ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Legge vs. clausole di parità UE: obbligatorio rivolgersi alla Consulta?
Clausole di parità di trattamento dotate di efficacia diretta, norma di legge incompatibile, discriminazione collettiva pro futuro: disapplicazione o (obbligo di) rimessione alla Consulta? Nota all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, 26 ottobre 2024, IV sez. civile del Tribunale di Firenze.
di Davide Strazzari
Sommario: 1. Una breve premessa sui fatti di causa - 2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio… - 2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale - 3. Qualche considerazione critica - 3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile? - 3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti - 4. Osservazioni conclusive
1. Una breve premessa sui fatti di causa
Il bando 2022 relativo alla assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica del comune di Arezzo contiene una clausola che, nel definire i criteri per l’attribuzione del punteggio utili per la graduatoria, valorizza la “storicità della presenza” nel comune. A tale scopo individua, come indicatori utili, o la residenza anagrafica continuativa nel territorio comunale o lo svolgimento di attività lavorativa, sempre nel territorio comunale, da almeno tre fino a vent’anni, secondo una logica che valorizza in modo incrementale il collegamento previo coll’ente territoriale.
La clausola è, però, meramente riproduttiva di una disposizione contenuta in una legge regionale. Le ricorrenti – due associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 del d.lgs. 215/2003 – agiscono in giudizio iure proprio per far valere una discriminazione a carattere collettivo, in assenza di “vittime” concretamente escluse da un provvedimento della PA.
Secondo parte attorea, la valorizzazione della previa residenza continuativa e/o dello svolgimento pregresso di attività lavorativa nel territorio comunale determinerebbe una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti e di quelli titolari di permesso unico lavoro, incompatibile con gli articoli, rispettivamente, 11 della direttiva 2003/109/CE e 12 della direttiva 2011/98/UE. Queste disposizioni sanciscono un obbligo per gli Stati membri di garantire la parità di trattamento tra i cittadini nazionali e quelli di paesi terzi, titolari del permesso di soggiorno o dello status disciplinato dalle direttive, in una serie di ambiti materiali che includono anche l’accesso alle procedure per l’ottenimento di un alloggio.
Su questa premessa, le ricorrenti chiedono al giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, di sollevare, in via preliminare, la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione sia dell’art. 3 Cost. sia dell’art 117, c. 1 Cost., atteso, in relazione a quest’ultimo parametro, il contrasto con gli artt. 11 e 12 delle direttive richiamate, nonché con gli artt. 21 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Successivamente, anche all’esito del relativo giudizio, chiedono di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta; di ordinare al Comune di Arezzo di modificare il bando ERP, eliminando le clausole censurate; di annullare e riformulare la graduatoria già emessa senza considerare l’applicazione della clausola di “storicità della presenza”; di condannare al risarcimento del danno non patrimoniale in loro favore e di disporre delle astraintes per ogni giorno di ritardo nell’adempimento della decisione.
Il giudice di Firenze, in accoglimento della richiesta delle ricorrenti ed esplicitamente richiamandosi nelle sue argomentazioni alla sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale – di cui riporta ampi stralci -, rimette alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, c. 1 Cost., individuando, però, in relazione a quest’ultimo, quale parametro interposto, il solo art. 11 della dir. 2003/109/CE[1].
Questi, in sintesi, i fatti da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. I motivi di interesse di questa risiedono soprattutto nel fatto che con essa si dia applicazione, tra le prime volte, al modello di rimedio delineato dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 15/2024[2]. Una soluzione, quella indicata dalla Corte, che impone al giudice comune la strada della rimessione costituzionale, ogniqualvolta gli venga chiesto, con il giudizio antidiscriminatorio, non già di dare rimedio al singolo leso da un provvedimento individualizzato, ma di rimuovere anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA, laddove questa sia conseguenza di atti regolamentari (o, aggiungiamo noi, atti amministrativi generali, come nel caso dell’ordinanza di Firenze) che riproducano, però, una norma primaria. In questi casi, anche laddove il contrasto fosse con una clausola di parità contenuta in una norma di diritto UE dotata di efficacia diretta, il giudice, al fine di ottenere un rimedio per rimuovere definitivamente la discriminazione pro futuro, dovrebbe appunto sollevare la questione alla Corte costituzionale e non potrebbe, invece, operare attraverso la disapplicazione della norma contenuta nella fonte primaria.
2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio…
Prima di entrare nello specifico della ordinanza, si ritiene opportuno dare preliminarmente alcune indicazioni di contesto vuoi in relazione al diritto antidiscriminatorio, vuoi in relazione alla sentenza 15/2024 della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, senza alcuna pretesa di esaustività ma al solo intento di illustrare aspetti rilevanti per la migliore comprensione del caso, conviene qui ricordare che il diritto antidiscriminatorio – per lungo tempo limitato al solo ambito lavorativo – ha conosciuto un sensibile incremento rispetto al suo tradizionale ambito materiale di applicazione come conseguenza sia di interventi normativi nazionali sia di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea[3]. Inoltre, in ragione del carattere strutturalmente “debole” delle vittime di discriminazione, si sono spesso previste soluzioni processuali derogatorie rispetto alle regole comuni che hanno attribuito al giudice rimedi speciali al fine di garantire l’effettività della tutela della vittima.
È l’art. 44 del D.L.vo n. 286/1998, T.U. Immigrazione, a introdurre nell’ordinamento italiano un’azione civile contro la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi attivabile, secondo il disposto dell’art. 43, c. 1 TUI, ogniqualvolta il comportamento, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L’azione si esperisce davanti al g.o. anche laddove la condotta discriminatoria sia determinata non già da un privato, ma da un comportamento della PA.
La misura in questione, introdotta dal legislatore italiano autonomamente, senza ottemperare a obblighi dell’UE, si è andata successivamente integrando con ulteriori apporti, questi sì di matrice dell’UE. Grazie all’approvazione di una nuova base giuridica – l’allora art. 13 TCE, oggi 19 TFUE - l’UE ha, infatti, adottato la direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché la direttiva quadro 2000/78/CE che, in relazione al solo ambito lavorativo, dà tutela in relazione a disabilità, età religione o credo e orientamento sessuale.
La direttiva “razza”, più rilevante ai fini di questo scritto, pur rimettendo ai legislatori nazionali la scelta relativa agli strumenti processuali più adatti per darvi attuazione, stabilisce, tuttavia, alcuni importanti criteri che devono essere tenuti presenti dagli Stati[4].
Il legislatore nazionale ha dato attuazione a questa direttiva con il d.lgs. n. 215 del 2003, prevedendo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, un elemento di tutela non previsto effettivamente dalla legislazione europea. Il legislatore italiano ha infatti attribuito agli enti che risultano iscritti nell’apposito albo costituito presso il Ministero non solo la possibilità di agire in giudizio a sostegno o in sostituzione di una persona concretamente lesa dalla discriminazione, ma ha anche attribuito una legittimazione in nome proprio, nei casi almeno di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, d.lgs. 215/03). È appunto in applicazione di questa disposizione che le ricorrenti si sono rivolte al giudice fiorentino.
È da osservare, però, che la direttiva 2000/43/CE, all’art. 3, par. 2, esclude esplicitamente dal suo campo d’applicazione la nazionalità e la Corte di giustizia si è rifiutata di estendere la protezione rispetto a tale fattore in via interpretativa[5].
Ciononostante, nel diritto dell’UE, la tutela avverso la discriminazione per la nazionalità di cittadini di paesi terzi ha trovato altri canali. Essa, infatti, non si estrinseca attraverso una protezione generalizzata, nei confronti della semplice condizione di straniero, quanto, piuttosto, nella garanzia della parità di trattamento in favore di specifiche categorie di cittadino di paese terzo, individuate e disciplinate da puntuali direttive. Ogni direttiva prevede un diverso ambito materiale cui si applica la parità di trattamento, differenziato a seconda della specifica categoria di straniero presa in considerazione. Inoltre, in occasione del recepimento delle direttive, a ciascuno Stato è lasciata la possibilità di ulteriormente circoscrivere la portata materiale delle clausole di parità, sia pure entro i limiti tratteggiati dalle direttive stesse[6].
Per quanto riguarda il rimedio processuale attivabile per garantire le clausole di parità, le diverse direttive non hanno previsto alcunché, lasciando dunque agli stati piena autonomia quanto alla scelta dei relativi strumenti di protezione, sebbene nel rispetto dei limiti, da tempo sanciti dalla Corte di giustizia, dei principi di equivalenza e effettività[7].
Il legislatore italiano ha dato trasposizione alle diverse direttive e segnatamente, per venire ai fatti di causa, ha adottato in relazione ai lungo soggiornanti il d.lgs. n. 3 dell’8 gennaio 2007 e, circa la direttiva permesso unico lavoro, il d.lgs. 40 del 4 marzo 2014. Esso, però, non ha disciplinato un rimedio giudiziale specifico per quanto riguarda la violazione delle clausole di parità, né ha fatto uso delle possibilità di deroga del campo di applicazione materiale di dette clausole.
Nel frattempo, con l’art. 28 del d.lgs. 150/2011, si è dettata una disciplina processuale unitaria per le azioni in materia antidiscriminatoria, prevedendo che tanto alle azioni civili azionate ex art 44 del TUI quanto a quelle per far valere una discriminazione contro la razza e l’origine etnica, ai sensi del d.lgs. n. 215 del 2003, fosse applicabili uno schema processuale comune e comuni poteri al giudice. L’art. 28, c. 5 del d.lgs. n. 50 del 2011 stabilisce, infatti: «Con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato dal provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente».
Rispetto al tratteggiato quadro normativo, conviene inoltre ricordare almeno tre ulteriori profili che si sono andati radicando nella prassi giurisprudenziale e che appaiono tutti direttamente pertinenti per la comprensione dei fatti di causa.
Il primo è la pacifica giurisdizione del giudice ordinario anche laddove il convenuto sia rappresentato dalla pubblica amministrazione contro cui si fa valere non già una semplice condotta discriminatoria, ma l’assunzione di un atto discriminatorio[8], nonché il potere del giudice di ordinare la condanna al risarcimento del danno e alla rimozione dell’atto.
In secondo luogo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, solo il d.lgs. 215 del 2003 – dunque nell’ambito della discriminazione per la razza e l’origine etnica – contempla in capo alle associazioni iscritte presso il Ministero una legittimazione ad agire in proprio in caso di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili le persone lese. Tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione ha ritenuto che, per ragioni di sistematicità e di raccordo col principio costituzionale di uguaglianza, la disciplina testualmente prevista in relazione alle discriminazioni per la razza e l’origine etnica andasse ad applicarsi anche alle condotte discriminatorie per la nazionalità, ai sensi dell’art. 44 del TUI[9].
Infine, nel silenzio del legislatore italiano che, come detto, in sede di trasposizione delle diverse direttive nulla ha previsto a riguardo, alle controversie in cui si invochi il rispetto delle clausole di parità di cui alle direttive europee si è ritenuto di applicare lo schema processuale di cui all’art. 28 del d. lgs. n. 150 del 2011, considerando che in tali situazioni venga comunque in gioco una discriminazione per la nazionalità ex artt. 43 e 44 TUI.
Come si vede, dunque, ai profili di per sé complessi del diritto antidiscriminatorio di matrice interna, che attengono sia alla posizione di diritto soggettivo fatta valere in giudizio e ai connessi poteri del giudice laddove il convenuto sia la PA, sia agli aspetti legati alla legittimazione ad agire di enti esponenziali dell’interesse alla parità di trattamento, si devono aggiungere quelli determinati dalla possibile incidenza esercitata dal diritto Ue e dunque l’operatività dei tradizionali meccanismi che ne garantiscono il pieno rispetto: rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, efficacia diretta, primato, interpretazione conforme [10].
E sotto quest’ultimo profilo è da osservare che proprio il diritto antidiscriminatorio ha costituito e continua a costituire un difficile banco di prova per testare i rapporti tra ordinamento interno e quello europeo, come comprovato dal fatto che il relativo contenzioso ha impegnato tutte le giurisdizioni, incluse la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale, con il coinvolgimento diretto della Corte di giustizia[11].
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale rappresenta, da questo punto di vista, un’ulteriore evidenza. Ad essa, dunque, è necessario dedicare qualche cenno, anche in ragione del richiamo ad essa svolto dal giudice fiorentino.
2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale ha definito due distinti ricorsi: il primo è originato da un conflitto di attribuzioni tra la Regione Friuli Venezia-Giulia e lo Stato; il secondo ha riguardato una questione di costituzionalità avente ad oggetto una disposizione di legge regionale. I fatti da cui sono scaturiti i due ricorsi hanno, però, una medesima origine. La Regione aveva disciplinato, con fonte legislativa, un contributo regionale per l’acquisto di alloggio da destinare a prima casa di abitazione, escludendo quanti risultassero proprietari di altro immobile. La legge regionale prevedeva una clausola, poi riprodotta in una fonte regolamentare, che distingueva tra cittadini dell’UE e quelli di paesi terzi quanto alle modalità relative alla dimostrazione di impossidenza di immobili. Mentre per i primi era sufficiente un’autodichiarazione, per i secondi, invece, la dimostrazione di non essere proprietari di altri alloggi nei rispettivi paesi d’origine era molto più onerosa.
La disciplina regionale aveva determinato un vasto e aspro contenzioso con soluzioni diverse, nella giurisprudenza di merito, quanto alla possibilità per il giudice di ordinare alla PA la modifica – e dunque anche l’abrogazione – della norma regolamentare, ma riproduttiva della legge, laddove in violazione delle clausole di parità previste dalle summenzionate direttive europee, norme dotate di efficacia diretta.
Secondo una prima ricostruzione, applicata da parte del Tribunale di Udine[12] e che era alla base del conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione, il giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, ben potrebbe, ai sensi del c. 5 ultimo periodo di tale articolo, disporre nel senso sopra indicato e dunque ottenere, per tale via, la rimozione definitiva della norma e dunque un rimedio che consenta di soddisfare anche le potenziali future persone lese dall’atto discriminatorio.
Secondo, invece, una seconda ricostruzione, fatta propria dallo stesso Tribunale di Udine ma in diversa composizione, laddove la norma regolamentare riproduca una norma di legge, al giudice ordinario sarebbe precluso ordinare la modifica della norma, dovendosi necessariamente sollevare questione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, anche se in conflitto con una norma UE dotata di efficacia diretta. Allo stesso tempo, però, in relazione ai soli ricorrenti che hanno lamentato in giudizio la loro concreta esclusione dal beneficio, in ragione di provvedimenti di diniego adottati dalla PA sulla base del disposto normativo illustrato in precedenza, il giudice dovrebbe applicare subito la normativa dell’UE e ordinare all’amministrazione la cessazione della condotta discriminatoria e la rimozione degli effetti di questa, attraverso l’emissione di un provvedimento di ammissione al beneficio.
Il giudice, dunque, opererebbe, cumulativamente, secondo due distinti rimedi e due diverse soluzioni processuali: la disapplicazione della norma interna e l’applicazione della norma UE dotata di efficacia diretta (rectius, l’ordine all’amministrazione di applicare la norma UE direttamente applicabile), al fine di rimediare a situazioni di avvenuta discriminazione, individuate in ragione dei soggetti ricorrenti; la rimessione alla Corte costituzionale laddove il giudice intenda rimuovere con effetti generalizzati e anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA determinata dalla legge regionale.
È questa seconda soluzione a ricevere l’avallo da parte della Corte costituzionale.
La Corte, infatti, riconosce la specificità del diritto antidiscriminatorio e dei rimedi previsti ex art. 28 del d.lgs. 150/2011, cui si sommano le particolari garanzie del diritto dell’UE, laddove, appunto, il relativo principio di parità di trattamento trovi una copertura eurounitaria. Essa ammette, infatti, che il giudice possa ordinare alla PA anche la modifica di una norma regolamentare (o di un atto amministrativo generale, come il bando), laddove sia questa a contenere la norma discriminatoria, e non la legge. Laddove, invece, il regolamento riproduca una norma contenuta in una legge, allora è necessario distinguere.
La Corte rileva, infatti, che il giudizio antidiscriminatorio offre un «concorso di rimedi che possono svolgersi anche in momenti successivi» (punto 6.2 del considerato in diritto). In un primo momento, al fine di dare tutela a una lesione attuale e immediata, il giudice è chiamato ad accertare il carattere discriminatorio dell’atto o comportamento; a condannare al risarcimento del danno non patrimoniale; a ordinare la cessazione della discriminazione e l’adozione di provvedimenti tesi a rimuoverne gli effetti. In un secondo momento, invece, al fine di «impedire in futuro il ripetersi e il rinnovarsi di quelle stesse discriminazioni non solo nei confronti dei soggetti che hanno agito in giudizio, ma anche di qualsiasi altro soggetto che potrebbe potenzialmente essere vittima» (punto 6.2 considerato in diritto), il giudice può ordinare l’adozione di un piano di rimozione della discriminazione espressamente accertata e in tale contesto ordinare la modifica di una norma regolamentare.
Ebbene, questa seconda soluzione non sarebbe disponibile al giudice qualora la norma secondaria riproduca una norma di legge. A impedire questa soluzione vi sarebbe il principio di legalità, non potendo il giudice ordinare all’amministrazione di adottare regolamenti confliggenti con la legge anche se illegittima. In tali situazioni, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità della legge e ciò anche se la disposizione legislativa contrastasse con una norma UE dotata di effetti diretti.
Infatti, il giudice adito garantirebbe il primato del diritto UE dando soddisfazione ai ricorrenti individualmente lesi dalla condotta discriminatoria della PA, ordinando pertanto all’amministrazione di attribuire il bene della vita negato. Ma, al fine di evitare la discriminazione de futuro, e, quindi, quando si tratti di attivare un rimedio dal carattere proattivo quale l’ordine della modifica del regolamento, «non viene più in rilievo l’esigenza che il diritto dell’Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione perché tale esigenza è stata, appunto, già pienamente soddisfatta». Piuttosto, secondo la Corte, in tali casi «viene in gioco, invece, una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione […]» (punto 7.3.3 considerato in diritto).
La soluzione individuata dalla Corte costituzionale, applicabile solo laddove si intenda eliminare con efficacia generalizzata una norma di legge in conflitto con clausole antidiscriminatorie, si accosta per certi versi e per altri si discosta[13] da quella elaborata, sempre dalla Corte costituzionale, a partire dall’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269/2017, poi ulteriormente precisata e “temperata”[14] nelle successive sentenze 20, 63, 112 del 2019. Secondo questa giurisprudenza, quando il giudice abbia il dubbio che una disposizione di legge confligga tanto con disposizioni della Carta, dotate di efficacia diretta, quanto con la Costituzione, egli può decidere se rivolgersi alla Corte di giustizia, col rinvio pregiudiziale, assumendo come parametro le disposizioni della Carta, oppure alla Corte costituzionale, invocando profili costituzionali o anche dell’UE (in via mediata ex art. 11 e 117, c. 1 Cost.)[15].
Se ne accosta, perché, al pari di quella, il relativo accentramento in capo alla Corte costituzionale viene giustificato dalla necessità di garantire la certezza del diritto e una soluzione, quale appunto la rimozione della legge previa sua dichiarazione di incostituzionalità, che produca effetti generalizzati, dunque uniformi, per l’intero ordinamento nazionale.
Se ne discosta, perché, mentre nel modello della 269 vi è una facoltà di rimessione alla Corte costituzionale, qui, invece, si tratterebbe di un vero obbligo di promuovere la relativa questione incidentale[16].
In secondo luogo, nel sistema delineato dalla sentenza 269/2017, questa alternatività dei rimedi opererebbe in relazione a controversie in presenza di un sospetto contrasto della legge interna con un diritto fondamentale tutelato sia dalla Costituzione nazionale sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[17]. Nell’ipotesi, invece, delineata dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, il necessario incidente di costituzionalità opererebbe in ragione del fatto che il giudice intende garantire, con un rimedio specifico del diritto antidiscriminatorio – il piano di rimozione della discriminazione –, la espunzione definitiva della norma di legge che determina la violazione della parità di trattamento. La rimessione alla Corte, dunque, si dà a prescindere dal fatto che il giudice comune abbia fatto esplicito e formale riferimento, nell’ordinanza di rimessione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[18].
Vero è che tale distinzione può forse avere un senso appunto nei casi di formale omissione di ogni riferimento ai diritti della Carta nell’ordinanza di rimessione. In termini, invece, sostanziali, si deve concordare con quella dottrina che sottolinea criticamente come la Corte costituzionale e i giudici comuni sembrino attrarre nel “modello 269 temperato” situazioni in cui il parametro della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sia semplicemente evocato, senza che venga davvero in gioco un problema di effettiva compatibilità con un diritto ivi sancito. E da questo punto di vista, anche sulla base delle argomentazioni da ultimo formulate nella sentenza 181/2024, è difficile non ravvedere sempre nelle controversie antidiscriminatorie un “tono costituzionale”, stante il nesso con interessi e principi costituzionali e della Carta[19].
Infine, mentre nel contesto delineato dalla sentenza 269/2017 la concorrenza tra rimedi riguarda il rinvio pregiudiziale rispetto alla questione di costituzionalità, ciò che presuppone un dubbio sulla compatibilità della norma, nell’ipotesi di cui alla sentenza 15/2024 l’alternativa è, come osservato in dottrina, tra disapplicazione e dichiarazione di incostituzionalità[20] e, dunque, aggiungiamo noi, il dubbio ben potrebbe non esserci[21]. Anche qualora il giudice fosse convinto del contrasto con la normativa UE dotata di efficacia diretta, nei casi almeno in cui venisse adito solo attraverso un’azione di carattere collettivo, come appunto avvenuto nella controversia dinnanzi al Tribunale di Firenze, egli non potrebbe che rimettere alla Corte costituzionale, non essendoci una vittima identificata cui sia possibile garantire, separatamente, il bene della vita attraverso la disapplicazione della legge e l’applicazione puntuale e circoscritta della norma UE dotata di efficacia diretta.
3. Qualche considerazione critica
Date le opportune indicazioni di contesto, è necessario ora muovere all’analisi dell’ordinanza del giudice fiorentino. Le riflessioni si articoleranno secondo due prospettive. La prima considererà la scelta dell’organo giudicante di effettuare la rimessione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, facendo così applicazione del percorso procedurale che la Corte costituzionale ha appunto definito nella sentenza 15/2024. Si tratta di una soluzione, quella prescelta dal giudice fiorentino, comprensibile, quasi “obbligata”, in ragione appunto del più volte richiamato arresto. Ciononostante, ci si interrogherà, se questa strada – che, in effetti, era stata chiesta dalle stesse ricorrenti – fosse l’unica percorribile e comunque quella più adatta a garantire l’effettività del rimedio nella prospettiva del diritto dell’UE. Si ritiene, infatti, che esistano ragioni per ritenere che l’applicazione immediata della norma di parità, contenuta nella direttiva, possa continuare ad essere almeno una via percorribile, a nostro parere anche preferibile, rispetto alla questione incidentale alla Corte costituzionale.
La seconda prospettiva di analisi guarderà, invece, alle ragioni che militano a favore della incompatibilità tra la disposizione della legge regionale e la clausola di parità contenuta nella direttiva 2003/109/CE.
3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile?
Venendo dunque al primo profilo, il giudice fonda la decisione di sollevare la questione di costituzionalità della legge regionale su due distinte argomentazioni.
Quanto alla prima, il giudice sembra dubitare dell’efficacia diretta dell’art 11, par. 1 lett. f) della dir. 2003/109 in relazione ai fatti di causa. Sarebbe, infatti, la stessa direttiva, all’art. 11, par. 4, a consentire agli Stati membri di limitare la parità di trattamento ai casi in cui il cittadino lungo soggiornante abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel territorio statale. Detta possibilità sarebbe idonea a far venir meno l’efficacia diretta della disposizione. Senonché, è lo stesso giudice a non ritenere questa argomentazione pienamente convincente. Egli ricorda, infatti, come la Corte di giustizia abbia sottolineato in più occasioni che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista dalla direttiva unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato, per l’attuazione di tale direttiva, abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta. E come il giudice rileva, allo stato degli atti non risulta che la Repubblica italiana abbia manifestato tale intenzione.
È, dunque, sulla base di una seconda argomentazione che il giudice decide per la rimessione alla Corte costituzionale e questa è, appunto, rappresentata dalla ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, cui il giudice mostra di aderire, riportando nel testo ampi stralci.
È una prospettiva, quella delineata dalla Consulta e appunto fatta propria dal Tribunale di Firenze, cui riteniamo si possano muovere alcuni rilievi critici, anche sul presupposto che, diversamente dal caso deciso dalla Corte costituzionale, il Tribunale di Firenze è chiamato a pronunciarsi unicamente su di un’ipotesi di discriminazione a carattere collettivo in cui, dunque, non ci sono “vittime” individuate che agiscano in nome proprio, ma solo enti esponenziali che chiedono, in via principale, la modifica dell’atto suppostamente discriminatorio. In questo caso, quindi, la cumulabilità dei rimedi (disapplicazione e questione di costituzionalità), applicabile alla controversia decisa dalla Corte costituzionale, non potrebbe operare e si darebbe solo la via della questione di costituzionalità.
Conviene, in primo luogo, muovere dai principi che fondano i rapporti tra norme dell’ordinamento dell’UE e quelle dell’ordinamento nazionale. Come noto, infatti, il primato del diritto dell’UE richiede che il giudice nazionale, quando ritenga, anche eventualmente all’esito di un rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia, che la normativa interna sia incompatibile con quella del diritto UE, dotata di efficacia diretta, non applichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nel caso Granital che postula, richiamandosi al criterio di competenza, che la norma interna sia valida ed efficace, ma appunto non sia quella competente) – o disapplichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte di giustizia, a partire dal caso Costa e poi Simmenthal, per cui la disapplicazione sarebbe la conseguenza del fatto che la norma interna non si sia formata validamente) – la norma interna. Entrambe le prospettive, però, convergono sul fatto che il giudice debba applicare la norma del diritto dell’Ue dotata di efficacia diretta, che, per definizione, è incondizionata e dunque non subordinata all’emanazione di ulteriori atti normativi.
Quale sarebbe la norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta applicabile al caso di specie?
Ci sembra che la norma applicabile sia la clausola, contenuta nell’art. 11 della dir. 2003/109/CE (ma anche nell’art. 12 dir. 2011/98/UE) che impone la parità di trattamento tra cittadini nazionali e quelli lungo soggiornanti, norma sulla cui efficacia diretta la Corte di giustizia si è più volte pronunciata, anche in relazione a controversie sorte in relazione all’accesso all’edilizia residenziale pubblica[22].
Ne deriva che, al fine di rimuovere la discriminazione anche pro futuro, il giudice non abbia affatto bisogno di ordinare all’amministrazione la modifica dell’atto regolamentare o, come nel caso di specie, dell’atto ammnistrativo generale, riproduttivo di norma di legge[23]. Al fine di far cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, come prevede la prima parte dell’art. 28, c. 5 d. lgs. 150/2011, è sufficiente, una volta accertata la discriminazione, che egli condanni l’amministrazione ad applicare la … legge alla generalità dei casi. Questa non è evidentemente la legge regionale, ma la norma di diritto dell’UE, che è quella correttamente applicabile, tanto ai casi individuali, di persone concretamente lese, qui non presenti, quanto pro futuro per (asserite) vittime ipotetiche.
Non pare che a questa ricostruzione faccia ostacolo l’argomento tratto dal principio di legalità. In effetti, questo profilo sembra usato in modo un po’ contraddittorio dalla Corte costituzionale. Laddove, infatti, si tratti di dare soddisfazione alla singola vittima, concretamente lesa dall’attività dell’amministrazione, il giudice ben potrebbe soddisfare la pretesa di quest’ultima, ordinando all’amministrazione l’applicazione della norma UE, che, dunque, sarebbe in questi casi il fondamento legislativo dell’agire della PA. Al contrario, laddove si trattasse di soddisfare non una vittima concreta, ma solo futuribile (almeno nella prospettiva fatta propria dalla Corte), la norma UE dotata di efficacia diretta – la clausola di parità della direttiva – non dispiegherebbe più alcun effetto sull’ordinamento nazionale e l’agire della PA tornerebbe ad essere retto solo dalla prospettiva delle norme interne. A noi pare che la norma UE non possa essere ritenuta a efficacia intermittente. Essa deve ritenersi applicabile in entrambe le situazioni e soddisfare così in tutti e due i casi i vincoli derivanti dal principio di legalità.
In secondo luogo e ad ulteriore sostegno di quanto si sta osservando, è da sottolineare che il primato non si applica solo ai giudici, ma alla stessa amministrazione[24]. È questo un principio che discende dall’obbligo di leale collaborazione tra Ue e Stati membri (art. 4, par. 3 TUE) e che si applica evidentemente a tutte le componenti dello Stato e dunque anche alle amministrazioni degli enti territoriali, quali la Regione e il Comune. L’amministrazione comunale sarebbe già tenuta, di suo, a non applicare la norma interna, sia questa regolamentare o legislativa, laddove essa fosse in contrasto con altra norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta, in quanto, per la prospettiva della Corte di giustizia, non potrebbe ritenersi validamente prodotta. È la stessa Corte costituzionale, del resto, a ricordare questo aspetto (punto 8.2 considerato in diritto). Il fatto che l’amministrazione «per mancata contezza della predetta incompatibilità o in ragione di approdi ermeneutici che la ritengano insussistente» (sempre punto 8.2 del considerato in diritto) continui ad utilizzare le norme interne in contrasto col diritto UE, anziché quelle dell’UE, non fa venir meno l’illiceità della condotta.
Un ulteriore elemento di perplessità, poi, è rappresentato dalla qualificazione in termini solo meramente potenziali della condotta suppostamente discriminatoria, come se la norma della legge regionale non fosse idonea a determinare una discriminazione già attuale, ma solo appunto pro futuro.
L’assenza di una vittima “reale”, concreta, che reclami il bene della vita in giudizio, non rende meramente potenziale la discriminazione. La norma di legge e/o la clausola del bando che attua quella norma, infatti, hanno già scoraggiato, scoraggiano e continueranno a scoraggiare eventuali richiedenti dal presentare la domanda e ciò accadrà anche per tutto il periodo necessario per la relativa pronuncia di costituzionalità[25], rendendo attuale e immediata la lesione del bene della vita.
Il punto è stato affrontato dalla Corte di giustizia nelle sentenze Feryn[26], Asociația Accept[27] e Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford [28]. Organismi pubblici di parità o soggetti esponenziali della società civile – tutti legittimati ad agire dal rispettivo diritto nazionale[29] – ricorrevano in giudizio per far accertare la condotta discriminatoria di datori di lavoro che, con dichiarazioni pubbliche, avevano lasciato intendere di praticare, in relazione all’assunzione, pratiche discriminatorie. Anche qui, dunque, si verteva in un’ipotesi in cui non vi era in giudizio una persona concretamente e direttamente lesa dal comportamento discriminatorio. La Corte ha ciononostante stabilito: «Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 luglio 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro»[30].
Come si vede, dunque, la discriminazione (diretta, in questo caso) è accertata anche se, all’evidenza, non vi era prova che la dichiarazione resa avesse, nei fatti, determinato una concreta lesione a un soggetto individuato.
È vero, peraltro, che nel caso fiorentino l’applicazione della cd. discriminazione da scoraggiamento sarebbe determinata non già da semplici dichiarazioni, ma da un atto normativo, espressione dunque di discrezionalità politica dei competenti organi.
Inoltre, è vero che la Corte di giustizia non si è mai pronunciata sulla possibilità di estendere tale anticipazione della tutela della discriminazione anche alle clausole di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti.
Non sembrano, tuttavia, esserci ragioni per negare tale possibile sviluppo. L’integrazione sociale dei cittadini di paesi terzi, dotati dello status di lungo soggiornante (cons. 12 del preambolo), è tra le finalità dichiarate della direttiva 2003/109/CE. E sarebbe agevole osservare che una norma, quale quella della Regione Toscana (e/o la clausola del bando comunale), è certamente idonea a ostacolare questo obiettivo. Inoltre, come si vedrà in relazione alla nozione di discriminazione indiretta, sebbene quest’ultima sia affermata testualmente solo nelle direttive antidiscriminatorie adottate ex art. 13 TCE (oggi 19 TFUE), ma non anche nella clausola di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti, la Corte di giustizia l’ha ugualmente applicata anche a queste ultime situazioni. Segno, dunque, che la nozione di discriminazione di cui alle direttive ex art. 13 TCE/19TFUE e la giurisprudenza che su di essa si è formata sono espressione di principi più generali, applicabili ogniqualvolta si controverta in materia di disparità di trattamento.
Il richiamo agli arresti giurisprudenziali della Corte di giustizia di cui sopra è, inoltre, importante per un altro profilo. La Consulta sembra suggerire che l’ordine da parte del giudice nazionale di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, ai sensi dell’art. 28, c. 5 ultimo periodo del d.lgs. 150/2011 – categoria cui la Corte riconduce anche l’ordine all’amministrazione di modificare una norma regolamentare –, sarebbe «una forma rimediale peculiare e aggiuntiva», venendo in gioco «una logica interna all’ordinamento nazionale».
Ciò è senz’altro vero. Come detto, la direttiva 2003/109/CE non contiene indicazioni quanto ai profili della tutela giudiziale[31]. Tuttavia, ciò non toglie che, quando il giudice è adito per far valere la clausola di parità di cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti, la situazione ricada pur sempre nell’ambito di applicazione del diritto UE. Ne consegue che l’autonomia processuale degli Stati deve sottostare al rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, quest’ultimo letto nel prisma dell’art. 47 della Carta[32].
Ed è dunque alla luce di tale principio che conviene interrogarsi se sia conforme al diritto dell’UE un meccanismo processuale che, una volta che riscontri la discriminatorietà dell’agire dell’amministrazione e la sua idoneità a produrre già in modo concreto e attuale discriminazioni a danno di una pluralità di soggetti, sia pure non immediatamente identificabili, non disponga di uno strumento per rimediarvi in via immediata.
Ci sembra che rimangano intatte – ed applicabili al caso di specie – le ragioni che, nella sentenza Simmenthal, hanno portato la Corte di giustizia a ribadire che i giudici di ogni grado debbano, all’occorrenza, disapplicare la norma interna confliggente con la norma Ue dotata di efficacia diretta: l’immediatezza della tutela per i singoli, da un lato; l’esigenza di dare uniforme applicazione al diritto UE in tutti gli stati membri (corsivo nostro)[33].
La certezza e l’uniforme applicazione non sono principi che vanno declinati avendo di mira la sola dimensione nazionale, ma devono essere predicabili all’insieme degli Stati membri e dunque tradursi in un rimedio che garantisca a tutti i giudici, di tutti gli Stati membri, la possibilità di dare piena e concreta soddisfazione ad una pretesa fondata sul diritto UE, nonché, eventualmente, di chiedere alla Corte di giustizia una sentenza con cui quest’ultima possa assolvere alla sua funzione nomofilattica sul territorio europeo. Del resto, è stato proprio il fatto che nei paesi dell’allora CEE vi fossero tradizioni giuridiche diverse quanto alle modalità di recepimento del diritto internazionale pattizio (e, dunque, del diritto comunitario) e delle modalità con cui risolvere le eventuali antinomie rispetto al diritto interno[34], a spingere la Corte di giustizia ad individuare un rimedio, come la disapplicazione dell’atto interno, che è sì nella disponibilità di tutti i giudici nazionali, ma che sconta, per sua stessa struttura, la possibilità di contrasti giurisprudenziali nella sua concreta applicazione. Non è poi superfluo ricordare la centralità che la Corte di giustizia attribuisce al giudice comune, anche in una prospettiva di equilibrio istituzionale e di indipendenza interna della magistratura, necessaria per garantire lo stato di diritto e l’effettività del diritto dell’Unione[35].
Vero è che nella sentenza Melki e Abdeli[36] e A[37] il giudice del Lussemburgo sembra considerare compatibile con il diritto dell’Ue una disciplina nazionale che preveda l’obbligo di avviare un procedimento incidentale di costituzionalità che impedirebbe al giudice nazionale di disapplicare immediatamente una disposizione legislativa nazionale che ritenga contraria al diritto UE, ma lo ha fatto precisando che il giudice deve essere libero in ogni momento, anche successivo all’intervenuta sentenza dell’organo di legittimità costituzionale, di rimettere la questione pregiudiziale alla Corte; di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e di poter comunque disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, le norme interne se le ritengano contrastanti col diritto dell’Unione (corsivo nostro)[38].
E, tuttavia, in casi successivi alle sopraccitate sentenze, la Corte di giustizia ha ribadito la precedente dottrina Simmenthal per cui, laddove non vi siano dubbi quanto all’incompatibilità della norma interna con la norma Ue dotata di efficacia diretta, vi è la necessità di dare piena e immediata efficacia alle norme Ue, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, che sia contraria a una disposizione del diritto dell’Unione dotata di efficacia diretta, senza dover chiedere o attendere la rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (corsivo nostro)[39].
Del resto, se, come osservato in precedenza, il primato impone già all’amministrazione di applicare il diritto dell’Ue, laddove dotato di efficacia diretta, e ciò evidentemente senza necessità che vi sia una previa pronuncia del giudice costituzionale, sembrerebbe contraddittorio ritenere che, nel caso del giudice comune, tale possibilità venga appunto condizionata dalla previa rimessione alla Corte costituzionale.
Inoltre, si creerebbe una diversità nel rimedio a seconda che vi sia o meno una vittima “concreta” o solo “potenziale” nella condotta discriminatoria della Pa: nel primo caso, questa, attivandosi in giudizio, otterrebbe, secondo lo schema delineato dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, la disapplicazione della legge e la soddisfazione immediata del bene della vita, mentre nel secondo caso, e nonostante, come si sia cercato di dimostrare prima, la lesione sia già in atto, si potrebbe ottenere solo un rimedio prospettico. È da considerare, a riguardo, che la vittima potrebbe essere assolutamente reale, nel senso di esistente, ma, anche in ragione della strutturale debolezza delle parti in questo tipo di giudizio, aver confidato nell’attivazione in giudizio da parte degli enti esponenziali secondo lo schema del ricorso collettivo. Si creerebbe, dunque, una diversità di tutela e, a monte, di trattamento che mette in discussione, in quest’ultimo caso, l’imparzialità dell’agire della PA, tenuta a rispettare sempre la medesima norma di legge.
In questo senso, potrebbe essere opportuno un chiarimento alla Corte di giustizia circa i limiti di tale obbligo di rimessione alla Corte costituzionale nel caso appunto descritto.
Alla luce di tutte queste osservazioni, ci si chiede se non ci possa essere spazio per una soluzione alternativa che, pur tenendo ferme le esigenze interne di certezza del diritto e dell’ordinato rapporto tra fonti, possa contemperare le ragioni dell’effettività del rimedio e del rispetto del diritto UE.
Il giudice, dunque, in una situazione quale quella descritta, laddove fosse convinto della incompatibilità della disposizione di legge con la clausola di parità di trattamento, potrebbe già, in applicazione della prima parte dell’art. 28 d.lgs. 150/2011, accertare la discriminazione da parte dell’amministrazione e condannarla al risarcimento del danno; ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, intimando di non dare applicazione alla norma interna discriminatoria e confliggente con norma UE e, al fine di rimuovere gli effetti discriminatori, ordinare all’amministrazione di l’applicare alla generalità dei casi la norma di parità di cui alla direttiva. Tutto questo si baserebbe proprio sul presupposto che l’amministrazione opererebbe dando attuazione alla direttiva, rispettando, dunque, il principio di legalità.
In alternativa, e secondo una valutazione libera, laddove si ritenesse di dare precedenza ai valori della certezza del diritto sul piano interno, anziché a quelli di immediatezza della tutela, potrebbe effettuare la rimessione alla Corte costituzionale, ma, secondo l’insegnamento della Corte di giustizia in Melki, dovrebbe poter «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»[40], garantendo, dunque, in termini interinali la sospensione della legge. Questa ipotesi, dunque, rappresenterebbe un’applicazione della “269 temperata”, che si giustificherebbe stante il coinvolgimento di principi presenti tanto nella Carta quanto in Costituzione e in ragione dell’ “impatto sistemico”, di cui ragiona la Consulta nella recente sent. 181/2024.
3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti
Posto, dunque, che la norma di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE è dotata di efficacia diretta, la clausola della storicità della presenza, prevista dalla legge regionale della Toscana, può dirsi in conflitto con essa? Detto in altri termini, la parità di trattamento di cui alla direttiva copre anche la discriminazione indiretta, quale, appunto, sarebbe quella determinata dall’uso della durata della residenza? E se sì, entro che limiti deve essere articolato il relativo giudizio di valutazione della giustificazione e proporzionalità della misura?
Gli interrogativi ci portano a valutare gli argomenti che il giudice ha posto in punto di non manifesta infondatezza relativamente al parametro di cui all’art. 117 , c. 1 Cost., cui vorremmo dedicare qui maggiore rilievo, anche per continuità tematica col discorso in precedenza sviluppato[41].
L’ordinanza di rimessione, in effetti, si rifà a una serie di pronunce in cui la Corte di giustizia ha valutato, in relazione al divieto di non discriminazione tra cittadini nazionali e quelli dell’UE, talune disposizioni nazionali che subordinavano l’accesso a prestazioni sociali a requisiti di residenza prolungata nello stato in questione.
Secondo il giudice fiorentino, da tale giurisprudenza si evincerebbe che la Corte di giustizia non avrebbe del tutto escluso l’ammissibilità di criteri volti a misurare il “nesso reale” tra il richiedente la prestazione e lo stato erogatore, come appunto un requisito di previa residenza continuativa, sempreché con essi si intenda perseguire uno scopo legittimo, siano idonei e proporzionati a raggiungere tale scopo e non siano troppo esclusivi[42].
Sulla base di tale giurisprudenza, il giudice di Firenze ritiene che l’elevata valorizzazione della residenza pregressa, di cui alla legge regionale, non offrendo una prognosi sulla stanzialità futura, non sia idonea a perseguire lo scopo di favorire chi probabilmente si radicherà in Regione. In ogni caso, il criterio finirebbe per tradursi in un mezzo di postergazione automatica di quanti, pur avendo un maggior bisogno soggettivo, sono presenti da minor tempo in regione.
Credo che il richiamo a queste sentenze, sebbene certamente utile per una messa a fuoco della natura sospetta del fattore “residenza” nei casi di discriminazione per la nazionalità e per considerazioni in punto di proporzionalità della misura, debba essere improntato a una certa cautela. In primo luogo, perché esse riguardano un parametro normativo diverso, quale appunto la libertà di circolazione dei cittadini UE e la parità di trattamento, che hanno rango di norma primaria (anche se poi meglio articolate e specificate nella dir. 2004/38/CE), mentre in relazione ai fatti di causa il diritto pertinente è la clausola di parità di cui alla dir. 2003/109/CE (nonché della dir. 2011/98/UE). In secondo luogo, perché la giurisprudenza della Corte di giustizia in merito al genuine link appare di particolare difficile sistematizzazione. Diversi sono, infatti, gli elementi che possono influire sull’esito delle sentenze della Corte, a partire, ad esempio, dal fatto che il requisito di previa residenza continuativa tocchi gli interessi di un cittadino UE che sia un lavoratore, ad esempio transfrontaliero, o un soggetto cd. non economicamente attivo.
Più utile, forse, per i fatti di causa sarebbe stato rifarsi alla sentenza con cui la Corte di giustizia ha ritenuto incompatibile, proprio in relazione alla clausola di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE, il requisito di residenza decennale in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, prevista dal legislatore italiano per accedere al reddito di cittadinanza[43].
In effetti, un primo aspetto che questa sentenza ha chiarito è che la clausola di parità in questione dà tutela non solo alle disparità di trattamento direttamente fondate sulla cittadinanza, ma anche a quelle, di carattere indiretto, fondate sulla residenza e sulla durata della residenza.
Per la Corte, infatti, pur non motivando adeguatamente[44], «il principio di parità di trattamento sancito all’art. 11 della direttiva 2003/109 vieta non soltanto le discriminazioni palesi fondate sulla cittadinanza, ma anche tutte le forme dissimulate di discriminazione che, in applicazione di altri criteri distintivi, pervengono di fatto allo stesso risultato» (punto 48). E la residenza è tra questi.
La precisazione è importante. Mentre, infatti, la nozione di discriminazione indiretta è codificata in relazione ai diversi fattori discriminatori tutelati dal diritto UE (o è stata da tempo formulata dalla Corte di giustizia in relazione, ad esempio, al divieto di discriminazione per la nazionalità tra cittadini UE), non lo è in relazione alla clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti – come anche delle altre clausole di parità di trattamento previste nei diversi atti di diritto UE derivato, volti alla disciplina di specifici status immigratori – che si limita ad affermare il relativo principio, senza ulteriori specificazioni.
La Corte di giustizia chiarisce un ulteriore aspetto: una misura può ritenersi indirettamente discriminatoria senza che sia necessario che essa abbia l’effetto di favorire tutti i cittadini nazionali o di non sfavorire soltanto i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, ad esclusione dei cittadini nazionali (par. 51)[45].
È un chiarimento prezioso in relazione ai fatti su cui è chiamato a giudicare il giudice di Firenze. Sebbene il criterio della storicità della presenza favorisca una piccola porzione soltanto dei cittadini nazionali, quelli appunto storicamente residenti, e sfavorisca, al pari dei lungo-soggiornanti, quegli italiani trasferitisi da poco in loco da fuori regione o comune, ciò non toglie che, tra quelli esclusi a causa della durata della residenza, sia più probabile vi siano i cittadini stranieri lungo-soggiornanti.
Ma forse la parte più rilevante della sentenza – e di indubbia pertinenza per il caso fiorentino – è quanto la Corte dice in punto di possibile giustificazione della misura che determina l’impatto discriminatorio. Come noto, infatti, la nozione di discriminazione indiretta nel diritto antidiscriminatorio presuppone due passaggi: la dimostrazione da parte dell’attore che la misura determini un impatto maggiore per gli appartenenti al gruppo protetto; la prova da parte del convenuto che la misura, anche se causa un impatto più svantaggioso per il gruppo protetto, è ugualmente legittima perché persegue uno scopo legittimo ed è necessaria al raggiungimento di tale fine, sulla base di un test di proporzionalità,
Anche su questo aspetto la sentenza offre importanti spunti.
Il governo italiano, al fine di giustificare il requisito di residenza decennale e continuativa negli ultimi due anni, aveva sottolineato che il reddito di cittadinanza, poiché prevede un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, presuppone che i destinatari della misura siano soggiornanti in Italia in modo permanente e ben integrati.
La Corte respinge questo argomento sulla base di un dato testuale che si lega a uno di carattere più generale e sistematico. La direttiva consentirebbe già di prendere in considerazione la residenza come fattore derogatorio della parità di trattamento, ma lo farebbe in modo tassativo: l’art. 11, par. 4 abilita gli Stati, appunto, a limitare la parità di trattamento ai lungo soggiornanti (o ai loro familiari) che abbiano eletto dimora o risiedano abitualmente nel suo territorio. Al di fuori di tali ipotesi, uno Stato non potrebbe invocare una pretesa diversità di fatto tra cittadini lungo soggiornanti e cittadini nazionali quanto all’integrazione e al supposto legame con lo Stato di soggiorno. Infatti, l’acquisto dello status di lungo soggiornante presuppone un requisito di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni nel Paese, che è un periodo di tempo considerato dallo stesso legislatore dell’UE sufficiente per ritenere maturato il radicamento del richiedente nel paese in questione e poter vantare, successivamente all’acquisizione di tale status, la parità di trattamento.
Ne deriva, dunque, che al di fuori dei casi di utilizzo formale della deroga, ai sensi dell’art. 11 dir. 2003/109/CE – e come visto il caso di Firenze non è tra questi -, una condizione di residenza o di durata della residenza sia sempre una misura non giustificabile e dunque discriminatoria verso i lungo soggiornanti.
In questo senso, dunque, il precedente della Corte di giustizia contiene diversi elementi che prospettano un’incompatibilità della clausola di “storicità della presenza”, di cui alla legge regionale della Toscana, rispetto alla direttiva lungo-soggiornanti. L’unico profilo su cui può residuare il dubbio – e che è lo stesso che fonda, la rimessione del giudice alla Corte costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza – è che qui la clausola che valorizza la residenza non è posta come condizione di accesso al bene, come avveniva nel contesto del reddito di cittadinanza, ma quale criterio concorrenziale, al pari di altri. E, tuttavia, a noi pare che esso sia pur sempre in contrasto con la clausola di parità della direttiva. Il fatto che il criterio discriminatorio non determini direttamente e univocamente l’esclusione dal beneficio, ma concorra assieme ad altri fattori legittimi, non fa venir meno la natura discriminatoria dello stesso.
4. Osservazioni conclusive
Le questioni trattate in questa nota trascendono, per certi profili, la dimensione dell’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. Esse toccano inevitabilmente la svolta indotta dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 269 del 2017, in tema di doppia pregiudiziale e ruolo del giudice in relazione all’applicazione del diritto dell’UE, di cui la sentenza 15/2024 rappresenta per certi aspetti uno sviluppo.
Si richiamano le ragioni che hanno indotto autorevole dottrina ad esprimere perplessità su questo approccio[46]. Qui ci si limita ad osservare che la promozione della certezza del diritto e della sua uniforme applicazione, che giustifica, secondo la Corte, la scelta da parte del giudice comune di sollevare la questione incidentale in alternativa ai consueti rimedi previsti dal diritto dell’Ue, non è senza conseguenze e avviene a discapito di altri interessi, egualmente rilevanti. Essa può comportare, infatti, non solo svantaggi in termini di immediatezza ed effettività della tutela del singolo, ma anche il rischio che il giudice nazionale sia indotto a preferire o comunque ad approfondire il linguaggio costituzionale, per certi versi più consueto, a quello del diritto dell’UE, come volta per volta chiarito dalla Corte di giustizia. Il diritto dell’antidiscriminazione, da questo punto di vista, rappresenta un esempio.
Ciò potrebbe comportare il rischio di un certo isterilimento nella giurisprudenza e il venir meno di un pluralismo nell’interpretazione del dato normativo che è un fattore di arricchimento complessivo del sistema. Anche perché non è detto che la Corte costituzionale, in sede di giudizio di costituzionalità, valorizzi il profilo eurounitario, limitandosi magari a fondare la decisione sul solo parametro interno, ritenendo assorbito così l’altro[47]. In questo modo, però, vi è il rischio di escludere la Corte di giustizia e di limitare la sua funzione nomofilattica, impedendo così di offrire chiarimenti nell’applicazione del diritto dell’UE valevoli per tutti gli ordinamenti nazionali, non solo per quello interno.
Se il modello della 269 rimette almeno al giudice la scelta di quale via percorrere (anche se nella sentenza 181/2024 la questione incidentale viene indicata come la “più proficua” e, dunque, in termini almeno sostanziali, come quella implicitamente preferenziale), la sentenza 15/2024 va oltre, imponendo la strada della rimessione costituzionale in un ambito certamente circoscritto ma che ha avuto applicazioni di notevole portata. Pensiamo che per la ragioni in precedenza esposte la compatibilità di questo sviluppo andrebbe quanto meno vagliata dalla Corte di giustizia.
[1] In effetti, sebbene il dispositivo si riferisca solo alla direttiva lungo-soggiornanti, nella parte motivazionale, sia pure di sfuggita, compaiono riferimenti anche alla dir. 2011/98/UE.
[2] Su questa pronuncia, in dottrina, vedi: C. Favilli, La possibile convivenza tra disapplicazione e questione di legittimità costituzionale dopo la sentenza n. 15 del 2024 del giudice delle leggi, in Rivista del Contenzioso europeo, 1, 2024, 26 ss.; L. Tomasi, Diretta applicazione del diritto UE e incidente di costituzionalità nel giudizio antidiscriminatorio: la sentenza n. 15 del 2024 della Corte costituzionale, in Lavoro Diritti Europa, 2, 2024; C. Amalfitano, La sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale: istruzioni per i giudici su come assicurare il primato del diritto Ue, in QC, 2, 2024, 420 ss.; O. Scarcello, Un altro passo nel processo di riaccentramento del sindacato di costituzionalità eurounitario. Nota a Corte cost., sentenza n. 15 del 2024, in Osservatorio AIC, 2, 2024; A. Ruggeri, Ancora in tema di tecniche di risoluzione delle antinomie tra norme interne e nome sovranazionali self-executing (a prima lettura di Corte cost. n. 15 del 2024), in Consulta online, 1, 2024, U. Villani, Il nuovo “cammino comunitario” della Corte costituzionale, in Eurojus, 1, 2024, 81 ss.
[3] Per una prospettiva d’insieme, vedi M. Barbera, A. Guariso, La tutela antidiscriminatoria – Fonti strumenti interpreti, Giappichelli, Torino, 2019.
[4] Tra questi: il riconoscimento, in capo ad associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche, che abbiano, secondo i criteri definiti dai legislatori nazionali, un interesse a garantire le disposizioni della direttiva, della legittimazione ad agire in nome e per conto della vittima, previo consenso di questa (art. 7); un meccanismo di alleggerimento dell’onere probatorio a favore della persona lesa dalla discriminazione (art. 8); la previsione di forme di tutela che proteggano la persona da ritorsioni in caso questa si attivi in giudizio (art. 9); l’istituzione di un organismo di parità indipendente in materia di lotta e promozione del divieto di discriminazione per la razza e l’origine etnica; la previsione che le sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15).
[5] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571/10, Kamberaj.
[6] Su questi profili, amplius W. Chiaromonte, A. Guariso, Le discriminazioni nell’accesso a beni, prestazioni e servizi pubblici, in M. Barbera, A. Guariso (cur.), op. cit., 363 ss.
[7] Sul punto, C. Favilli, op. cit., 30
[8] Cass. Sez. unite, n. 3670/2011.
[9] Cass. 11165/2017 e 11166/2017.
[10] Come osserva C. Favilli, op. cit., 29 ss.
[11] Per un evidente esempio in tal senso, la vicenda relativa all’assegno per il nucleo familiare e la sentenza della Corte cost. n. 67/2022.
[12] Vedi Trib. Udine, ordinanza 1 febbraio 2023, RG n. 38/2022, reperibile nel sito www.asgi.it. Sono state diverse, peraltro, le azioni intentate avverso tale disciplina regionale. Cfr. A Guariso, L’uguaglianza è razionale: breve storia di una discriminazione degli stranieri nella regione Friuli Venezia Giulia, in Italian Equality Network, 27 marzo 2023.
[13] Come notano L. Tomasi, op. cit., 8 e C. Favilli, op. cit., 37-38.
[14] Così C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019.
[15] Su cui R. Mastroianni, Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali, in European papers, vol. 5, f. 1, 2020, 492 ss.; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019, D. Gallo, Effetto diretto del diritto dell’Unione europea e disapplicazione, oggi, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 3 2019; A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. sent. n. 20 del 2019), in Consulta Online, 1, 2019 113 ss.; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in giustiziainsieme.it, 4 marzo 2019.
[16] Come sottolinea L. Tomasi, op. cit., p. 8.
[17] Su questa distinzione, C. Favilli, op. cit., 37
[18] In effetti, nell’ordinanza che ha portato alla sentenza 15/2024, la Carta di Nizza non compariva tra i parametri interposti richiamati dal giudice. Analogamente, in relazione ai fatti di cui alla presente nota, è da notare che le ricorrenti hanno in effetti richiamato l’art. 34 (diritto all’assistenza abitativa) e art. 21 (non discriminazione) della Carta, ma questi parametri non sono stati poi ripresi dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione.
È opportuno ricordare che in passato la Corte costituzionale è sembrata concludere nel senso dell’inammissibilità della questione, laddove il giudice omettesse il riferimento alla violazione della Carta e la controversia si potesse decidere facendo applicazione del diritto dell’UE dotato di efficacia diretta. Così almeno sembrerebbe ricavarsi dalla sentenza 67/2022 in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione circa la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare. La questione incidentale alla Corte costituzionale viene sollevata dopo che la Cassazione aveva effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e quest’ultima aveva rilevato l’incompatibilità della legge nazionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva 2011/98/UE. La Corte costituzionale ritiene che il giudice debba procedere all’applicazione del primato, senza ulteriore coinvolgimento della Corte costituzionale. Tuttavia, al punto 1.2.1 del considerato in diritto, essa rileva che le ordinanze di rimessione non hanno evocato la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e in particolare dell’art. 34, lasciando intendere che qualora ciò fosse stato fatto, la conclusione, in punto di inammissibilità, avrebbe potuto essere diversa.
[19] Vedi sent. 181/2024 la quale, pur riaffermando che spetta al giudice comune la scelta se intraprendere la via della questione incidentale rispetto ai rimedi del diritto euro-unitario, mostra di ritenere la prima opzione “particolarmente proficua” «qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (6.5 consid. in diritto). Su questa sentenza, cfr. A Ruggeri, La doppia pregiudizialità torna ancora una volta alla Consulta, in attesa di successive messe a punto (a prima lettura di Corte cost. 181 del 2024), in Giur. Cost., f. 3, 2024.
[20] Nota questo profilo, C. Favilli, op. cit., 37.
[21] In realtà, come si desume da ultimo dalla sent. 181/2024, anche nell’ipotesi del “modello 269”, l’alternativa può essere tra disapplicazione – quindi il giudice avrebbe già a disposizione una norma UE dotata di efficacia diretta – e giudizio di rimessione alla Corte finalizzato all’espunzione della norma.
[22] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571710, Kamberaj.
[23] In modo conforme, in relazione alla vicenda di cui alla sen. 15/2024, mi pare argomenti, autorevolmente, A. Ruggeri, op. cit., p. 306, «Stando così le cose, non v’è, dunque, necessità di mettere in atto le procedure per la formale rimozione – in via legislativa come pure in sede di giudizio di costituzionalità – della norma antieurounitaria, dal momento che grava comunque su ogni operatore di diritto interno (non solo i giudici ma, appunto, anche amministratori e privati) l’obbligo di ignorarla, puramente e semplicemente, facendo valere al suo posto quella eurounitaria self-executing».
[24] A partire da Corte giust., sent. 22 giugno 1989, Causa C-103/88, F.lli Costanzo.
[25] Salvo ritenere che il giudice comune possa disporre la sospensione degli effetti della legge, in via cautelare, sulla base della giurisprudenza Melki, su cui infra nel testo. Del resto, la possibilità per la Corte costituzionale di provvedere in tal senso è normativamente contemplata solo per i ricorsi in via principale (vedi art. 35 della l. 87/1953, come modificato dall’art. 9 della L. 131/2003).
[26] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn.
[27] Corte giust., sent. 25 aprile 2013, Causa C.81/12, Asociația Accept.
[28] Corte giust., sent. 23 aprile 2020, Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford.
[29] Come osservato, il diritto derivato UE non impone agli Stati membri tale soluzione, che si configura, dunque, come rimedio autonomamente previsto dal legislatore nazionale.
[30] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn
[31] E, per la verità, tranne i riferimenti in precedenza svolti in nota 4, nemmeno la direttiva 2000/43/CE e più in generale il sistema di tutela previsto dalle direttive fondate sull’art. 13 TCE/19 TFUE lo prevedono, pur stabilendo che gli Stati siano tenuti a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15 dir. 2000/43/CE).
[32] Del pari, nei casi in precedenza illustrati, la circostanza per cui la legittimazione attiva agli enti esponenziali derivasse da una norma interna e non fosse imposta dalle direttive non ha messo in discussione che le situazioni rientrassero nel campo di applicazione del diritto UE. Il punto è chiarito soprattutto dalle Conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston in Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford, mentre la Corte, entrando nel merito, lo ha implicitamente confermato.
[33] Corte giust., sent. 9 marzo 1978, Causa C-106/77, Simmenthal, cons. 14: «L’applicazione diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri».
[34] Tali dunque da mettere in discussione tanto l’eguaglianza degli Stati membri dinnanzi ai Trattati (da ultimo, Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 55) quanto la parità di trattamento dei cittadini dell’UE (Corte giust, Causa C-6/64, Costa).
[35] Su questo, per il conflitto che vedeva contrapporsi giudice costituzionale rumeno e giudici comuni, si veda in particolare Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS; Corte giust., sent. 21 dicembre 2021, Causa C-357/19, C-379/19, C-547/19, C-811/19, C-840/19, Euro Box Promotion e a.
[36] Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli, su cui vedi almeno R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità. Simmenthal revisited?, in Giur. Cost., 5, 2014, 4089 ss.; F. Donati, I principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione in un sistema di tutele concorrenti dei diritti fondamentali, in federalismi.it, 12, 2020.
[37] Corte giust. sent. 11 settembre 2014, Causa C-112/13, A c. B.
[38] Vedi punto 53, sent. Melki/Abdeli. Sul punto, C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, cit., p. 8-9, che osserva come l’approccio temperato della Corte costituzionale e la trasformazione da doverosità a semplice opportunità della rimessione alla Consulta non fossero richiesti dalla giurisprudenza Melki della Corte di giustizia.
[39] Da ultimo Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 53; Corte giust., 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573717, punti 61 e 62. Sul punto, vedi C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Rivista AIC, 1, 2020, 314, che dà indicazioni ulteriori circa la giurisprudenza della Corte di giustizia. La stessa Autrice, La sentenza costituzionale n. 15/2024, cit., pur apprezzando la soluzione della Corte costituzionale 15/2024 che concilierebbe le esigenze di immediatezza ed effettività della tutela, care al diritto UE, e quelle della certezza del diritto, care alla Corte costituzionale, osserva: «Un’estensione generalizzata del sistema parallelo di tutela delineato dalla sentenza analizzata – ovvero al di là della specificità del caso in esame e di eventuali casi simili dove alla disapplicazione della norma regolamentare non potrebbe seguire una sua modifica pro futuro se non previa rimozione erga omnes della legge che dà sostanza al regolamento – non rischio di deviare definitivamente dal sistema Granital, con derive non necessariamente compatibili con la giurisprudenza di Lussemburgo», 423-424.
[40] Punto 53, Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli.
[41] Per quanto riguarda l’altro parametro costituzionale evocato – l’art. 3 Cost. e il principio di ragionevolezza – il giudice ricorda la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (dalla sentenza 44/2020 fino alle più recenti sentenze 67/2024 e 147/2024) in cui si sono ritenute irragionevoli disposizioni legislative regionali che subordinavano l’accesso all’ERP a un requisito di previa di residenza continuativa e ciò sul presupposto che l’edilizia residenziale pubblica miri a soddisfare un bisogno sociale rispetto cui la residenza prolungata non esprimerebbe alcuna ragionevole correlazione. Tuttavia, come ben chiarito nell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza della Corte (viene in particolare richiamata la sentenza 9/2021) non sembra escludere del tutto la possibilità che il legislatore regionale possa dare rilievo a considerazioni legate alla “prospettiva della stabilità” non già quale condizione di accesso, ma come criterio di determinazione del punteggio. Ciò nonostante sia la stessa Corte a qualificare il criterio della residenza protratta come un indice debole a tal fine, sottolineando che la prospettiva di stabilità dovrebbe avere carattere recessivo rispetto alla centralità di altri fattori più strettamente correlati a misurare la situazione di bisogno.
[42] Vengono richiamate, tra le altre, Corte giust., sent. 21 luglio 2011, Causa C-503/09; Stewart; sent. 26 febbraio 2015, Causa C-359/13, B. Martens; sent. 15 marzo 2005, Causa C-209/03, Bidar, sent. 23 marzo 2004, Causa C-138/02, Collins.
[43] Corte giust., sent. 29 luglio 2024, Cause riunite C-112/22, C-223/22, CU/ND, con nota di A. Guariso, Incompatibile con il diritto UE il requisito di dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza, in Diritto, Immigrazione cittadinanza, 3, 2024.
[44] Ma è agevole ipotizzare che il fondamento di tale soluzione ermeneutica riposi nel fatto che, per la Corte di giustizia, la nozione di discriminazione indiretta abbia assunto valenza generale e che rappresenti un modo, al pari della discriminazione diretta, per ritenere violata la parità di trattamento.
[45] Il giudice del rinvio si era interrogato se il requisito della residenza decennale potesse considerarsi ugualmente discriminatorio per i cittadini lungo-soggiornanti anche se, a ben vedere, tramite la sua applicazione, venivano lesi anche gli interessi dei cittadini italiani, almeno di quelli che ritornano in Italia dopo un periodo di residenza all’estero.
[46] In particolare da A. Ruggeri in numerosi suoi scritti, tra cui, oltre a quelli già citati in nota, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consulta on line, 1, 2019, ove si evidenzia che la Corte adotterebbe un approccio assiologico-sostanziale che porta a dare centralità alle norme costituzionali. Perplessità espresse anche da C. Pinelli, L’approccio generalista del modello di rapporti tra fonti: i Trattati sono tutti uguali?, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018, 13, che lamenta il rischio di un “effetto slavina” per cui il modello della 269 finirebbe per divenire la regola, emarginando il sindacato diffuso e l’applicabilità diretta del diritto UE.
[47] In questo senso, ad esempio, la sentenza 44/2020 della Corte costituzionale.
Immagine: Vasily Kandinsky, Houses at Murnau, olio su cartone, 1909, Chicago Art Institute, Bequest of Katharine Kuh.
Quando il minore è vittima di tortura. Brevi note a Cass n. 37171/2024 e n. 39722/2024
di Claudia Terracina
Sommario: 1. Premessa -2. Due bruttissime storie - 3. La tortura privata - 4. Una norma di difficile applicazione? - 5. Non solo bullismo.
1. Premessa
Cinque anni dopo la pubblicazione, su Giustizia Insieme, della nota di Calogero Ferrara alla sentenza Sez. 5, n. 47079 8 luglio 2019, che contiene elementi fondamentali per la ricostruzione ermeneutica del reato di tortura commessa da privati[1], può avere un senso interessarsi nuovamente di questo delitto, contemplato dall’art. 613-bis cod. pen. e introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. L’occasione è fornita dalla pubblicazione di due sentenze della Corte di Cassazione[2], la n. 37171/2024 della prima Sezione e la n. 39722/2024 della quinta Sezione, in cui la Corte, partendo da vicende coinvolgenti minori che – come nella totalità dei casi – non è esagerato definire agghiaccianti, coglie l’occasione per soffermarsi sulla struttura e gli elementi essenziali del delitto e, in particolare, sull’oggetto giuridico tutelato.
In questi anni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha provato a delineare maggiormente i confini della fattispecie, la cui maggiore criticità è rappresentata dalla mancanza di una sua specifica connotazione, rendendo problematica la distinzione rispetto ad altre fattispecie limitrofe, in particolare il maltrattamento, con cui condivide – malgrado la diversa collocazione nel codice – una serie di elementi, potenziale fonte di incertezze interpretative[3]. Queste due sentenze, proseguendo un cammino già percorso in sede di legittimità, contribuiscono a delineare lo scopo della norma, indicandone espressamente la funzione di tutela della dignità umana nel suo complesso, a fronte di una condotta specifica di reificazione della persona, crudelmente deprivata dagli affetti e bisogni essenziali e ridotta a strumento di crudeltà e vendetta.
2. Due bruttissime storie
Il dramma sotteso alla pronuncia della prima Sezione, che contiene anche osservazioni sul tema della premeditazione c.d. “condizionata”, nasce da un femminicidio: un uomo, sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento nei confronti della ex compagna che lo aveva denunciato per maltrattamenti, dopo che la donna si era rivolta alle forze dell’ordine per denunciare la violazione della misura e una aggressione ai suoi danni, la seguiva mentre si era rifugiata in un bar e, in presenza delle figlie minori della donna, la colpiva con un coltello riducendola in fin di vita. La portava via in macchina, agonizzante, insieme alle sue due bambine (l’età non è nota, ma si tratta di minori infraquattordicenni, di cui una affetta da grave disabilità) che erano costrette, dopo aver assistito all’aggressione, anche ad assistere alla agonia della madre. Caricava poi la donna sanguinante in auto con le due bambine, e, dopo essersi recato da un amico dove lasciava la donna morire, profittando dell’intervento di un medico, fuggiva con le due bambine (di cui una in preda a crisi convulsive) che restavano in auto con lui. L’uomo teneva le bambine “impietrite dalla paura” nella sua auto tutta la notte e, una volta rintracciato dalle Forze dell’ordine, trascinava le minori in una fuga pericolosa, fino alla cattura. Le bambine, di cui una veniva ridotta in fin di vita per le crisi distoniche e la desaturazione di ossigeno, riportavano lesioni e gravissimi traumi psichici.
Nei due giudizi di merito, l’uomo veniva condannato per i reati di omicidio aggravato, sequestro di persona ai danni della donna e delle minori, resistenza aggravata, porto di arma e per il reato di tortura di cui all’art. 613-bis, commi primo e quarto, cod. pen.
Sollecitata dal ricorso dell’imputato, che lamentava, sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 613-bis cod. pen., l’insussistenza dei presupposti del delitto di tortura in danno delle minori, in quanto “in alcun modo le stesse sono state oggetto della condotta” dell’imputato, “eventualmente rivolta nei soli confronti della donna”, La Corte rigettava il ricorso ricostruendo la fattispecie e i suoi elementi e confrontandola con le condotte accertate nel merito. La ricostruzione è dogmatica e – per quanto si possa dire di una fattispecie così recente – classica, proprio in quanto richiama nozioni giuridiche consolidate in anni di giurisprudenza sui reati contro la persona.
“Quanto alla struttura dell'incriminazione, il delitto di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen. è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta -ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime - è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall'articolo l della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della
libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale, ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l'integrazione della fattispecie la commissione di un'unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all'evento”.
La sentenza della quinta Sezione ha per oggetto il maltrattamento, travalicato nella tortura, del figlio di due anni ad opera di un uomo. Il bambino, da sempre tenuto in condizioni di degrado e sottoposto con la madre ad atti di maltrattamento, nei suoi ultimi due giorni di vita era stato oggetto di una escalation di violenza gratuita che lo aveva condotto alla morte dopo acute sofferenze. Il bambino era stato sottoposto a bruciature, morsicature, con lacerazioni corporee, colpi al capo e al torace che lo avevano condotto alla morte. La sentenza della Corte di appello era stata annullata dalla Corte (Sez.1, n. 27321 del 13/01/2023) che aveva rilevato come alla condotta maltrattante ai danni del bambino fosse seguita una “escalation” che aveva condotto ad una fase caratterizzata da lesività estrema. La sentenza del giudice del rinvio, confermata dalla Corte, aveva invece valorizzato il passaggio ad un grado estremo di brutale violenza con trasformazione del piccolo in oggetto di sfogo di istinti bestiali.
3. La tortura privata
Il delitto contestato nei due casi è la tortura “tra privati” o “orizzontale”, in cui non viene in considerazione il rapporto con l’autorità pubblica. In entrambi, tuttavia, vi è il riferimento al rapporto di affidamento che il minore ha con l’adulto che lo prende in carico, nel caso del piccolo ucciso, il padre.
La sentenza della prima Sezione descrive espressamente il reato come “comune”[4]. La norma prevede d’altra parte al primo comma dell’art. 613-bis cod. pen. la condotta di “chiunque” tenga la condotta descritta, mentre al secondo comma è comminata una pena più grave quando il reato sia commesso da una pubblica autorità “con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
Il secondo comma contempla invece certamente un reato proprio, sia nel soggetto sia nelle modalità dell’azione.
Dai lavori preparatori della legge 110/2017 si evince la costruzione della tortura “pubblica” come fattispecie circostanziale. Si legge infatti che nella norma “la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce, anziché un elemento costitutivo, una fattispecie aggravata del delitto di tortura”[5]. Già dai primi commenti al testo, anche nel corso dell’iter parlamentare di approvazione, emerge sul punto un certo dissenso[6].
Anche le prime pronunce di legittimità adottano questa linea interpretativa, talune in obiter dicta, come ad esempio Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, altre investite della correttezza dell’operazione di bilanciamento operata dal giudice di merito, come Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023[7].
Si discosta da questa soluzione ermeneutica invece la sentenza in commento che, sulla scorta di un precedente della terza Sezione[8], si pronuncia espressamente a favore della autonomia delle due fattispecie contenute nella norma, ritenendo la tortura ad opera della pubblica autorità un reato autonomo e non una forma circostanziata di quella “comune”. Afferma infatti che l’obbligo di incriminazione specifico che discende dalle fonti convenzionali “sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”.
D’altra parte, a favore della natura autonoma del delitto di tortura “pubblica” si è espressa autorevolmente anche la Corte costituzionale – sulla scorta della sentenza della terza Sezione n. 32380/21 nella sentenza n. 192 del 2023 sul “caso Regeni”, forse ponendo un punto fermo alla questione.
La previsione di un caso di tortura “comune” oltre a quella “pubblica” di cui al secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. ha sin da subito dato adito a contrasti.
Com’è noto, infatti, il delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. è stato introdotto per ottemperare ad obblighi internazionali, primo tra tutti quello derivante dalla Convenzione ONU contro la tortura, approvata nel 1984 e ratificata dall’Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 489 (UNCAT). Dall’art. 4 della Convenzione discende l’obbligo di specifica criminalizzazione della tortura, almeno nella sua “soglia minima”, costituita da condotte caratterizzate dalla specifica finalità alternativa di: 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici.
La nozione di tortura contenuta nella Convenzione, al primo comma dell’art.1, è focalizzata sul rapporto di autorità e sugli abusi da parte dei pubblici poteri, ma non esclude (art. 1, comma 2) l’estensione del divieto in forma più ampia.
Il legislatore, anche se con un certo ritardo, stigmatizzato in più occasioni[9], esercitando una facoltà, ma anche rispondendo agli obblighi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU e da obblighi derivanti da altre convenzioni internazionali[10] ha costruito una norma con due fattispecie, la tortura “tra privati o “orizzontale”, reato sostanzialmente comune (anche se contempla il caso in cui la vittima sia legata al reo da un rapporto giuridico di affidamento qualificato)[11], contemplato al primo comma, e quella “pubblica”, reato proprio del pubblico ufficiale.
Il legislatore ha quindi scelto di estendere la nozione anche a condotte commesse da privati, particolarmente odiose in quanto attuative di una sorta di “signoria” sulla persona dell’altro, costruendo una fattispecie di reato comune e collocandolo tra i delitti contro la libertà. Certamente questa soluzione ha dei vantaggi, tra cui quello di ricomprendere le condotte di soggetti la cui qualifica pubblicistica è dubbia - come ad esempio, nel caso citato dalla dottrina[12], di una persona sequestrata e torturata da agenti degli apparati di sicurezza di Stati stranieri, ovvero “organizzati” in modo da costituire una informale struttura detentiva. È il caso contemplato dalla sentenza della prima Sezione n.26999/22 relativa alla organizzazione e gestione di un centro illegale di prigionia ubicato in una ex base militare della città libica di Zawya, ove centinaia di migranti, che tentavano di raggiungere le coste italiane, erano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche torture, per ottenere il pagamento dai loro familiari di somme di denaro quale prezzo per la liberazione e/o la loro partenza per l'Italia[13] e il parallelo caso della base di prigionia libica di Zuhaira in cui operava una associazione delinquere diretta da tal “Muhammad il libico”, oggetto della sentenza della Sezione quinta n. 20726/22.
La scelta legislativa ha destato qualche perplessità[14]. Anche parte della dottrina ha rilevato come la mancata focalizzazione sull’azione del potere pubblico rischiasse di “annacquare” la portata garantista della norma e la finalità di controllo contro gli abusi dell’autorità[15]. Altri – guardando soprattutto alla nozione di tortura contenuta nell’art. 3 della CEDU e alla copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha stigmatizzato nei diversi casi la mancanza di adeguati strumenti normativi ovvero di protezione nei confronti di vittime oggetto di tortura commessa in ambito familiare o comunque al di fuori del rapporto con l’autorità - hanno invece guardato con favore alla scelta del legislatore di ampliare l’ambito della punibilità[16].
A distanza di oltre sette anni dalla entrata in vigore della norma può osservarsi che, da un lato, gli arresti giurisprudenziali su casi di tortura commessi da autorità pubbliche (nella quasi totalità in ambito penitenziario)[17] e, dall’altro i recenti tentativi di abrogazione[18], mostrano la vitalità della fattispecie della tortura “pubblica” nel nostro ordinamento.
4. Una norma di difficile applicazione?
Le maggiori criticità rilevate dalla dottrina[19], al momento dell’introduzione della fattispecie, si incentrano piuttosto nella strutturazione della norma, definita “farraginosa” e di difficile interpretazione in quanto, da un lato, contempla condotte diverse e connotate da diversa gravità, dall’altro – soprattutto nella descrizione dell’evento tipico - contiene indicazioni confuse sul piano della tassatività.
È il caso, sul piano della condotta, del “trattamento inumano e degradante” e, su quello dell’evento, del “verificabile” trauma psichico ed ancora, sul piano dei presupposti, della “minorata difesa” (usata altrove solo come aggravante).
Sotto il primo profilo, al di là della scelta del legislatore di richiedere, cumulativamente e non alternativamente che il trattamento sia tanto inumano quanto degradante, qualche indicazione può desumersi dalla giurisprudenza su reati “limitrofi” a quello in esame. Troviamo una utile descrizione in una recentissima sentenza della Sez. 1 in tema di immigrazione clandestina[20], definendo «inumano il trattamento che abbia inflitto alla persona trasportata una sofferenza fisica o psicologica, prolungata e di particolare intensità, capace di provocare nella vittima sentimenti di paura e angoscia», e «degradante il trattamento tale da cagionare una lesione particolarmente grave della dignità umana, umiliando o svilendo l'individuo e suscitando sentimenti di inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica».
Il profilo della “verificabilità” del trauma psichico è affrontato dalla sentenza Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019[21], che, nel fare riferimento alla “oggettiva verificabilità” del trauma, lo riporta al tema del libero accertamento giudiziale, forse richiedendo sul punto una attenzione motivazionale[22]. Precisa che il trauma non deve necessariamente «tradursi in una sindrome duratura da "trauma psichico strutturato" (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l'oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l'accertamento peritale, né l'inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell'agente e dalle concrete modalità di quest'ultima».
La sentenza della quinta Sezione n. 47079/19 si è occupata anche della “minorata difesa”, ritenendola sussistente «ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell'agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali».
Le ancora poche, interessanti, sentenze di legittimità, tra cui quella in commento, sono tutte tese nello sforzo di dare indicazioni pratiche all’interprete, soprattutto nei rapporti con fattispecie limitrofe violative della integrità personale e della libertà morale e sessuale, cercando di ovviare ai deficit di precisione. D’altra parte, come è accaduto anni fa dopo l’introduzione della fattispecie di “atti persecutori” la struttura composita della norma, anche se in quel caso descritti in modo molto specifico, si è rivelata in concreto in realtà un vantaggio, consentendo di configurare la fattispecie in ipotesi di diversa gravità e connotazione. Nel tempo questo potrebbe accadere anche per questa norma, grazie al ricorso a concetti giuridici già consolidati, frutto di elaborazione in relazione ad altre figure delittuose, concentrando lo sforzo interpretativo sull’evento tipico la cui descrizione, come accennato, resta ancora non del tutto delineato[23].
Secondo la giurisprudenza della Sezione quinta, che si occupa dei reati limitativi della libertà, il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019).
Per l’integrazione del reato nella sua forma abituale si ritiene, sulla scorta della giurisprudenza formatasi sulla nozione di “condotte reiterate” nel reato di atti persecutori, che, perché si abbiano “più condotte”, ne siano sufficienti due[24].
La sentenza Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019 ha peraltro precisato che «ai fini dell'integrazione del delitto di tortura di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione "mediante più condotte" va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico». In motivazione la Corte ha condiviso il ragionamento del giudice di merito che, confrontando la locuzione usata nel reato di atti persecutori “condotte reiterate” con quella di “più condotte” usata nella norma, conclude che le stesse possano essere tenute nel medesimo contesto. D’altra parte, “la lettura della disposizione che ne fa la parte impugnante determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte; ciò implicherebbe -aggiunge il Collegio- l'adozione di una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU laddove ha ricondotto quei fatti alla nozione di tortura di cui all'art. 3 della CEDU, dando così luogo ad una lettura non convenzionalmente orientata della disposizione di nuovo conio”.
La medesima sentenza, sollecitata sul punto dal ricorso, si sofferma sulla nozione di “crudeltà” traendola dagli insegnamenti di Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio. Crudele è la condotta che “eccede rispetto alla normalità causale”, cioè che costituisce un quid pluris rispetto all'attività necessaria ai fini della consumazione del reato, rendendo la condotta stessa particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un'azione efferata. Gratuità e superfluità che nasce dalla particolare “forma di soddisfazione” dell’agente legata alla capacità di generare le sofferenze altrui.
Le “acute sofferenze fisiche” provocate alla vittima non coincidono con la nozione di lesioni, come emerge dal dato testuale, che colloca la causazione di lesioni come circostanza aggravante (o come reato aggravato dall’evento, secondo quanto affermato dalla Sez. 5 nella sentenza 1243/2024) e dunque contemplano patimenti, come la fame, la sete, la sofferenza fisica derivante da deprivazione del sonno, la sottoposizione a fatiche, che non realizzano malattia ma, appunto, sofferenza.
Quanto ai rapporti con altri reati, il problema che ha maggiormente impegnato la Corte di cassazione (e che tuttora non pare risolto) riguarda il rapporto con il sequestro di persona. La seconda Sezione, nella sentenza 1729/2021 (dep. 2022) ha ritenuto il delitto di sequestro di persona assorbito in quello di tortura, “nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall'agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura”. Fondandosi sulla medesima nozione di specialità, quella tra fattispecie astratte indicata dalla sentenza a Sezioni Unite La Marca n. 41588/2017, la quinta Sezione ha affermato che le due fattispecie sono sempre in concorso materiale tra loro in quanto “La comparazione degli elementi costitutivi dei due reati dimostra l'assenza di un rapporto di continenza posto che il sequestro a scopo di estorsione non contiene
tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, né rispetto a quest'ultimo uno o più requisiti caratteristici in funzione specializzante. Affinché si consumi il sequestro a scopo di estorsione non è necessario che si consumi anche il delitto di tortura”.
È stato escluso il rapporto di continenza con la violenza sessuale di gruppo da Sez. 3, Sentenza n. 25617 del 16/03/2022: “Il delitto di tortura non è assorbito in quello, più grave, di violenza sessuale di gruppo, ostandovi sia la diversità del bene giuridico tutelato (la libertà fisica e psichica nell'uno e la libertà sessuale nell'altro), sia la non sovrapponibilità strutturale delle condotte incriminate, posto che la violenza perpetrata nei confronti di persona costretta a subire o a compiere atti sessuali acquista autonoma rilevanza nel caso in cui, oltre ad essere funzionale a tale coartazione, si estrinsechi, prima, durante o dopo il compimento dell'atto sessuale, in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.” Nel caso di specie la ragazza era stata degradata e fatta oggetto di sevizie da una coppia “diabolica”. La sentenza, peraltro, in motivazione, si sofferma anche sull’assorbimento del reato di sequestro di persona, escludendolo in quanto l’attività di limitazione della libertà personale si sarebbe protratta per un tempo ulteriore ed antecedente rispetto a quello in cui l’attività vessatoria ha avuto corso.
Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Il primo, tuttavia, non assorbe il secondo, oltre che per la diversità di oggetto giuridico, anche per la mancanza di un rapporto di continenza tra le due fattispecie astratte: per l'integrazione dell'articolo 572 cod. pen. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell'articolo 613-bis cod. pen. dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. In questo senso, si è espressa Sez. 3, n. 32380 del 25/5/2021, in una sentenza che ha ad oggetto la condotta di un uomo violento e gravemente maltrattante che, per un periodo, ha tenuto chiusa la moglie nella loro villetta togliendole le chiavi del cancello ed impedendole di uscire[25]. Più di recente, Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024, in un caso di maltrattamento, con morte, di un minore ha precisato che i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un familiare possono acquistare autonoma rilevanza come atti di tortura nel caso in cui la condotta si estrinsechi in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, trasformandola in una res alla mercé dell’agente, su cui accanirsi a piacimento, spersonalizzandola e disumanizzandola.
Più sentenze si confrontano con l’assorbimento del reato di lesioni nell’ipotesi “aggravata” del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Sez. 5, n. 50208 dell’11/10/2019 e Sez. 6, n. 47672 del 04/10/2023 che, affrontando la nozione di “acute sofferenze fisiche”, ritengono che non richieda la produzione di lesioni, in quanto in tal caso soccorre l’aggravante del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Colloca espressamente l’ipotesi del quarto comma tra i “delitti aggravati dall’evento” Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023. All’esito di un complesso ragionamento sulla fattispecie, conclude che «In tema di reati contro la persona, è configurabile il delitto di tortura, aggravato ai sensi dell'art. 613-bis, comma quarto, cod. pen. nel solo caso in cui le lesioni personali conseguite alla condotta incriminata non siano state volute dall'agente, realizzandosi, in caso contrario, un concorso di reati.»[26]
5. Non solo bullismo
Le due sentenze in commento, come altre in precedenza che si erano occupate di un caso di bullismo nei confronti di una persona il cui disagio psichico ed esistenziale lo aveva condotto ad auto- emarginazione[27], compiono un ulteriore sforzo ermeneutico, concentrandosi sulla individuazione del “nucleo” di offesa della fattispecie. Entrambe la collocano nella reificazione della vittima e dunque nella negazione profonda della dignità umana dell’individuo, costretto o limitato dalla sua posizione di debolezza e trasformato dall’agente in un “mezzo” per soddisfare i propri scopi di crudeltà o sopraffazione.
D’altra parte, anche la Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 192 del 2023 sul ”caso Regeni” ha ritenuto che lo “status” peculiare del reato universale di tortura è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana.
Così la pronuncia della prima Sezione sul punto: «Consistendo la tortura nell'inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell'essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell'arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una "res" oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell'offesa penalmente rilevante sta nella lesione della "dignità umana", che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell'asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell'arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.»
D’altra parte, anche nella condotta di tortura privata, è la signoria dell’agente sulla vittima che ne è in balia a caratterizzare in modo drammatico la condotta, oltre che l’intensità della violenza agita, signoria che disumanizza la vittima rendendola mero strumento per lo sfogo di istinti malvagi. Il caso oggetto della sentenza che rende particolarmente importante l’espressione del punto, è nel fatto – che costituisce occasione e fulcro del ricorso – che oggetto principale dell’accanimento dell’imputato non erano le bambine, ma la madre. Ciò nonostante – se si guarda ai motivi per i quali la condotta torturante è stata ritenuta dalla Suprema Corte effettivamente realizzata – nel caso in esame è valorizzata anche una sorta di spietata indifferenza nel far assistere le bambine alla agonia della madre nei confronti dei bisogni di cura e delle condizioni psichiche di esseri di per sé fragili e resi disperati dalla situazione, aprendo uno spiraglio sugli aspetti drammatici che la tortura può assumere quando ha per oggetto un bambino.
Parimenti, nella sentenza 39722/24 il passaggio da un “ordinario” maltrattamento fatto di violenza ed incuria ad un livello elevato di sevizie inferte al piccolo fino a condurlo alla morte segna la brutale disumanizzazione di cui è stato oggetto e dunque l’annientamento della sua essenza umana, oltre che della sua integrità fisica.
[1] C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, in Giustizia insieme 14 febbraio 2020. Sul delitto di tortura si è scritto moltissimo. Tra i primi interventi: F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la camera dei deputati. Parere reso nel corso dell'audizione svoltasi presso la commissione giustizia della camera dei deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it; A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Dir. pen. cont., 22 luglio 2014; P. Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont. n. 10/2017. I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. Pen. Cont. n. 7-8/2017; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura (art. 613 bis c.p.), in Studium iuris, 2018. Vedi anche A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1° giugno 2019, pag. 811, A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1957-1960 e S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza penale web, 2017, 11.
[2] Sez. 1, n. 37171 del 29/04/2024 (dep. 09/10/2024). Presidente: V. Di Nicola, Estensore: F. Casa; Sez. 5, n. 39722 del 09/07/2024 (dep. 29/10/2024). Presidente, A. Guagliano, est. M.T. Belmonte.
[3] Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Sul punto si sofferma proprio la sentenza Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024 in commento. Vedi anche cfr. Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021, pubblicata in Cass. pen., 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. It., 2022, 194 con nota di Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata. Sulla sentenza 39722/24, vedi la nota di E. Consolo, Caso Hrustic: quando i maltrattamenti in famiglia divengono tortura, in Diritto & Giustizia, fasc.203, 2024, pag. 3 e di G. Faillaci La struttura e i presupposti del delitto di tortura (Nota a Corte di cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 2024, ud. 9 luglio 2024, n. 39722), Njus, 29 ottobre 2024.
[4] Benché indichi il reato come “comune” dalla sentenza pare evincersi che non lo sia nel caso in cui l’agente profitti o agisca in costanza di una posizione giuridica di “affidamento”: “l’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento”
[5] Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l'esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2.
[6] Uno dei primi a segnalare il tema, F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., 12; A. Provera, Art. 613-bis, in Seminara, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario Breve al codice penale, Padova, 2017, 2115; Ritiene invece sia fattispecie circostanziale, E. Scaroina, Il delitto di tortura, cit., 266, criticando però la scelta del legislatore. Osservano molti autori (P. Lobba, in Punire la tortura in Italia, cit., p. 23, I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 160; F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5). che il comma quarto, che prevede aggravi di trattamento sanzionatorio qualora dai fatti di tortura scaturiscano delle lesioni personali di differente gravità, aumenti di pena calcolati prendendo come riferimento «le pene di cui ai commi precedenti» e pertanto, così facendo, considerando il secondo comma quale circostanza aggravante, si ricadrebbe nel paradosso di un aggravante operante, in maniera anomala, su di un’altra circostanza aggravante. Vedi anche S. Larizza La problematica configurazione del delitto di tortura: da delitto a circostanza aggravante? In Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dic. 2023, pag. 1377.
[7] D’altra parte, la tecnica normativa che richiama per relationem la struttura di un reato aggravando la pena per uno specifico soggetto è quella cui ha fatto riferimento la Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n.4694 del 27/10/2011, Casani, per ritenere che «la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall'art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un'ipotesi autonoma di reato».
[8] Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021.
[9] L’Italia è stata condannata dalla Corte EDU per la mancanza di strumenti normativi nella causa Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, concernente i fatti verificatisi durante il G8 di Genova del
2001 nella scuola Diaz. In seguito, la sentenza – sui medesimi fatti - Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte EDU il 22 giugno 2017 nel vagliare il grado di tutela assicurato dal nostro ordinamento ai diritti delle vittime delle violenze e riconducendole alla nozione di tortura, ha stigmatizzato la mancanza, nel sistema penale italiano, di una fattispecie penale specifica.
[10] Ritengono che la previsione di un reato di tortura “privata” sia in linea con gli obblighi internazionali derivanti da altre convenzioni, come quella F. Lattanzi La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Riv. dir. int., fasc. 1, 2018, P. Lobba, punire la tortura, cit. p. 25; A. Colella, La repressione, cit., p. 32.
[11] Osserva la dottrina (cfr. A. Cisterna, Colmata una lacuna, ma molte nozioni restano poco precise, in Guida dir., 2017, n. 39, 18 ss.) come, nella parte in cui la persona offesa viene descritta come «persona affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» del reo, effettuando un ragionamento analogo rispetto alle omologhe fattispecie di cui all’art. 570 e 591 c.p., si ritiene configurabile un reato proprio, dal momento che l’impiego del termine «affidamento» comporta la protezione dell’incolumità fisio-psichica di colui che è sottoposto ad una qualunque forma di auctoritas o potestas altrui, determinando un status giuridicamente formalizzato.
[12] P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27 cita il caso del sequestro di Abu Omar compiuto da agenti USA. Altre ipotesi citate dall’A. sono gruppi neofascisti, “ronde” organizzate da privati cittadini, associazioni criminali, gruppi terroristici, o organizzazioni private che pongono in essere violenze contro soggetti vulnerabili quali migranti o anziani loro affidati.
[13] Sez. 1, Sentenza n. 26999 del 02/02/2022 Sez. 5, Sentenza n. 20726 del 28/03/2024.
[14] In data 16 giugno 2017, alla vigilia dell'approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, indirizzava una nota con cui rappresentava talune preoccupazioni su alcuni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, in contrasto, a suo avviso, con la giurisprudenza della CEDU, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, introdotto dall’art. 1 della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, e con la Convenzione CAT. Tra le varie preoccupazioni manifestate, quella che il testo approvato dal Senato, in parte divergente dalla definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all'art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura con il rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, adotta una definizione ampia di tortura, che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, con possibile indebolimento della tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali. In particolare, le preoccupazioni manifestate dal Commissario si riferiscono al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie "più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà"; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l'articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva "trattamenti inumani o degradanti"); inoltre, quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. La nota del Commissario europeo sottolinea ancora che vi sono altri aspetti di. Inoltre, la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adotta una definizione ampia di tortura che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, sottolinea l'importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.
In conclusione, il Commissario rileva che le nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.
[15] Vedi sul punto E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, p. 263- 266
[16] V. dottrina citata a nota 10 e da P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27, in nota.
[17] Molte pronunce, rese in sede di impugnazione cautelare, riguardano le condotte di funzionari e agenti della Polizia Penitenziaria in occasione delle agitazioni dei detenuti verificatesi nei penitenziari italiani nella primavera del 2020, definita 'perquisizione straordinaria', posta in essere dal personale di Polizia Penitenziaria per soffocare, tramite 'violenti pestaggi' la protesta inscenata dai detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta delle sentenze di legittimità nn. 4929, 4931, 8971, 8973 del 2021 (dep. 2022) e 17111 del 2021 (dep. 2022). La sentenza Sez. 5, n. 1243 del 2022 riguarda condotte di tortura di appartenenti alla Polizia penitenziaria all’interno della Casa circondariale di Ferrara è stata commentata in Cassazione Penale, fasc.6, 2024, da C. Rossi.
La sentenza Sez. 6, n. 47672 del 2023 riguarda il pestaggio brutale di detenuti nella caserma Levante di Piacenza. Di recente il reato di tortura è contestato nelle misure cautelari emesse dal GIP di Trapani per episodi di violenza organizzata ai danni dei detenuti.
[18] Sono stati infatti presentati, e assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, due disegni di legge finalizzati a introdurre modifiche alla disciplina penalistica della tortura: il ddl n. 341 («Modifiche al codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura») e il ddl n. 661 («Modifiche agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura»).
[19] Estremamente critico sulla struttura della norma è T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, inadempimento effettivamente persistente, in <discrimen.it>, 4 settembre 2018, 27-32. Vedi anche S. Amato e M. Passione, Il reato di tortura. Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto, in Diritto penale contemporaneo web. 15 gennaio 2019.
[20] Si tratta di Sez.1, n. 30380 del 12/07/2024, che, in relazione alla aggravante del terzo comma dell’art. 12 Dlg. 286/98, trae la definizione dalla giurisprudenza della Corte EDU: « non è infrequente che la Corte - che in più occasioni ha definito il divieto (di trattamenti inumani o degradanti) in questione «un principio fondamentale delle società democratiche» (Corte Edu, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito) - utilizzi l'espressione «trattamento inumano e degradante» quasi si trattasse di un'endiadi, così facendo residuare zone d'ombra sulla linea di confine fra i trattamenti inumani e quelli degradanti; in altre occasioni, tuttavia, i giudici di 7 Strasburgo, chiamati a riempire di contenuti un precetto solennemente declamato ma non accuratamente definito, hanno chiarito che il trattamento inumano è quello che infligge una sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, di particolare intensità, capace di suscitare nella vittima sentimenti di paura e angoscia (Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito)Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito), premeditato e prolungato nel tempo (Corte Edu, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia), e che, invece, il trattamento degradante è quello che cagiona una lesione particolarmente grave della dignità umana (Corte Edu, 16 marzo 2010, Orsus c. Croazia), che umilia o svilisce l'individuo suscitando sentimenti di paura, angoscia o inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica (cfr. Corte Edu, 15 giugno 2010, Harutyunyan c. Armenia).»
[21] Si tratta della prima sentenza ad affrontare un caso di tortura attuata mediante atti di bullismo. Sulla pronuncia, v. la nota di C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, su questa Rivista e A. Merlo Primo intervento della Cassazione sul reato di tortura in un caso di bullismo, in Il Foro Italiano, 2020, fasc. 3, p.2. Per un altro caso di tortura di persona in condizioni di minorata difesa perché affetta di patologie psichiche, cfr. Sez. 5, n. 18075 del 23/03/2023, con nota di S. Rizzuto, V. Tigano, Tortura su una vittima in condizioni di minorata difesa e diniego delle circostanze attenuanti generiche, in Foro It. 12/23. Su questa ed altre sentenze, cfr. A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di tortura (art. 613-bis c.p.) in Sist. Pen. 16 gennaio 2020.
[22] E. Scaroina, op. cit., 272 individua un’ulteriore fondamento dell’utilizzo del termine verificabile, ossia per rafforzare «l’esigenza che in sede di applicazione concreta siano valutati con estrema cautela gli effetti di natura psicologica prodotti dalla condotta: nella consapevolezza della difficoltà di prova dell’evento del reato e del rischio che l’onere del suo accertamento possa essere ritenuto assolto in virtù della mera verifica della sussistenza della condotta, si è voluto cioè richiamare l’interprete a un riscontro puntuale ed effettivo, al di là cioè di semplificazioni e presunzioni, anche di effetti sfuggenti quali le sofferenze da un lato e il trauma psichico dall’altro».
[23] In sede di discussione parlamentare (cfr. Dossier servizio studi, Dipartimento giustizia della Camera, seduta del 23 giugno 2017) Già dal dibattito in prima lettura al Senato (Assemblea, 5 marzo 2014) emerge dalle parole del relatore (sen. D'Ascola) come si sia ritenuto di qualificare le sofferenze cagionate dalla tortura "come acute, traendo questo termine dalla medicina, da quella generale ma anche dalla medicina legale, che ha elaborato il concetto di un'acuta sofferenza come un concetto ristretto e determinabile. Quindi, il legislatore penale ha guardato anche ad altri rami del nostro sistema e, in particolare, alla scienza medica e ai contenuti e ai significati elaborati dalla scienza medica, come si conviene fare allorquando il legislatore apre una finestra su settori diversi dall'ordinamento giuridico in generale e dall'ordinamento giuridico in particolare e sostanzialmente richiama, nel contesto di quella scienza, le elaborazioni che sono proprie di quel determinato settore scientifico". Tra le osservazioni presentate nel giugno 2017 dalla Commissione affari costituzionali vi era quella sulla opportunità di eliminare l’aggettivo “verificabile” in relazione al trauma psichico.
[24] Sotto quest’ultimo profilo, sin dal 2016, Tullio Padovani criticava in modo sferzante l’inserimento dell’aggettivo ‘‘verificabile’’, ritenendolo “assurdo”, giacché ‘‘ogni requisito della fattispecie tipica deve essere, oltre che ‘‘verificabile’’, soprattutto ‘‘verificato’’: altrimenti, su quali basi si pronuncerebbe una sentenza di condanna?’’. T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, cit. pp. 31-32
[25] La sentenza è pubblicata in Foronews 27 settembre 2021. Con nota di V. Romano Gravi episodi di violenza domestica: secondo la Cassazione è configurabile il reato di tortura in concorso con quello di violenza sessuale e maltrattamenti. (Nota a Corte di cassazione penale, sez. III, 31/09/2021, n. 32380)
[26] Il tema è affrontato in una nota a sentenza di A. Merlo, Il reato di tortura in Italia: un personaggio in cerca di un autore (migliore). (Tortura – Lesioni personali), in Giur. It., 2024, fasc. 6, P. 1423 ss. Sulla natura di delitto aggravato dall’evento della fattispecie del quarto comma, cfr. A. Colella, op. cit., p. 9.
[27] Oltre che la sentenza n. 47079/19, che ha affrontato un caso di bullismo in sede di ricorso cautelare, la quinta Sezione si è occupata del medesimo caso di bullismo in altre sentenze, afferenti diverse posizioni cautelari nel medesimo procedimento: la n. 4755 del 15/10/2019 e la 50208 dell’11/12/2019.
Immagine: David Wilkie, Guess my name, 1921, Chicago Art Institute.
Avevo 12 anni quando è morto Berlinguer, la Bari era in semifinale di coppa Italia e mia nonno disse che era un signore (che al Meridione è un gran complimento).
Insomma sono uno “di mezzo”, il più giovane di vecchi fra noi.
Il film di Segre è certamente affascinante per chi si occupa di politica.
Affascinante per le immagini di repertorio, per la colonna sonora, per i bozzetti molto gustosi dei politici di allora (anche se Ingrao, Terracini, Andreotti e Cossutta sembrano maschere da Bagaglino, per chi lo ricorda).
Affascinante perché restituisce un modo di fare politica fatto di riunioni infinite, di discorsi cesellati a penna, di adunate oceaniche.
Un modo morto dall’inizio degli anni ' 80, nel volgere del passaggio dalla stagione di Moro e Berlinguer a quella di Craxi e poi Berlusconi, Veltroni, Renzi ed i nostri giorni.
Al Maxxi c’è’ la mostra sulla Rai: andate a vedere una puntata di Mixer con Berlinguer, con il suo periodare lungo, e poi una con Craxi, con le sue pause e battute ad effetto.
Passano pochi mesi l’una dall’altra ma sembrano epoche politiche e dialettiche lontane decenni.
Come ha detto bene Segre non è un film politico (molto di più lo sono stati – per assurdo – quelli di Bellocchio) ma un film sulla solitudine.
Lui era solo in famiglia, che lo prendeva in giro chiamandolo “grigio funzionario”.
Solo, ed a rischio di vita, nelle trasferte nel blocco sovietico.
Solo nelle riunioni nelle direzioni di partito, dalle quali si allontanava per “trattare” da solo e in segreto con Moro.
Solo nelle regate a Stintino.
Si confronta con i figli (che hanno aiutato a scrivere il film) solo quando li convoca per chiedergli di lasciarlo morire, ancora una volta solo, se dovesse essere rapito.
Ma non li capisce e rimane stizzito quando parteggiano per i movimenti di piazza e gli indiani metropolitani.
È assurdo che fosse solo chi parlava innanzi piazze gremite.
La solitudine di Berlinguer è infatti soprattutto storica, un’asincronia rispetto al presente.
Dobbiamo chiederci se era in anticipo o drammaticamente in ritardo sui tempi. Se l’emancipazione dall’URSS sia avvenuta troppo tardi. Se il desiderio di salvare la specificità italiana l’abbia talmente impegnato da non metterlo nelle condizioni di capire la modernità e mitigarne gli effetti negativi. Di non intercettare e gestire il disagio giovanile, il ribellismo degli anni '70, la generazione persa appresso alla eroina e poi la televisione a colori, l’edonismo degli anni '80, i nuovi eroi popolari e capaci di riempire le piazze (da Giovanni Paolo II a Lech Wałęsa, da Lady D a Reagan, non per nulla citati nelle ultime immagini del film).
Come PPP è morto troppo presto per capire cosa avrebbe fatto nei decenni successivi.
Proprio la loro morte “eroica” ha contribuito a trasformaRli in “santino” (piacciono tutti e due a tutti: a destra e a sinistra) forse perché in quanto morti non hanno potuto reagire alla versione di maniera nella quale sono stati ridotti.
Il film di Segre ha, almeno, il merito di restituire a Enrico Berlinguer una dimensione umana, intima, e magari a «dissolvere la retorica un po’ troppo autoindulgente secondo cui l’impegno e la rettitudine appartengono solo a un passato irraggiungibile».
“Magistrati con funzioni di livello internazionale”: il d.lgs. 45 del 2024 cambia pagina e segue l’esempio degli altri Paesi europei
Sommario: 1. Premessa – 2. La genesi e le ragioni – 3. Il nuovo status degli incarichi ex art. 11 (3) – 4. Gli incarichi ex artt. 11 (3): contenuti – 5. Magistrati con funzioni di livello internazionale
1. Premessa
La legge 17 giugno 2022 n. 71 ha inaugurato un’importante stagione di riforma dell’ordinamento giudiziario delegando l’Esecutivo a riscrivere buona parte delle norme incluse nel Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12 e ad introdurre nuove regolamentazioni per specifici settori ordinamentali. Nell’ambito di discipline settoriali dedicate, il Legislatore delegato ha iscritto la nuova regolamentazione per il collocamento fuori ruolo dei magistrati, confluita nelle nuove disposizioni di cui al Decreto legislativo 28 marzo 2024 n. 45 (di attuazione della delega legislativa di cui all’art. 1, comma 1, della legge 71/2002). Spicca, nel nuovo riordino delle regole, la neonata disciplina ad hoc per gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale.
2. Le genesi e le ragioni
In termini generali, il collocamento fuori ruolo è la destinazione di un dipendente pubblico ad una amministrazione o organo diversi da quello di appartenenza, per svolgervi temporaneamente una prestazione lavorativa.
Lo statuto ordinamentale dei magistrati (il r.d. 12/1941) tipizza esclusivamente una tipologia di collocamento fuori ruolo dei magistrati, ossia quello con destinazione presso il Ministero della giustizia (art. 196). Prevede, poi, la generale possibilità che ai magistrati siano conferiti incarichi in virtù dei quali debba essere “sospeso il servizio giudiziario” (art. 210), quanto a dire il collocamento fuori del ruolo organico della magistratura. La disciplina originaria è, quindi, scarna dal punto di vista dei contenuti normativi. Il più sostanziale (successivo) intervento normativo (sulla base della delega di cui alla legge n. 150/2005), è il Decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, che regola in modo innovativo la materia ma nulla specifica quanto ad eventuali incarichi svolti in ambito internazionale. Insomma, ancora non esiste una disciplina normativa specifica per i “magistrati che svolgono incarichi a livello internazionale”.
Il maggiore interesse per un arsenale di regole dedicato risponde, invero, ad una rapida e importante evoluzione dell’ordinamento italiano nel contesto della comunità internazionale e, più in particolare, quella europea, profondamente trasformata dall’entrata in vigore, nel 2009, del Trattato di Lisbona (successivo, quindi alla legge delega del 2005 che è, in effetti, anteriore anche alla firma del Trattato UE di riforma). Nello spirito del r.d. n. 12 del 1941, la destinazione di magistrati al Ministero della Giustizia risponde all’esigenza di garantire che l’obiettivo di presidiare l’indipendenza e i principi costituzionali che governano la giurisdizione possa godere, almeno in parte, della presenza della magistratura, poiché prima destinataria delle norme da attuare ed applicare per la funzione assegnata in via esclusiva dalla Carta costituzionale, in modo scevro da ogni conflitto di interessi. Essendosi, nel tempo, spostato il centro legislativo in modo sostanziale verso un sistema multilivello – là dove decisioni anche fondamentali sono assunte in contesti internazionali e non a Roma – è maturata sempre più la consapevolezza di dover “allargare” l’orizzonte rafforzando la presenza degli esperti nei centri normativi europei e della comunità internazionale.
Basti pensare che, in tempi recenti, tramite un atto europeo (Reg. UE 2017/1939) è stata finanche modificata la stessa struttura e composizione dell’ordinamento giudiziario mediante la creazione della Procura giudiziaria europea («EPPO») che ha comportato (ad oggi) l’aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria (di 20 unità; v. legge n. 142/2021) e la creazione delle nuove figure dei pubblici ministeri europei delegati (PED) presso i Distretti individuati dal legislatore; ma, soprattutto, la creazione di una nuova autorità giurisdizionale europea che svolge indagini, esercita l’azione penale ed esplica le funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri per i reati attribuiti alla sua competenza.
Al contempo, il ricorso all’utilizzo dei magistrati in contesti internazionali ed europei è sempre più diventato una esigenza fondamentale per garantire la partecipazione dell’Italia a strumenti di cooperazione giudiziaria multilivello e la presenza della magistratura in reti (network) molto importanti per lo scambio di informazioni, il supporto e l’assistenza all’attività giurisdizionale. Si pensi, ad esempio, ai magistrati di collegamento, alle reti giudiziarie europee, ai progetti internazionali dedicati ai giudici.
In un contesto del genere, così rinnovato, è stata fortemente avvertita l’esigenza di dotare l’ordinamento italiano di nuove regole specifiche per allineare le norme interne alle nuove esigenze, al passo con le risposte già da tempo offerte dalla maggior parte degli altri Stati Membri dell’UE superando molteplici problemi determinati alla presenza di un'unica disciplina nazionale valevole per ogni tipo di incarico, vuoi nazionale che di tipo internazionale.
Il Legislatore ha così approvato, in occasione della legge 17 giugno 2022 n. 71, di riforma dell’ordinamento giudiziario, una specifica delega per l’introduzione – per la prima volta in Italia – di un regime giuridico ad hoc regolativo degli incarichi svolti a livello internazionale, contenuto nell’art. 5 che riguarda il “collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili”. In questa disposizione, spicca il comma 1, lett. i) dove l’Esecutivo è delegato a “disciplinare specificamente, con regolamentazione autonoma che tenga conto della specificità dell'attività, gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale”, quanto a dire un ventaglio di disposizioni “specifiche” ed “autonome”, quindi, collocate in una cornice regolatoria fuori dal regime generale del fuori ruolo generico.
“La disposizione appare espressione della consapevolezza da parte del legislatore dell’obbligo per l’Italia di contribuire al funzionamento delle autorità giudiziarie internazionali ed europee e delle relative missioni, attraverso la partecipazione ad esse di magistrati ordinari, delle peculiarità delle attività svolte in ambito internazionale e della conseguente necessità di disciplinare specificamente gli incarichi in questione” (CSM, parere 16 marzo 2022).
La legge delega non ha indicato, in modo chiaro, quale soluzione adottare per dare corpo al nuovo status dei magistrati cui conferiti incarichi internazionali e non ne ha in modo preciso delimitati i confini (in quali casi?). Nel suo parere del CSM, del 16 marzo 2022, il CSM ha, tuttavia, suggerito al Legislatore delegato una precisa strada da percorrere: “anche sulla scorta di recenti novità normative a livello europeo, che hanno evidenziato il progressivo espandersi delle attività giudiziarie transfrontaliere”, si avverte “l’esigenza di superare la tradizionale dicotomia degli incarichi in ruolo/fuori ruolo” al fine di tener presente l’obbligo per l’Italia di “garantire l’assegnazione di magistrati italiani senza frapporre ostacoli dettati dalla normativa interna”.
3. Il nuovo status degli incarichi ex art. 11 (3)
Il decreto legislativo n. 45 del 2024 realizza gli obiettivi presi di mira dalla legge n. 71/2022 introducendo una disciplina specifica per gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale. Più nel dettaglio, il regime differenziato e di favore è quello racchiuso nell’art. 11 comma 3 che riguarda gli incarichi conferiti ai magistrati per funzioni da svolgere in ambito internazionale beneficiando di uno status diverso: magistrati che possono essere qualificati come aventi “funzioni di livello internazionale” per distinguerli da tutti gli altri incarichi all’estero che non ricadono nel regime giuridico ad hoc introdotto dal d.lgs. n. 45 del 2024).
Gli incarichi ex art. 11 (3) sono quelli “di coordinamento e/o di supporto all’attività giudiziaria e giurisdizionale svolti a livello internazionale”.
Il Legislatore delegato regola diversi aspetti: 1) lo status dei magistrati cui conferiti incarichi ex art. 11 (3); 2) le condizioni per beneficiare di questo status (“in quali casi”); 3) la disciplina applicabile.
Il decreto legislativo n. 45/2024, per tutti questi tre aspetti principali, dà corpo alla delega legislativa non provvedendo, tuttavia, a una disciplina autonoma ma, piuttosto, inserendo norme specifiche nel corpus generale, ove spicca, perché la più importante, l’art. 11, comma 3. Questo “innesto” della disciplina speciale nell’ambito del regime giuridico generale non ha giovato alla chiarezza del regime applicabile e, anzi, invero, registra anche alcune contraddizioni.
Ad ogni modo, quanto allo “status” dei magistrati cui conferiti incarichi internazionali, il d.lgs. 45/2024 segue la linea indicata dal CSM e supera la stretta dicotomia tra magistrati “in ruolo” e “fuori ruolo”.
La modifica normativa, dal carattere del tutto inedito, inaugura, infatti, una categoria di magistrati formalmente “fuori ruolo” la cui attività, però, si considera come “effettivo esercizio delle funzioni proprie della magistratura”. È quanto chiarisce l’art. 4 sui requisiti per il collocamento fuori ruolo. Infatti, “il collocamento del magistrato fuori ruolo non può essere autorizzato se (…) sono decorsi meno di dieci anni di effettivo esercizio delle funzioni proprie della magistratura” (art. 4, comma 1, lett. a). A questi fini, lo svolgimento degli incarichi di cui all'articolo 11, comma 3 è computato come effettivo esercizio (v. art. 4, comma 2). Così, pure, chiarisce la circolare del CSM n. 13778 del 24 luglio 2014 (“Disposizioni in tema di trasferimenti dei magistrati, conferimento di funzioni e destinazione a funzioni diverse da quelle giudiziarie”), aggiornata il 24 luglio 2024. Il nuovo articolo 104 (Requisiti per il collocamento fuori ruolo) specifica che “ai fini del computo del periodo di effettivo servizio si tiene conto (…) dei periodi in cui il magistrato ha svolto incarichi di coordinamento e/o di supporto all’attività giudiziaria e giurisdizionale svolta a livello internazionale” (art. 11, comma 3, d.lgs. n. 45/2024).
Insomma: il magistrato svolge funzioni effettive proprie della magistratura anche quando svolge un incarico ex art. 11 (3).
La nuova disciplina, ovviamente, con riguardo a tale aspetto, si applica anche per gli incarichi già svolti alla data di entrata in vigore della normativa, ove possano essere qualificati come “11, comma 3”.
La natura speciale e autonoma di questa tipologia di incarico è testimoniata anche da altri elementi di disciplina normativa: ad esempio, gli incarichi di cui all’art. 11, comma 3, “possono essere autorizzati anche nel caso in cui sia raggiunto il numero massimo” di magistrati fuori ruolo (180): proprio perché non si computano in questo numero.
Si tratta, dunque, di un tertium genus in cui l’attività fuori ruolo è equiparata a quella giudiziaria tipica. Proprio per tale ragione, questo tipo di incarico non è sottoposto ad alcun termine di durata e prescinde da eventuali periodi di fuori ruolo “ordinario” precedentemente prestati.
Gli incarichi dei magistrati ex art. 11, comma 3, ottengono, dunque, un generale favore rispetto agli altri e ancor più rispetto agli ordinari generali (non internazionali) per i quali finanche la durata massima è ridotta a sette anni. Questo “cambio di pagina” è razionale e ha una precisa giustificazione: in primo luogo, gli incarichi internazionali sono una minima e ridottissima parte di quelli complessivi fuori ruolo (quindi l’impatto è esiguo); in secondo luogo, testimoniano la consapevolezza del fatto che la magistratura deve poter presenziare, senza ostacoli formali, in quelle sedi in cui può essere in gioco la stessa indipendenza dei magistrati e dove si trova la genesi del diritto UE e sovranazionale che poi la giurisdizione dovrà applicare e interpretare.
4. Gli incarichi ex artt. 11 (3): contenuti
Il decreto legislativo n. 45 del 2024 non tipizza gli incarichi internazionali ex artt. 11, comma 3 e ciò a ragione: il criterio identificativo è sostanziale (“cosa fanno”) piuttosto che formale (“quali sono”) e ciò proprio in linea con gli obiettivi della riforma che, come detto, punta a garantire la partecipazione dell’Italia ai più importanti processi decisionali sovranazionali con impatto sul comparto Giustizia. Ciò nondimeno, la disposizione enuclea delle specifiche coordinate e disegna i criteri che fungono da cartina da tornasole per poter accertare se un incarico sia o non “speciale” nei sensi di cui all’art. 11, 3 cit.
Si tratta di incarichi che hanno ad oggetto attività di “coordinamento” oppure (in senso di alternativa) di “supporto”. Quindi, rientrano nella norma sia le attività di supporto che quelle di coordinamento. Questa essendo l’attività, essa deve poi rivolgersi ad una precisa finalità: il coordinamento/supporto deve avere come destinataria “l’attività giudiziaria” oppure (in senso di alternativa) “l’attività giurisdizionale”. Infine, c’è un elemento di contesto: gli incarichi devono essere “svolti a livello internazionale”.
La disposizione è stata oggetto di un minuzioso parere dell’Ufficio studi del CSM del 20 marzo 2024 che, in prima lettura, ha offerto una interpretazione della nuova norma.
Il punto di partenza del CSM è la “constatazione che le attività giudiziarie svolte a livello nazionale sono sempre più condizionate da scelte di politica giudiziaria che vengono adottate al di fuori dei confini nazionali. Ciò trae conferma dalla evidenza di un ordinamento giuridico sempre più permeato dalle norme internazionali di origine regionale (UE) o globale (Convenzioni internazionali) con il connesso diritto-dovere di prendere parte a detto processo di formazione delle scelte sovranazionali”. La disposizione intenderebbe, quindi, rivolgersi proprio a queste attività tenendo conto della lettera della norma anche del suo spirito; in concreto, sarebbero incarichi ex art. 11, comma 3 quelli “che si occupano di elaborare proposte normative in materia di giustizia (sempre più spesso direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico interno) o che gestiscono reti di cooperazione giudiziaria in materia civile o penale”. Per il CSM “si tratta infatti di incarichi orientati alla elaborazione, attuazione, coordinamento o monitoraggio di politiche giudiziarie e che hanno un impatto diretto sull’amministrazione della giustizia a livello nazionale, in quanto intesi a verificare il modo in cui il nostro ordinamento si conforma al diritto sovranazionale partecipando alle scelte sottese al modo di essere di quest’ultimo”.
Dando corpo a questa lettura, rientrerebbero nell’art. 11 comma 3 gli incarichi aventi una ricaduta sulla giurisdizione o sull’amministrazione della Giustizia come l’attività di negoziazione bilaterale dei Trattati in materia di estradizione, di trasferimento dei detenuti e di assistenza giudiziaria, ovvero di accordi dal contenuto tecnico-giuridico destinati a disciplinare le relazioni fra autorità giudiziarie, nonché quelle di formazione degli atti normativi europei e internazionali, la negoziazione dei regolamenti e delle direttive europee presso gli organi legislativi dell’Unione.
In buona sostanza confluirebbero nella nozione di incarichi ex art. 11(3) tutti quelli deputati a svolgere funzioni di cooperazione giudiziaria internazionale o di partecipazione dell’Italia, a mezzo del magistrato, ai processi decisionali che incidono sulla Giustizia italiana: da qui, l’appellativo “magistrati con funzioni internazionali” (dove rientrano anche quelli preposti alla cd. legal diplomacy).
Si tratta di un criterio di lettura che coglie nel segno e, soprattutto, da un lato conferisce razionalità e dall’altro indica una direzione univoca al tessuto legislativo di riferimento.
La ratio dell’intervento normativo è quella di rafforzare la partecipazione dell’Italia ai processi sovranazionali che riguardano la “Giustizia”, intesa come attività dei magistrati (attività giurisdizionale) o amministrazione e gestione giudiziaria (attività giudiziaria). È anche quella di incentivare e rafforzare i modelli di cooperazione che sono, oggi, essenziali per il buon funzionamento della stessa giurisdizione: l’istituzione e il coordinamento delle reti giudiziarie; i contributi a livello internazionale per la lotta alla corruzione; il lavoro svolto a livello di multilateralismo per favorire i rapporti internazionali (ad es., a livello di Conferenza dell’Aja). In tutti questi casi, il magistrato incaricato ex art. 11(3) diventa uno “strumento” della magistratura, un tassello di un più ampio disegno in cui alle classiche funzioni “interne” si affiancano funzioni “esterne”, in poli strategici.
Prendono così corpo i concetti di “supporto” e “coordinamento” che, principalmente, richiamato le attività di cooperazione giudiziaria solta a livello internazionale.
Il coordinamento è, ad esempio, quello che svolge, in senso tecnico, il magistrato di collegamento o l’esperto presso le reti giudiziarie internazionali: quanto a dire mettere in contatto diversi soggetti al fine di facilitarne i rapporti, lo scambio di informazioni o la collaborazione. E ciò a beneficio della giurisdizione.
Il supporto “giuridico” è l’assistenza, anche sotto forma di consulenza, partecipazione tecnica ai lavori negoziali che riguardano i temi della Giustizia.
In entrambi i casi, si tratta di attività non giurisdizionali o giudiziarie ma nemmeno tout court “amministrative”, che riverberano i loro effetti direttamente sull’Amministrazione della Giustizia nel suo complesso. Nell’ottica dell’art. 11 (3) sono, però, attività svolte in un livello “internazionale” concetto da intendere in senso classico ossia “all’estero”. Questo criterio limita notevolmente il numero degli incarichi che ricadono nell’art. 11(3) ma, a ben vedere, è proprio per la presenza italiana “all’estero” che si è avvertita l’esigenza di un regime speciale particolareggiato alla luce degli effetti fisiologici che comporta la mobilità internazionale. È proprio in questo caso – permanenza all’estero – che si giustifica la rimozione dello sbarramento dei termini massimi di “fuori ruolo” proprio per garantire la continuità della presenza in loco degli esperti italiani fintanto che l’interesse primario persiste o l’attività in corso non venga completata.
Volendo trarre delle conclusioni pratiche, si possono individuare delle specifiche categorie di incarichi che, in linea di principio, ricadono nell’art. 11 (3) perché si sostanziano in attività di supporto o coordinamento ad attività giurisdizionali o giudiziarie.
A ben vedere, sulla base delle stringenti coordinate normative, gli incarichi di diplomazia giuridica non sono numerosi e sono tutti accomunati da uno stesso identico tratto comune: incarichi internazionali la cui attività ha effetti diretti sul “mondo della Giustizia”.
1) Gli esperti impegnati in progetti internazionali di cooperazione giudiziaria. Si tratta di quei progetti ufficiali basati su accordi internazionali (in primis europei) che prevedono la partecipazione di magistrati per realizzare obiettivi comuni quali la conclusione di Trattati di cooperazione giudiziaria o lo scambio strategico di informazioni tra le autorità giudiziarie. Si pensi, ad esempio, al programma regionale europeo di assistenza tecnica ai paesi dell’America Latina «EL PAcCTO» istituito dal Vertice dei Capi di Stato e di Governo UE-CELAC che, di recente, ha portato all’adozione di un protocollo multilaterale per la protezione delle vittime di tratta e di traffico di esseri umani (a uso di giudici, pubblici ministeri, etc.). Non a caso, proprio il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e l’IILA (Organizzazione internazionale italo-latino-americana) hanno affermano che questo progetto “coordina e supporta l’attività giudiziaria e giurisdizionale a livello internazionale nella lotta alla corruzione e alla dimensione economica del crimine”.
2) Gli esperti giuridici destinati a missioni diplomatiche ma limitatamente a quelli che sono impegnati direttamente in attività di cooperazione giudiziaria e assistenza/coordinamento nei sensi già spiegati. In questo senso, possono essere richiamati gli esperti giuridici presso le Rappresentanze Permanenti. Può essere citato, a titolo di esempio, il più recente esempio di coordinamento e assistenza all’attività (in questo caso) giurisdizionale. La Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione europea – a mezzo dei suoi esperti giuridici – ha coordinato e negoziato il testo di atto del Consiglio dell’UE che, a giugno del 2024, ha istituito la nuova “rete giudiziaria europea contro la criminalità organizzata” (EJOCN): si tratta di un nuovo polo strategico che riunisce pubblici ministeri di tutti gli Stati Membri che, con il supporto di Eurojust e il coordinamento delle Rappresentanze ha, tra l’altro, i seguenti compiti: a) attività di individuazione e di registrazione delle tendenze e delle modalità operative dei gruppi della criminalità organizzata; b) orientamenti strategici per la lotta al traffico di droga e alla criminalità organizzata; c) agevolare ulteriormente il lavoro operativo di Eurojust, delle squadre investigative comuni (SIC) e delle autorità di contrasto; d) informare sulle implicazioni del quadro giuridico diversificato all'interno e all'esterno dell'Europa. La Rappresentanza Permanente d’Italia ONU ha seguito e negoziato i lavori che hanno condotto all’accordo per l’importantissima Convenzione ONU sulla lotta al “cybercrime”. In tutti i casi, tramite il supporto e il coordinamento delle Rappresentanze, viene innovato o modificato proprio il substrato normativo della giurisdizione: si pensi, a titolo di esempio, al nuovo massiccio innesto UE di proposte legislative nel settore del diritto penale sostanziale (es. Direttiva UE sulla violenza contro le donne, n. 1385/24), del processo civile (Direttiva UE cd. SLAPP sulle liti temerarie, n. 1069/24) o della giustizia digitale (v. Reg. UE n. 2844/24 sulla digitalizzazione).
3) Gli esperti preposti a svolgere l’attività di negoziatori per strumenti giuridici vincolanti deputati a introdurre norme nel settore della Giustizia e, quindi, aventi un impatto rilevante sulla magistratura e, in generale, sull’amministrazione della giustizia. Valga considerare, tra i tanti esempi, uno eclatante: l’istituzione della Procura europea (EPPO) che ha radicalmente modificato il volto dell’ordinamento italiano (Regolamento UE 2017/1939 relativo all'attuazione di una cooperazione rafforzata sull'istituzione della Procura europea. In questo ambito ricadono anche gli incarichi di “esperto nazionale distaccato” (END), espressamente citati da parere dell’Ufficio studi del CSM ma, anche in questo caso, esclusivamente per quegli END che, per l’appunto, sono svolti nel settore della Giustizia.
4) Gli esperti con incarichi in reti giudiziarie e gli esperti nazionali distaccati – cd. END – purché con attività che resta nella cornice della “giustizia” (citati espressamente dal parere dell’Ufficio studi del CSM). La maggior parte degli incarichi di esperti nelle reti giudiziarie non è svolta, invero, in regime di collocamento fuori ruolo ma come incarico extragiudiziario perché si tratta di posizioni che comportano sporadicamente impegni di mobilità all’estero. Nei casi in cui, invece, l’attività sia prevista come da svolgersi in modo permanente all’estero, allora ci si ritrova nell’art. 11 (3). Si può citare, facendo sempre riferimento a casi recenti, ai magistrati incaricati di svolgere attività di supporto e coordinamento in Ucraina, a seguito del conflitto bellico in corso: quanto a dire, aiutare la raccolta delle prove dei crimini di guerra e contro l’umanità per garantire, in futuro, la punibilità dei crimini anche in Italia.
A ben vedere, tutte le categorie citate si qualificano come incarichi ex art. 11(3) utilizzando la “cartina di tornasole” del parere dell’Ufficio studi del CSM e, soprattutto, consegnano in modo univoco una figura coerente di magistrato che, in tutte le categorie citate, ha lo stesso ruolo dal punto di vista sostanziale.
Recentemente, il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera del 20 novembre 2024, ha confermato la lettura del proprio Ufficio studi e la linea di interpretazione della disposizione qui illustrata, relativamente a un caso specifico riguardante, al contempo, gli END (connessi alla Giustizia) e gli incarichi di esperto presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’UE: il CSM ha concluso qualificando entrambi questi incarichi come attività ex art. 11 (3). Per il CSM per “attività di supporto all’attività giudiziaria o giurisdizionale a livello internazionale” devono intendersi “lo svolgimento di funzioni di elaborazione e redazione degli atti legislativi dell’Unione, nonché l’attività di interpretazione e applicazione della normativa europea nella fase di negoziazione”.
Volendo volgere uno sguardo all’impatto numerico, questa interpretazione circoscrive molto l’ambito di applicazione del nuovo art. 11 (3) perché si applica solo a incarichi: a) svolti all’estero; b) svolti nel settore della cooperazione giudiziaria; c) con riferimento ad attività che hanno ricadute sulla Giustizia.
Conti alla mano, guardando allo status quo, ad esempio, si tratterebbe di circa 10 incarichi in tutto.
5. Magistrati con funzioni di livello internazionale
Sotto la spinta della riforma approvata nel 2024, il volto dell’ordinamento giudiziario è mutato e presenta, oggi, tre diverse categorie di magistrati: 1) i magistrati con funzioni giudiziarie; 2) i magistrati fuori ruolo (in Italia o all’estero); 3) i magistrati con funzioni di livello internazionale (che sono solo quelli di cui all’art. 11, comma terzo, più volte citato).
Si tratta di una inevitabile e importante evoluzione dell’ordinamento giudiziario che non potrebbe più restare “isola” di funzionari pubblici unicamente destinati alle funzioni giudiziarie. L’Italia si conforma, così, al panorama europeo (in particolare Francia, Spagna e Germania) che, invero, lo stesso CSM ha in diverse occasioni richiamato: ad esempio, in calce al parere espresso con riferimento all’Agenzia Eurojust ove ha affermato che “la distinzione dell’attività dei magistrati in ruolo e fuori ruolo non trova applicazione nella maggioranza degli ordinamenti degli altri Stati membri (…) e ciò spiega perché la normativa europea non abbia considerato tale problematica e si sia da tempo indirizzata sic et simpliciter verso la creazione di nuove figure di magistrati dei diversi Stati membri operanti in territorio europeo” (cfr. CSM, risoluzione del 18.11.2020).
Le norme sono cambiate: ora, probabilmente, restano da cambiare le menti.
Immagine: Embroidered map sampler, 1783, seta, from the Collection of Mrs. Lathrop Colgate Harper, Bequest of Mabel Herbert Harper, 1957, Metropolitan Museum of Art, New York.
Co-progettazione vs appalti: discrezionalità amministrativa e nuovi assetti tra il mercato degli appalti e il terzo settore (nota a TAR Lombardia n. 2533/2024)
di Andrea Crismani
1. I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore - 2. Strumenti di interazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore e criticità sintomatiche - 2.1. Primo aspetto sintomatico: la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e la gratuità - 2.2. Secondo aspetto sintomatico: la correttezza delle procedure cooperative - 3. La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione - 4. Il rapporto tra co-programmazione e co-progettazione e la non sequenzialità necessaria - 5. Il procedimento di cooperazione - 6. Elementi di contrasto e di contatto con la disciplina sui contratti pubblici - 6.1. Non applicabilità del principio di separazione tra offerta tecnica ed economica - 6.2. Punti di contatto con i contratti pubblici - 7. Le ONLUS nel regime transitorio - 8. Considerazioni finali.
1. I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore
La gestione delle prestazioni pubbliche nel contesto del terzo settore ha subito una significativa evoluzione con l’introduzione del Codice del terzo settore (CTS) che indubbiamente ha svolto una funzione unificante, diretta a ordinare e a riportare a coerenza la disciplina degli enti del terzo settore, superando le precedenti frammentazioni e sovrapposizioni[1].
I tratti caratterizzanti del sistema degli enti del terzo settore sono il perseguimento del bene comune (art. 1), lo svolgimento di attività di interesse generale (art. 5) senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), la soggezione a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (artt. da 90 a 97).
Questo sistema, valorizzato dal principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, c. 4, Cost., ha dato vita, tramite l'art. 55 CTS, a un modello di "amministrazione condivisa" tra gli enti del terzo settore e le pubbliche amministrazioni[2].
I rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore sono finalizzati ad innalzare i livelli di cittadinanza attiva e di assicurare la fruizione, equa ed universalistica, delle prestazioni sociali e civili ex art. 117, co. 2, lett. m) Cost.
L’obiettivo degli istituti giuridici collaborativi consente di comprendere le ragioni per le quali il CTS abbia inteso ricondurre le attività di interesse generale ex art. 5 al di fuori delle regole sulla concorrenza e, quindi, del mercato.
Le attività di interesse generale svolte senza fini di lucro da questi enti rappresentano, come ha notato la Consulta[3], anche una nuova e indiretta forma di concorso alla spesa pubblica—derivante dal necessario reinvestimento degli utili in attività con funzione sociale—il Titolo X CTS prevede misure di agevolazione fiscale che, sebbene differenziate per intensità, forme e modalità, riguardano tutti gli enti del terzo settore. Inoltre, nel Capo IV del Titolo VIII, si razionalizzano forme di finanziamento e si enfatizza la tipologia organizzativa in modo da riservare alcune forme di contributo statale diretto esclusivamente agli enti del terzo settore[4].
Quindi il Codice promuove un modello gestionale fondato sui principi di co-programmazione e co-progettazione, che sostituisce i tradizionali appalti pubblici con un approccio collaborativo tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del terzo settore. Questo modello si distingue per la sua natura non competitiva, promuovendo la solidarietà e la sussidiarietà tra pubblico e privato sociale [5].
La sentenza TAR Lombardia n. 2533/2024 ribadisce questa posizione, sottolineando che, anche se gli enti del terzo settore non devono seguire le rigide regole del Codice dei contratti pubblici, devono comunque operare nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità. Le amministrazioni devono adottare criteri chiari e verificabili per selezionare i partner del terzo settore e garantire che la co-progettazione non diventi uno strumento per eludere le normative sugli appalti. Ciò rispecchia anche il quadro giuridico offerto dalla Corte costituzionale, sent. n. 131/2020, secondo la quale è lo “stesso diritto dell’Unione che mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)” [6].
La sentenza in commento offre in esame un caso tipico di come questo modello venga implementato nella pratica, nello specifico nella gestione di un centro per l'accoglienza di persone in condizioni di povertà ed emarginazione sociale. L’analisi della sentenza rivela i fondamenti giuridici della co-progettazione e il suo utilizzo nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), nonché il ruolo principale delle amministrazioni locali nella promozione del benessere sociale[7].
2. Strumenti di interazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore e criticità sintomatiche
Com’è noto, il CTS definisce una serie di strumenti in apparenza innovativi, ma già presenti nel nostro ordinamento (sebbene scarsamente regolamentati) per la gestione dei “servizi sociali”. Gli artt. 55 e 56 delineano due modalità principali di interazione tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del terzo settore: la co-programmazione e la co-progettazione[8].
La co-programmazione (art. 55, comma 2): consiste nell’identificazione congiunta, da parte dell’amministrazione pubblica e degli enti del terzo settore, dei bisogni da soddisfare e degli interventi necessari.
La co-progettazione (art. 55, comma 3): riguarda la definizione e la realizzazione di specifici progetti o servizi attraverso una collaborazione attiva tra pubblico e privato sociale, che si differenzia dall'appalto pubblico o dalla concessione previsti dal Codice dei contratti[9].
La differenza principale tra questo modello e gli appalti pubblici è il suo carattere non competitivo, che promuove la solidarietà e l'inclusione attraverso la collaborazione attiva degli enti del terzo settore. Tale impostazione è stata ulteriormente confermata dal codice dei contratti pubblici. L'art. 6 di quest'ultimo, infatti, sancisce espressamente che gli istituti di co-programmazione e co-progettazione del terzo settore non sono soggetti al regime degli appalti pubblici. Si tratta di un modello di "amministrazione condivisa", che si fonda sulla collaborazione tra pubblica amministrazione ed enti del terzo settore, senza un rapporto sinallagmatico tipico degli appalti.
Indubbiamente gli istituti giuridici cooperativi del CTS rappresentano un nuovo paradigma di collaborazione tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore, basato sul principio di sussidiarietà e orientato alla condivisione di obiettivi e responsabilità[10].
Questo modello supera le tradizionali logiche competitive degli appalti pubblici attraverso strumenti come la co-programmazione, la co-progettazione e le convenzioni. Tuttavia, emergono criticità legate alla diffidenza culturale verso questi strumenti, alla difficoltà di accettare la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e a percezioni errate delle procedure cooperative. Per sfruttare appieno le potenzialità di questi istituti nel garantire livelli essenziali di prestazioni e nel rispondere alle sfide del welfare, è necessario che sia le pubbliche amministrazioni sia gli enti del terzo settore sviluppino capacità adeguate, investano in formazione congiunta e promuovano un coinvolgimento esteso e consapevole, valorizzando la corresponsabilità e superando le resistenze culturali esistenti[11].
2.1. Primo aspetto sintomatico: la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore e la gratuità
Un aspetto sintomatico è legato alla difficoltà nell'accettare la rilevanza economica nei rapporti con gli enti del terzo settore, spesso erroneamente associati all'idea di gratuità, il che porta a limitare o escludere il giusto riconoscimento dei costi sostenuti da questi enti.
La nozione di "gratuità" nel contesto degli affidamenti e delle convenzioni con enti del terzo settore è stata più volte approfondita dalla giurisprudenza, la quale ha delineato i confini tra ciò che può essere considerato “gratuito” e ciò che comporta invece un corrispettivo economico che andrebbe a qualificare l’operazione come onerosa. In questo ambito, il concetto di gratuità non esclude totalmente la possibilità di rimborsi spese, ma impone che questi siano limitati ai costi effettivamente sostenuti, verificati e documentati, escludendo ogni rimborso forfettario che non sia direttamente e chiaramente connesso a una spesa reale.
Nel diritto del Terzo Settore, la gratuità è un elemento distintivo dell’attività degli enti non profit che operano per finalità sociali, assistenziali o di promozione sociale. Secondo l’art. 56 CTS, le convenzioni con enti di volontariato possono prevedere esclusivamente il rimborso delle spese documentate e sostenute per lo svolgimento del servizio. Questo principio risponde alla finalità di garantire che le attività del terzo settore, pur coinvolgendo enti privati, non perdano il loro carattere non lucrativo, allineandosi così agli interessi generali della collettività.
La giurisprudenza ha chiarito che la gratuità, così definita, si applica specificamente alle “convenzioni” stipulate con associazioni di volontariato e organizzazioni di promozione sociale, come previsto dall’art. 56 CTS[12]. Diversamente, la co-progettazione e la co-programmazione, disciplinate dall’art. 55, rappresentano forme di collaborazione pubblico-privato destinate a rispondere a bisogni complessi e richiedono un impegno economico e organizzativo maggiore. In questi casi, pur non implicando un lucro, la gratuità non è richiesta in senso stretto, consentendo un rimborso per attività che richiedono una struttura organizzativa e gestionale più articolata[13].
La nozione di gratuità assume ulteriore rilevanza alla luce della normativa europea sugli appalti pubblici, la quale interviene solo sugli affidamenti di carattere oneroso. La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che il rispetto della concorrenza si impone quando si tratta di appalti onerosi, dove esiste una remunerazione del servizio. Tuttavia, un affidamento può sfuggire alle norme europee se è del tutto gratuito o se prevede solo il rimborso delle spese reali, evitando qualsiasi forma di guadagno o margine economico. Questo aspetto permette, dunque, alle amministrazioni pubbliche di collaborare con enti di volontariato per lo svolgimento di attività a beneficio della collettività, senza l’obbligo di ricorrere a una gara pubblica, purché l’attività sia effettivamente gratuita o limitata al solo rimborso delle spese sostenute.
Un aspetto importante emerso dalla giurisprudenza è il divieto di utilizzare formule forfettarie per il rimborso dei costi, in quanto queste prescindono dalla verifica delle spese reali sostenute. In altre parole, la gratuità implica che solo le spese effettivamente documentate e necessarie per lo svolgimento del servizio possano essere rimborsate, escludendo rimborsi percentuali o forfettari che non rispecchiano una spesa effettiva e verificabile[14].
In sintesi, la giurisprudenza ha progressivamente definito il concetto di gratuità come un principio cardine per mantenere il carattere di interesse pubblico degli interventi svolti dagli enti del terzo settore, garantendo che il denaro pubblico venga utilizzato in modo responsabile e senza scopi di lucro. Tale impostazione salvaguarda il principio di concorrenza e rende possibile un’azione sussidiaria tra pubblico e privato nel campo sociale, senza incorrere nelle rigide normative degli appalti pubblici, a condizione che l’operazione mantenga un carattere genuinamente non lucrativo e socialmente utile[15].
2.2. Secondo aspetto sintomatico: la correttezza delle procedure cooperative
La seconda riguarda l'errata percezione delle procedure cooperative. Questi strumenti innovativi, come la co-programmazione, la co-progettazione e le convenzioni, offrono alternative alle tradizionali procedure competitive degli appalti pubblici, promuovendo la collaborazione e le partnership anziché la concorrenza. Emergono difficoltà legate a una diffidenza culturale nei confronti di tali istituti, dovuta alla formazione e alle prassi consolidate che privilegiano le logiche contrattualistiche e competitive. Si osserva una tendenza a confondere le procedure cooperative con quelle competitive o, al contrario, a considerarle prive di evidenza pubblica e trasparenza.
Anche su questi aspetti è intervenuta la giurisprudenza[16]. Quest’ultima sottolinea come in una procedura di affidamento pubblico, sia fondamentale anzitutto che l'amministrazione predetermini criteri di selezione chiari, oggettivi e trasparenti. Tale predeterminazione risponde all’esigenza di assicurare imparzialità e parità di trattamento, come previsto sia nel codice del terzo settore sia nel codice dei contratti pubblici. Solo con criteri stabiliti ex ante, infatti, si garantisce che l'amministrazione possa procedere, in una seconda fase, a una valutazione comparativa effettiva delle manifestazioni di interesse pervenute, riducendo il rischio di arbitrarietà e assicurando l'adesione ai principi di trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione[17]. In mancanza di tali criteri predefiniti, la comparazione tra i candidati risulterebbe infatti compromessa, poiché verrebbe meno il fondamento oggettivo su cui basare l'analisi e la scelta dell'affidatario[18]. Inoltre, dottrina[19]e altra giurisprudenza[20] evidenziano la criticità di non poter ridurre la fase di co-progettazione a un mero adempimento burocratico nel senso di una predeterminazione non solo dei criteri (doverosa e ammissibile) ma addirittura dei contenuti esecutivi della presentazione (non ammissibile in quanto violativa del principio della compartecipazione)[21].
In questa prospettiva, il documento programmatico della co-progettazione redatto dall’amministrazione rischia di coincidere con un vero e proprio capitolato d’appalto, prevedendo compensi per servizi mascherati da rimborsi per costi diretti e indiretti. Questo approccio compromette la dimensione partecipativa e ideativa assegnata alla co-progettazione, generando incertezza sulla natura giuridica dell’operazione e rendendo problematico il ricorso a un modello derogatorio rispetto alle ordinarie procedure di affidamento di appalti di servizi. In tale contesto, l’assenza sostanziale della co-progettazione invalida l’applicazione del modello partenariale delineato dall’art. 55, cc 3 e 4, CTS, riavvicinando la questione a un ordinario appalto di servizi sociali.
Infine, la giurisprudenza ribadisce dunque che, in presenza di più offerte valide, la predisposizione dei criteri di valutazione deve precedere e guidare la comparazione delle proposte, assicurando che l’affidamento rispetti i principi di evidenza pubblica e imparzialità[22].
3. La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione
Uno dei temi centrali della sentenza in commento è la discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra l'utilizzo di appalti pubblici e la co-progettazione per la gestione di servizi pubblici. La sentenza affronta una questione per nulla irrilevante, in quanto costituisce sintomo di un riassestamento o di un futuro riassestamento del mercato degli appalti e dell’ambito del terzo settore, evidenziando la tendenza della trasmigrazione di prestazioni che fino ad ora erano considerate e venivano gestite secondo le regole degli appalti pubblici nei modelli gestionali previsti dal codice del terzo settore. Si pone infatti la domanda se un servizio precedentemente gestito tramite appalto possa essere trasformato in un'attività di co-progettazione senza violare i principi di trasparenza e parità di trattamento o costruire una mera simulazione o mascheramento dell’appalto come appena evidenziato sopra.
In base all’art. 55 CTS, la co-progettazione rappresenta un modello alternativo agli appalti pubblici per la gestione di servizi di interesse generale. La pubblica amministrazione ha ampia discrezionalità nel decidere se ricorrere a un appalto pubblico o a una procedura di co-progettazione, in base alle caratteristiche del servizio da gestire. Tuttavia, questa discrezionalità non è illimitata e deve essere esercitata nel rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento e proporzionalità.
La sentenza chiarisce che la scelta tra appalto e co-progettazione deve essere giustificata da ragioni oggettive, legate alla natura del servizio e alle finalità sociali che si intendono perseguire. Indubbiamente, non è legittimo utilizzare la co-progettazione solo per evitare le procedure competitive previste per gli appalti pubblici. Questo punto è stato sollevato nel contesto del caso in esame, dove il Comune ha optato per la co-progettazione.
L'aspetto critico conseguenziale emerso nella sentenza riguarda la trasformazione di un servizio precedentemente gestito tramite appalto in un'attività di co-progettazione. Quando un servizio, che fino a quel momento era stato affidato tramite gara d'appalto, viene trasferito al modello di co-progettazione, le amministrazioni devono garantire che tale passaggio non sia finalizzato ad aggirare le norme sugli appalti.
Nella sentenza del TAR Lombardia, la contestazione mossa si basava proprio sulla trasformazione della gestione della casa dell'accoglienza da un modello di appalto a uno di co-progettazione. Il ricorrente ha sostenuto che il Comune avrebbe dovuto continuare a utilizzare il sistema degli appalti pubblici per la gestione del servizio, e che la scelta di ricorrere alla co-progettazione era volta a evitare la competizione prevista dalle gare d'appalto.
Il Giudice, tuttavia, ha respinto questa argomentazione, affermando che il Comune aveva legittimamente esercitato la propria discrezionalità nell'optare per la co-progettazione, poiché tale modello si adattava meglio alla natura del servizio da gestire, che richiedeva un'ampia partecipazione del terzo settore e una flessibilità operativa non compatibile con le rigide regole degli appalti pubblici. In particolare, il Giudice ha sottolineato che la co-progettazione è giustificata quando si tratta di servizi di carattere sociale che richiedono una forte componente collaborativa, piuttosto che una semplice esecuzione di compiti predefiniti.
La sentenza evidenzia che la scelta del passaggio dall'appalto alla co-progettazione non è stata arbitraria, ma risultava ben giustificata nella documentazione prodotta dal Comune. Il Comune, infatti, aveva adottato un modello gestionale delineato negli atti programmatici, come il Piano di Sviluppo del Welfare della Città di Milano 2021-2023 e il Regolamento sui rapporti tra il Comune e gli enti del Terzo Settore. Questi documenti, insieme alla deliberazione di Giunta Comunale n. 1506 del 2023, delineano con chiarezza la volontà di utilizzare gli strumenti di co-progettazione e co-programmazione previsti dal CTS, confermando che la scelta di adottare un modello di amministrazione condivisa per la gestione della Casa dell'Accoglienza rispondeva a un piano già definito, in linea con le finalità sociali perseguite.
La discrezionalità della pubblica amministrazione nella scelta tra appalto e co-progettazione è ampia, ma deve essere esercitata con trasparenza e in modo coerente con la natura del servizio. La sentenza in commento conferma che è possibile trasformare un servizio precedentemente gestito tramite appalto in un'attività di co-progettazione, a condizione che tale scelta sia motivata da esigenze oggettive e che il processo sia gestito in modo trasparente e imparziale. Le amministrazioni devono assicurarsi che la co-progettazione non diventi un mezzo per eludere le normative sugli appalti pubblici, ma piuttosto uno strumento per coinvolgere attivamente il Terzo Settore nella gestione di servizi di interesse generale.
4. Il Rapporto tra co-programmazione e co-progettazione e la non sequenzialità necessaria
Il CTS distingue chiaramente due fasi nella gestione dei servizi pubblici: la co-programmazione e la co-progettazione. La co-programmazione rappresenta la fase iniziale di pianificazione degli interventi, durante la quale vengono identificati i bisogni da soddisfare e le risorse da mobilitare. La co-progettazione, invece, è la fase esecutiva, in cui si realizza l’effettiva attuazione degli interventi pianificati attraverso una collaborazione diretta tra l’amministrazione e gli enti del Terzo Settore.
Un aspetto sollevato dalla sentenza riguarda la non obbligatorietà della co-programmazione come fase propedeutica alla co-progettazione. In altre parole, il CTS non impone un passaggio automatico dalla co-programmazione alla co-progettazione; le amministrazioni hanno dunque la facoltà di avviare direttamente la co-progettazione quando ritengono che i bisogni e le modalità d’intervento siano già chiaramente definiti. Qualora gli obiettivi siano già stati chiaramente definiti, non è necessaria una fase preliminare di co-programmazione. In tal caso, potrebbe accadere che la pubblica amministrazione abbia autonomamente stabilito gli obiettivi, senza richiedere preventivamente la partecipazione dei soggetti del Terzo Settore per la loro definizione. Tuttavia, questa circostanza non dovrebbe precludere o condizionare la successiva fase di co-progettazione, poiché le due fasi possono mantenere una natura distinta. Dalla fase di co-programmazione potrebbe emergere, ad esempio, che determinati interventi non siano idonei alla co-progettazione e che sarebbe preferibile ricorrere al modello dell'appalto pubblico per la loro realizzazione.
Nel caso in esame, il Comune ha scelto di avviare direttamente la fase di co-progettazione, ritenendo che i bisogni della struttura fossero già ben definiti e che la co-programmazione non fosse necessaria. Il TAR ha evidenziato che il CTS non impone una gerarchia rigida tra co-programmazione e co-progettazione, lasciando all'amministrazione la libertà di decidere se procedere subito con la co-progettazione, specialmente quando si tratta di servizi o strutture già esistenti.
5. Il procedimento di cooperazione
Ulteriore aspetto riguarda il rapporto tra gli atti di indirizzo politico e gli atti di gestione all’interno delle procedure amministrative, evidenziando i confini della loro autonomia e legittimità. Nella sentenza in commento., viene esaminata la distinzione tra il ruolo della Giunta, che fornisce orientamenti generali, e quello dei dirigenti, responsabili dell’attuazione concreta. La ricorrente ha contestato l’avviso di istruttoria pubblica, approvato con determinazione dirigenziale, affermando che esso violasse l’atto di indirizzo politico della Giunta, proponendo una modalità procedurale in contrasto con tale atto. La sentenza ha risolto questo punto chiarendo che la deliberazione di Giunta rappresenta un atto di indirizzo politico che non limita l’autonomia e le competenze dei dirigenti nell’adozione di atti di gestione, secondo il modello delineato dall’art. 107 TUEL.
In effetti, la deliberazione di Giunta non specifica in dettaglio le caratteristiche della procedura, ma indica un "approccio non competitivo" con gli enti del Terzo Settore. Di conseguenza, l’avviso di istruttoria prevede una prima fase procedurale a carattere selettivo per individuare l’ente più idoneo alla co-progettazione, cui segue la fase di co-progettazione vera e propria.
Come sottolineato dal TAR, tale fase preliminare di selezione dell’ente è di fatto indispensabile per individuare, tra le proposte ricevute, quella più adeguata alle esigenze dell’amministrazione. Questa selezione rispetta i principi di trasparenza, pubblicità e non discriminazione stabiliti dalla legge n. 241 del 1990.
Il TAR ha ritenuto idonei gli atti e i piani amministrativi – tra cui il Piano di Sviluppo del Welfare della Città di Milano 2021-2023 e la deliberazione di Giunta n. 1506 del 2023 – a delineare chiaramente il modello gestionale da adottare, confermando che questi documenti evidenziavano fin dall'inizio l'intenzione del Comune di avvalersi della co-progettazione.
In sostanza la censura avanzata dai ricorrenti sulla distinzione tra gli atti era strumentale a sostenere un'invasione della procedura collaborativa in quella selettiva e competitiva prevista invece dal Codice dei contratti. Ad avviso di chi scrive, si può cogliere come entrambe le procedure devono includere una valutazione comparativa, rimanendo nei rispettivi ambiti normativi.
6. Elementi di contrasto e di contatto con la disciplina sui contratti pubblici
Per riprendere il discorso della scelta ovvero distinzione tra appalto e co-progettazione, emerge la necessità di una riflessione sull’applicabilità delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici.
Come notato la sentenza rappresenta un caso interessante in cui si assiste a un cambiamento nel modello gestionale della prestazione: inizialmente disciplinata secondo le regole degli appalti pubblici, questa è stata successivamente riorientata verso una logica di collaborazione con il terzo settore, sottraendola così alle dinamiche di mercato. Tale decisione sottolinea una volontà amministrativa di privilegiare un approccio partecipativo e non competitivo, ritenuto più adatto a soddisfare finalità sociali, evidenziando al contempo le implicazioni giuridiche di questa scelta rispetto alla distinzione tra procedure di selezione tradizionali e quelle orientate alla co-progettazione con enti del terzo settore
La distinzione fra i due approcci si basa non solo su una differenza strutturale – l’appalto ha natura competitiva, mentre la co-progettazione è collaborativa – ma anche su aspetti normativi che limitano l’applicazione di alcuni principi degli appalti alla co-progettazione. Tuttavia, in fase applicativa, permangono contatti significativi tra i due modelli, quali l’assegnazione dei punteggi, la discrezionalità tecnica e il rispetto dei principi di trasparenza e parità di trattamento, che richiamano alcuni tratti tipici del regime degli appalti pubblici.
Questa analisi ulteriore intende dunque esaminare i punti di contrasto e di contatto tra i due modelli, mostrando come il TAR abbia affrontato le contestazioni relative all’applicabilità delle norme sugli appalti pubblici alla co-progettazione, confermando da un lato l’inapplicabilità di alcune regole del codice dei contratti pubblici, e dall’altro sottolineando la necessità di garantire trasparenza e correttezza anche nelle procedure di amministrazione condivisa con il terzo settore.
6.1. Non applicabilità del principio di separazione tra offerta tecnica ed economica
La ricorrente lamentava la mancata separazione tra offerta tecnica ed economica, un principio tipico delle gare d'appalto. Il TAR ha respinto tale motivo, evidenziando che nella procedura di co-progettazione le due componenti (tecnica ed economica) sono congiunte poiché l'oggetto è un progetto da sviluppare insieme alla pubblica amministrazione, piuttosto che una gara competitiva. Questo approccio è confermato anche dalle Linee Guida del Ministero del Lavoro (decreto n. 72 del 2021).
L’altro aspetto riguardava l’esclusione del principio di segretezza delle offerte. La ricorrente sosteneva che il principio di segretezza delle offerte era stato violato perché le domande di partecipazione sono state trasmesse tramite posta elettronica certificata e non con sistemi più rigorosi. Il TAR ha rigettato la doglianza affermando che, trattandosi di una procedura di co-progettazione, non si applicano le stringenti regole di segretezza previste per gli appalti pubblici. La trasmissione a mezzo di posta elettronica certificata è stata considerata sufficiente per garantire la trasparenza e la correttezza della procedura.
6.2. Punti di contatto con i contratti pubblici
Un primo aspetto riguarda l’attribuzione dei punteggi. Sebbene la procedura di co-progettazione non si configuri come una gara d’appalto, il sistema di punteggio utilizzato per valutare le proposte progettuali degli enti del terzo settore ha mantenuto alcuni elementi di trasparenza tipici delle gare pubbliche. Nello specifico, i criteri di valutazione delle proposte (ad es. il contesto territoriale, le competenze dei soggetti proponenti, la rete di collaborazioni) sono stati strutturati in modo tale da attribuire un punteggio a ciascun elemento. Questo approccio ricalca quello dei contratti pubblici, dove i criteri di valutazione delle offerte tecniche ed economiche devono essere chiari e predeterminati.
Il secondo aspetto riguarda la discrezionalità tecnica e il conseguente controllo giudiziario.
Il TAR ha applicato un principio frequentemente utilizzato nei contratti pubblici, ovvero la discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice, che è censurabile solo in caso di evidenti errori o manifesta illogicità. Anche se la procedura di co-progettazione non segue le rigide norme del Codice dei contratti pubblici, il Giudice ha richiamato la giurisprudenza in tema di valutazione discrezionale delle proposte, stabilendo che la commissione può assegnare i punteggi in base a criteri qualitativi. Questa analogia con gli appalti pubblici si nota particolarmente nella valutazione del Piano Economico Finanziario (PEF) e dei profili professionali delle proposte, dove la commissione ha goduto di una certa discrezionalità nella valutazione delle proposte concorrenti.
Il terzo aspetto riguarda la trasparenza e la parità di trattamento. Un altro punto di contatto con il regime dei contratti pubblici è stato il rispetto dei principi di trasparenza e non discriminazione. Sebbene la procedura di co-progettazione non sia una gara competitiva in senso stretto, il Comune ha adottato una fase preliminare di selezione tra le proposte, richiedendo che fosse rispettata la trasparenza e la parità di trattamento tra i partecipanti. Questo elemento è stato giustificato dal TAR come un principio generale che si applica anche fuori dal contesto degli appalti pubblici, in particolare quando vi è l’erogazione di finanziamenti pubblici o la gestione di servizi d’interesse generale.
Il quarto aspetto attiene alla valutazione delle proposte economiche e alla sostenibilità finanziaria. Pur non essendo un appalto di servizi, la procedura ha previsto la presentazione di un Piano Economico Finanziario (PEF) per ogni proposta. Il TAR ha sottolineato che la commissione giudicatrice doveva valutare la sostenibilità economica del progetto proposto dagli enti del Terzo Settore, in modo simile a quanto avviene negli appalti pubblici, dove l’offerta economica deve essere congruente con il servizio da svolgere. Anche in questo caso, la valutazione dei costi e delle risorse messe a disposizione ha richiesto una valutazione tecnica e una disaggregazione delle voci di costo, analogamente a quanto accade negli appalti pubblici.
Un quinto aspetto che merita attenzione è il giudizio sulla coerenza delle proposte con il progetto da sviluppare. Anche se la procedura di co-progettazione non è competitiva nel senso tradizionale, le proposte sono state valutate in base alla loro coerenza complessiva rispetto agli obiettivi del progetto. Questo tipo di valutazione è simile a quella condotta nelle gare pubbliche, dove l’amministrazione valuta la conformità e l’adeguatezza dell’offerta tecnica rispetto alle esigenze del bando. In particolare, il TAR ha valutato la congruenza delle voci di costo e delle figure professionali indicate nelle proposte, utilizzando criteri simili a quelli adottati per la valutazione delle offerte negli appalti pubblici.
In sintesi, anche se la procedura di co-progettazione si distingue nettamente dalle gare d’appalto per la sua natura collaborativa, diversi principi tipici del regime dei contratti pubblici sono stati applicati per garantire la trasparenza, la correttezza della procedura e la parità di trattamento, specialmente nell'attribuzione dei punteggi e nella valutazione delle proposte economiche.
7. Le ONLUS nel regime transitorio
La sentenza affronta ancora un ulteriore aspetto che sebbene possa risultare marginale per la costruzione degli istituti dell’amministrazione condivisa è invece importante nella fase transitoria di applicazione della disciplina alle ONLUS.
L’ENTE DEL TERZO SETTORE non scelto ha contestato la decisione del Comune, sostenendo che la vincitrice non avesse i requisiti di ammissione richiesti per la procedura di co-progettazione, in particolare in relazione all’iscrizione al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS). Altre (in tutto dieci) doglianze riguardavano presunte irregolarità nella trasparenza e nell’assegnazione dei punteggi.
Il TAR ha respinto il ricorso, confermando la legittimità della procedura adottata dal Comune. La sentenza chiarisce che il regime transitorio previsto per le ONLUS consente loro di partecipare a tali procedure anche senza l'iscrizione al RUNTS, poiché la procedura di autorizzazione da parte della Commissione europea non è ancora stata completata.
In particolare, si deve considerare la disciplina sul regime transitorio di cui all’art. 101, comma 3 del CTS, e il decreto ministeriale n. 106 del 15 settembre 2020, che disciplina il RUNTS ai sensi dell’art. 45 del CTS. Tuttavia, l’art. 34 del decreto introduce una normativa specifica per gli enti iscritti all’anagrafe delle ONLUS (cfr. il comma 3 dell’art. 34), imponendo loro di presentare la domanda di iscrizione al RUNTS entro il 31 marzo del periodo d'imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, prevista dall’art. 101, comma 10 del CTS.
Quest'ultimo comma, all'interno del regime transitorio del CTS, subordina l'efficacia di alcune disposizioni del Codice all'autorizzazione della Commissione europea, secondo quanto stabilito dall’art. 108, par. 3 del TFUE, che regola in particolare gli aiuti di Stato.
Poiché tale autorizzazione della Commissione non è ancora stata concessa, non esiste al momento alcun obbligo per le ONLUS di richiedere l’iscrizione al RUNTS, potendo le stesse mantenere la loro iscrizione nei registri di settore di appartenenza.
8. Considerazioni finali
La sentenza ha rilevanti implicazioni per la gestione dei servizi sociali. Conferma la validità del modello di co-progettazione, in cui le amministrazioni pubbliche possono collaborare attivamente con il terzo settore senza ricorrere agli appalti pubblici. Questo modello si dimostra particolarmente efficace nel contesto di progetti finanziati dal PNRR, come nel caso concreto dove la flessibilità e la cooperazione tra pubblico e privato sociale sono fondamentali per il successo degli interventi.
Inoltre, la sentenza rappresenta un precedente importante per future controversie legali riguardanti l’applicazione del CTS, ribadendo che le ONLUS non iscritte al RUNTS possono ancora partecipare alle procedure di co-progettazione durante il periodo transitorio. Questo approccio inclusivo permette di ampliare la platea degli enti coinvolti, favorendo una maggiore partecipazione di soggetti esperti nel campo sociale.
Infine, il TAR ha chiarito che non è necessario avviare una fase di co-programmazione in tutti i casi. Le amministrazioni possono optare per la co-progettazione diretta quando i bisogni del territorio e le modalità di intervento sono già definiti. Ciò rende il modello della co-progettazione più flessibile e adattabile alle esigenze dei servizi sociali, rafforzando la capacità delle amministrazioni di rispondere tempestivamente alle necessità della comunità.
Infine, la sentenza riconosce l'ampio potere discrezionale della pubblica amministrazione nella scelta di adottare, per la gestione di un servizio, un modello basato sulla co-progettazione invece di un tradizionale appalto pubblico. Questo potere comporta un possibile riassetto dei due settori coinvolti – quello degli appalti pubblici e quello del terzo settore – poiché le amministrazioni possono decidere di passare da un modello gestionale all'altro in funzione delle esigenze specifiche del servizio e degli obiettivi sociali perseguiti. Tale possibilità di scelta evidenzia come i due settori siano in continua interazione, dando forma a un nuovo equilibrio tra l’attività amministrativa regolata dai principi della concorrenza e quella orientata alla collaborazione e al coinvolgimento attivo degli enti del terzo settore, consolidando così un sistema di amministrazione condivisa.
[1] Corte cost., 15 marzo 2022, n. 72.
[2] A. D'Atena, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 1, 2001, 24.
[3] Corte cost. 26 giugno 2020, n. 131.
[4] L'art. 72, c. 1, istituisce un fondo destinato a sostenere lo svolgimento di attività di interesse generale, con priorità stabilite annualmente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso un atto di indirizzo triennale. Per il 2024, questo atto è stato adottato con decreto n. 122 del 19 luglio 2024, stanziando 22.450.000 euro per progetti e attività di interesse generale e 13.150.000 euro per il sostentamento degli enti del terzo settore. Il finanziamento mira a promuovere la crescita autonoma degli ENTI DEL TERZO SETTORE senza interferire nella loro gestione, prevedendo che i progetti di rilevanza nazionale siano attuati in almeno 10 regioni e che il contributo ministeriale copra fino all'80% del costo totale (50% per le fondazioni), con importi compresi tra 250.000 e 600.000 euro per iniziativa. I soggetti promotori devono essere organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale o fondazioni del terzo settore iscritte al RUNTS, con una fase transitoria che include le fondazioni iscritte nell'anagrafe delle ONLUS. Gli obiettivi prioritari di intervento si allineano ai 17 obiettivi dell'Agenda 2030, focalizzandosi su 13 specifici e includendo una linea di finanziamento dedicata all'intelligenza artificiale con 2.500.000 euro stanziati. L'individuazione dei singoli interventi finanziabili avverrà successivamente tramite procedure che rispettino i principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento; sul punto si v G. Biasutti, Decreto direttoriale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 19 luglio 2024, n. 122: linee di indirizzo per l’anno 2024 per gli obbiettivi di interesse generale, in https://terzosettore.info/d-d-122-19-07-2024/
[5] Per una visione d’insieme si rinvia al lavoro completo e dettagliato di A. Santuari, Diritto delle organizzazioni socialmente responsabili. Manuale degli Enti del Terzo settore, delle cooperative, delle società benefit e dei loro rapporti con la P.A., Milano, 2024, pp. 9-807.
[6] La controversia verteva sulla gestione della "Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci" attraverso una procedura di co-progettazione, finanziata in parte dai fondi PNRR. Si costituivano in giudizio, trattandosi di una controversia in materia di PNRR (ai sensi dell’art. 12-bis del DL n. 68 del 2022 convertito con legge n. 108 del 2022), anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
[7] Sul terzo settore in generale si v. tra gli altri: F. Loffredo, Gli enti del terzo settore, Milano, 2018; A.Propersi e G. Rossi, Gli enti del terzo settore. Gli altri enti non profit dopo la Riforma. Milano, 3 ed., 2022; F. Donati e F. Sanchini, Il codice del terzo settore. Commento al d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 e ai decreti attuativi, Milano, 2019; F. Sanchini, Profili costituzionali del terzo settore, Milano, 2021; A. Fusaro, Gli Enti del Terzo Settore. Profili civilistici, Milano, 2022.
[8] Per un’analisi critica si rinvia a B. Giliberti, L'amministrazione condivisa: co-programmazione e co-progettazione nel terzo settore tra autonoma iniziativa delle formazioni sociali e poteri delle pubbliche amministrazioni, in Annuario 2023 AIPDA, Lo spazio della pubblica amministrazione vecchi territori e nuove frontiere, Atti del convegno annuale Napoli, 29-30 settembre 2023, Napoli 2024, p. 321 ss.
[9] Per una disamina completa E. Frediani, La co-progettazione dei servizi sociali. Un itinerario di diritto amministrativo, Torino, 2021.
[10] D. Palazzo, Pubblico e privato nelle attività di interesse generale. Terzo settore e amministrazione condivisa, Torino, 2022; R. Parisi, Il sistema dei servizi sociali tra Stato, mercato e terzo settore, Napoli, 2023; F. Giglioni, Forme e strumenti dell'amministrazione condivisa, in G. Arena, M. Bombardelli (a cura di), L'amministrazione condivisa, 80 ss.; V. Parisio, Risorse idriche, contratti di fiume e amministrazione condivisa, in Federalismi.it, 2023, 162 ss.
[11] In tal senso ragionato e critico A. Santuari, I rapporti giuridici cooperativi tra pubbliche amministrazioni e ETS/imprese sociali. Potenzialità e criticità, in https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/i-rapporti-giuridici-cooperativi-potenzialita-e-criticita
[12] Cons. Stato, V, 26 maggio 2023, n. 5217 e 5218.
[13] A. Crismani, Il meccanismo della co-progettazione. Spunti utili dal Consiglio di Stato (n. 5217/2023 e n. 5218/2023), in https://terzosettore.info/il-meccanismo-della-co-progettazione-spunti-utili-dal-consiglio-di-stato-n-5217-2023-e-n-5218-2023/
[14] Cons. Stato, V, 22 maggio 2024, n. 4540.
[15] G. Biasutti, Il Consiglio di Stato precisa i presupposti ed i limiti applicativi della co-progettazione, in https://terzosettore.info/consiglio-di-stato-limiti-applicativi-coprogettazione-4540-2024/
Il Consiglio di Stato, con la sent. n. 4540/2024, ha ribadito che solo i servizi resi effettivamente a titolo gratuito nell'ambito della co-progettazione possono essere esentati dall'obbligo di rispettare la disciplina europea sugli appalti. Nel caso specifico, il bando prevedeva non solo il rimborso delle spese vive, ma anche il pagamento, tramite fatturazione, di spese di gestione, compensi agli operatori, rimborsi ai volontari e retribuzioni agli esperti. Questo implicava una retribuzione dei fattori produttivi, evidenziata sia dalla modalità di rimborso prevista sia dal fatto che l'operatore economico in partenariato aveva sostenuto solo l'8% dei costi totali. Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il servizio non fosse realmente gratuito e che, pertanto, dovesse rispettare le normative europee in materia di appalti pubblici (sentenza del Consiglio di Stato n. 4540/2024).
[16] Cons. Stato, V, 29 agosto 2023, n. 8025.
[17] G. Biasutti, La valutazione comparativa nell’affidamento dei servizi agli Enti del Terzo Settore: le indicazioni del Consiglio di Stato, in https://terzosettore.info/affidamento-servizi-sociali-terzo-settore/
l Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8025/2023 ha stabilito che “il semplice richiamo a vaghi principi quali quello di dare la priorità alle domande pervenute prima risulta arbitrario ed irragionevole”. Infatti, laddove siano presentate diverse candidature per la gestione del servizio, o comunque esistano nell’area interessata diversi enti del terzo settore in grado di rendere il servizio, l’amministrazione è obbligata ad operare una valutazione comparativa. Pertanto, la regola generale è quella per cui, in questi casi la selezione dell’affidatario, deve avvenire “previa fissazione di obiettivi criteri di valutazione, secondo i principi dell’evidenza pubblica”.
[18] Sul punto anche il Cons. Stato, V, 22 maggio 2024, n. 4540.
[19] A. Santuari, Quando la co-progettazione è conforme al dettato normativo – Cons. Stato 5217/23, in https://www.personaedanno.it/articolo/quando-la-co-progettazione-e-conforme-al-dettato-normativo-cons-stato-5217-23
[20] Cons. Stato, V, 26 maggio 2023, n. 5217.
[21] La sentenza già citata in tema di gratuità affronta anche la fase di co-progettazione e il principio di partecipazione attiva degli enti del terzo settore. Il Consiglio di Stato stabilisce che la co-progettazione non deve limitarsi alla semplice attuazione dei servizi, ma deve prevedere un’effettiva collaborazione sin dalla fase di definizione delle modalità di intervento, dei bisogni e delle risorse necessarie. La sentenza critica l’amministrazione comunale per aver pubblicato un “documento di massima” che, predefinendo nei dettagli i servizi da erogare, di fatto precludeva una vera co-progettazione.
La sentenza ribadisce l’obbligo di trasparenza e imparzialità nelle procedure di affidamento dei servizi pubblici, evidenziando come l’amministrazione avrebbe dovuto definire criteri obiettivi e trasparenti per la selezione degli enti del terzo settore con cui attivare il partenariato. L’art. 55, c. 4, impone infatti che la selezione sia condotta rispettando questi principi, e che sia fatta previa definizione degli obiettivi generali, della durata e delle caratteristiche essenziali del progetto. In mancanza di tali criteri, la selezione del partner risulta arbitraria, violando così i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.
[22] G. Biasutti, Il Consiglio di Stato precisa i presupposti ed i limiti applicativi della co-progettazione, in https://terzosettore.info/consiglio-di-stato-limiti-applicativi-coprogettazione-4540-2024/ secondo il quale: “Un’ulteriore censura specificamente accolta dal Consiglio di Stato riguarda la mancata partecipazione degli enti del terzo settore alla definizione del progetto oggetto del partenariato. Rimarcando la differenza genetica che sussiste tra questa tipologia di procedure e l’affidamento a gara, i giudici hanno ritenuto non ammissibile che l’interezza dei contenuti dell’affidamento fossero appannaggio esclusivo del Comune, il quale non si è adeguatamente aperto al confronto con gli operatori. Ai soggetti partecipanti alla procedura, invero, era concesso di proporre solo modalità esecutive di dettaglio, in maniera di fatto non dissimile a quanto avverrebbe con una offerta tecnica in sede di gara”.
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