8053/14).
4. L’immunità giurisdizionale degli Stati.
La soluzione delle Sezioni Unite si pone dichiaratamente nel solco della costante interpretazione giurisprudenziale del moderato temperamento del principio par in parem non habet imperium quale risulta dalla Convenzione del 2 dicembre 2004 delle Nazioni Unite (Convenzione di New York) in tema di immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni, ratificata dall’Italia con legge 14 gennaio 2013, n. 5.
È questa la regola tradizionale, vale a dire dell’assoluta immunità di uno Stato sovrano dinanzi agli organi di un altro Stato, in quanto tali ciascuna superiorem non recognoscentes: uno Stato non può essere sottoposto alla giurisdizione di un altro Stato se non col suo consenso, solo a questo potendo ricondursi l’assoggettamento che gliene deriverebbe all’autorità o sovranità dell’altro.
L’evoluzione, quasi di pari passo con la globalizzazione e l’intensificazione dei legami e soprattutto degli scambi tra gli individui di diversa nazionalità, ma non ultima la partecipazione crescente degli Stati ad attività imprenditoriali uti privati che trascendono i confini nazionali tradizionalmente intesi, è stata da tempo nel senso del temperamento di tale principio.
Soprattutto grazie alla giurisprudenza (e, occorre riconoscerlo, con grande merito di quella nazionale italiana, dimostratasi assai sensibile al tema), è stata elaborata la distinzione tra gli acta iure imperii e quelli iure gestionis, quanto ai secondi assoggettando alla giurisdizione del Foro gli Stati esteri, poiché in relazione ad essi non viene appunto coinvolta l’estrinsecazione della sovranità statuale.
In definitiva, si è assistito ad un tendenziale allargamento delle eccezioni all’immunità, come nel caso delle controversie in materia di responsabilità extra-contrattuale e, soprattutto, quelle in materia di lavoro e, ora, di gravi violazioni di diritti umani; e la ricca tematica è stata anzi trasfusa nella richiamata Convenzione delle Nazioni Unite.
La Convenzione non è ancora entrata in vigore, perché non ha raggiunto il numero di firme e di adesioni necessario[6], ma i suoi principi fondamentali sono riconosciuti, se non altro dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo[7] e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[8], come norme di diritto consuetudinario internazionale cogenti e, a vario titolo, direttamente applicabili negli ordinamenti interni dei singoli Stati; e non è questa la sede per l’esame delle critiche anche severe mosse a tale impostazione[9]: infatti, la giurisprudenza di legittimità si fonda sul presupposto dell’imperatività di tale conclusione e, comunque, finisce con l’applicare appunto i postulati che ne derivano alle controversie tra lavoratori e Stati esteri datori[10].
La concreta delimitazione si sposta, quasi un confine mobile, allora nell’individuazione del discrimine tra gli atti iure imperii e quelli iure gestionis, poiché, appunto, è talvolta complicato individuare la linea di demarcazione tra l’estrinsecazione diretta della sovranità dello Stato e la mera condotta a titolo di soggetto privato, a cominciare dal criterio da seguire e, quindi, ad esempio, dalla natura dell’atto o dallo scopo perseguito.
Nella dottrina internazionalistica è tradizionale la definizione per la quale i primi sono quelli attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali ed i secondi quelli – anche detti iure privatorum – aventi carattere privatistico[11]; come tradizionale è il riconoscimento delle difficoltà ed incertezze interpretative indotte dalla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, oltretutto sensibilmente diverse nei differenti ordinamenti.
La stessa Convenzione del 2004 adotta quale criterio prioritario quello della natura del contratto o della “transazione”, ma lo combina con quello dell’obiettivo o scopo comune, se reso oggetto dell’uno o dell’altra ed ove, nella prassi dello Stato del foro, l’obiettivo è pertinente per determinare la natura commerciale o meno del contratto o della transazione.
La distinzione è ancora più complessa, almeno in linea di principio, per il rapporto di lavoro, in ordine al quale, di norma, la natura privatistica è spesso chiara, ma permangono poteri autoritativi datoriali di tipo organizzativo o disciplinare, tra cui quelli di destinare a determinate mansioni il lavoratore in rapporto alle esigenze organizzative proprie e di risolvere il rapporto con il licenziamento.
Anche in tal caso la Convenzione di New York adotta il principio generale e considera le relative eccezioni: il primo è, a sua volta, una deroga a quello vigente in materia di immunità, poiché l’art. 11 stabilisce – al suo primo paragrafo o comma – che, ovviamente se gli Stati interessati non convengano diversamente, uno Stato non può invocare l’immunità giurisdizionale davanti a un tribunale di un altro Stato, competente in materia, in un procedimento concernente un contratto di lavoro tra lo Stato e una persona fisica per un lavoro eseguito o da eseguirsi, interamente o in parte, sul territorio dell’altro Stato.
Il paragrafo o comma successivo eccettua dal principio appena enunciato, ripristinando quindi la regola tradizionale dell’immunità:
- le azioni relative a rapporti aventi ad oggetto funzioni particolari nell’esercizio del potere pubblico,
- le controversie relative all’assunzione, alla proroga del rapporto di lavoro o alla reintegrazione di un lavoratore,
- le domande di licenziamento o risoluzione del rapporto se, a discrezionale valutazione del Governo dello Stato datore di lavoro, l’azione rischia di interferire con gli interessi dello Stato in materia di sicurezza,
- le azioni relative a lavoratori che siano anche cittadini dello Stato datore di lavoro nel momento in cui l’azione è avviata, sempre che non abbiano la residenza permanente nello Stato del foro.
In un intricato rapporto di regole ed eccezioni, la giurisdizione dello Stato del foro torna a sussistere comunque ove lo Stato datore la abbia comunque accettata o abbia altrimenti rinunciato a far valere l’immunità.
In estrema sintesi, la regola è generalmente interpretata nel senso che ogni aspetto meramente patrimoniale del rapporto di lavoro può essere sicuramente dedotto in giudizio davanti al giudice dello Stato del foro, cioè di quello ove il rapporto di lavoro deve in tutto o in parte svolgersi, tutte le volte che la ricostruzione del rapporto da un punto di vista economico non comporta in alcun modo apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dell’ente pubblico estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione[12].
Al contrario, è esclusa la giurisdizione dello Stato del foro (cioè di dove si svolge in tutto o in parte il rapporto di lavoro) quando la pronuncia richiesta implichi una valutazione del comportamento datoriale nell’organizzazione dell’ufficio, così interferendo sugli atti o comportamenti dell’ente attraverso il quale lo Stato estero persegue, anche se in via indiretta, le sue finalità istituzionali, espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.
Pertanto, ai fini dell’esenzione dalla giurisdizione del giudice italiano, in applicazione del principio consuetudinario di diritto internazionale dell’immunità ristretta, è necessario che l’esame della fondatezza della domanda del prestatore di lavoro non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione[13].
Costituisce un corpus a sé stante, caratterizzato da una spiccata specialità eppure ispirato all’esenzione dall’immunità, la disciplina del personale civile della NATO[14]: che anche la nostra giurisprudenza[15], confortata dalla dottrina in considerazione della finalizzazione delle relative convenzioni alla tutela del personale militare dello Stato inviante, interpreta nel senso che le condizioni di impiego e di lavoro delle persone assunte per i bisogni locali di manodopera - in particolare per quanto riguarda il salario, gli accessori e le condizioni di protezione dei lavoratori - al fine del soddisfacimento di esigenze materiali (cosiddetto personale a statuto locale), sono regolate conformemente alla legislazione in vigore nello Stato di soggiorno.
5. Qualche considerazione conclusiva.
Certamente, molto è stato fatto nel meritorio tentativo di tutelare i diritti coinvolti dai rapporti di lavoro dipendente, atteso l’impatto su valori in gioco considerati oggi di importanza fondamentale anche dalla dottrina internazionalistica[16]; e va accolta con favore quindi la tendenza ad applicare l’esenzione dalla giurisdizione del foro alle domande per gli aspetti patrimoniali.
In attesa dell’entrata in vigore della Convenzione di New York, alla quale manca ancora la firma o l’adesione di almeno due Paesi membri, va riconosciuto però che inevitabilmente anche questa rinvia all’interpretazione dello Stato del foro e, quindi, forse si aprono nuovi spazi per l’estensione della tutela del lavoratore in Italia, a prescindere dalla natura pubblica estera del datore di lavoro, o quanto meno per un’equiparazione delle discipline.
Si vuol dire che l’evoluzione recente della normativa del rapporto di lavoro, imperniata negli ultimi decenni sull’abbandono progressivo del sistema della tutela c.d. reale o se non altro sull’accentuazione della centralità di un sistema di monetizzazione degli inadempimenti datoriali e di forfetizzazione dei relativi costi (o dei contratti a tutele crescenti), può avere almeno l’effetto positivo di “patrimonializzare” gli aspetti più importanti del rapporto di lavoro e di riscoprire, tranne le sole sicure eccezioni consuetudinarie internazionali dei rapporti pubblicistici in senso stretto, una generalizzata tutela di tutti i dipendenti degli Stati esteri in Italia.
Ma, a stretto rigore, è la stessa interpretazione della limitazione dell’immunità, correlata ai soli aspetti patrimoniali, ad essere stata timida e forse ingiustificatamente restrittiva a danno del lavoratore, probabilmente influenzata dalla difficoltà di estendere ad ordinamenti stranieri un regime particolarmente sfavorevole al datore, quale era quello anteriore alle ultime riforme e significativamente in concreto invocato proprio nel caso deciso con la sentenza in rassegna: ciò che giustifica, con ogni probabilità, la scelta delle Sezioni Unite di porsi in linea di continuità con la giurisprudenza tradizionale e di confermare la declinatoria di giurisdizione sulla domanda di reintegrazione.
Eppure, limitare la giurisdizione dello Stato del foro ai soli aspetti patrimoniali del rapporto di lavoro potrebbe voler dire lasciarsi condizionare dalla distorsione in chiave pubblicistica di sovranità degli ordinari poteri di autoorganizzazione e di disciplina normalmente facenti capo a qualunque datore di lavoro e, in Italia, oramai anche a quello pubblico, con le sole eccezioni derivanti dalla peculiare natura del rapporto (militari, magistrati, ambasciatori, prefetti e simili).
Non è questa la sede per una compiuta disamina dell’ammissibilità astratta delle domande di condanna del datore ad un facere infungibile, visto che generalmente l’infungibilità si ritiene riguardare soltanto il momento della concreta tutela esecutiva, la cui carenza è oltretutto compensata oggi dallo strumento di coercizione indiretta di cui all’art. 614 bis cod. proc. civ.[17].
La via può essere quella di confinare in limiti sempre più ristretti, coerentemente del resto all’evoluzione nazionale in tema di pubblico impiego e di sua assimilazione a quello privato, l’ambito entro il quale ritenere estrinsecato un potere che sia diretta emanazione della sovranità; e tanto ritenendo che, allorquando lo Stato estero si induca, sul territorio dello Stato del foro, a porre in essere un rapporto di lavoro, accetta per ciò stesso l’applicazione al medesimo delle regole in vigore in quel luogo, non spingendosi, anche nell’elaborazione internazionalistica, neppure l’immunità dei luoghi ed immobili delle ambasciate o enti equiparati fino ad una autentica nozione di extraterritorialità, sola – in teoria – idonea ad escludere anche formalmente che il rapporto di lavoro si svolga non solo con uno Stato estero, ma anzi all’estero perché in luogo equiparabile al territorio di quello.
L’accettazione della legislazione dello Stato del foro anche per gli aspetti non strettamente patrimoniali avverrebbe quindi in ragione della natura del rapporto di lavoro e quella legislazione dovrebbe trovare applicazione integralmente, compresi gli istituti a tutela e garanzia dei diritti dei lavoratori, nessuno escluso: non può, cioè, sostenersi che l’esercizio della sovranità sussiste solo quando si decide di assumere e di destinare a determinate funzioni o mansioni il lavoratore locale o quando si dovrebbe riassumere o riadibire il lavoratore alle precedenti incombenze perché malamente lo si è licenziato o demansionato.
Pertanto, discrezionalmente determinatesi a porre in essere un rapporto di lavoro di diritto comune nello Stato in cui deve in tutto o in parte svolgersi la prestazione, le autorità dello Stato datore dovrebbero soggiacere in tutto e per tutto alle leggi di quello Stato e a quel diritto comune come ivi vigente, poiché esse hanno, fin dal momento della costituzione di quel rapporto, liberamente autolimitato appunto le proprie prerogative sovrane. Del resto, ove venisse in via dirimente in considerazione la natura pubblicistica speciale del rapporto, nulla vieterebbe di inserire una clausola specifica nel relativo contratto, oppure di applicarvi le sole eccezioni previste dalla prassi interpretativa del foro, oppure ancora, in estrema ipotesi, di ricorrere alla dichiarazione del Governo dello Stato datore di pregiudizio per la sua sicurezza.
I tempi sono allora forse maturi almeno per una rimeditazione della tralaticia limitazione dell’esenzione dall’immunità e per cogliere l’occasione delle riforme del diritto del lavoro in Italia, generalmente interpretate come una rimodulazione in minus della tutela dei lavoratori, per esaltarne la tendenza espansiva a tutti i rapporti di lavoro degli individui residenti con gli Stati esteri non connotati dall’esercizio di funzioni statali indefettibili e conseguirne una equiparazione con quelli interamente nazionali.
Non sarebbe la prima volta che la giurisprudenza italiana si fa alfiere di opzioni interpretative di valenza internazionalistica di particolare attenzione per la tutela dei diritti fondamentali[18], tra cui vanno annoverati ancora quelli del lavoratore, soprattutto quando è dipendente.
MINIME NOTE BIBLIOGRAFICHE
La letteratura in tema di immunità giurisdizionale degli Stati esteri è sterminata.
A parte le trattazioni istituzionali (per tutte, v. B. Conforti, Diritto internazionale, XI ed., Napoli 2018, soprattutto pp. 272 ss.; M. Frulli, Immunità [dir. int.], in diritto on line 2013, all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/immunita-dir-int_(Diritto-on-line)/ ultimo accesso in data 25/01/2020), ricchissimi riferimenti si trovano, tra molti altri, nei seguenti contributi:
G. De Marzo, Immunità giurisdizionale e diritti fondamentali, in www.giustiziainsieme.it, dal 27/01/2020; P. Rossi, Controversie di lavoro e immunità degli stati esteri: tra codificazione e sviluppo del diritto consuetudinario, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 1 (marzo 2019), pag. 5; S. Vezzani, Sul diniego delle immunità dalla giurisdizione di cognizione ed esecutiva a titolo di contromisura, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 2014, pag. 36; R. Nigro, Immunità degli stati esteri e diritto di accesso al giudice: un nuovo approccio nel diritto internazionale?, in Riv. dir. internaz., fasc. 3, 2013, pag. 812; S. Migliorini, Immunità dalla giurisdizione e regolamento (ce) 44/2001: riflessioni a partire dalla sentenza Mahamdia, in Riv. dir. internaz., fasc. 4, 2012, pag. 1089; M. Porcelluzzi, Nulla è più come prima: la responsabilità degli Stati esteri per crimini internazionali nel foro civile italiano, in Riv. comm. internaz., fasc. 1, 2018, pag. 245 (in nota a Cass. civ., 13 gennaio 2017, n. 762, sez. un.); M. Di Marzio, Il regime di «immunità reale» degli immobili del Vaticano e la giurisdizione del giudice italiano, in www.Ilprocessocivile.it, 30/04/2018, in nota a Trib. Roma, 18/09/2017, n. 17660, sez. VI; F. Franceschelli, Una bussola per orientarsi nella materia della immunità giurisdizionale degli Stati - A Possible Guidance in the Matter of Immunity from the Jurisdiction of National Courts Enjoyed by States, in Cass. pen., fasc. 11, 2016, pag. 4254B, in nota a Cass. pen., 14/09/2015, n. 43696, sez. I; M. Porcelluzzi, Le Sezioni Unite e i limiti al risarcimento per crimini internazionali: il caso Flatow, in Dir. comm. internaz., fasc. 3, 2016, pag. 790, in nota a Cass. civ., 28/10/2015, n. 21946, sez. un.; G. Marino, Differenze retributive dell’impiegato consolare: il giudice italiano non ha giurisdizione, in Dir. e giust., fasc. 1, 2014, pag. 91, in nota a Cass. civ., 27/10/2014, n. 22744, sez. un.; R. Botta, La giurisdizione sui rapporti di lavoro negli “enti gestiti direttamente dalla Santa Sede”, in Giur. it., 2018, fasc. 3, p. 675 (in nota a Cass. S.U. 21541/17); S. Scarpa, Immunità dello Stato straniero, licenziamento e discriminazione della lavoratrice, in Giur. it., 2017, fasc. 12, p. 2706 (in nota a Cass. S.U. 13980/17).
[1] Soprattutto Cass. Sez. U. 06/06/2017, n. 13980, ma pure: Cass. Sez. U. 09/01/2007, n. 118; Cass. Sez. U. ord. 18/06/2010, n. 14703; Cass. Sez. U. ord. 26/01/2011, n. 1774; Cass. Sez. U. ord. 27/02/2017, n. 4882; Cass. Sez. U. 08/03/2019, n. 6884.
[2] Per tutti, v. M. Frulli, Immunità [dir. int.], in Diritto on line Treccani, all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/immunita-dir-int_(Diritto-on-line)/ (ultimo accesso 27/01/2020)
[3] Sulla valenza delle norme consuetudinarie internazionali, v. per tutti B. Conforti, Diritto internazionale, XI ed., Napoli 2018, pp. 352 ss. Fondamentale è sul punto la celeberrima Corte cost. 238 del 2014, in tema anche di cc.dd. controlimiti e relativa, significativamente, ad una controversia civile per risarcimento di danni arrecati da uno Stato estero per atti qualificabili delicta imperii, in Foro it., 2015, I, 1152, con note di Palmieri e Sandulli; in Dir. uomo, 2014, 445, con note di Bernardini, Caponi, De Sena, Di Bernardini, Ventrella, Zoppo, in Cass. pen., 2016, 4253, con nota di Franceschelli, in Giusto processo civ., 2016, 719, con nota di Perlingieri; si vedano anche i contributi, riuniti sotto il titolo I diritti fondamentali tra obblighi internazionali e costituzione, di F. Buffa, Introduzione; Senese, Corte costituzionale e sovranità; Silvestri, Sovranità vs diritti fondamentali; E. Lupo, I contro limiti per la prima volta rivolti verso una sentenza della corte internazionale di giustizia; Colacino, La conferma della regola attraverso l'eccezione? Immunità statale ed esercizio della giurisdizione sui «crimina» iure imperii secondo corte costituzionale n. 238/2014; Lamarque, La corte costituzionale ha voluto dimostrare di sapere anche mordere; Luciani, I contro limiti e l'eterogenesi dei fini; Girelli, Alla ricerca di un'applicazione condivisa dell'immunità degli stati dalla giurisdizione; Marini, I conflitti fra Italia e Germania tra corte costituzionale, corte internazionale di giustizia e consiglio di sicurezza, in Questione giustizia, 2015, fasc. 1, 45; Chiusolo, Immunità giurisdizionale e diritti inviolabili: una nuova frontiera per la «giuristocrazia»?, in Rass. parlamentare, 2015, 379.
Alla sentenza 238/14 della Consulta si richiamano espressamente non poche pronunce di legittimità, l’ultima delle quali consta essere Cass. 03/09/2019, n. 21995.
[4] La stessa pronuncia in rassegna ricorda il caso di Cass. Sez. U. n. 9034/2014 (che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazione alla domanda di una dipendente dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, avente ad oggetto l’accertamento della nullità del licenziamento con conseguente richiesta di condanna dell’Ambasciata alla sua reintegra immediata, ritenendo che l’ipotesi in esame rientrasse nell’eccezione prevista dalla lettera c) del § 2 dell’art. 11 della Convenzione di New York del “reinserimento di un candidato” - «il testo inglese parla di “reinstatement of an individual” e la sentenza “Guadagnino” parla espressamente di “reintegro”, v. par. 71»-, con la conseguenza che in base ai principi sopra richiamati, anche alla luce del diritto consuetudinario internazionale evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella fattispecie doveva applicarsi l’immunità giurisdizionale della Ambasciata convenuta), nonché quello di Cass. Sez. U. 18/9/2014, n. 19674, che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda proposta da una dipendente dell’Académie de France - in forza dell’eccezione di cui al cit. art. 11, par. 2, lett. c), della Convenzione, che esclude la giurisdizione nei confronti dello Stato estero e degli enti pubblici ad esso riferibili quanto al «reinserimento» - «reinstatement» - del dipendente - limitatamente alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro - L. n. 300 del 970, art. 18), come pure quello di Cass. Sez. U. ord. 22/12/2016, n. 26661 [in cui si è ribadito che, ai sensi dell’art. 11, par. 2, lett. c), della citata Convenzione, sussiste l’immunità giurisdizionale ove l’azione abbia ad oggetto, tra l’altro, «il reinserimento» di un lavoratore, senza che possa essere invocato il disposto del successivo art. 11, par. 2, lett. f), che, nel consentire la devoluzione, convenzionale, alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero e, dunque, con ampliamento dell’immunità giurisdizionale, non può essere interpretato nel senso - inverso - di introdurre una generale derogabilità, convenzionale, all’immunità medesima], nonché infine quello della già citata pronuncia n. 13980/2017.
[5] Cass. Sez. U. ord. 17/01/2007, n. 880; Cass. Sez. U. 10/7/2006 nn. 15620, 15626 e 15628; Cass. Sez. U. 18/12/1998, n. 12704; Cass. Sez. U. ord. 11/07/2019, n. 18661, che ha ricondotto a pretesa meramente patrimoniale anche la domanda del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
[6] Allo stato, ventotto, sui trenta invece necessari; i dati sono disponibili on line all’URL https://treaties.un.org/Pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=III-13&chapter=3&clang=_en
[7] Si vedano, tra le altre, le sentenze della Corte EDU: 05/02/2019 (def. 05/05/2019), sez. 3, Ndayegamiye-Mpomarazina c. Svizzera, in causa n. 16874/12; 25/10/2016 (def. 25/01/2017), sez. 2, Radunovic e aa. c/ Montenegro (cause nn. 45197/13, 53000/13 e 73404/13); Cudak c/ Lituania ([GC], no. 15869/02, §§ 25-33, ECHR 2010; 29/06/2011, Grande Camera, Sabeh El Leil c/ France, in causa 34869/05, § 48; 18/06/2011, Guadagnino c/ Italia e Francia, sez. 2, in causa n. 2555/03.
[8] Il riferimento è a Corte giust. Unione europea, GC, 19/07/2012 in causa C-154/11, Mahamdia c/ Rep. algerina democratica e popolare, soprattutto punti 54 e ss. (richiamata, tra le ultime, nelle concl. Avv. Gen. 14/01/2020 in causa C-641/18 LG c/RINA spa ed Ente Registro Italiano Navale, domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Genova). Analogamente, Corte giust. sez. 3, 23/10/2014 in causa C-320/13 (flyLAL-Lithuanian Airlines AS in liq.ne c/ Starptautiska lidosta Riga VAS, Air Baltic Corporation AS) ricorda che, sebbene talune controversie tra un’autorità pubblica e un soggetto di diritto privato possano rientrare nella nozione di materia civile commerciale, la situazione è diversa qualora l’autorità pubblica agisca nell’esercizio della sua potestà d’imperio (richiamando i suoi precedenti CGUE Sapir e a., EU:C:2013:228, punto 33 e giurisprudenza ivi citata, nonché CGUE Sunico e a., EU:C:2013:545, punto 34 e giurisprudenza ivi citata): infatti, la manifestazione di prerogative dei pubblici poteri di una delle parti della controversia, in virtù dell’esercizio da parte di questa di poteri che esorbitano dalla sfera delle norme applicabili ai rapporti tra privati, esclude una simile controversia dalla materia civile e commerciale ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Regolamento (CE) n. 44/2001 (già CGUE, Apostolides, EU:C:2009:271, punto 44 e giurisprudenza ivi citata).
[9] V. le note bibliografiche in appendice e, comunque, tra gli ultimi P. Rossi, Controversie di lavoro e immunità degli stati esteri: tra codificazione e sviluppo del diritto consuetudinario, in Riv. dir. internaz., fasc. 1, 1 (marzo 2019), pag. 5, ove completi ulteriori riferimenti.
[10] Agli stati stranieri sono stati equiparati taluni enti extraterritoriali quali, tra gli altri, il Sovrano Militare Ordine di Malta (Cass. Sez. U. n. 5/2007), l’Istituto Studi di Bari (Cass. Sez. U., n. 5565/1994), il Liceo Chateaubriand (Cass. Sez. U., n. 9322/1988), l’Académie de France à Rome (Cass. Sez. U., n. 5126/1994), il British Institute of Florence (Cass. Sez. U., n. 12704/1998). Viceversa, sono sottoposte alla giurisdizione italiana le controversie concernenti il rapporto di lavoro con la Pontificia Università Lateranense (Cass. Sez. U., ord. 18/09/2017, n. 21541) o con la Pontificia Università Gregoriana (Cass. Sez. U., n. 1133/2007; Cass. Sez. U., n. 6143/1991) o con il Pontificio Collegio Americano del Nord (Cass. Sez. U., n. 16847/2011).
[11] B. Conforti, op. cit., p. 276.
[12] Cass. Sez. U. 08/03/2019, n. 6884: in applicazione del principio della cd. immunità ristretta, sussiste la giurisdizione del giudice italiano in caso di domanda fondata sul riconoscimento della nullità di precedenti contratti a termine.
[13] Cass. Sez. U. ord. 13/02/2012, n. 1981.
[14] Convenzione di Londra del 19/06/1951 – artt. I.1.b e IX.4 – relativa allo status delle Forze degli Stati membri dell’Organizzazione, ratificata ed eseguita in Italia con legge 30 novembre 1955.
[15] Giurisprudenza costante. Tra le più recenti, all’esito di un cinquantennio di elaborazione, v.: Cass. Sez. U. 26/07/2011, n. 16248 (che ha riconosciuto la giurisdizione del giudice italiano in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro sulla domanda proposta da un cittadino italiano, che sia residente in Italia e la cui assunzione sia avvenuta per il soddisfacimento delle esigenze locali della Forza inglese); Cass. Sez. U 22/03/2019, n. 8228 (che, al contrario, sulla domanda della lavoratrice di nazionalità bosniaca e residente in Bosnia per prestazioni espletate in quello Stato in favore delle forze armate italiane in quanto partecipanti al partenariato NATO per la pace in quel Paese, ha riconosciuto insussistente la giurisdizione del giudice italiano anziché di quello della Bosnia-Herzegovina, attesa l’accettazione di detto Stato a quella Convenzione in forza dell’Accordo di Bruxelles del 19/06/1995).
[16] V. Conforti, op. cit., p. 277, che sottolinea come impedire ai lavoratori reclutati nello Stato del foro di rivolgersi al loro giudice naturale sia del tutto ingiusto, almeno quando si tratta di rivendicazione di carattere patrimoniale, come le rivendicazioni salariali, le indennità di licenziamento e simili.
[17] Su cui ci si permette un rinvio a F. De Stefano, I procedimenti esecutivi, Milano 2016, p. 301 ss.
[18] Sul caso delle azioni civili per risarcimento dei crimini di guerra, si vedano i richiami nelle note bibliografiche.
Memoria oggi: impegno di coerenza, oltre la conoscenza
di Noemi Di Segni
Celebriamo il giorno della memoria da venti anni, sulla base della l. 211/2000 Moltissime sono le iniziative che si concentrano in questo periodo, e ciascuna di esse merita la massima attenzione e partecipazione, riconoscendo a chi le promuove e vi presenzia la consapevolezza ed il sentimento della loro doverosità.
Se fino a qualche anno fa il sentimento portante di queste celebrazioni era fare memoria intesa come narrazione di quanto avvenuto nella shoah, per “conoscere pur senza comprendere” usando le parole di Primo Levi, per omaggiare il ricordo dei sei milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali e oppositori politici che sono stati massacrati e sottoposti a torture per le quali nessun dizionario umano aveva termini, e nessun codice pene associabili, per realizzare che un’intera umanità capace di creare bene non è stata generata, oggi il sentimento prevalente è quello dello smarrimento e del dubbio sul presente.
Smarrimento perché ci si chiede se quanto avviene attorno e tra noi debba essere o meno letto come segnale di allarme o debba essere considerato come “tasso naturale” di mancata etica o di antigiuridicità di atteggiamenti, di singoli, di alcuni riferimenti istituzionali o di intere nazioni, se qualcosa di allora si sta rivivendo. Espressioni di odio razziale (o razziste) amplificate dalla rete e condivise con un solo click, piazze virtuali gremite di slogan e incitamento ai totalitarismi, intitolazione di strade a figure che rappresentano un passato mai sopito, senza un ripensamento neanche all’esito del macello di oltre cinquanta milioni di vite, glorificazione del proprio passato per fortificare un presente nazionalizzato non solo nei simboli ma nelle pretese giuridiche e nelle disparità. Espressioni di attenzione e di ascolto sulla vicenda della shoah, cerimonie di conferimento di onorificenze ai sopravvissuti per poi esprimere concetti di discriminazione e di odio altrove e verso Israele, o al contrario una determinata difesa dello Stato di Israele e dell’antisemitismo di matrice terroristica, ma anche la sottovalutazione della radicalizzazione di destra.
Smarrimento per la fatica di conciliare il cuore e la mente che vanno al passato con il massimo rispetto verso le decisioni della magistratura, quando delitti efferati vengono qualificati come mero atto di goliardia o di violenza ordinaria senza averne colto quel lato oscuro dell’odio antisemita che, forse, solo chi l’ha subito per secoli sa riconoscere all’istante.
Smarrimento perché nonostante l’impegno di moltissimi appartenenti alle istituzioni e docenti, in parallelo si sono moltiplicate forme di negazionismo, di deviazioni rispetto a quella promessa costituzionale di ripristinare o affermare i beni superiori da tutelare – verità storica, dignità umana e solidarietà. E quindi la celebrazione di questo giorno è chiamata a dare un significato nuovo al concetto di memoria. Quello della coerenza. Quello dell’impegno che va oltre alla memoria narratrice per arginare quanto si sta già vivendo. Fermare una nuova verità, e non solo affermare quella storica.
Come in molti altri contesti il diritto, e in particolare il diritto positivo, diventa lo specchio scritto di una realtà sociale, nazionale, sulla quale oggi occorre riflettere. Anzi, perché il termine “riflettere” allude quasi ad una pacatezza di azione, occorre agire e ritornare al concetto di legalità ed ai principi, e quindi intervenire.
Come risponde oggi il diritto, o la magistratura chiamata ad applicare le norme, rispetto alle distorsioni emergenti? Ne evidenzio alcune.
La derisione fatta da persone che utilizzano luoghi, simboli e persone per rappresentare il loro scherno e dissociazione dal monito “mai più”, l’uso banalizzante dei termini “ebrei” “Auschwitz” “nazista” in contesti che nulla hanno a che vedere con la shoah, come linguaggio della goliardia o della dialettica avversaria? L’appiattimento della narrazione del dramma della shoah e della guerra mondiale attribuendone la responsabilità ai nazisti e alla Germania dimenticando ogni altro agente, ogni altro regime che ha prestato mano al genocidio, ogni vile collaboratore, ogni atto di indifferenza? Quanto la rievocazione di pregiudizi e di falsi che ripetuti diventano fede di odio e indiscussa verità, è riconducibile al negazionismo?
La libertà di espressione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione è certamente lo snodo centrale di questo dibattito. Se il vero bene da tutelare è quello del benessere sociale insieme alla crescita culturale del Paese, con senso di responsabilità quanto meno morale per la propria storia, la libertà rischia di essere pretesa di sopraffazione se ha per oggetto parole di odio, rievocazione dell’odio antisemita, di scritte, simboli e gesti che sintetizzano l’annientamento desiderato e nessun pentimento maturato. Quanto in nome della libertà di espressione del pensiero continueremo ad assistere ai pellegrinaggi a Predappio per inneggiare al Duce sepolto o al nuovo che lo sostituirà, e legittimare tutto l’indotto commerciale che ne deriva? Quanto possiamo assistere a cerimonie nostalgiche che stratificano negli animi di chi le partecipa odio e violenza? Quando l’uso del principio diventa abuso? Noi ce lo chiediamo ogni giorno, e non come riflessione teorica, ma come peso che va aggravandosi ogni giorno.
- La richiesta, nell’ambito del procedimento amministrativo di assegno di benemerenza, a chi è stato perseguitato dal regime nazi fascista di fornire prova concreta di un atto persecutorio affinché si possa beneficare di una benemerenza, sulla base della l.96/55 e successive modificazioni, limitando prima il riferimento al periodo storico ’43-’44, alle sole persone perseguitate in Italia anche se fuggiti in altri Paesi, dimenticando che furono dichiarati nemici della patria coloro che hanno vissuto in Italia per oltre 2.000 anni donando il loro contributo allo sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese, rappresenta oggi una aberrazione. Le leggi del ’38 e poi la decretazione del ’43 hanno introdotto una sistematica persecuzione legalizzata dei cittadini italiani di fede ebraica. Perché allora richiedere ai perseguitati la prova se una legge dello stato prevedeva come sistema imposto l’esclusione e la privazione di ogni diritto per i quali dovevano diligentemente attivarsi funzionari, operatori, cittadini e forze dell’ordine. Appena pochi giorni fa siamo stati aggiornati su una nuova pronuncia di diniego per mancanza di prove e la concessione del beneficio considerata come aggravio per le casse dello Stato, cosi come una scia di sentenze della magistratura contabile che ribadisce la legittimità di una pretesa economica verso lo Stato solo se fornita ogni prova concreta e precisa di persecuzione, a prescindere da ogni collocazione del tutto all’interno di un sistematico quadro di principi fondamentali di recupero della dignità non solo della persona offesa e perseguitata, ma anche dello stesso Stato italiano che vuole affermare i suoi valori di libertà e rigettare quelli che erano alla base del pensiero fatto regime fascista.
- La sentenza recentissima, del 19 dicembre 2019, del tribunale francese nel Caso Sara Halimi, una donna ebrea religiosa di 67 anni, massacrata fino alla morte il 3 aprile 2017, mentre il pestatore inneggiava con letture del Corano, con la quale viene prosciolto l’assassino perché agiva sotto effetto di stupefacenti e quindi non era in grado di rispondere dei suoi atti, vissuto in Francia come un “dejà vu” del caso Dreyfus. Ma anche qui in Italia diverse sono le archiviazioni o le sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere seguite alle denunce sporte avverso condotte di incitamento di masse all’odio che hanno suscitato profondo senso di timore e indignazione corale, e poche le pronunce di condanna. Chiara la necessitò di difendere rigorosamente il principio di legalità e l’operato della magistratura, chiaro anche il senso di smarrimento che accompagna simili situazioni.
- Con l’approvazione da parte del governo lo scorso 15 gennaio della definizione di Antisemitismo basata sulla proposta dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) si apre una nuova sfida per il legislatore italiano e la magistratura stessa. La definizione di per sé, come articolata nel documento (https://www.holocaustremembrance.com/working-definition-antisemitism) non è vincolante. Gli Stati sono invitati a recepirla sia nella parte generale dedicata all’inquadramento del fenomeno sia nelle numerose esemplificazioni riportate, che rappresentano condotte da ricondurre al concetto di antisemitismo. Ora, data la molteplicità delle ipotesi, occorrerà vagliarle, una per una, e valutare rispetto al quadro normativo vigente come affrontarne il recepimento, affinché non resti un mero atto politico – che certamente ha valore e impatto nel dibattito partitico - ma sia anche occasione di seria a precisa riconsiderazione di tutte quelle condotte che quotidianamente subiamo e che ad oggi non trovano argine – né quello educativo culturale, né quello legislativo. Saranno quindi da considerare le ipotesi di negazionismo, di contrasto dell’odio dilagante sulla rete e l’impegno delle piattaforme multinazionali, il boicottaggio di Israele e dei suoi esponenti culturali e gli appelli per il disconoscimento del diritto di Israele di esistere o delle sue politiche, che sostanzia un atteggiamento antisemita.
La shoah, l’antisemitismo, non sono “degli ebrei” e non sono temi sui quali prestare un attento ascolto per pietà e profondo dispiacere, né temi su cui sviluppare una dialettica politica servente o esimente, ma sono l’uno conseguenza dell’altro, portato all’estremo del dicibile umano, e pesano sulle coscienze e le responsabilità di tutti.
Per queste ragioni ogni impegno di memoria oggi è in realtà un impegno di coerenza – il rispetto di quanto avvenuto nel passato - il peggio di quanto avvenuto nel passato collettivo di un’intera Europa poi unificata e un’intera nazione come l’Italia che si è destata – non può essere efficacemente tramandato ai nostri figli, se non si affrontano e non si comprendono ad ampio raggio i fenomeni che ne erano alla radice allora e riaffiorano oggi, se non si attivano politiche educative e formative di quell’ovvia – che ovvia evidentemente non è – accettazione di chi è semplicemente cresciuto con altro credo e altre scelte personali, se non si attiva una ricognizione di impatto sociale delle norme oggi esistenti, se si continua a dividere il passato in sezioni logiche alcune partecipate con il cuore, altre con la mente, alcune lasciate cadere nell’oblio, alcune addirittura giustificate con i “sì però”. L’invito nel settantacinquesimo anniversario della liberazione del Campo di Auschwitz che rivolgo ad operatori e studiosi del Diritto è quello di intraprendere un’iniziativa di approfondimento e studio di queste specifiche tematiche, e accompagnarci, o stare al nostro fianco nell’impegno, faticoso anche per noi, di tramandare una memoria nel rispetto di coloro che non hanno mai fatto ritorno, anche se sopravvissuti, all’orrore della shoah.
“Prima lezione sulla giustizia penale” di Glauco Giostra
Recensione di Ernesto Lupo
1.Le cronache relative alla giustizia penale occupano molto spazio nei quotidiani e, più in generale, nei media. Sostanziano anche, in parte non esigua, il dibattito politico. La collettività nazionale è poco preparata a comprendere i complessi meccanismi con cui si esercita questa giustizia. E spesso l’informazione non raggiunge un livello qualitativo idoneo a consentirne una corretta comprensione, anche perché, quando la giustizia tocca persone della vita politica o comunque di potere, può verificarsi la distorsione delle notizie a fini di parte.
La rilevanza politica e sociale assunta, nei lustri recenti, dai processi penali, unita alla difficoltà della opinione pubblica di rendersi conto degli sviluppi, dei tempi e degli esiti, alcune volte sorprendenti, delle vicende giudiziarie, costituiscono una miscela che contribuisce a diminuire la fiducia verso la giustizia italiana (anche penale), secondo una tendenza risultante da recenti rilevazioni nazionali.
Glauco Giostra, professore ordinario di procedura penale della Sapienza di Roma, è consapevole di “quanto profonde siano le interconnessioni tra il modo di intendere la giustizia e il modo di vivere la democrazia”. Con questa consapevolezza egli si è accinto a scrivere il volume dedicato al processo penale, nell’ambito della nota e ricca collana degli Editori Laterza “Prime lezioni”, con l’intento di spiegare le ragioni e la complessità della giustizia penale ad una ampissima fascia di lettori, che va ben al di là di coloro che operano o che comunque si accingono a studiare la materia. Egli ha, perciò, scritto una pubblicazione che, con linguaggio semplice e scorrevole, mira a fare “capire” il meccanismo processuale, più che a dare nozioni, al fine di fare acquisire al lettore “un’intelligenza critica dei problemi piuttosto che apprendere tecnicismi e procedure”. L’Autore avverte, sin dall’inizio, che il proprio progetto è “assai ambizioso, probabilmente velleitario”.
Debbo subito dire che esso mi sembra pienamente riuscito, perché, come si vedrà, l’agile volumetto consente ad ogni uomo di media cultura di “entrare” nei valori e nei difficili equilibri del processo penale, attraverso una chiara e sempre argomentata esposizione dei principali aspetti problematici che esso oggi presenta.
2. Al risultato Giostra è pervenuto attraverso, innanzi tutto, una sapiente selezione degli argomenti da trattare, che gli ha consentito di limitarsi ad indicare i punti fondamentali della materia. In ciò egli è stato facilitato dalla opportuna
decisione di riservare ad un “glossario” finale la spiegazione dei più frequenti termini tecnici e di qualche dettaglio della disciplina codicistica.
Felice è già il titolo della Lezione: l’Autore considera il funzionamento della giustizia penale, e non solo lo studio teorico del diritto processuale. D’altro canto il processo è il momento necessario per l’applicazione della norma penale sostanziale, che diventa operativa soltanto attraverso l’attività giudiziale (nulla poena sine iudicio).
Dettata da chiarezza sistematica è la costruzione della Lezione, che si sviluppa in quattro capitoli ed in un epilogo breve, ma molto significativo.
Il primo capitolo concerne la giustizia quale funzione universale (“compito impossibile” – quello della ricerca della verità -‐ ma “necessario”) ed i limiti che a questa ricerca non possono non accompagnarsi: limiti “valoriali” a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo e limiti “epistemologici”, a garanzia dell’attendibilità dell’accertamento probatorio. Già nello sguardo generale sul tema, Giostra esprime la sua idea di fondo: “la collettività deve poter ‘vedere’ come viene amministrata la giustizia in suo nome”, idea che, per il nostro Paese, si ricollega esplicitamente alla prima disposizione costituzionale sulla giurisdizione (art.101, primo comma). Ma, per potere “vedere” come funziona la giustizia, superandosi, se del caso, anche lo “specchio deformante dei media”, è necessario che ci si attrezzi mediante la conoscenza delle “strutture portanti” del processo penale italiano.
L’illustrazione che ne fa Giostra avviene in due momenti, la cui distinzione è di enorme aiuto per il lettore. In un primo tempo (secondo capitolo) il panorama del processo penale è guardato dall’alto, come da un “drone”, e cioè dalla Costituzione. Viene previamente tracciata una rapida storia del processo penale, dal codice fascista del 1930 all’entrata in vigore della Legge fondamentale della Repubblica, alla successiva lunga stagione del “garantismo inquisitorio”, che mirava a conciliare la vecchia normativa con i valori culturali della Costituzione (i quali ne sono antagonistici, ma non delineano un determinato modello processuale), sino alla “svolta” del codice del 1989 per il contraddittorio nella formazione della prova (e non soltanto sulla prova già formata). Questa “scelta epistemologica rivoluzionaria” determinò resistenze politiche e difficoltà tecniche, che dettero origine a discussi orientamenti della Corte costituzionale, la quale, affermando un inaspettato “principio di non dispersione delle prove”, mise in discussione la detta scelta. Alla fine di “una via crucis culturale durata esattamente un decennio”, si giunse, nel 1999, alla “riscrittura” dell’art.111 della Costituzione, che oggi, a differenza delle pure essenziali garanzie previste dal testo originario della Costituzione, individua, nei primi cinque commi, un preciso modello processuale.
All’illustrazione di questo modello sono dedicate approfondite considerazioni che si confrontano, con sincerità e chiarezza di posizioni, con la realtà attuale. L’esigenza insopprimibile del “giudice terzo ed imparziale” induce l’Autore ad affrontare il nodo delicato del rapporto tra la giurisdizione e la politica, esprimendo l’opinione che le due attività “hanno statuti metodologici opposti”. Una opinione che personalmente condivido pienamente e che sono solito esprimere come differenza di vocazioni tra chi è attirato dal compiere una attività che lo deve porre “super partes” (nella realtà e anche nelle apparenze) e chi invece, anche animato da intenti non meno commendevoli di rendere un servizio benefico per la collettività, sente il bisogno di entrare nella competizione politica, assumendo inevitabilmente la posizione (almeno apparente) di una delle “parti” in campo e di tutela degli interessi di cui essa è portatrice. Anche il principio di parità delle parti – altro elemento “nucleare” del giusto processo configurato dalla Costituzione – è analizzato con concretezza, perché esso deve tenere conto della “ineliminabile asimmetria” esistente nelle indagini preliminari, in cui il pubblico ministero “deve avere mezzi e tempi per rimontare lo svantaggio conoscitivo”, giovandosi anche di un eliminabile “effetto sorpresa” (esigenza, invece, ignorata dall’ultimo comma dell’art.68 Cost., che richiede la preventiva autorizzazione pubblica della Camera per intercettare un parlamentare); da qui la difficoltà per il legislatore di “costruire un sistema in cui l’accusa e la difesa abbiano equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale”. Il principio di parità delle parti trova piena attuazione nella necessità del contraddittorio nella formazione della prova, sul cui significato epistemologico e valore politico-‐culturale Giostra scrive riflessioni, aperte anche alla incidenza della psicologia cognitiva, che vanno ben al di là di una prima lezione. Valore tassativo hanno, conseguentemente, le tre eccezioni al contraddittorio previste nel quinto comma dell’art.111, che vengono analizzate in modo approfondito.
Sulla base di questa scelta metodologica effettuata dal codice e ribadita dalla riforma costituzionale, si prendono in esame (nel terzo capitolo) “le strutture portanti” del processo, quali indicate dal codice nelle varie fasi (indagini, udienza preliminare, giudizio di primo grado e di impugnazione), con cenni sulle deroghe presenti nei procedimenti speciali. È la parte più ampia del volume (circa 80 delle 200 pagine che lo compongono), che non può essere qui ripercorsa. Va, però, segnalata l’originalità della trattazione della materia processuale, che rinunzia ad una esposizione analitica della disciplina degli istituti, per soffermarsi solo sui suoi snodi fondamentali, esponendo e valutando le ragioni delle scelte legislative, nonché le possibili alternative. Si tratta di un metodo necessario per fare comprendere al lettore come sia necessario e difficile adottare, a livello legislativo, soluzioni equilibrate che contemperino interessi diversi e, spesso, contrastanti: la segretezza della prima fase
delle indagini dell’accusa e la tutela del diritto di difesa; la dialettica delle parti ed i poteri officiosi del giudice dibattimentale; la “solida roccia” della res iudicata, ma anche la necessità di superare il giudicato “ingiusto”.
Originale è l’aggiunta del quarto capitolo, dedicato alla “narrazione della giustizia penale”. Qui si riprende il discorso del capitolo iniziale sulla “relazione osmotica” tra i fatti criminali ed i media e si approfondisce il tema della cronaca giudiziaria. Il capitolo merita particolare attenzione perché proviene da uno studioso che ha dedicato molte energie all’analisi dei rapporti tra processo penale ed informazione, sin dalla ampia monografia del 1989 che studiò la tematica sia nel codice del 1930 che in quello del 1988. Giostra ritiene non ancora raggiunto un soddisfacente punto di equilibrio tra le compresenti esigenze della informazione, della giustizia e della riservatezza individuale, e sostiene che i limiti al diritto di cronaca giudiziaria “peccano per eccesso e per difetto”.
Non ostante queste ed altre inadeguatezze della nostra giustizia penale, Giostra conclude la sua fatica con l’affermazione che essa, pur essendo “imperfetta”, è “da difendere”, ma richiamando la sua posizione sulla necessità “che la magistratura rifugga da ogni commistione tra due funzioni agli antipodi quali sono quella giurisdizionale e quella politica”.
3. Le opinioni magistralmente espresse dall’Autore rivelano, oltre che la preparazione di colui che ha dedicato la vita agli studi sul processo penale, contribuendo anche alla redazione del codice vigente, non facili posizioni di equilibrio in una materia spesso contrassegnata da estremismi astratti ed utopici. Con queste posizioni la mia esperienza di magistrato si è ritrovata, per lo più, in sintonia.
Un solo dissenso avverto il bisogno di non tacere. Esso riguarda l’ammissibilità del c.d. abuso del processo (meglio si dovrebbe dire: di un diritto processuale) che la giurisprudenza della Cassazione ha ritenuto configurabile nella condotta processuale dell’imputato “volta ad ottenere non garanzie effettive ovvero migliori possibilità di difesa, ma esclusivamente la paralisi della funzione processuale” (così, di recente, Cass., sez. VI, ordinanza 5 marzo 2018, n.11414).
L’ammissibilità della figura, analoga a quella (non contestata) dell’abuso di un diritto sostanziale, è stata inizialmente affermata da un collegio delle Sezioni unite da me presieduto (sentenza 29 settembre 2011, n.155/2012). La sentenza ha incontrato critiche nella dottrina, alle quali aderisce anche Giostra, che pure giudica apprezzabile l’intento dell’orientamento giurisprudenziale di evitare un abuso delle garanzie
difensive (ma l’abuso può verificarsi anche in condotte processuali del pubblico ministero). Egli, però, ritiene che “spetta al legislatore predisporre gli accorgimenti dissuasivi per evitare simili strumentalizzazioni” (p.13; v. anche, a p.78, l’affermazione secondo cui “è il legislatore che deve sbarrare la strada agli abusi”).
Mi limito, in questa sede, a due osservazioni sulla tesi dell’illustre Maestro. La prima è che le tecniche e gli strumenti abusivi dei diritti conferiti dalla legge sono difficilmente immaginabili in astratto, onde appare poco realistico ipotizzare che il legislatore possa prevederli e vietarli in concreto. È utile tenere presente che il legislatore del codice vigente si pose il problema se tipizzare i provvedimenti giudiziari “abnormi” che, come è pacifico (sin dal vecchio codice), legittimano alla proposizione del ricorso per cassazione, pur nel silenzio della legge ed in deroga al principio espressamente da essa posto della tassatività delle impugnazioni. Risulta dai lavori preparatori del codice che si rinunziò alla tipizzazione per la sua “rilevante difficoltà”, continuandosi ad affidare alla giurisprudenza l’individuazione delle caratteristiche del provvedimento abnorme perché “non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall’ordinamento”. La fiducia del legislatore nella giurisprudenza non mi pare che sia stata mal riposta, pure se vanno registrate difficoltà ed incertezze nella individuazione del provvedimento abnorme. Ma nessuno contesta la necessità, per l’equilibrata funzionalità del processo penale, di questa figura di creazione giurisprudenziale.
La seconda osservazione consiste nel richiamo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, nell’art. 35, comma 3, lettera a), attribuisce alla Corte di Strasburgo il potere di dichiarare “irricevibile” il ricorso individuale che sia da essa ritenuto “abusivo”. La previsione normativa non prevede alcuna precisazione sugli elementi che concretizzano il ricorso abusivo, il cui accertamento è pertanto rimesso esclusivamente all’organo giudicante. Non è facile sostenere che la disciplina dei giudizi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo configuri un processo che preveda violazioni dei diritti delle parti, e sia perciò non “giusto”.
4. La lettura della Lezione è consigliabile a più categorie di persone. Innanzitutto ai destinatari normali della collana, a coloro cioè che, accingendosi allo studio di una nuova materia, ne apprendono, in una prima lezione, i rudimenti. E la scrittura di Giostra si rivela quanto mai felice allo scopo, per la sua chiarezza ed anche per il ricorso frequente ad immagini attraenti; per limitarci ad un paio di esempi: il processo penale come “un ponte tibetano malfermo, fragile, dal costrutto contorto, insopportabilmente lungo”; le regole processuali come “un guardrail metodologico”
per il magistrato. Consegnerei il volumetto a tutti gli studenti che iniziano a preparare l’esame di diritto processuale penale perché esso è idoneo a fornire le chiavi essenziali per affrontare i tanti e piuttosto noiosi dettagli della disciplina, nonché a suscitare probabilmente l’entusiasmo derivante dalla percezione di studiare una materia di così elevato rilievo pubblico.
La lezione è utile anche a tutti coloro che, senza intenti di studio, sono interessati a comprendere meglio i meccanismi processuali che tanto frequentemente occupano le cronache quotidiane, al fine di conseguire la capacità di farsi un loro convincimento che non sia solo il frutto di condizionamenti mediatici. Si comprende che, quanto più diffusa è questa capacità, tanto più si consolida la maturità democratica della nostra collettività.
Ma il libro parla anche, se non soprattutto, agli operatori quotidiani della giustizia, sollecitandoli a riflettere sui valori e sugli equilibri che sono essenziali nella loro attività processuale.
In conclusione, mi sembra che la Lezione colmi un vuoto nella pubblicistica italiana sul processo penale, in cui mancava uno strumento agile e semplice di formazione che può rivelarsi utile ad una così ampia categoria di destinatari.
La giustizia politica come giustizia della costituzione*
Fabrizio Sciacca
I diritti fondamentali non hanno un valore strumentale. In tal senso, la giustizia politica è sempre giustizia della costituzione. Questa è una delle risorse più utilmente promettenti della morale giuridica europea. La giustizia politica come giustizia della costituzione è radicata in un sistema di libertà eguale. L’idea è quella di «costruire una concezione della giustizia per un regime costituzionale tale che coloro che sostengono quel tipo di regime o potrebbero essere indotti a sostenerlo possano fare propria anche quella concezione politica, pur avendo visioni comprensive diverse»; in tal modo, «arriviamo a pensare una concezione politica della giustizia che parta dalle idee fondamentali di una società democratica e non presupponga alcuna dottrina più ampia; e non frapponiamo ostacoli dottrinari alla possibilità che una simile concezione si guadagni il sostegno di un consenso per intersezione ragionevole e duraturo»[1].
Una conseguenza controfattuale del concetto di giustizia politica è che i problemi di diseguaglianza sono determinati da disfunzioni distributive. In quanto giustizia della costituzione, la giustizia politica è relata a due elementi, uno strumentale e uno finale. L’elemento strumentale implica che la costituzione sia descritta come una procedura giusta (una procedura si dice giusta quando è in grado di soddisfare i requisiti di eguale libertà); l’elemento finale implica che la costituzione, tra tutti gli assetti giusti praticabili sia quello più in grado di raggiungere il risultato più probabile. La costituzione giusta è un esempio di giustizia procedurale imperfetta (una giustizia procedurale si dice imperfetta quando garantisce il raggiungimento di un risultato p, ma senza che ciò autorizzi a considerare le norme giuridiche capaci di conseguire sempre un risultato corretto q).
Il cuore di una siffatta giustizia politica è il nucleo dei diritti fondamentali all’esercizio della libertà individuale. Per questo le ragioni della discussione pubblica dovrebbero essere neutrali. Dovrebbero, cioè essere fondate sull’idea dell’eguale rispetto dopo l’accettazione della premessa secondo la quale la c.d. “verità” delle concezioni del mondo è nella migliore delle ipotesi un tipo di verità parziale, e non è affatto desiderabile che venga imposta a tutti. Questo che propongo in sintesi è, naturalmente, un discorso normativo che non viene intaccato dalle asimmetrie della vita reale.
2. Come si concilia questo discorso valido sul piano normativo con il piano personale? La morale personale presuppone la realizzazione di sé attraverso l’atto. Così, il significato di “compiere un atto” non si identifica con la sua operatività. È indubbiamente qualcosa di collegato all’autodeterminazione, come ha sostenuto diverse volte Georg Henrik von Wright: qualcosa che interconnette determinazione, azione e libertà.
Di solito gli enunciati normativi sono espressioni di prescrizioni ( “si deve fare p”), permessi (“si può fare p”), divieti (“non si deve fare p”). Da un certo punto di vista, si può dire che questi enunciati non siano né veri né falsi. Sì, possono essere strumentali a certi obiettivi o scopi; ma non dicono nulla sulla verità di questi, né sul loro oggetto.
Per alcuni, la morale personale rinvia non a torto al problema dei valori. Ma se la teoria dei valori ha uno statuto chiaro, il suo oggetto è filosoficamente opaco: per alcuni sono valori i diritti, la democrazia, le libertà; per altri esistono “valori europei”, “valori asiatici” e così via; per altri ancora, sono valori le opere d’arte, le religioni o le squadre di calcio. Non è privo di senso, al proposito, considerare che qui non si sta proprio parlando di valori, ma di valutazioni: «un atteggiamento di approvazione o di disapprovazione da parte di un soggetto s rispetto a un oggetto o»[2]. Si ha a che fare, in particolare, con atteggiamenti di approvazione o di disapprovazione che possono essere condivisi e duraturi, ma sempre soggettivamente: non possiedono una validità universale. Al massimo, possono avere una validità (non oggettiva, ma) oggettivizzata di tipo storico, cioè in un determinato tempo t1...t2. In tal senso, non esistono valori universali, e nemmeno, a rigore, valori come entità, ma enunciati linguistici che descrivono atteggiamenti emotivi soggettivi o condivisi (“a Y piace p”, “a Z non piace p”: vuol dire solo che può esser vero che “a Y piaccia p”, ma non vuol dire che ciò sia anche moralmente vero, cioè “buono”).
Se non esistono fondamenti universali nell’ambito della giustizia politica, come facciamo a elaborare valutazioni dotate di un qualche senso di giustizia? Rawls adopera il concetto di equilibrio riflessivo, avvalendosi, non a caso, della teoria di un filosofo che non ha mai creduto nell’esistenza di fondamenti, né ha mai pensato che ciò fosse un tema filosoficamente rilevante: Nelson Goodman. Rawls osserva: «si tratta di una nozione che caratterizza lo studio dei principi che regolano le azioni in cui l’introspezione ha particolare rilievo […]. La conoscenza di questi principi può suggerire ulteriori riflessioni che ci inducono a riconsiderare i nostri giudizi».[3] “Equilibrio riflessivo” è in Rawls uno stato di cose, non necessariamente duraturo, per il quale i principi individuali coincidono con i giudizi ponderati: «la miglior rappresentazione del senso di giustizia di una persona non è quella che si adatta ai suoi giudizi prima che una qualunque concezione della giustizia sia presa in esame, ma piuttosto quella che corrisponde ai suoi giudizi in un equilibrio riflessivo». Il giudizio riflessivo non comprende tutti i giudizi esistenti di un individuo, ma solo il caso «in cui si considerano tutte le possibili espressioni a cui potrebbero realisticamente uniformarsi i giudizi di un individuo»[4].
Rawls perfeziona l’argomento di Goodman sull’equilibrio riflessivo nella sua riformulazione dell’idea di giustizia come equità, sostenendo che questo si applica ai giudizi sulla giustizia politica e in particolare a proposito di quei giudizi che sono il prodotto di selezioni meditate: «giudizi, in altri termini, formulati in condizioni nelle quali è massima la probabilità che abbiamo pienamente esercitato la nostra capacità di giudizio, senza che influenze esterne l’abbiano distorta. I giudizi meditati sono ponderazioni, cioè valutazioni formulate quando le condizioni sono favorevoli all’esercizio della facoltà della ragione e del senso di giustizia; in altre parole, in condizioni nelle quali abbiamo la capacità, la possibilità e il desiderio di arrivare a un giudizio ben fondato, o almeno non abbiamo – mancando le tentazioni più ovvie – interessi evidenti per non farlo»[5]. Non è privo di rilevanza, inoltre, che la prospettiva di Rawls permetta, anzi contenga, un uso frequente del concetto di cooperazione sociale: l’equilibrio riflessivo è anche una sorta di equilibrio cooperativo.
L’esito controintuitivo della posizione dell’equilibrio rawlsiano ha un considerevole impatto anche dal punto di vista della percezione del senso di ingiustizia, e quindi anche delle differenze. Alla base di ciò risiede proprio il concetto di reciprocità, che permette la simmetria tra ciò che viene inflitto agli altri e ciò che viene inflitto a noi stessi, eguali solo in quanto persone, quindi per ciò che concerne la nostra attitudine a essere reciprocamente differenti. Il risentimento e l’indignazione presentano una familiarità con i concetti di “giusto”/“ingiusto”: noi esprimiamo valutazioni di approvazione o disapprovazione nei confronti di p.
Rawls nota anche che nei confronti di p possiamo anche provare disprezzo, ma in questo caso il referente non è più l’opposizione “giusto”/“ingiusto”, ma “buono”/“cattivo”. In sostanza, Rawls non mira semplicemente a descrivere stati d’animo, ma ad affermare come i sentimenti morali possono essere indicatori di codici morali di riferimento, vale a dire di «principi che appartengono a parti diverse della moralità»[6].
3. Non è facile porre le basi del principio comprensivo dei diritti alla luce del puzzle delle diverse concezioni del bene e quindi della diversità culturale della società europea. Qui descrivo sinteticamente uno scenario minimo del problema e prospetto tre obiettivi possibili in riferimento al problema della sicurezza, dal momento che il mondo occidentale, nondimeno quello europeo, ha negli ultimi anni assistito alla crescita della rilevanza del concetto di sicurezza.
Dalla mia prospettiva di analisi, osservo che nelle democrazie liberali europee tale problema ha acquistato sempre maggior rilievo anche in relazione all’aumento di dimensioni di fattori di rischio nell’ambito della stabilità dei sistemi sociali (terrorismo, sfaldamento dell’equilibro eco-ambientale del pianeta, indebolimento della capacità di controllo da parte dell’individuo dei dispositivi tecnologici dei mezzi di accesso e di informazione, etc.). In tal senso, considero interessante l’ipotesi di verificare come anche le nuove tecnologie siano, paradossalmente, tanto un elemento di supporto quanto un fattore di disturbo delle istituzioni sociali. Per restare all’Europa, gli stati europei sembrano essere legittimati ad agire tanto a partire dal bisogno di sicurezza dei singoli individui quanto dal dovere di garantire un sufficiente livello di sicurezza sociale[7]. Il problema stringente e interessante per la filosofia politica è quindi il pericolo dello spostamento dell’asse che sostiene l’equilibrio tra le cure istituzionali e le minacce sociali che l’impresa strategica mira a neutralizzare.
Occorrerebbe, dal mio punto di vista, tenere presenti almeno tre principali obiettivi, che qui mi limito solo a profilare:
(i) indagare quale impatto l’enforcement delle tecnologie di controllo sociale sia in grado di produrre sul livello di disponibilità dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, tenuto conto del fatto che lo scopo finale della sicurezza sociale appare intrinsecamente incapace di rinunciare alla priorità verso un concetto olistico e non atomistico della società, intesa cioè come una collettività piuttosto che come un insieme di individualità aggregate;
(ii) valutare se le strategie istituzionali di sicurezza sociale determinino, nel lungo periodo, una effettiva realizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali a vantaggio di un progetto sociale coerente con i modelli welfaristici e le teorie utilitaristiche, ma probabilmente non compatibile con le teorie modellate liberali dell’egualitarismo semplice,[8] dell’equaglianza complessa[9], dell’eguaglianza di risorse[10], della misurazione della libertà[11], della teoria della giustizia distributiva in un senso più generale;
(iii) ponderare l’impatto effettivo delle strategie politiche e legislative della sicurezza nella misurazione delle relazioni concettuali tra democrazia e costituzionalismo nei sistemi liberali, vale a dire rispetto all’idea di “morale giuridica europea”. Le strategie di sicurezza, adottate con provvedimenti determinati da decisioni politiche del potere esecutivo o legislativo, potrebbero effettivamente rendere molto complicata la disposizione da parte degli individui del set di libertà e diritti fondamentali garantiti dalle costituzioni. A meno che i provvedimenti di sicurezza non riescano (come dovrebbe essere nella loro strumentale natura concettuale) ad assumere un ruolo precario o transitorio, il rischio di una loro cristallizzazione finirebbe infatti per destabilizzare il delicato equilibrio istituzionale tra libertà e legalità, generando buchi neri costituzionali e standardizzando l’errore di una pratica restrittiva dei diritti.
* Il contenuto di questo scritto è una versione rielaborata di parte del cap. V del mio Filosofia dei diritti, Le Lettere, Firenze 20182.
[1] J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione [2001], trad. di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 210-211.
[2] G.H. von Wright, Valutazioni, o come dire l’indicibile [2003], trad. it. di M. Mastroddi, in Id., Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003, a cura di R. Egidi, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 159-169, sp. p. 161.
[3] Rawls, Una teoria della giustizia [1971], trad. di U. Santini, Feltrinelli, Milano 19976, § 9, p. 56.
[4] Ivi, p. 57.
[5] Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., p. 34.
[6] Rawls, Una teoria della giustizia, cit., § 74, pp. 396-397.
[7] Cfr. ad es. J. Solana, Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza, in appendice a A. Missiroli, A. Pansa, La difesa europea, il Melangolo, Genova 2007, pp. 183-205.
[8] Rawls, Una teoria della giustizia, cit., parte I.
[9] M. Walzer, Sfere di giustizia [1983], trad. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1987.
[10] R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza [2000], trad. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 61-122. Si tratta della ridefinizione della teoria dell’eguaglianza di risorse già presentata da Dworkin nel 1981 nella seconda parte di What is Equality?. Dworkin si riferisce all’eguaglianza delle risorse di proprietà privata. In una prospettiva di giustizia distributiva si tratta di affrontare e di risolvere le questioni generate da complicazioni dovute all’arbitrarietà e dall’iniquità. Faccio un esempio: il soggetto Y preferisce tutto ciò che gli può tornare in conto riguardo a ciò che gli sarebbe toccato se le risorse iniziali fossero state gestite in maniera più equa. Questo gli consente di superare ciò che egli sostiene essere il test dell’invidia. Egli non prova necessariamente invidia qualora altri godesse di una situazione migliore della sua, ma la cosa che al nostro soggetto Y più preme è appunto vedersi riconosciuto il suo. Al proposito, Dworkin opta per una qualche forma di asta, o in altre parole di mercato. L’idea è di dar vita procedure di allocazione di risorse aperte a tutti – ma questo in realtà presuppone la capacità intesa come requisito di competere all’allocazione di risorse: la capacità di entrare come parte attiva nel mercato, di avere la possibilità di disporre di beni per poter accedere a qualche altro bene.
[11] I. Carter, A Measure of Freedom, Oxford University Press, Oxford 1999.
A proposito dei cosiddetti casi simili a Bibbiano, i processi di Modena verità e racconto.
di Morena Plazzi
Alcuni giorni fa in un articolo pubblicato da Giustizia Insieme (https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/846-a-proposito-di-bibbiano-e-casi-simili-ovvero-alcune-riflessioni-critiche-all-indomani-del-clamore-mediatico) nel quale veniva affrontato il tema, attualissimo e molto discusso, dei procedimenti coinvolgenti soggetti minori, a partire dal caso di Bibbiano, si affermava, nei paragrafi iniziali, un parallelismo tra un caso modenese di cui si chiede la riapertura dopo più di vent’anni, chiamato dai media “Veleno”, e quello di recente trattato e discusso – anche perché portato al centro di una incalzante campagna elettorale appena conclusa – riguardante i servizi sociali di Bibbiano (RE) e la gestione degli affidi di minori.
Alcune precisazioni risultano necessarie perché i processi della Bassa modenese (il titolo “Veleno” in realtà è il titolo dell’inchiesta videogiornalistica di Repubblica.it, all’epoca non venne dato alcun nome a quella vicenda tristissima) non hanno in realtà molto a che spartire con Bibbiano.
Davanti al Tribunale di Modena, tra il 1998 e il 2002, vennero in successione celebrati tre processi per gravissime ipotesi di abuso sessuale in danno di minori e, complessivamente, quei processi si conclusero con quattordici condanne (a pene tra 10 e 12 anni) e sette assoluzioni definitive. In quei processi gli operatori sociali, che non hanno nulla a che fare con quelli del caso “Bibbiano”, furono sentiti come testimoni e nessuno di essi coinvolto come imputato o ancor solo indagato.
I tre processi modenesi si sono svolti a cavallo tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila, e va anche tenuto conto che all’epoca le conoscenze scientifiche in tema di audizione di minori abusati, domande suggestive, induzione di falsi ricordi e così via erano, non solo a Modena, ad uno stato iniziale; nelle sentenze modenesi si dedica ampio spazio alle problematiche delle conoscenze utilizzabili in relazione al tema dell’audizione dei minori abusati ed è certamente questo l’aspetto che più si collega alle questioni affrontate, in modo problematico, dall’articolo pubblicato alcuni giorni fa ma anche quello per cui è giusto ricordare come si svolsero e con quali esiti i processi celebrati dal Tribunale di Modena e dalla Corte d’Appello di Bologna (oltre ai provvedimenti adottati dal Tribunale per i Minorenni di Bologna).
Senza entrare nel dettaglio dei singoli procedimenti, ma solo per chiarire il passaggio nel quale si afferma che “nel caso dei “Diavoli della Bassa” che risale agli anni ’90 molti adulti sono stati accusati di abuso sessuale collettivo di natura satanica e i loro figli sono stati sottratti alle famiglie con procedure di estrema urgenza. Dopo varie vicende giudiziarie, il caso si è concluso con l’assoluzione dei genitori imputati, con una sola eccezione..” va allora ricordato che se nel primo processo tutti gli imputati (sette) riportarono condanne divenute definitive e che già nel 2001 venne respinta la domanda di revisione del processo presentata da alcuni dei condannati, nel secondo vennero giudicati responsabili, con sentenza definitiva, sette dei diciassette imputati (per tre di questi venne riconosciuto il c.d. bis in idem rispetto ai quei fatti per cui la pena era già stata inflitta); nessuna delle pronunce assolutorie riguardava la sussistenza del fatto bensì i profili di responsabilità individuale.
Questo si può affermare anche in merito al terzo processo, nei confronti dei genitori di minori già ritenuti vittime – nei precedenti- di plurimi fatti delittuosi ad opera di altri stretti congiunti.
In quest’ultimo processo, dopo una condanna in primo grado seguirono le assoluzioni in appello ai sensi dell’art. 530 co.2 c.p.p., sentenze che oltre dal Procuratore Generale vennero impugnate dalle persone offese, costituite parte civile e nel frattempo divenute maggiorenni.
In tutte le sentenze, in ogni grado, vi è stato esplicito e ripetuto riconoscimento che gli abusi sessuali era avvenuti ed erano stati commessi, laddove vi furono assoluzioni, all’interno dello stesso contesto familiare.
In estrema sintesi: nei processi modenesi sono stati accertati con sentenze definitive abusi sessuali su sette bambini e inflitte condanne, tutte definitive ed espiate, per circa 120 anni complessivi di reclusione.
Per questo oggi accomunare le vicende modenesi di più di vent’anni fa al caso di Bibbiano può confondere e confonderci le idee.
Per quanto siano essenziali e perfettamente presenti a tutti, nella loro problematicità, i temi dell’ascolto del bambino, della prova nei processi con vittime minori, del bilanciamento tra garanzia dei diritti del minore e diritto al contraddittorio/diritti della difesa così come affrontati nell’articolo che ha dato spunto a questa breve nota, è anche partendo dalla verità processuale qui riportata che si potrà sviluppare un contributo scientifico utile per il futuro.
[1] “A proposito di Bibbiano e casi simili ovvero alcune riflessioni critiche all’indomani del clamore mediatico” scritto da Giuliana Mazzoni e Antonietta Curci – pubblicato il 22/1/2020
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