ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il patriarcato esiste
di Maria Teresa Covatta
In apertura dello scritto “Sulla servitù delle donne” del 1836 John Stuart Mill chiarisce che la condizione di inferiorità giuridica delle donne si fonda su un principio sbagliato in se stesso in quanto trae la sua legittimazione da consuetudini che, non essendo il prodotto di una deliberazione fondata su ragioni di giustizia o utilità sociale, risultano essere un retaggio di barbarie, un frammento del sistema del diritto fondato sulla forza nonché l’esatto contrario di ciò che definiamo come civilizzazione.
Mill afferma che, atteso che la storia stessa del progresso della civiltà coincide con la progressiva abolizione del diritto fondato sulla forza in favore di relazioni regolate in base ai principi moderni di libertà e uguaglianza, qualunque sistema che tolleri l'inferiorità della donna rispetto all'uomo risulta storicamente e logicamente contraddittorio
Queste parole che possono ritenersi superate rispetto al nostro sistema giuridico attuale, certamente formalmente tra i più avanzati in tema di parità e di contrasto alla violenza di genere, meritano tutt'oggi una riflessione atteso che l'uso della forza è ancora, di fatto, uno dei modi in cui viene gestita la relazione uomo donna
La lotta a questa persistenza della barbarie è il senso della giornata mondiale della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre.
Il patriarcato esiste ancora. Inoltre chiamarlo maschilismo, come ha precisato di recente il ministro della pubblica istruzione italiano, per chiarire la sua precedente affermazione secondo cui il patriarcato non esiste, non cambia le cose posto che una diversa terminologia non modifica la realtà. Con il termine maschilismo, infatti, si indica l'adesione a comportamenti, atteggiamenti personali, sociali e culturali con cui gli uomini esprimono la convinzione di una loro superiorità nei confronti della donna sul piano intellettuale, psicologico, biologico che legittima posizioni di possesso, di predominio e di autoritarismo, occupando una posizione di privilegio nella società.
In sociologia il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e talora persino di controllo della proprietà privata, esercitando, in ambito familiare, quale figura maschile di riferimento, la propria autorità sulla donna e sui figli.
Se storicamente il termine patriarcato è stato usato per riferirsi al dominio autocratico da parte del capo di una famiglia, in tempi moderni si riferisce più generalmente a un sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto dagli uomini adulti ed esercitato secondo un modello “maschilista” nel senso detto sopra.
Il patriarcato come sistema di controllo istituzionalizzato ha dato in passato, e dà ancora oggi in una grandissima parte del mondo, un diritto al possesso della donna inteso come diritto anche all’abuso fisico e psicologico
La congiuntura tra patriarcato come privilegio e autorità e la concezione della donna come proprietà finisce per sfociare in quella che è stata definita la “cultura dello stupro” in cui violenza sessuale e altre forme di violenza verso le donne sono viste come possibili all'interno di un ordine sociale barbarico, per dirla con Mill, che resiste e impedisce di superare, nell'ambito dei rapporti tra i sessi, quel particolare tipo di relazione che ancora ci ricorda, nel contesto familiare, il rapporto padrone che comanda e servo che deve ubbidire, nel rapporto politico quello tra despota che decide e suddito che non ha diritto di protestare e infine, nel contesto dei conflitti, quello tra il vincitore e il vinto da annientare fisicamente e psicologicamente.
Il corpo della donna, già bottino in tutte le guerre, diventa anche in tempo di pace campo di battaglia perché attraverso la violenza sessuale e l'annientamento definitivo del corpo femminile si afferma una signoria a cui non si rinuncia nonostante le leggi formali, nazionali e internazionali, lo vietino. E che supporta il diritto a reprimere le decisioni delle donne di affrancarsi da relazioni violente o semplicemente non gradite o, in contesti internazionali sempre più vicini, a manifestare il proprio dissenso o la propria aspirazione alla libertà.
La violenza che si consuma in ambito familiare anche nei paesi civili spesso seguita anche dall'uccisione, come ci raccontano gli agghiaccianti dati dei femminicidi di casa nostra, si manifesta come esercizio di potere sociale e si affianca al fenomeno sempre troppo poco conosciuto dello stupro di guerra e allo stupro come arma di repressione politica, costituendo tutti insieme declinazioni diverse di un orrendo crimine che ha un unico comune denominatore, qual è quello dell'esercizio di un dominio in nome della prevalenza della forza fisica.
Lo stupro di guerra da sempre usato come arma massiva, ancorché riconosciuto come crimine contro l'umanità, resta sempre ai livelli più alti della hit della violenza contro le donne, come forma di annientamento del nemico umiliandolo, terrorizzandolo e modificandone l'assetto politico a fronte di eventuali intelligenze con gli opponenti.
Ed è ancora oggi una vera e propria piaga che tutti gli enfatici “mai più” pronunciati dall'umanità in risposta agli orrori delle due guerre mondiali non sono stati in grado né di arginare né di punire assicurando i colpevoli alla giustizia
Dal passato proseguendo fino alla terrificante realtà dell'oggi, in conflitti sempre più vicini e più massificati, la violenza sessuale resta un'arma di dominazione agita contro il nemico usando il corpo delle donne: dalle dominazioni coloniali al genocidio armeno dalle “marocchinate” alle “mongolate” dell'Italia della seconda guerra mondiale alle violenze perpetrate nella ex Jugoslavia e alla violenza assurta a pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, passando per il Ruanda, la Palestina, la Somalia, la Nigeria, l'India, l'ex Birmania, il Darfur, le terre Curde occupate dall’Isis fino all’America Latina e ancora, in tempi più vicini, la Repubblica popolare del Congo, la Siria, l’Etiopia, la Colombia, Haiti, l'Ucraina, Israele e Gaza.
Secondo i dati di Strategic Initiative for Women in the Horn of Africa, in Sudan sono sempre più le donne che scelgono il suicidio piuttosto che sottostare allo stupro di massa perpetrato sia dalle milizie RSF che dall’esercito golpista i quali, secondo il rapporto di United Nation High Commissioner for Human Rights (OHCHR) violentano e uccidono anche bambine di pochi anni.
Ma lo stupro è anche una potente arma politica, praticata anche da noi fortunatamente in un passato lontano anche se non lontanissimo come ci ricorda la terribile violenza che fu esercitata contro Franca Rame.
Secondo le fonti di Amnesty International riportate da Avvenire, la violenza sessuale è stata utilizzata diffusamente dalle autorità iraniane come arma nell'arsenale della repressione delle proteste per Donna Vita e Libertà.
Lo stesso sta accadendo in Myanmar per reprimere l'opposizione al regime militare instauratosi nel 2021: come dire se la protesta è donna la violenza sessuale procede o segue le percosse e le torture riservate a tutti.
Anche in Afghanistan le donne che protestano contro l'applicazione dei precetti talebani sono incarcerate e lì ripetutamente abusate. E, per concludere l'opera, segue la puntuale video registrazione dell'abuso, con l'esposizione del corpo nudo e del viso ben riconoscibile della vittima, che consente, attraverso la diffusione, di ricattarla e di vittimizzarla ancora di più.
E dunque, come accade nel nostro mondo occidentale e civilizzato dove si registra un aumento esponenziale della diffusione on line di messaggi di odio sessuale, anche l'uso della tecnologia può essere un'arma attraverso cui il patriarcato (o il maschilismo se il termine piace di più!) manifesta la volontà maschile di non perdere il potere sul corpo e sulla vita delle donne.
Una volontà che ancora oggi trova un fertile terreno nell'affermazione, anche pubblica, di cause di giustificazione morale legittimanti le condotte violente. Tra queste al primo posto la gelosia, che, nonostante l'abolizione del diritto d'onore dati al 1981, continua, anche nelle aule dei tribunali, ad essere portata avanti come causa del comportamento violento maschile la cui responsabilità va dunque ricondotta alla donna che vi ha dato causa.
E ciò perché rimane ancora il pervasivo retaggio della cultura patriarcale tradizionale secondo cui, nei rapporti affettivi, la gelosia è ritenuta un segno d’amore facendo della possessività, soprattutto maschile, la cifra di relazioni in cui il dominio e il controllo sull’altro sono la regola.
Così il “diritto di proteggere” celato dietro un preteso dovere di protezione che ha ben altri contenuti e che inevitabilmente rimanda all'esercizio del controllo, alla cancellazione del diritto di autodeterminazione, anche in relazione alla procreazione, e alla privazione di una o di più libertà.
Non può che leggersi così la promessa del capo di un'importante Paese Occidentale Civilizzato di “proteggere le donne anche contro la loro volontà”.
Non per fare paragoni e tornando al regime talebano, si segnala la forte condanna espressa di recente dall’ONU contro la pratica ora invalsa in Afghanistan di imprigionare le donne vittime di abuso sessuale, giustificando la carcerazione con la necessità di proteggerle, ovviamente contro la loro volontà, e ancora una volta facendo pagare il danno al danneggiato.
Volendo formulare un augurio per questo 25 novembre la speranza è che ci siano presto leggi e soprattutto percorsi culturali che servano a sradicare il patriarcato, partendo dalla consapevolezza della sua esistenza, e che possano formare, anche nei giovani, una nuova coscienza del rapporto uomo donna. E che cancellino per sempre l’idea che le donne debbano essere protette con un “tipo” di protezione decisa dagli uomini.
Cambiare funzioni
di Paola Cervo
«C'è una stagione ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Sa che doveva pagare (il gergo del carcere usa sempre questo verbo: “ho fatto due rapine e le ho pagate”) e sente che quella quantità corrisponde al dovuto secondo la “sua” idea di giustizia. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi.»
Il libro da cui tutto è cominciato è “Fine Pena: Ora” di Elvio Fassone.
Quando l’ho letto non potevo immaginarlo, ma queste parole hanno scavato nella mia testa per qualche anno, un pochino alla volta. Nel frattempo sono successe tante cose, ho parlato spesso con Marco e con Milena, ed alla fine eccomi qui.
1° ottobre 2024, fuori dalla porta della mia stanza c’è scritto “il magistrato di sorveglianza” e sotto c’è il mio nome.
Nei giorni precedenti il mio trasferimento, gli avvocati che mi incontravano in Corte di Appello sono sembrati sbigottiti dalla mia decisione. Qualcuno si è spinto a chiedermi perché mai volessi penalizzare così la mia carriera invece di fare domanda per la Cassazione o per una presidenza; qualcuno mi ha chiesto perché volessi relegarmi in quel luogo e smettere di essere un giudice, qualcun altro ha ammiccato come a dire che lo capiva benissimo, se dopo tanti anni di prima linea avevo scelto un posto dove non si lavora.
Forse per reazione a tutte queste condoglianze professionali ho voluto giurare indossando la toga e il bavaglino.
Siamo giurisdizione e la toga ne è il simbolo, ma da oggi non sarò il giudice che assolve o condanna. Confesso che ne sono sollevata.
Negli anni in cui le parole di Fassone scavavano, mi capitava a volte di avvertire una fitta troppo forte in certe condanne, o un sollievo troppo grande in certe assoluzioni: decisioni che sapevo essere corrette, che ho creduto destinate alla conferma in Cassazione, decisioni che adotterei di nuovo, ma non era quello il punto. Il punto era che ne avvertivo il peso, e non più solo la responsabilità.
E dunque, eccomi qui.
I primi detenuti che incontro stanno sistemando degli arredi in legno al piano di sopra, in tribunale, sotto l’occhio di un enorme poliziotto in borghese che sfoggia sul petto un distintivo più grande della mia mano. Noto l’etichetta, in quell’istituto c’è il laboratorio di falegnameria.
Prendono le scale per scendere al mio piano quasi insieme a me, attacco bottone ed iniziamo a chiacchierare. Vengono dall’ istituto che condividerò con altre colleghe. Mi presento, gli chiedo come si chiamino, le iniziali dei loro cognomi non sono lettere mie. Sono appena arrivata ma scopro che mi conoscono già, ho accordato un permesso di necessità ad un loro compagno di reparto, e mentre mi stupisco della velocità con cui viaggiano le notizie in carcere mi assale il dubbio atroce che la notizia si sia sparsa perché ho commesso chissà quale errore.
In attesa che venga reperito un armadio per stipare i fascicoli rossi della conversione delle pene pecuniarie, inizio a studiare i miei fascicoli delle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza si esegue a pena espiata. Lo so da sempre, lo avrò scritto in non so quanti dispositivi, eppure oggi qualcosa stona. Mi sorprendo a chiedermi perché una persona dovrebbe essere socialmente pericolosa dopo avere espiato una pena che la ha rieducata; eppure eccole qui, le misure di sicurezza, ed eccomi qui.
Vigilo sulla casa di lavoro.
Il collega al quale subentro mi propone di fare insieme la mia prima visita all’istituto, ed io accetto felice. Sarò io, adesso, l’unico magistrato di sorveglianza per gli internati.
La direttrice mi accoglie con cordialità, parliamo di assistenza sanitaria e di qualche internato più problematico. È autunno ma fa caldissimo, il balcone è aperto su un gigantesco albero e le zanzare sono entusiaste di avermi lì.
Anche gli internati sanno già chi sono, nei pochi giorni che separano il mio trasferimento dal mio ingresso in casa di lavoro ho già emesso svariati procedimenti, il mio nome gli è già familiare.
L’istituto ha un piccolo tenimento agricolo dove si coltivano melanzane, peperoncini di fiume, alberi da frutta, cavolo nero, finocchi, vite. Ci sono delle rose stupende, piantate da un anziano e terribile ndranghetista che – pare – quando è stato dimesso è tornato in Calabria a fare il nonno.
Lungo i viali che conducono ai reparti vengo letteralmente circondata dagli internati.
Non riesco quasi più a camminare.
Imparerò a conoscere i loro nomi ed i loro visi ma intanto mi lascio assediare dalle loro domande, esamino e commento con loro i documenti e le ordinanze che mi chiedono di leggere – casualmente, hanno tutti in tasca l’ultimo provvedimento che li riguarda, l’ultima istanza che hanno protocollato alla matricola, l’ultima lettera del figlio o della madre. Sono estremamente rispettosi l’uno dell’altro, aspettano il loro momento per parlarmi senza dare fretta a chi sta parlando, ma avverto che tutti mi stanno studiando.
Anche io voglio conoscerli. Entro nel reparto, ci disponiamo in cerchio in un passaggio abbastanza ampio da contenerci tutti. Non ho molto da dire perché non li conosco ancora, preferisco ascoltarli.
Alcuni sono davvero esasperati perché non capiscono come mai si trovano lì, dal momento che hanno già “pagato il reato”; altri mi chiedono, ora con foga e ora con stanchezza, perché si trovino ancora lì.
Mentre guido verso casa riaffiorano vecchie letture sull’ergastolo bianco, intanto ripasso mentalmente l’elenco dei fascicoli che l’indomani voglio studiare.
Sono impacciata, lenta, è tutto nuovo.
Litigo con SIUS, le norme sembrano sfuggirmi, guardo i miei colleghi – i magistrati di sorveglianza ‘veri’, così generosi ed accoglienti con me – e mi chiedo quanto mi ci vorrà per acquisire la loro esperienza e la loro competenza. Eppure mi sembra di essere lì da sempre.
Gli avvocati mi raccontano dei loro assistiti detenuti, prima di uscire dalla mia stanza uno di loro mi confessa: «sa, dottoressa, è il mio primo assistito».
Ricevo molte lettere.
La prima me la ha inviata un detenuto che è coetaneo del mio figlio più piccolo.
«Gentile dottoressa sono M.B., un suo assistito». Un mio assistito. Forse sarà così, forse quando avrà espiato questa lunga pena scopriremo insieme che sarà stato così.
Ma tra i miei assistiti ce n’è uno, che non ho ancora mai visto anche se conosco il suo nome da anni. Il reato per il quale lui sta scontando l’ergastolo è il reato per il quale io sono diventata magistrato. Chissà, magari non è una coincidenza, magari dovevo cambiare funzioni perché il cerchio si chiudesse.
Siamo giurisdizione e ora che sono da quest’altro lato lo vedo proprio nitidamente. E vedo anche che questo è proprio “l’altro lato”. C’è un confine ideale tra l’essere giudice della cognizione ed essere giudice dell’esecuzione, ed io ho scelto di varcarlo dopo 23 anni passati “dall’altro lato”. Chissà se tornerò mai indietro.
Indipendenza ed imparzialità del giudice. Piccole cose che so di loro.
di Giancarlo Montedoro
Ringraziamenti a guisa di premessa: giudice partigiano e giudice asceta
Vorrei ringraziare il Centro internazionale magistrati Luigi Severini per avermi invitato a all’International Forum “High Culture of jurisdiction. Impartiality and quality of the judge”.
Si tratta di un’importante occasione di incontro fra magistrati di diverse nazionalità non solo europee.
Son grato a Paolo Micheli Presidente del centro e Giuseppe Severini e per aver organizzato questo libero confronto e sono lieto di aver potuto aiutare la professoressa Piana nella preparazione del meeting.
Mi piace ricordare che il Centro è dedicato a Luigi Severini che fu giudice e partigiano, figura poliedrica, poi aderente al Partito d’azione e amico di Aldo Capitini un intellettuale quest’ultimo che solo l’odierno deficit di memoria storica non celebra come dovrebbe fra le massime personalità politiche del secolo scorso, credente, non violento, resistente alla maniera crociana, pacifista, libertario, animalista, vegetariano: un Ghandi italiano.
Giudice e partigiano non sono qualità in contrasto se non apparente.
Del giudice si predica l’imparzialità da più parti.
Certo così deve essere il suo lavoro ordinario.
Ma vi sono circostanze storiche nelle quali è il diritto ad essere sotto attacco.
Sono le circostanze storiche tragiche vissute nell’epoca dei totalitarismi, un’epoca nella quale le libertà sono state violate e nella quale la legge è divenuta instrumentum regni.
Allora anche il giudice che ama la libertà può essere chiamato a deporre la toga e fare la sua parte nel conflitto.
Normalmente e fortunamente non è così: la lotta jeringhiana per il diritto si svolge nelle sedi istituzionali.
Perché il diritto è sempre una lotta: ad esempio contro le leggi incostituzionali o i provvedimenti amministrativi illegittimi o – nel mercato – avverso le violazioni della fair competition.
Una perenne lotta – quella alla quale il giudice assiste – dei cittadini e delle imprese per trovare il loro spazio vitale.
Dello Stato per garantirci l’ordine e curare i pubblici interessi domando privati egoismi nella legalità sostanziale.
La giurisdizione è un luogo di calma ritualizzata – uno spazio protetto – che ha – normalmente – il conflitto per oggetto per mediarlo o risolverlo, assegnando ragioni e/o torti.
Quindi il giudice può divenire partigiano proprio e solo per difendere il suo essere giudice e deve sapere che ha il dovere di non esserlo (partigiano) quando la storia – per felici circostanze legate al contesto politico sociale ed istituzionale – gli consente di continuare ad essere giudice indipendente.
L’incontro poi si svolge all’Università per stranieri di Perugia luogo di confronto da sempre fra diverse culture.
Mi piace ricordare che il pluralismo è l’essenza della Costituzione e siamo qui in un luogo che lo celebra, favorendo dalla sua istituzione lo studio, l’educazione e l’apprendimento fra giovani di tutto il mondo.
La premessa del dialogo intessuto dal Centro è la significatività di ogni esperienza giudiziaria e l’intento è, nel mettere a confronto tali esperienze, suscitare una sorta di polifonia, di musica a più voci, che non teme il contrappunto ma se ne avvantaggia per superare l’ignoranza e limitare la fallibilità umana.
Piccole cose come introduzione
Alcune piccole cose che ho appreso – come lezione – negli anni – non pochi ormai – in cui mi è accaduto di fare il giudice.
Prima piccola cosa: la giustizia è fatta di differenti punti di vista.
Il film Rashomon di Akira Kurosawa la simbolizza a sufficienza.
Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
In un Giappone ancora dilaniato dai lasciti del dopoguerra, Kurosawa ritorna a un'altra epoca di morte e sofferenza, quel periodo Heian in cui di fronte alla porta del tempio di Rashô non scorrevano che sangue, violenza e frode.
Prendendo spunto dai racconti di Ryûnosuke Akutagawa, Kurosawa riflette sulla natura dell'uomo e sulla sua inclinazione alla menzogna, guidata da un esasperato spirito di autoconservazione. A contare non è mai il senso di verità o di giustizia, ma la salvaguardia del proprio tornaconto e di un miserrimo particulare, tale da portare – è il caso del personaggio del samurai – a mentire anche post mortem pur di difendere il proprio onore.
Ma se questo è già l'apologo originario di Akutagawa, risultato della messa in scena di tre versioni – tutte discordanti e tutte false – della stessa storia, Kurosawa vi aggiunge una nuova valenza, in cui la riflessione si estende a un'ulteriore menzogna, quella dell'immagine e del cinema come suo strumento principe. E le conclusioni di Kurosawa sull’illusorietà del cinema risultano anticipatrici della condizione della verità nell’epoca della civiltà dell’immagine e dei mass media. E anche della verità fornita dal processo dovremmo non scordarci mai che si tratta di verità umana (verità processuale convenzionalmente accettata).
Le versioni dell'assassinio non si limitano ad essere raccontate dai personaggi, infatti, ma sono offerte alla visione del pubblico come se si trattasse di realtà oggettiva e indiscutibile; ciò che si vede dovrebbe tradursi in ciò che è, anziché rivelarsi mutevole nei contenuti e nello stile, ma tutto alla fine risulta illusorio come nel sogno taoista della farfalla.
Il giudice dovrebbe avere consapevolezza della fallibilità della ragione umana e dovrebbe avere confidenza con la logica scientifica popperiana della falsificazione (evitando ogni forma di sacralizzazione della scienza).
Seconda piccola cosa: ogni discorso è situato.
Ciò significa che esistono delle premesse implicite, un complesso di pregiudizi e preferenze, un processo di precomprensioni, una pressione dell’inconscio e delle dinamiche culturali in ogni giudizio.
Enrico Scoditti ha – per questo motivo – kantianamente detto che il giudice dovrebbe essere indipendente innanzi tutto da se stesso.
Questa uscita da sé è un buon metodo, ma alla fine difficilmente attuabile se non impossibile, proponendo un modello di giudice asceta.
Non è facile uscire dalla propria passionalità e nemmeno dal linguaggio che ci forgia, rispetto al quale siamo come mosche in un bicchiere.
Un rimedio – modesto ma efficace – può essere l’onesta consapevolezza di questa realtà pre-razionale pre-logica al fine di domarla per quanto possibile.
Terza piccola cosa: la giustizia è lo sguardo del Terzo.
L’oggetto della giustizia è la lite, il conflitto: esso per essere risolto reclama lo sguardo del Terzo.
La terzietà è l’essenza della giustizia.
Astensione, ricusazione, incompatibilità, conflitti di interessi sono solo meri strumenti per assicurare lo sguardo del Terzo.
Esso – dal punto di vista teologico politico – tiene luogo dello sguardo di un dio o così potrebbe essere figurato da chi ha sempre – perennemente – nostalgia dell’Assoluto.
Judex Deus: un paradosso non desiderabile, per nulla accettabile, connotato da una dismisura (evitata dall’ingiunzione biblica “nolite iuridicare”) da scongiurare lasciando la terzietà giocare con gli eventi, intendendola come forma di attraversamento del dolore e della vita da parte di un uomo (fallibile) fra gli uomini (altrettanto fallibili).
La terzietà produce paradossi, vediamone quindi alcuni.
Il primo paradosso: è miglior giudice chi non vuole giudicare; il giudice riluttante.
Camus ha detto: “non può negarsi, per il momento, che i giudici siano necessari, ma cionondimeno non riesco a comprendere come un uomo possa proporre se stesso per un compito così strabiliante”.
Vi sono alcuni precisi corollari di questa profonda affermazione di Camus:
1) Il giudice che lo diviene per caso potrebbe essere meglio da quello che vuole fortemente diventarlo, maturando ambizioni di successo e carriera.
2) Occorre mantenere e promuovere sempre l’umiltà del giudice come opposto della sua ubris.
3) L’umanesimo è importante.
4) Il modello del giudice asceta è forse impossibile, ma il modello del giudice riluttante nel giudicare (infine prudente) è alla portata di tutti, purché sia temperato da un forte senso del dovere.
Il secondo paradosso: v’è connessione inestricabile fra diritto e violenza; il diritto è anche ritualizzazione della violenza.
Il giudice penitente. Il giudice strumento della violenza.
Lo Stato weberianamente ha il monopolio della violenza.
Esercita violenza legittima, ma in un perenne “ritorno del rimosso” può veder di nuovo l violenza dominare la scena (è accaduto nelle esperienze totalitarie).
Basta pensare a Kafka ed al suo “Il processo”[1] o ancora a Camus ed al suo “La caduta”[2] Antoine Garapon ha studiato – nel saggio Del giudicare – l’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200): il rituale, il rapporto fra scena, teatro e processo che raffredda e legittima la violenza (specie nel processo penale).
Su tale analisi si è rilevato da parte di Daniela Bifulco, nell’introduzione del libro, che nel soffermarsi sulle origini religiose del giudizio nella civiltà occidentale, Garapon si mostra ben consapevole di tale raddoppiamento-spostamento rituale della violenza (analizzato soprattutto dagli studi di Girard sul capro espiatorio), che, continuando a funzionare nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio, con il ritorno di una perenne sproporzione fra accusatore ed accusato.
In questo teatro il giudice – col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o velata dall’ascetica professionale – incarna, più che l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda – kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr. p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII).
Siamo cioè di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt > Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del tutto sostanzialmente a meno che non si affronti il problema dei fini e dei valori (che pure a sua volta è contraddistinto dalla lotta) – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che, etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario, con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico (ove la democrazia venga intesa come dominio della maggioranza e non come democrazia costituzionale sostanziale).
In questo quadro può ricordarsi anche che l’origine hobbesiana dello Stato si radica sulla violenza delle guerre religiose e che il diritto fiorisce nello spazio della loro sospensione come è ben noto a tutti gli studiosi dello ius publicum europaeum.
Il nesso hobbesiano conflitto – violenza – forza – diritto è costitutivo dell’esperienza giuridica e la dialettica fra queste componenti viene costantemente a riproporsi nella storia sia pure senza una direzione predeterminata da alcuna filosofia.
Agli albori dell’esperienza totalitaria del nazismo W. Benjamin scrive sulla critica della violenza.
Il testo propone il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti.
Ivi si legge: “il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia.
E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche... se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino paurosamente proprio nella realtà attuale”.
Il diritto si può fare strumento della violenza nella storia, come nell’epoca del totalitarismo ed il giudice può essere cieco strumento della violenza.
Profetico– tenuto conto dell’atmosfera che si respirava all’epoca dell’avvento del nazismo – è quanto Benjamin scrive del puro potere della polizia anche in situazioni dove c’è la polizia senza il bilanciamento del giudice[3].
Le conclusioni del saggio sono pessimistiche:
“il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti.”
Il terzo paradosso: Costituzionalismo e dimensione del sacro. Le basi morali della Rule of Law.
Si tratta del dilemma di Bökenförde:
«Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'omogeneità della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»
(Staat, Gesellschaft, Freiheit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1976, p. 60).
La secolarizzazione ha due volti: uno virtuoso ossia la fine della legittimazione a divinis del potere (fenomeno visto da Lowith in chiave storicistica, da Blumenberg senza una consolazione ma confidando nella forza dell’illuminismo) ed uno insidioso ossia l’approdo nichilistico della società che perde ogni cifra di trascendenza (plurale non necessariamente monista) e di capacità di speranza (Schmitt, Bloch da prospettive diverse se non opposte come quella della reazione conservatrice e del messianismo marxista).
È quel che accade con la versione minima, debole, procedurale della Rule of Law.
Con il contesto della cooperazione europea e globale sul piano economico che consente all’economico di dominare il politico, nella produzione della lex mercatoria.
Tanto che attualmente potrebbe predicarsi del liberalismo quello che una volta di diceva del socialismo: occorre distinguere il liberalismo ideale (ad esempio quello di Croce che relegava l’economia ad uno stadio non elevato dello sviluppo dello spirito) e quello reale che invece ha sposato o spesso rischia di sposare una logica inversa nel rapporto economia – politica – cultura.
Questo spiega il declino del costituzionalismo, anche in UE [4].
Sullo sfondo del ritorno di conflitti bellici (che speriamo cedano al più presto il posto a percorsi di pace) e di una generale svalutazione della vita umana (indotta da problemi demografici ed ambientali).
Un mondo senza alcuna dimensione sacrale del diritto (un mondo nichilistico in cui tutto è negoziabile) è esposto a crisi continue e resta spaesato e senza speranza.
Le divisioni tradizionali fra sfera pubblica sfera privata non funzionano più perché il loro presupposto era comunque un residuo sacrale del “politico”.[5]
E ci chiede se il fondamento della costituzione debba continuare ad essere visto nel contratto (come nella tradizione hobbesiano – lockeano – rousseauiana) sempre rivedibile con operazioni estenuate di ingegneria costituzionale o nel senso morale dell’individuo ossia nella sua capacità di essere libero (messa a rischio dalla rivoluzione digitale) anche scegliendo tragicamente fra valori differenti[6].
Ma sempre nel levinassiano senso dell’Altro come scaturigine dell’Ethos.
In che senso può operare il sacro?
Tema complesso ovviamente. Tocca il rapporto religione politica.
Al giurista è consentito volare più basso.
Il sacro opera come limite, come coscienza del limite.[7]
Tolstoj sovviene: “Se riesci a provare dolore sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri sei umano...”.
Può aggiungersi se senti la sofferenza della creazione come nelle encicliche che Papa Francesco ha dedicato al tema del rispetto della Natura, oggi oggetto della complessa attuazione costituzionale degli articoli 9 e 41 nuovo testo allora sei un uomo che si sente parte della creazione e sei un uomo felice.
Con le parole di Rilke, sentiamo di poter dire:
“Si cominciò a capire la natura quando non la si capì più”.
Il senso del limite, la immedesimazione nel dolore, restando terzi e ascoltando le voci degli altri: la professione del giudizio è tutta qui.
[1] Il protagonista del romanzo, Josef K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti si presentano presso la sua abitazione, dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso.
Ben presto, K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso. K. tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca. Tuttavia, tempi e modalità di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, non vengono mai pienamente rivelati all'imputato, neppure nel corso della sua deposizione presso il tribunale. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui.
Dietro consiglio dello zio, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all'impegno profuso per il suo caso, l'avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. K. decide infine di rimuovere il mandato all'avvocato, a dispetto del tentativo di dissuasione da parte dello stesso legale difensore. K. entrerà anche in contatto con un pittore, Titorelli, che sembrerà prodigarsi a suo vantaggio, anche in questo caso però senza effetti tangibili.
Questa rinuncia alla difesa prelude all'epilogo della vicenda. Josef K. viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
[2] Il protagonista della Caduta è Jean-Baptiste Clamence è un brillante avvocato parigino, una persona dedita al benessere degli altri che si prodiga in innumerevoli buone azioni che lo rendono un uomo stimato dalla maggior parte dei suoi conoscenti. Durante un lungo monologo (o dialogo, che egli intrattiene con un ascoltatore cui non cede mai la parola e che può essere identificato con il lettore stesso), Clamence si rende conto che la sua vita è in realtà incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sul senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.
Inoltre, mentre in pubblico mostra una maschera di virtù, in privato è un uomo dedito alla ripetizione continua e frustrata dei più disparati piaceri, dall'alcol alle donne. Resosi così conto della fondamentale duplicità della sua esistenza e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo nuovo "studio".
In quel luogo, egli cerca di far confessare e redimere i suoi uditori, assumendo il ruolo di profeta, pur essendo ben consapevole di essere un falso profeta, portando così le persone a provare ogni sorta di colpevolezza. La sua nuova condotta, però, non è un caso esemplare di redenzione, ma appunto una caduta, poiché Clamence ha invero abbandonato la maschera di duplicità che si era reso conto di indossare: ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che lo aveva contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei valori che riescono a tenere insieme la società basata sulle apparenze additata dallo scrittore.
Il nocciolo della nuova filosofia di vita del protagonista al Mexico City è quello del giudice-penitente. Essa consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, riesce a rendere colpevole l'umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, egli diventa giudice.
[3] La polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia.
Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati.
Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
[4] An increasing number of scholars have begun to express heightened concerns about the decline of constitutionalism in the context of the euro crisis management. For example, Agustín Menéndez has documented the breadth of the European Union’s ‘constitutional mutation’, warning that ‘the breakdown of constitutional law will result in the mid- or long-run in the breakdown of the Social and Democratic Rechtsstaat’. Gunnar Beck cautions that the recent euro crisis adjudication in the European and national courts has allowed a bending of the rules to suit the executive to the extent that ‘the Rechtsstaat is effectively suspended’.
The prevailing theories in Italy, as summarised by Andrea Simoncini, are that the euro crisis measures have accelerated a ‘decline of European constitutionalism’, with constitutions ‘destined to be obsolete’ in ‘the present age [that is] no longer the age of constitutions’.
A small but growing number of scholars have even expressed concern about the EU having taken an authoritarian turn in the euro crisis governance. Christian Joerges and Maria Weimer have cautioned against the entrenchment of ‘authoritarian executive managerialism’11 that ‘threatens to discredit the idea of the rule of law and its intrinsic linkages to democratic rule’.
Alexander Somek finds that in the EU’s euro crisis management, ‘formal legal constraints are bent in order to accommodate necessities’; he is concerned that this has led to ‘authoritarian liberalism’ and ‘loss of political agency’, with the executive branch gaining power, as the constraints on governance are economic.
Michael Wilkinson, also describing the EU crisis governance as ‘authoritarian liberalism’, has observed a process of ‘de-democratisation’, ‘de-legalisation’ and the overriding of Europe’s constitutional law with market teleology.
Altri riferimenti in Albi, Anneli; Bardutzky, Samo. National Constitutions in European and Global Governance: Democracy, Rights, the Rule of Law: National Reports (English Edition) (pp.33-34). T.M.C. Asser Press. Edizione del Kindle.
[5] Cfr. G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari Roma 2022.
[6] In tal senso vi sono illuminanti spunti nella lezione di Capograssi ripresa giustamente da V, Caputi Iambrenghi in Libertà e Autorità volumi I e II Napoli, 2021.
[7] È quanto mostra Garimberti ne L’etica del viandante, Milano, 2023 che sposa un politeisimo neopagano che per il giurista rispettoso della Carta fondamentale diviene pluralismo non nichilistico dei valori.
Immagine: Paul Cézanne, Natura morta con caraffa, bicchiere e mele, olio su tela, circa 1877, H. O. Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H. O. Havemeyer, 1929, Metropolitan Museum of Art, New York.
Tariffe incentivanti per impianti fotovoltaici. La rideterminazione tra autotutela e decadenza (Nota a Cons. Stato, Sez. II, 6 settembre 2024, n. 7461).
di Antonio Persico
Sommario: 1. La vicenda sottoposta alla seconda Sezione del Consiglio di Stato – 2. La normativa astrattamente applicabile: l’art. 42 d.lgs. 28/2011 e l’art. 21-nonies l. 241/1990 – 3. Il dibattito sulla natura del potere di “decadenza” del GSE: gli orientamenti della dottrina, il contrasto giurisprudenziale, l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 e le sopravvenienze normative – 4. La posizione della seconda Sezione del Consiglio di Stato – 5. Considerazioni conclusive
1. La vicenda sottoposta alla seconda Sezione del Consiglio di Stato.
La pronuncia in commento interviene su una vicenda legata alla fruizione delle tariffe incentivanti per impianti fotovoltaici previste dal c.d. II Conto Energia[1], prendendo una chiara posizione sul discrimen che intercorre tra l’annullamento di ufficio e la decadenza pubblicistica, nel tentativo di superare, definitivamente, un precedente contrasto giurisprudenziale.
Nel caso di specie, la Società titolare dell’impianto di produzione di energia rinnovabile, risultata poi vittoriosa (anche) in appello, aveva inteso valersi della “proroga” legislativa del II Conto Energia[2], per beneficiare delle tariffe ivi previste in luogo di quelle, meno vantaggiose, di cui al III Conto[3]. Il Gestore dei Servizi Energetici s.p.a. – GSE, a fronte dell’istanza a tal fine presentata, dopo aver contestato, mediante preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. 241/1990, l’adeguatezza della documentazione fotografica tesa a comprovare la conclusione dei lavori entro il termine previsto dalla l. 129/2010 (31 dicembre 2010), ma poi, con provvedimento risalente al mese di novembre del 2011, richiamate le osservazioni e la documentazione trasmesse a riscontro del preavviso di rigetto, accoglieva la domanda della Società. Iniziava così l’erogazione delle tariffe incentivanti di cui al II Conto. Nell’ottobre del 2016, tuttavia, il GSE effettuava un sopralluogo presso l’impianto, avviando un procedimento di verifica, che sarebbe culminato, nel mese di gennaio dell’anno 2020, in un provvedimento ostativo alla fruizione delle suddette tariffe, sul rilievo dalla mancata ultimazione dei lavori impiantistici nel riferito termine di legge, riconoscendo all’impianto le meno vantaggiose tariffe di cui al III Conto. Faceva seguito la quantificazione della somma da recuperare, calcolata sulla base della parte “eccedentaria” delle tariffe erogate rispetto a quelle asseritamente spettanti.
La Società adiva quindi il TAR Lazio, che, con sentenza n. 6858/2022 accoglieva il ricorso (integrato da motivi aggiunti), annullando gli atti impugnati in quanto espressione di un potere di autotutela esercitato oltre ogni termine ragionevole (dopo oltre 8 anni dall’ammissione all’incentivazione). A giudizio del TAR, infatti, non v’era dubbio che la vicenda andasse inquadrata nell’ambito dell’autotutela caducatoria, sub specie di annullamento d’ufficio, e che l’agire provvedimentale del GSE andasse valutato in relazione all’art. 21-nonies l. 241/1990, dal momento che il Gestore, non avendo accertato elementi fattuali nuovi mediante il sopralluogo, era “tornato sui suoi passi”, rivalutando, con esito questa volta negativo, il tema già affrontato dell’idoneità delle fotografie a comprovare la fine dei lavori.
Il GSE appellava la sentenza, sostenendo che gli atti impugnati non erano espressione del potere di annullamento di ufficio di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990, bensì del potere di verifica e controllo previsto dall’art. 42 d.lgs. 28/2011, posto che, in realtà, la Società non avrebbe allegato alcuna fotografia utile alle osservazioni trasmesse in riscontro al preavviso di rigetto.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha respinto l’appello e ha, per l’effetto, confermato la pronuncia impugnata, valorizzando il più recente orientamento giurisprudenziale, portato correttamente avanti dalla II Sezione, secondo cui «la titolarità del potere di verifica e controllo non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista»[4].
2. La normativa astrattamente applicabile: l’art. 42 d.lgs. 28/2011 e l’art. 21-nonies l. 241/1990.
Come accennato, due sono i referenti normativi primari in rilievo nel caso di specie.
Da un lato vi è l’art.42 d.lgs. 28/2011, invocato dal GSE[5]. Quest’articolo, con riguardo agli incentivi nel settore elettrico e termico, positivizza il potere del Gestore di effettuare verifiche sui dati trasmessi degli istanti e controlli a campione sugli impianti, sancendo quindi, al comma, 3, che in caso di riscontrate violazioni rilevanti ai fini dell’erogazione degli incentivi, «il GSE dispone il rigetto dell'istanza ovvero la decadenza dagli incentivi, nonché il recupero delle somme già erogate». In attuazione di questa disposizione, è stato emanato il d.m. 31 gennaio 2014, il quale, oltre a disciplinare le modalità di esercizio dei poteri di verifica e controllo del Gestore, reca, all’allegato 1, un’elencazione – non tassativa[6] – delle violazioni rilevanti ai sensi dell’art. 42, co. 3, d.lgs. 28/2011. Di tale elencazione colpisce, in particolare, l’ambigua formulazione delle ipotesi contemplate e, per quanto maggiormente interessa in questa sede, della fattispecie di «mancata presentazione di documenti indispensabili ai fini della verifica della ammissibilità agli incentivi» (lett. a). Invero, il dato normativo non è perspicuo in quanto non distingue a seconda che la verifica dell’ammissibilità agli incentivi sia svolta prima dell’accoglimento dell’istanza, e in tale sede il Gestore rilevi la mancanza della documentazione necessaria, ovvero che il Gestore, dopo aver ammesso l’impianto a incentivazione, rilevi la mancanza della ridetta documentazione nell’ambito di un procedimento di verifica e controllo postumo. In questo secondo caso, si pone il quesito se il Gestore possa disporre tout court la “decadenza” dagli incentivi e il recupero delle somme erogate, ai sensi del comma 3 dell’art. 42 cit., senza incorrere in alcun limite atto a preservare la stabilità del rapporto incentivante e l’affidamento del beneficiario[7]. Orbene, l’ambigua e generica formulazione letterale dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 e del d.m. 31 gennaio 2014 si presta anche a una simile interpretazione, la quale è stata difatti sostenuta, anche nel caso di specie, dal GSE.
Dall’altro lato, vi è l’art. 21-nonies l. 241/1990, in tema di annullamento d’ufficio, nella versione risultante dalle modifiche introdotte dalla l. 124/2015[8]. In generale, l’annullamento d’ufficio configura un’ipotesi di autotutela decisoria di carattere caducatorio, in cui la p.A., a seguito di un riesame critico del proprio operato provvedimentale, può demolire, con efficacia retroattiva, in tutto o in parte, un proprio atto illegittimo, mediante un provvedimento di secondo grado. Si tratta di un potere (di regola) discrezionale, il cui esercizio è subordinato non solo alla presenza di un atto illegittimo (annullabile ai sensi dell’art. 21-octies l. 241/1990), ma anche a una positiva valutazione concreta sulla rispondenza dell’annullamento all’interesse pubblico: in tal senso, la norma impone di effettuare un bilanciamento degli interessi pubblici e di quelli privati, del destinatario del provvedimento e degli eventuali controinteressati, sul presupposto implicito, ma chiaro, che il ripristino della legalità violata non sia l’unico valore ordinamentale meritevole di protezione, e che un’azione amministrativa rispondente al canone del buon andamento e della proporzionalità non possa trascurare le posizioni giuridiche degli amministrati medio tempore sorte e/o consolidatesi. In sostanza, la norma vuole scongiurare esiti in cui la presunta soluzione (l’annullamento) si riveli peggiore del male (la violazione della legalità). Nello stesso ordine di idee milita la rilevanza dell’elemento temporale, che la l. 124/2015 ha reso assolutamente centrale, specificando che il termine ragionevole entro il quale può avvenire l’annullamento, a fronte di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, non può eccedere i diciotto mesi dalla relativa adozione (poi ridotti a 12 dal d.l. 77/2021, convertito nella l. 108/2021). La novella del 2015, come evidenziato in dottrina[9] e in giurisprudenza[10], ha inteso quindi garantire la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici, nonché l’affidamento legittimo riposto dal privato negli atti amministrativi, assistiti da una generale presunzione di legittimità[11]. In quest’ottica, risulta altresì chiara la ratio della deroga al suddetto limite temporale codificata dal comma 2-bis dell’ art. 21-nonies cit.: qualora il privato abbia indotto fraudolentemente in errore l’Amministrazione, mediante false rappresentazioni dei fatti o dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, avendo egli consapevolmente concorso all’adozione dell’atto illegittimo, non v’è ragione di tutelarne l’affidamento (invero insussistente o comunque non “legittimo”) attraverso la garanzia rappresentata dal limite temporale massimo per l’annullamento prescritto dal primo comma[12].
Peraltro, sono evidenti i risvolti economici della disciplina di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990. Le istanze di certezza e di stabilità giuridica che il Legislatore (in particolare, del 2015) ha inteso perseguire, attengono a condizioni fondamentali del contesto economico nazionale: in qualunque settore economico, gli investimenti vengono scoraggiati dalla perpetua caducabilità degli atti amministrativi di carattere ampliativo in base ai quali le imprese abbiano acquisito titolo allo svolgimento dell’attività economica ovvero abbiano conseguito benefici economici diretti a incentivare l’attività stessa[13]. Tali esigenze sono, ovviamente, avvertite anche nel settore della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Concludendo sull’art. 21-nonies, merita richiamare i condivisibili rilievi svolti dal Consiglio di Stato nel parere n. 839/2016, con cui è stata opportunamente valorizzata la portata garantista della novella legislativa del 2015. Il parere afferma, in proposito, che la previsione di un «confine temporale introduca un ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza, il legislatore del 2015 ha fissato termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati». Il parere prosegue evidenziando che la novella di cui alla l.124/2015 ha consacrato una nuova «regola di certezza dei rapporti, che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, che fa prevalere l’affidamento»; regola della quale è sottolineata la portata generale, al punto che il Consiglio di Stato ritiene che essa debba essere applicata «anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti “di annullamento”», sul rilievo che «alcune disposizioni utilizzano infatti, impropriamente, i termini “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” (dai benefici) o simili per indicare, oltre all’abusivo utilizzo del titolo, la reazione dell’ordinamento all’illegittimo conseguimento del titolo, utilizzando forme che sono state definite di “annullamento travestito”».
3. Il dibattito sulla natura del potere di “decadenza” del GSE: gli orientamenti della dottrina, il contrasto giurisprudenziale, l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 e le sopravvenienze normative.
Intorno alla previsione di cui all’art. 42 d.lgs. 28/2011, è sorto un dibattito dottrinario teso a individuare la natura del potere del GSE di disporre la decadenza dagli incentivi[14]. La dottrina, invero, ha negato trattarsi di un potere unitario, articolando il ragionamento sulla base delle diverse ipotesi di violazioni rilevanti che il Gestore potrebbe accertare. In tal senso, la ricostruzione di Travi[15], condotta in relazione al sistema di incentivazione degli interventi di efficientamento energetico (mediante i cd. certificati bianchi), ha evidenziato che, in caso di coerenza tra l’intervento descritto nella proposta progettuale approvata dal GSE e quello effettivamente realizzato, la decisione del Gestore di non approvare la richiesta di verifica e certificazione sul rilievo dell’inammissibilità dell’intervento e di disporre conseguentemente la decadenza dal regime incentivante sottende una valutazione critica da parte del Gestore del proprio operato provvedimentale culminato nell’approvazione della proposta, conseguendone che il GSE può procedere al ritiro di tale approvazione solo nel rispetto dei requisiti di cui all’art. 21-nonies d.lgs. 28/2011; a contrario, non verrebbe in rilievo la normativa sull’annullamento di ufficio se il rifiuto del Gestore di riconoscere la certificazione si basi sulla difformità dell’intervento concretamente realizzato rispetto a quello progettato. Un’altra dottrina[16], a propria volta, ha predicato la necessità di distinguere i casi in cui il GSE accerti, nel corso dell’incentivazione, la mancanza dei requisiti oggettivi di ammissione al beneficio economico da quelli di violazione derivante da un comportamento del beneficiario: nei primi verrebbe in rilievo un potere di autotutela riconducibile all’art. 21-nonies l. 241/1990, nei secondi la “decadenza” si atteggerebbe quale sanzione volta a reprimere condotte illecite. Altra dottrina ancora[17] ha suggerito di distinguere quattro tipologie di provvedimenti adottabili ex art. 42, co. 3, d.lgs. 28/2011, dal momento che, in ragione della violazione accertata, il potere esercitato dal Gestore può essere qualificato in termini di annullamento d’ufficio, di decadenza amministrativa, di autotutela obbligatoria ovvero di autotutela privatistica.
La giurisprudenza, a propria volta, si è divisa, dando luogo al contrasto giurisprudenziale che la pronuncia in commento ha ritenuto ormai definitivamente superato. Per un primo orientamento, la disciplina speciale di cui all’art. 42 cit. metterebbe interamente “fuori gioco” la normativa generale di cui all’art. 21-nonies cit., di talché l’attività di verifica del GSE e il susseguente provvedimento che disponga la decadenza dagli incentivi, non potrebbero essere affatto qualificati come esercizio di un potere di autotutela[18]. Per un secondo orientamento, invece, la rivalutazione, a distanza di tempo, da parte del GSE dell’effettiva spettanza dei benefici già erogati e in corso di erogazione comporta l’esercizio di un potere di autotutela, che deve rispettare i limiti imposti dall’art. 21-nonies cit.[19]. Il primo orientamento è stato a lungo portato avanti dalla Sezione III-Ter del TAR Lazio[20], mentre il secondo ha trovato conferma in recenti pronunce della II Sezione del Consiglio di Stato[21].
In argomento, nel frattempo, è intervenuta l’Adunanza Plenaria n. 18/2020 che, pur senza prendere espressamente posizione sul segnalato contrasto giurisprudenziale, ha affermato che la decadenza dagli incentivi contemplata dall’art. 42 d.lgs. 28/2011 è pienamente sussumibile nella categoria della “decadenza pubblicistica” quale vicenda estintiva con efficacia di regola ex tunc di una posizione giuridica di vantaggio (cd. beneficio). Tale categoria si differenzierebbe radicalmente dall’istituto della sanzione, stante l’irrilevanza dell’elemento soggettivo e il carattere non afflittivo dell’effetto ablatorio-restitutorio, ma sarebbe anche da distinguere rispetto al «più ampio genus dell’autotutela», rispetto al quale presenterebbe degli elementi comuni, ma si caratterizzerebbe specificamente: «a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti; b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti». L’argomentare della Plenaria suscita per vero, a sua volta, una serie di interrogativi: innanzitutto, non è specificato quali siano i tratti comuni della decadenza in questione con l’autotutela (solo l’efficacia ex tunc degli effetti del provvedimento?), né si comprende se, a giudizio della Plenaria, essa faccia parte del più ampio genus dell’autotutela, e se tale espressione alluda all’autotutela decisoria o all’autotutela tout court. Ancora, il requisito sub lett. a), appare a chi scrive logicamente debole: infatti, non pare che la qualificazione della natura di un potere amministrativo possa essere basata sulla circostanza che esso sia previsto o meno da norme della legge 241/1990, specialmente se si tiene conto che l’autotutela caducatoria è stata positivizzata all’interno di quest’ultima legge soltanto a opera della l. 15/2005; l’argomento sub lett. b) allude a un “vizio”, così evocando una rivalutazione della legittimità di precedenti atti amministrativi, ma subito dopo vengono menzionate ipotesi non qualificabili come “vizi” attizi, quali la violazione delle prescrizioni amministrative da parte del beneficiario ovvero la sopravvenuta perdita dei requisiti soggettivi od oggettivi; appare poi arduo ravvisare gli elementi caratterizzanti di un istituto in ipotesi che ricorrono… more solito, e che dunque potrebbero anche non ricorrere ovvero costituire il presupposto applicativo di altri poteri: ad esempio, la falsità delle rappresentazione dei fatti o delle autodichiarazioni per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze passate in giudicato, è anche il presupposto dell’annullamento di ufficio oltre il termine di legge ai sensi del comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. 241/1990(. Insomma, il discorso dell’Adunanza Plenaria non appare del tutto perspicuo nel chiarire l’ubi consistam della decadenza pubblicistica e i suoi rapporti con il genus dell’autotutela. L’unico chiaro elemento differenziale sembra risiedere nel carattere vincolato del potere, a fronte della discrezionalità che (di regola) connota l’autotutela caducatoria. A ogni modo, l’Adunanza Plenaria sembra muovere da una concezione unitaria del potere del GSE di cui all’art. 42, co. 3, cit., il cui esercizio sarebbe in ogni caso doveroso a prescindere dal fattore temporale e al possibile affidamento del privato; tuttavia, sotto un diverso angolo visuale, si potrebbe affermare che la sentenza n. 18/2020 non abbia escluso affatto che, qualora il “vizio” accertato dal Gestore attenga all’originaria mancanza dei requisiti oggettivi o soggettivi per l’ammissione all’incentivazione, erroneamente ritenuti sussistenti in sede di accoglimento della domanda, l’agire provvedimentale dell’ente di vigilanza che disponga la “decadenza” e il recupero degli incentivi ricada nel perimetro applicativo dell’art. 21-nonies l. 241/1990 e non già in quello dell’art. 42 d.lgs. 28/2011. Infatti, si farebbe questione, in questa ipotesi, di una “tipologia di vizio” tipicamente rientrante nei presupposti applicativi dell’annullamento d’ufficio.
Sul versante normativo, l’ art. 56 del d.l. 76/2020 avrebbe dovuto sancire il superamento del dibattito intorno alla natura del potere di “decadenza” del GSE. Invero, il suo comma 7 ha esplicitamente subordinato il potere del gestore di disporre la decadenza dagli incentivi e il recupero di quelli già erogati al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990. In tal modo, il Legislatore ha evidentemente inteso promuovere nell’ambito dei rapporti di incentivazione che vedono parte il GSE le stesse esigenze di certezza del diritto, di stabilità dei provvedimenti ampliativi e di tutela dell’affidamento sottese a quest’ultimo articolo, in particolare nella versione risultante dalle modifiche apportate dalla l. 124/2015. Nondimeno, la rilevanza del tema della natura del potere di “decadenza” del GSE non può considerarsi esaurita, dal momento che, secondo unanime giurisprudenza[22], la novella di cui al d.l. 76/2020 non avrebbe inciso sulla natura del potere di cui all’art. 42 d.lgs. 28/2011, il quale continua a dover essere applicato nella versione precedente, secondo la regola tempus regit actum, alle fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.l. 76/2020[23].
Nel caso affrontato dalla sentenza in commento, il provvedimento impugnato precedeva tale sopravvenienza normativae la sua legittimità andava di conseguenza scrutinata sulla base della versione dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 antecedente alle modifiche di cui all’art. 56 d.l. 76/2020, di talché il Consiglio di Stato non avrebbe potuto stigmatizzare il superamento del limite temporale previsto dal primo comma dell’art. 21-nonies l. 240/1990, senza aver prima ricondotto il potere in concreto esercitato dal GSE all’annullamento d’ufficio e dunque predicato la diretta applicabilità alla fattispecie dell’art. 21-nonies cit.
4. La posizione della seconda Sezione del Consiglio di Stato.
La seconda Sezione ha ritenuto difatti applicabile, al caso di specie, l’art. 21-nonies l. 241/1990, previa qualificazione del provvedimento impugnato come atto di autotutela (segnatamente, di annullamento di ufficio parziale). La sentenza in commento addiviene a tale soluzione in linea con l’orientamento giurisprudenziale recentemente portato avanti dalla stessa Sezione – cui si è fatto cenno in apertura e nel precedente paragrafo – in base al quale il GSE non può rimettere in discussione, sine die, l’esistenza dei requisiti per accesso all’incentivazione, dovendo a tal fine provvedere in autotutela nel rispetto dei presupposti di cui all’art. 21-nonies cit. Sul punto, la pronuncia in esame dà invero atto del contrario orientamento giurisprudenziale – al quale pure si è fatto cenno nel precedente paragrafo –, e tuttavia lo ritiene definitivamente superato alla luce del diverso orientamento portato avanti, anche nel caso di specie, dalla II Sezione, alla quale vengono attualmente assegnate le controversie concernenti il GSE. Ed è proprio sul rilievo dell’avvenuto consolidamento, nella giurisprudenza della Sezione, dell’orientamento volto ad ammettere l’applicabilità al GSE della normativa in tema di annullamento d’ufficio, che la pronuncia in commento giunge a escludere la necessità di rimettere il ricorso all’Adunanza Plenaria.
Dell’Adunanza Plenaria, invece, la seconda Sezione richiama la sentenza n. 18/2020, nell’intento di tracciare una chiara linea distintiva tra ipotesi di decadenza ex art. 42 d.lgs. 28/2011 e ipotesi di annullamento di ufficio. In particolare, la pronuncia in commento intende valorizzare gli approdi ermeneutici dell’organo di nomofilachia, nella parte in cui ha ravvisato un elemento distintivo tra autotutela e decadenza ne «la tipologia del vizio, more solito individuato [in caso di decadenza] nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporti». Tale indicazione viene utilizzata dalla seconda Sezione per distinguere con nettezza l’ambito applicativo dell’art. 42 d.lgs. 28/2011 da quello dell’art. 21-nonies l. 241/1990, escludendo con decisione la possibilità di “sovrapposizioni”. In tal senso, la pronuncia precisa che, laddove sia stato riconosciuto al privato il bene della vita, ovvero il beneficio economico/l’incentivo, all’esito di uno specifico procedimento, la decadenza può riguardare, solamente, tre ipotesi: - conseguimento del beneficio sulla base di dichiarazioni o documenti non veri; - inadempimento alle condizioni e agli obblighi cui il beneficio è subordinato; - sopravvenuta carenza dei requisiti per il suo ottenimento. Di contro, si ricade nell’autoannullamento allorché «l’Amministrazione, dopo aver valutato e ritenuto sussistenti, esplicitamente o implicitamente, i presupposti per la concessione dell’incentivo, così ingenerando nel privato il ragionevole convincimento della sua spettanza, riesamini la situazione e pervenga a una conclusione opposta». Da tale argomentare, il Collegio trae la conclusione per cui, sotto un'altra prospettiva, l’elemento dirimente, che consentirebbe di distinguere la decadenza dall’autoannullamento, consisterebbe nell’affidamento legittimo del privato, incompatibile con la decadenza («questi non vanta alcun affidamento “legittimo”, laddove abbia presentato documenti o dichiarazioni false, e perché la violazione delle prescrizioni e la sopravvenuta carenza dei requisiti sono successivi alla concessione del beneficio»), configurabile (e tutelabile) invece in ipotesi di autoannullamento.
Applicando la regula iuris così individuata al caso di specie, rilevato che il tema della conclusione dei lavori era già stato affrontato e risolto positivamente in sede di ammissione alle tariffe incentivanti, il Collegio ha ricondotto il potere in concreto esercitato dal GSE al paradigma dell’annullamento d’ufficio, stigmatizzando la violazione, da parte del GSE, dell’art. 21-nonies l. 241/1990, realizzata attraverso una macroscopica inosservanza del termine ragionevole (il provvedimento del gennaio 2020 era di oltre otto anni successivo all’ammissione alle tariffe incentivanti), in spregio al legittimo affidamento del privato.
5. Considerazioni conclusive
In definitiva, la pronuncia in commento si pone nel solco di un orientamento garantista volto a riconoscere e tutelare l’affidamento del privato sulla stabilità dei rapporti di incentivazione con il GSE. In quest’ottica, sussumendo la vicenda nel paradigma dell’autotutela caducatoria sub specie di annullamento di ufficio, la seconda Sezione ha valorizzato le esigenze di certezza del diritto e di stabilità dei provvedimenti ampliativi, in linea con quanto auspicato dal parere n. 839/2016. Quest’ultimo, infatti, sottolineava il carattere generale della regola scolpita nell’art. 21-noneis l. 241/1990 e metteva in guardia dalle forme di “annullamento travestito”, in presenza delle quali dovrebbero trovare parimenti applicazione le garanzie previste dal ridetto art. 21-nonies. Nello stesso ordine di idee, appare condivisibile la netta presa di distanza dalle letture estensive e “totalizzanti” del potere del GSE ex art. 42 d.lgs. 28/2011, che pure hanno trovato cittadinanza nella giurisprudenza configurando in capo al Gestore un(o) (stra)potere inesauribile di riesame tale da rendere geneticamente instabili i rapporti d’incentivazione[24].
In chiave critico-costruttiva, si può infine provare ad aggiungere uno spunto di riflessione ulteriore. L’idea che in presenza di dichiarazioni o documenti falsi, presentati in sede di domanda di accesso all’incentivazione, verrebbe necessariamente in rilievo il potere vincolato di decadenza del GSE porta a concludere che in questi casi non vi sia mai un affidamento meritevole di tutela. Tuttavia, la prassi in tema di cd. artato frazionamento, dimostra che non di rado la falsità dichiarativa o documentale è stata a suo tempo realizzata dal soggetto che ha progettato e spacchettato artificiosamente l’impianto, cedendo poi ad altre imprese la titolarità di singoli progetti e dei rapporti incentivanti nel frattempo instaurati con il GSE. Orbene, negare qualsivoglia posizione di affidamento tutelabile in capo all’acquirente in buona fede che abbia acquistato un singolo progetto e per lungo tempo percepito gli incentivi, specialmente se l’artato frazionamento è stato posto in essere prima della positivizzazione normativa del relativo divieto, può apparire eccessivo e condurre a conseguenze ordinamentali non auspicabili, quali il fallimento di attività dirette alla produzione di energia da fonti rinnovabili e la liquidazione di imprese operanti nel settore, a fronte di provvedimenti che dispongano la restituzione di somme ingenti. In quest’ottica, ci si può interrogare se non sia preferibile ricondurre anche le ipotesi di falsità dichiarative e documentali al paradigma dell’annullamento d’ufficio, e segnatamente al comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. 241/1990. Difatti, tale soluzione lascerebbe intatta la possibilità di procedere al recupero di incentivi non spettanti oltre il limite temporale previsto dal primo comma, epperò residuerebbe in capo all’Amministrazione un margine di discrezionalità per valutare l’eventuale affidamento del beneficiario, non facendosi questione di un provvedimento vincolato[25].
[1] D.m. 19 febbraio 2007.
[2] Il riferimento è all’art. 2-sexies d.l. 3/2010, convertito con modificazioni in l. 41/ 2010, come sostituito dall’art. 1-septies del d.l. 105/ 2010, convertito con modificazioni in l. 129/2010.
[3] D.m. 6 agosto 2010.
[4] Vengono citate in tal senso le pronunce della seconda Sezione del Consiglio di Stato, n. 4983/2022 e n. 1007/2023.
[5] Per un’analisi più dettagliata del contenuto di tale articolo si rinvia a A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile: stato dell’arte e persistenti complessità, in Federalismi.it, 17, 2022.
[6] Cfr. art. 11, co. 2, d.m. 31 dicembre 2014.
[7] Per una generale ricognizione giurisprudenziale in argomento vds. E. Traina, Incentivi alla produzione di energie rinnovabili, poteri amministrativi e legittimo affidamento nella giurisprudenza, in Federalismi.it, 5, 2023.
[8] Tra i contributi successivi alla cd. Riforma Madia, senza pretesa di esaustività, vds. M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2023; M. Immordino, I provvedimenti di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2021; C.P. Santacroce, Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle “briglie” del legislatore, in Federalismi.it, 21, 2018; R. Caponigro, Il potere di annullamento di ufficio, in Federalismi.it, 23, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in Federalismi.it, 6, 2017; Id., Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambia mento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, 125 ss.; M.A. Sandulli, Autotutela, in Treccani. Il Libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2016; Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, in Federalismi.it, 17, 2015; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, 20, 2015.
[9] Cfr. in particolare M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in Riv. Giur. Edilizia, 3, 2018, 687; Id., Autotutela, cit., nonché Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, cit.
[10] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6472.
[11] Cfr. M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit.
[12] Sulla necessità del giudicato penale anche in ipotesi di “false rappresentazione dei fatti”, per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio oltre il termine di cui all’art. 21-nonies, co.1, nonché sul contrario orientamento giurisprudenziale, si rinvia a M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18, l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, op. cit., 253 ss.; Id., Edilizia (voce), in Enciclopedia del Diritto – I Tematici, III, 2022; Id., Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio - assenso e autotutela, cit. La medesima Autrice, inoltre, evidenzia che le misure di semplificazione, in particolare in tema di autodichiarazioni, per come intese da una certa giurisprudenza, hanno dato luogo a un «graduale trasferimento di responsabilità dalle amministrazioni ai privati», con inevitabile incidenza sulla stabilità dei titoli e, soprattutto, dei “benefici”: cfr. M.A. Sandulli, Introduzione, inM.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, op. cit., 9.
[13] La stessa autorevole dottrina ha, peraltro, da tempo evidenziato lo stretto legame intercorrente tra la certezza del diritto e la stabilità dei provvedimenti ampliativi, e in particolare di quelli attributivi di vantaggi economici, da un lato, e la ripresa, il rilancio ovvero la crescita economica del Paese, dall’altro lato: cfr. M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit.; Id., I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, in Federalismi.it, 22, 2018; Id., Conclusioni alle giornate di studio su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giuridiche e diritto alla sicurezza giuridica”, in Federalismi.it, 14, 2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss, nonché in www.giustizia-amministrativa.it; Id., Princìpi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi.it, 23, 2017; Id., Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambia mento: il codice dei contratti e la riforma Madia, cit.; Id. , Autotutela, cit.
[14] In argomento, vds. A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile: stato dell’arte e persistenti complessità, cit.
[15] A. Travi, I poteri di revisione del G.S.E., in P. Biandrino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Milano, Wolters Kluwer, 2017.
[16] F. Scalia, Controlli e sanzioni in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili, in Federalismi.it, 9, 2018.
[17] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. Semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, in AmbienteDiritto.it, 1, 2021.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 aprile 2019, n. 2380.
[19] Cons. Stato, Sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324.
[20] Cfr. ad es, TAR Lazio, Sez. III-Ter, 18 gennaio 2019, n. 2165 e altra giurisprudenza ivi citata.
[21] Oltre alle sentenze menzionate nella pronuncia in commento, cfr. Cons. Stato, Sez. II, 31 luglio 2023, n. 7404.
[22] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 4 giugno 2024, n. 4977.
[23] Cfr. M.A. Sandulli, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18, l. n. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.), cit.
[24] Cfr. sul punto M.A. Sandulli, Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, cit., la quale rilevava che «l’operatività del suddetto termine di 18 mesi […] viene così tendenzialmente esclusa in riferimento ai provvedimenti che, seppure diretti a rimuovere ex tunc (con ripristino dello status quo ante o recupero delle somme eventualmente concesse) il titolo o il vantaggio economico conseguito per difetto originario dei relativi presupposti e dunque rientranti a pieno titolo nel modello che i richiamati pareri del Consiglio di Stato hanno definito “annullamento travestito”, non sono formalmente qualificati come “annullamento”: è consolidata in tal senso la giurisprudenza della sezione III-ter del TAR Lazio sui provvedimenti di decadenza dagli incentivi per le energie rinnovabili assunti dal GSE a distanza di anni dal relativo rilascio».
[25] Cfr. C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, cit.
I doveri dei magistrati di oggi
Relazione introduttiva
Comitato direttivo centrale 16-17 novembre 2024
Presidente ANM Giuseppe Santalucia
La Giunta esecutiva, nel documento varato il 1° novembre scorso all’indomani dell’aspra polemica politico-mediatica contro la sezione immigrazione del Tribunale di Bologna, e in specie del collega Marco Gattuso, ha denunciato l’aria pesante che da qualche tempo si respira nella e intorno alla giurisdizione.
Quell’aria, nelle due settimane e poco più da quel documento, è divenuta ancora più pesante.
È proprio per questa ragione che, a mio giudizio, oggi il Comitato direttivo centrale dovrà in risposta impegnarsi affinché l’aria si faccia più respirabile, leggera, perché si allenti la morsa polemica e il clima delle relazioni istituzionali torni al sereno.
So bene!
L’obiettivo è facile a dirsi ma per nulla a raggiungersi, anche e soprattutto perché non dipende da noi, non sono nella nostra disponibilità gli strumenti per sedare un conflitto a cui non abbiamo dato causa.
Eppure, non possiamo muoverci altrimenti.
Il tema oggi è cosa e come fare.
Su questo dobbiamo interrogarci nella nostra discussione sui molti punti all’ordine del giorno, in gran parte aspetti e profili di un’unica grande questione.
Nella speranza di introdurre utilmente la discussione, indico con la necessaria sintesi le tessere del mosaico che, secondo la prospettiva che vi propongo, dovremo caparbiamente cercar di comporre o di ricomporre.
Ciò farò utilizzando copiosamente la categoria del dovere, che mi sembra la più adeguata a sostanziare quel che ritengo per noi magistrati un passaggio ineludibile:
una chiara presa di posizione all’interno della cornice dei principi democratici e liberali che ci devono guidare con forza ancora maggiore per venir fuori dalla canea da cui siamo circondati.
**********
In questo difficile scenario, con piena consapevolezza del ruolo che ci spetta.
Abbiamo il dovere di non arrenderci alla fatica di spiegare quali sono i termini della questione dei trattenimenti dei richiedenti asilo, anche quando i nostri interlocutori del momento sviliscono con ostentato fastidio le ragioni del diritto a pretesti da azzeccagarbugli, mostrando di non voler ascoltare, arroccati sulla formula propagandistica della magistratura politicizzata.
Abbiamo il dovere di ribadire che la magistratura italiana non è in nessuna sua parte attraversata da faziosità politica e non avversa i programmi di chi oggi è maggioranza politica di governo.
Abbiamo il dovere di ricordare, sulla scia del bel documento sottoscritto da oltre 250 magistrati in pensione (e che ci è stato trasmesso qualche giorno fa), quale sia la missione di una magistratura autonoma ed indipendente in una democrazia liberale la cui Carta fondamentale pone al centro la persona e i suoi diritti fondamentali, che si sottraggono, e se del caso si oppongono, alle volontà dispositive delle maggioranze, pur quando estese e pur se democraticamente elette.
Abbiamo il dovere di non cedere alla stanchezza e allo sconforto, trovando la forza di contrastare, con la ragione e il diritto, la coltre di maliziose accuse che ci piovono addosso, che confondono, sconcertano, disorientano, sporcano l’immagine di una fondamentale Istituzione, presidio di libertà e di uguaglianza, quale è, è stata nella storia di questo Paese e, per mezzo di noi tutti e di quanti verranno, sarà ancora la magistratura italiana.
Abbiamo il dovere di riaffermare che la soggezione è alla legge e non al legislatore del momento, che la legge vive all’interno di un reticolo sistematico che vede un concorso di fonti al cui interno la relazione gerarchica non è la sola direttrice ordinante e che, in ogni caso, in quella relazione il vertice è assegnato alla Costituzione e, in alcune materie, alla normativa eurounitaria.
Lungo questo tracciato, che non ha alternative, che si impone a noi con forza pari soltanto alla sensibilità costituzionale che ci anima, al contempo e in parallelo
Abbiamo il dovere di evitare che la paura, il timore di essere osservati, in qualche modo sorvegliati, si insinuino e si conquistino uno spazio tra noi, quando assistiamo a fatti inquietanti, al venir fuori, dopo esser stato evidentemente conservato per anni alla bisogna, lo screenshot di qualche nostro stato whatsapp, reso noto al tempo soltanto ai nostri pochi contatti telefonici (mi riferisco ai recenti articoli di stampa che hanno riguardato la collega Antonella Marrone).
Un giudizio critico su un messaggio social di un personaggio pubblico che al tempo non era al Governo serve oggi, trascorsi due anni e più, per definire l’immagine di un magistrato politicamente antagonista, schierato, pregiudizialmente ostile, ora che quel personaggio pubblico è al Governo del Paese e soprattutto ora che il magistrato autore di quello stato whatsapp ha preso un provvedimento sgradito al Potere, peraltro occupando un posto ed esercitando una funzione tutt’affatto diversi da quelli del tempo.
Abbiamo il dovere di conservare integra la serenità nello svolgimento dei nostri compiti, pur se recandoci in ufficio, accomodandoci alla scrivania, sapremo che il provvedimento che ci toccherà assumere, secondo linee consolidate della giurisprudenza e orientamenti interpretativi della nostra sezione formati nelle apposite riunioni indette per assicurare uniformità di indirizzo, ci consegnerà sia al pericolo di essere additati come magistrati comunisti (termine che si carica di significato spregiativo ben oltre i confini della sua naturale semantica) e nemici del popolo; sia al pericolo di veder violata la nostra sfera di riservatezza con la pubblicazione di fotografie attinenti a momenti di vita privata e con notizie sulle nostre relazioni affettive.
Abbiamo il dovere di non cadere nel tranello di individuare la causa del vortice di polemiche, in cui il nostro ufficio viene risucchiato, nel collega, vicino di stanza, per aver questi preso parte giorni prima, settimane prima, mesi prima, anni prima, ad un convegno su temi giuridici divenuti politicamente scottanti, per aver questi espresso opinioni nell’esercizio del diritto, fino a qualche tempo fa incontestato, di esser presente nel dibattito interno alla comunità dei giuristi su aspetti dell’ordinamento che ora ci proiettano prepotentemente e nostro malgrado sulla scena pubblica.
Abbiamo il dovere di non attardarci nella domanda se sia ancora il caso, visti gli attacchi ripetuti nei confronti di sempre più colleghi, di prender parola ad un convegno, ad una pubblica riunione, in cui, con lo strumento dell’argomentazione composta e rispettosa delle Istituzioni tutte, potremmo assentire o dissentire su una qualche interpretazione o su qualche disegno di legge, pur di iniziativa governativa, o potremmo svolgere addirittura critiche, che so, sulle linee della politica penale della maggioranza di Governo, per il timore che l’indomani quelle nostre opinioni potranno formare il banco di accusa della nostra faziosità e il banco di prova della nostra parzialità.
Abbiamo il dovere di scongiurare il rischio che la giusta pretesa di imparzialità e di apparenza di imparzialità non si confonda in taluno con la volontà di ridurci al silenzio, di mettere i magistrati all’angolo, nell’angolo buio di un funzionariato pre-costituzionale.
Tutto ciò lo dobbiamo, prima che a noi stessi, alle persone della cui vicende di vita saremo chiamati ad occuparci tenendo fede, senza arretramenti, al mandato costituzionale di autonomia e di indipendenza, di indipendenza anche dalle nostre comprensibili personali preoccupazioni, rinnovando con la consapevolezza del ruolo un dovere di resilienza, il cui adempimento pone al riparo la funzione del giudicare dalle temperie che possono turbare le nostre vite.
Lo dobbiamo anche ai tanti giovani magistrati che si apprestano in questi giorni a muovere i primi passi nel nostro difficile eppure appassionante mondo professionale, perché anche col nostro esempio possano apprendere e rafforzarsi nella virtù forse più importante per un magistrato: la fermezza nella decisione temprata dal dubbio che innerva lo studio e l’esame delle contrapposte ragioni e che si dissolve nel momento in cui la decisione matura, senza che pressioni esterne o interne possano influenzarla.
*************
Il contesto che genera inquietudine si è da ultimo arricchito della proposizione di un emendamento in sede di conversione del decreto-legge (n. 145 del 2024) sui flussi migratori e sulla protezione internazionale, diretto a spogliare le sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali della competenza sulla convalida dei trattenimenti, con soave e sorprendente indifferenza per le ragioni dell’organizzazione giudiziaria.
Così, con un colpo di penna si vorrebbe stravolgere l’ordinario assetto delle competenze e la Corte di appello, già gravata da importanti carichi di lavoro che ci hanno fatto dubitare della possibilità di centrare gli ambiziosi obiettivi del PNRR, dovrebbe occuparsi delle procedure di convalida, se non ho letto male con le sue sezioni penali.
È assai difficile rinvenire un principio di razionalità in questo stravolgimento dell’ordine delle competenze; si percepisce piuttosto la voglia di rappresentare nel modo più plateale, appunto: con la sottrazione di competenza, la sfiducia nella giurisdizione, movendo dalla fantasiosa convinzione che i magistrati comunisti si siano collocati proditoriamente nelle sezioni specializzate “immigrazione” dei Tribunali per attuare il sabotaggio delle politiche governative.
Nell’impossibilità di degiurisdizionalizzare le procedure di convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo, si vorrebbe svilire il senso della specializzazione, si vorrebbe sostituire il giudice perché le sue pronunce non sono state gradite.
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E mentre cresce l’insofferenza per la giurisdizione, il lavoro parlamentare per la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, o meglio sulla separazione della magistratura, viene accelerato.
Una riforma che, stando agli irenici propositi di chi se ne fa sostenitore, non dovrebbe nutrirsi delle ragioni che stanno a fondamento delle attuali tensioni e che pure, a dispetto di qualche dotta argomentazione, in più di un’occasione autorevoli esponenti politici della maggioranza hanno presentato, con indubbia sincerità, come la risposta ad una magistratura con troppa indipendenza, che non si rassegna, come dovrebbe, ad applicare la legge senza interpretarla.
A mio giudizio si scorge, senza particolare difficoltà, la coerenza tra quel che accade oggi in materia di diritto di asilo e quel che matura in Parlamento sulla riforma costituzionale.
È un’idea di giurisdizione diversa da quella che ci ha guidato per molti e molti anni, che abbiamo per tutto questo tempo condiviso con l’avvocatura.
La giurisdizione è un bene comune e sono convinto in maniera radicata che gli avvocati italiani non possono che dissentire da un progetto volto al ridimensionamento del giudiziario, che non potrebbe che restringere i loro spazi di azione come promotori della difesa dei diritti.
Per questa ragione faccio fatica a comprendere la posizione di una parte dell’avvocatura, mi riferisco all’Unione delle camere penali che, da un lato, non lesina parole di sferzante critica alle politiche governative in materia penale e penitenziaria e avverte il bisogno di affermare, in uno per il vero con altre autorevoli voci (v., ad esempio, l’Associazione degli studiosi di diritto dell’Unione europea), che le recenti decisioni giudiziarie in tema di convalida di trattenimenti sono tutt’altro che abnormi; e dall’altro, è riluttante a considerare la riforma costituzionale per quel che è e non per quello che vorrebbe che fosse.
Siccome non ho alcun intento polemico e non ho alcuna voglia di ribattere con la stizza che pure si dovrebbe ad un recente deliberato dell’Unione, in cui si legge, stanco refrain, di politicizzazione della magistratura, di violazione del principio della separazione dei poteri (dall’Unione vista come conseguenza dell’espansione indebita del potere giudiziario), rivolgo alle camere penali l’invito sincero a rinnovare la loro riflessione critica sul disegno di legge sulla separazione della magistratura, ad osservare quel che accade e ad essere conseguenti alle premesse di quel liberalismo penale di cui si fanno in molte occasioni interpreti.
*************
Concludo infine con un auspicio, che potrà pure sembrare poca cosa ma che mi sta a cuore per una ragione ideale tutt’altro che banale.
Sarebbe bene, penso, che quanti partecipano al dibattito pubblico, doverosamente allargato, sulla riforma costituzionale, si astengano, una volta che scoprono di essere privi di buoni argomenti per sostenerla, dal discutibile espediente di usare il nome e la figura di Giovanni Falcone per elevare tono, qualità e contenuti della riforma.
La memoria di un eroe, di un martire della Repubblica, va onorata astenendosi dall’usare il suo nome nel confronto, a volte anche acceso, su una riforma che matura a oltre trent’anni dal suo estremo sacrificio.
Questa riforma, se e quando sarà varata, non potrà portare il nome di Giovanni Falcone; non gli appartiene, non potrebbe appartenergli, appartiene ad altri.
Almeno questo sia concesso alla verità dei fatti e sia sottratto alla mistificante opera della propaganda.
Buon lavoro!
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