ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione - 2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada - 2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis) - 2.2. L’art. 186 comma 9 bis - 2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie - 3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza - 3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p. - 3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio - 4. La giurisprudenza della Corte costituzionale - 4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75 - 4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163 - 4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194 - 5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019 - 5.1. I motivi di ricorso e la decisione - 5.2. Profili di criticità - 6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca.
1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione
1.1. Il Tribunale di Rovereto con sentenza (divenuta irrevocabile in data 2/7/2016) dichiarò ex art. 464 septies c.p.p. (a seguito dell’esito positivo della prova), l’estinzione del reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. c) e comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolimetrico superiore a 1,5 g/l aggravato dall’aver provocato incidente stradale in data 4/7/2014); a seguito della trasmissione della sentenza al Commissario del Governo per la Provincia di Trento, quest’ultimo adottò (ex art. 224, comma 2, codice della strada) nei confronti del conducente il provvedimento di revoca della patente ex art. 186, comma 2 bis del codice della strada (quale sanzione amministrativa accessoria a sanzione penale).
Proposta opposizione dal destinatario del provvedimento di revoca, la stessa fu accolta in primo grado, ma rigettata in appello dal Tribunale di Trento.
1.2. La Corte di cassazione, a seguito di ricorso del conducente/condannato, ha accolto lo stesso in quanto ha ritenuto di estendere quanto sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo in caso di pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato da incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di reato di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico > 1,5 g/l aggravato dall’incidente stradale).
1.3. La pronuncia non persuade sia in relazione alla motivazione del provvedimento sia in relazione agli effetti distorsivi che la sua applicazione in concreto determina; a tal fine si reputa e necessario premettere una ricognizione del quadro normativo del microsistema sanzionatorio penale e amministrativo accessorio collegato alle fattispecie qualificabili in termini di “guida in stato di ebbrezza”, nonché la relativa giurisprudenza della Corte costituzionale.
2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada
2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis)
L'art. 186 (comma 1), nel testo attualmente vigente, stabilisce in via generale il divieto di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche.
L’art. 186, comma 2, a seconda del valore del tasso alcolemico accertato, prevede tre distinti illeciti: il primo (più lieve) di carattere amministrativo e, gli altri due (progressivamente più gravi), di carattere penale.
Stabilisce, infatti, che la condotta in questione, ove non costituisca più grave reato, è punita:
a) con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da Euro 543 ad Euro 2.170, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro; all'accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi;
b) con l'ammenda da Euro 800 ad Euro 3.200 e l'arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno;
c) con l'ammenda da Euro 1.500 ad Euro 6.000 e l'arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni. (….). La patente è sempre revocata nel caso di recidiva nel biennio. Con la sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se è stata applicata la sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato.
Lo stesso art. 186, comma 2-bis - aggiunto nel 2007, nel testo oggi vigente a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 33, comma 1, lettera b), della L. 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale) - prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le sanzioni indicate sono raddoppiate e qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro “la patente di guida è sempre revocata”.
2.2. L’art. 186 comma 9 bis
L’art. 186, comma 9 bis - introdotto dalla richiamata legge n. 120/2010 - stabilisce, inoltre, che, al di fuori dei casi previsti dal comma 2-bis (guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale), “la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 secondo le modalità ivi previste e consistenti nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale.”
In tutti i casi di guida in stato di ebbrezza (non aggravati dall’aver provocato un incidente stradale) di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), codice della strada “in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.”
2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie
Gli artt. 224 e 224-ter cod. strada - quest'ultimo introdotto dall'art. 44, comma 1, della citata L. n. 120 del 2010 - disciplinano, rispettivamente,
a) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della sospensione e della revoca della patente (art. 224);
b) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della confisca amministrativa e del fermo amministrativo.
In particolare, l'art. 224, comma 3, e l'art. 224-ter, comma 6, prevedono che nel caso di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato, il prefetto procede all'accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria e procede, ai sensi degli artt. 218 e 219 cod. strada nelle parti compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della sospensione ovvero della revoca della patente di guida e, ai sensi degli artt. 213 e 214 cod. strada, in quanto compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della confisca.
3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza
3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p.
Il descritto quadro normativo di riferimento, delineatosi a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 120/2010, ha subito un intervento indiretto a seguito dell’introduzione (legge n. 67/2014) nel sistema penale dell’istituto della messa alla prova (art. 168 bis c.p.) che comporta, in relazione ad una serie di reati tra cui anche quelli collegati alla guida in stato di ebbrezza, la possibilità per l’imputato di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova (consistente nella prestazione di lavoro di pubblica utilità e nella prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato).
Ai sensi dell'art. 168-ter, comma 2, c.p. - inserito dalla richiamata legge n. 67/2014, "l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede. L'estinzione del reato non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge".
3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio
Lo stratificarsi delle normative sopra descritte in assenza di coordinamento tra loro aveva determinato che i soggetti responsabili del reato di guida in stato di ebbrezza (senza aver provocato incidente stradale) subissero una diversità di trattamento in ordine alla confisca del veicolo a seconda che il giudice penale avesse dichiarato l’estinzione del reato a seguito dello svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale sanzione sostitutiva) ovvero avesse dichiarato l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.
Nel caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice penale, dichiarata l'estinzione del reato, non poteva che revocare la confisca del veicolo, a norma dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, mentre, nel caso di esito positivo della messa alla prova, egli, dichiarata l'estinzione del reato, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Prefetto, a norma dell'art. 224-ter, comma 6, cod. strada, affinché quest'ultimo disponesse la confisca del mezzo.
4. La giurisprudenza della Corte costituzionale
4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75
L’evidente diversità e disparità di trattamento in riferimento a situazioni sostanzialmente identiche all’interno del microsistema degli istituti incentivanti nel trattamento sanzionatorio della guida in stato di ebbrezza non aggravata dal verificarsi di un incidente stradale (da ritenersi disciplina speciale rispetto alla previsione di cui all’art. 168 ter c.p.) è stata ritenuta dalla Corte costituzionale manifestamente irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la possibilità che, pur in caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova, il prefetto disponga, ricorrendone le condizioni, la confisca del veicolo (della cui disponibilità, peraltro, l'imputato è stato privato sin dal momento del sequestro) - laddove lo stesso codice della strada prevede (art. 186, comma 9 bis, n. di chi scrive) per il caso in cui il processo si sia concluso con l'emissione di una sentenza di condanna e con l'applicazione della pena sostitutiva, non solo l'estinzione del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, ma anche la revoca della confisca del veicolo per effetto del solo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità - risulta manifestamente irragionevole, ove rapportata alla natura, alla finalità e alla disciplina dell'istituto della messa alla prova, come delineate anche dalla giurisprudenza di questa Corte, prima richiamata.” (Corte cost., 24/4/2020, n. 75).
Alla luce di ciò la richiamata sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224-ter, comma 6, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all'avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool per esito positivo della messa alla prova”.
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità lo stesso effetto “premiale” costituito dalla revoca della confisca del veicolo.
4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163
La diversità di trattamento, in virtù della segnalata assenza di coordinamento tra norme intervenute nel corso del tempo, si riscontrava anche in relazione alle conseguenze in punto di durata di sospensione della patente di guida in quanto, ai sensi dell’art. 186, comma 9 bis, codice della strada, il giudice, in caso di svolgimento positivo dei lavori di pubblica utilità, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente, mentre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 224, comma 3, codice della strada, nel caso di estinzione del reato per altra causa (tra questi dovendosi ritenere anche l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) il prefetto avrebbe dovuto procedere all’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sospensione della patente senza prevedere la riduzione alla metà.
Anche in relazione a tale diversità e disparità di trattamento è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando il differente trattamento irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la manifesta irragionevolezza della conseguenza applicativa per cui, al cospetto di una prestazione analoga, qual è il lavoro di pubblica utilità, e a fronte del medesimo effetto dell'estinzione del reato, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente viene ridotta alla metà dal giudice in caso di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, mentre è escluso il beneficio dell'identica riduzione ove sia applicata dal prefetto nel caso di esito positivo della messa alla prova …”, precisando, peraltro, che “tale irragionevolezza si manifesta nei limiti dei casi regolati dalla fattispecie dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, utilizzata come norma di raffronto, la quale ammette il lavoro di pubblica utilità, cui si correla la funzione premiale del suo positivo svolgimento, nelle sole ipotesi di reato di guida in stato di ebbrezza diverse da quelle contemplate dal comma 2-bis dell'art. 186 cod. strada.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224, comma 3, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), del medesimo decreto legislativo, per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riduca la durata della metà.” (Corte cost., 30/6/2022, n. 163).
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità gli stessi effetti premiali sia sotto il profilo della revoca della confisca del veicolo sia sotto il profilo della riduzione a metà della durata della sospensione della patente di guida.
4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194
Successivamente il giudice delle leggi è stato chiamato a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’aver provocato un incidente stradale) per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui prevede l'applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida qualora, per il conducente che provochi un incidente stradale, sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), a seguito di ordinanza con cui il giudice rimettente ipotizzava nell’automatismo della previsione (“la patente è sempre revocata”) la violazione del principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta di volta in volta posta in essere anche alla luce della natura anche punitiva (oltre che preventiva) della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida.
Il giudice delle leggi ha innanzitutto ritenuto che “la fattispecie di guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186 cod. strada si declina secondo una precisa ed articolata graduazione che accomuna pena principale e sanzione accessoria in una scala di gravità progressivamente maggiore. In tal modo, l'impianto sanzionatorio, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede diversi "gradi di intensità" della violazione, ai quali corrispondono differenti livelli di sanzioni in progressione crescente finalizzati alla prevenzione e repressione di comportamenti pericolosi per gli utenti della strada.
Il divario tra le varie misure - detentive, pecuniarie e accessorie - è correlato all'incremento della pericolosità della condotta, graduata sulla base del livello del tasso alcolemico. In particolare, la sanzione amministrativa accessoria è determinata in un intervallo che va dalla sospensione della patente di guida per tre mesi, per le condotte meno gravi, fino alla revoca della patente, per la condotta più grave. Tale è la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, ove la condotta sia aggravata per aver il conducente provocato un incidente.
Tale circostanza aggravante, che mostra che il superamento della soglia di 1,5 g/l di tasso alcolemico è stato tale, in concreto, da aver compromesso il controllo dell'autovettura, individua e sanziona una condotta particolarmente pericolosa, quale che sia l'entità dell'incidente, e rende non irragionevole che, anche a fini di deterrenza per la salvaguardia della sicurezza pubblica nella circolazione stradale, sia collocata in cima alla scala delle condotte sanzionate in misura progressivamente più elevata.”
Sul punto per cui in alcuni casi la revoca della patente costituisca il primario (se non unico) ruolo afflittivo la Corte costituzionale nella stessa pronuncia ha, altresì, affermato che “L'eventualità che la revoca della patente di guida mantenga un primario ruolo afflittivo, permanendo come unica misura punitiva concretamente efficace, risulta, poi, coerente sia con la finalità preventiva della sanzione, perché consente di evitare che il reo ricrei la situazione di pericolo per un congruo periodo di tempo; sia con la finalità deterrente, perché sollecita una maggiore consapevolezza della gravità del comportamento; sia con la funzione rieducativa, perché impone al condannato di affrontare il percorso di esami che lo abilita alla guida per ottenere la nuova patente, instaurando un processo virtuoso tramite una utile formazione finalizzata alla prevenzione.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 186, comma 2-bis, cod. strada, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost. (Corte cost., 27/10/2023, n. 194).
5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019
5.1. I motivi di ricorso e la decisione
La sentenza in commento ha avuto modo di pronunciarsi in relazione a fattispecie in cui il ricorrente appellava la sentenza con cui il Tribunale (in riforma della sentenza di primo grado del giudice di pace) aveva rigettato l’opposizione alla sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida (in fattispecie di guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale) in quanto disposta dal prefetto (a seguito di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) a decorrere dalla data (2/7/2016) di definitività della sentenza piuttosto che dalla data (3/7/2014) del fatto.
Il ricorso per cassazione denunciava (quale primo motivo) la violazione dell'art. 219, comma 3-ter (codice della strada), in relazione agli artt. 464-bis c.p.p. e 168-bis e ss. c.p., per avere il giudice di appello equiparato la pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della prova ad una sentenza di condanna al fine della sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida, mentre nella prima ipotesi mancherebbe qualsiasi accertamento positivo della responsabilità dell'imputato.
Nel caso di specie la S.C., ha ritenuto di estendere quanto affermato dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato dall’incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’incidente stradale).
La pronuncia richiama la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada (di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 75/2020) ritenendo di estendere i principi sottesi alla detta pronuncia del giudice delle leggi anche al caso in cui la sanzione irrogata sia la revoca della patente.
La ratio dell’estensione del principio non appare convincente sotto diversi profili.[1]
5.2. Profili di criticità
a) In primo luogo deve evidenziarsi che la richiamata sentenza del giudice delle leggi non ha dichiarato “tout court” incostituzionale l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo da parte del prefetto per il solo fatto di essere disposta in occasione di una dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ma ha dichiarato l’incostituzionalità (alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.) della previsione di cui all’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada in quanto irragionevole per diversità di trattamento rispetto al caso sostanzialmente identico disciplinato dall’art. 186, comma 9 bis, codice della strada che prevede la revoca della confisca del veicolo in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale pena sostituiva irrogata nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, del codice della strada) con espressa esclusione dell’ipotesi di cui al comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza aggravata da incidente stradale);
b) l’identica ratio ha comportato la successiva (Corte cost. n. 163/2022) dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224, comma 3, del codice della strada nella parte in cui non prevede(va) che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riducesse la durata della metà.
Le due pronunce hanno restituito coerenza e parità di trattamento a fattispecie stratificatesi nel corso degli anni in maniera non coordinata all’interno del microsistema dei trattamenti sanzionatori penali e amministrativi accessori in relazione a istituti (estinzione del reato per svolgimento di lavori di pubblica utilità quale pena sostitutiva ovvero per messa alla prova ex art. 168 bis c.p.) ritenuti dal giudice delle leggi sostanzialmente identici per contenuti e finalità.
c) l’estensione operata dalla pronuncia della S.C. comporterebbe l’automatismo secondo cui nel caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova verrebbe meno la sanzione accessoria della revoca della patente anche nel caso del reato di guida senza patente aggravato da incidente stradale.
Tale lettura da un lato sembra non aver tenuto conto che le due pronunce di incostituzionalità sono espressamente legate alle violazioni di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) con espressa esclusione (sia a livello normativo che nelle pronunce della Corte costituzionale) della fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada e dall’altro risulta in contrasto con la previsione di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (“la patente di guida è sempre revocata”) ritenuta del tutto legittima dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 194/2023) e già precedentemente ritenuta conforme ai principi costituzionali anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale (Cass. pen., Sez. IV, 1/3/2021, n. 7950)
La pronuncia, inoltre, risulta essere in contrasto con la previsione di carattere generale di cui all’art. 168 ter, comma 2, c.p. secondo cui l’estinzione del reato per esito positivo della prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (previsione espressamente non derogata nel caso di guida in stato di ebbrezza del conducente che provochi un incidente stradale dalla disciplina speciale del codice della strada che invece prevede parziale deroga esclusivamente alle sole ipotesi di guida in stato di ebbrezza senza che da ciò sia derivato un incidente stradale).
Alle considerazioni sopra richiamate da ultimo, ma con valore che appare risultare dirimente, deve aggiungersi la considerazione secondo cui ove si accogliesse la tesi della S.C. risulterebbe alterata e addirittura irragionevolmente rovesciata, sino a risultare illegittima per violazione dell’art. 3 Cost., la progressione sanzionatoria (valutata legittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2023) in materia di guida di stato di ebbrezza in quanto per violazioni più lievi sarebbero previste sanzioni più afflittive di quelle previste per le violazioni più gravi e, in particolare:
a) nelle ipotesi più lievi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), a seguito dell’esito positivo della messa alla prova, il prefetto deve applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente con riduzione alla metà;
b) nel caso più grave (guida in stato di ebbrezza con conducente che provochi un incidente stradale) a seguito dell’esito positivo della messa alla prova (venendo meno la possibilità di disporre la revoca da parte del prefetto) non sarebbe applicabile alcuna sanzione amministrativa accessoria né da parte del giudice né da parte del prefetto[2].
Tali conseguenze confliggerebbero in maniera evidente con la ratio sottesa all'art. 186, comma 2bis (ipotesi contravvenzionale di pericolo), che prevede come obbligatoria la revoca della patente di guida per l'ipotesi in cui il conducente, che versi in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico accertato superiore a 1,5 g/l, abbia provocato un incidente stradale; tale ratio deve essere ricercata nella volontà del legislatore di punire più gravemente condotte nelle quali la turbativa alla sicurezza della circolazione sia correlata all'accertamento dello stato di ebbrezza del conducente, in quanto ritenute maggiormente idonee a porre in pericolo l'incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione (Cass. pen., Sez. IV, Sent., 1/3/2021, n. 7950).
Le suesposte considerazioni appaiono ancor più rilevanti se solo si osserva che la Corte costituzionale ha ritenuto che lo stato di un soggetto che si trovi in una condizione di ebbrezza data dal superamento della soglia di 1,5 g/l, ovvero quella collocata nella "fascia" di maggiore gravità della disposizione sanzionatoria penale, dia luogo a una condizione particolarmente pericolosa e che anche l'eventuale modestia dell'incidente causato non sia tale da smentire la rilevanza della condotta, trattandosi di "comportamento altamente pericoloso per la vita e l'incolumità delle persone, tenuto in spregio del dovuto rispetto di tali beni fondamentali", rendendo quindi giustificabile una severa misura "di natura preventiva" (oltre che punitiva) tendente alla protezione di beni giuridici primari; con la conseguenza che la scelta di non operare un'eventuale graduazione della sanzione, a seconda della gravità dell'incidente - rendendo automatica la sanzione della revoca - risponde a un criterio di prevenzione generale non irragionevole, data la sua valenza preventiva e deterrente (in tal senso si veda Corte cost., 27/10/2023, n. 194 e, da ultimo, Cass. pen., Sez. IV, Sent., (data ud. 08/01/2025) 20/02/2025, n. 7015).
6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca
6.1. L'automaticità della revoca della patente è conseguenza di una scelta legislativa (non pregiudicata nel caso di estinzione del reato per qualsiasi causa) escludente, a priori, qualsivoglia discrezionalità amministrativa nei confronti del soggetto che ricade nelle condizioni stabilite dalla norma (“…. Qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), …….., la patente di guida è sempre revocata”).
Sulla base del dato normativo deve, pertanto, escludersi che l'accertamento delle circostanze di fatto al ricorrere delle quali è disposta la revoca della patente, secondo quanto previsto dall'art. 186, comma 2 bis, del Codice della Strada, configuri detto esercizio di potere amministrativo in termini di potere discrezionale, trattandosi al contrario di pura attività di riscontro di dati univoci, nella quale non è insita alcuna operazione di bilanciamento di interessi, ovvero alcuna valutazione di opportunità funzionale al perseguimento di uno scopo pubblico positivamente determinato (Cons. Stato, Sez. III, 26/4/2024, n. 3843, nonché Cons. Stato, Sez. III, 18/6/2019, n. 4136).
6.2. Nel delineato contesto normativo di riferimento non può, infine, assumere alcun rilevo la circostanza secondo cui la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non comporta l’accertamento della responsabilità dell’imputato.
A tal proposito, infatti, deve rilevarsi che la Corte costituzionale con riferimento alla sospensione per messa alla prova del processo minorile, ha posto l'accento sul fatto che "presupposto concettuale essenziale del provvedimento, connesso ad esigenze di garanzia dell'imputato, è costituito da un giudizio di responsabilità penale che si sia formato nel giudice, in quanto altrimenti si imporrebbe il proscioglimento" (Corte cost. 14/4/1995, n. 125).
Tali conclusioni sono state ritenute riferibili anche alla messa alla prova dell’imputato adulto come si desume dall’art. 464 quater, comma 1, c.p.p. “laddove è previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta a meno che il giudice non ritenga di dover pronunciare una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; altro argomento per una lettura in tal senso si desume dalla circostanza che la messa alla prova prevede lo svolgimento di attività dirette all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti da reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno, e dunque il richiamo al reato e al pregiudizio che ne deriva richiede necessariamente un accertamento positivo della sua sussistenza e della responsabilità dell'agente” (Cass. pen., Sez. IV, 17/11/2020, n. 32209).
Quanto sopra evidenziato comporta che l’estinzione del reato ex art. 168 ter, comma 2, c.p. a seguito dell’esito positivo della prova presuppone comunque l’avvenuto accertamento del fatto-reato (pur senza che si sia addivenuti ad una pronuncia di penale responsabilità) con conseguente legittimo automatismo della revoca della patente legato alla mera verifica ex art. 224, comma 3, secondo periodo, del codice della strada della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 186, comma 2 bis, secondo periodo del codice della strada (tasso alcolemico >1,5 e incidente stradale).
[1] In tal senso si veda anche Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116, Giudice di Pace di Gorizia, 24/5/2024, n. 82, confermata da Tribunale Gorizia, 16/4/2025, n. 99.
[2] In tal senso si veda Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116.
Immagine: Marine Drive leaving the overflow car park by Roger A Smith via Wikimedia Commons.
Dopo aver sceso le scale di casa sulle quali campeggia la locandina di Persepolis di Marjane Satrapi (e Vincent Paronnaud), salgo in auto e ascolto alla radio una rassegna stampa sempre più dolorosa e sconfortata. Ripenso all’amato e mai dimenticato cinema iraniano. E ripropongo la recensione della pellicola Il male non esiste di Mohammad Rasoulof. Talvolta un buon film può suggerire spunti di riflessione che tendiamo a dare per scontati e dunque a tralasciare.
Mohammad Rasoulof, perseguitato, condannato e incarcerato per i suoi precedenti lavori cinematografici, con questo film girato di nascosto per evitare di incorrere nella censura del regime iraniano e vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale del 2020, ci dice con voce calma ma forte e chiara che non esiste scelta obbligata.
Con uno stile che talvolta potrebbe apparire programmatico, ma forse per questo ancora più crudo (seppur assai diverso da quello di Taxi Teheran, il documentario del connazionale Jafar Panahi), Il male non esiste ci ricorda - qualora ce lo fossimo dimenticati - che anche la scelta che ci appare più difficile, quella per affrontare la quale abbiamo bisogno di appellarci con forza inaudita alla nostra personale tempra morale, è e resta, in ogni caso, una scelta. È la scelta tragica della tragedia greca, quella che porterà con sé - comunque - conseguenze importanti e inevitabilmente sbagliate, a seconda del nucleo valoriale preso come riferimento.
Per non suscitare eccessivi sospetti sulla produzione cinematografica in corso, il regista suddivide la sua opera in quattro racconti tra loro slegati ma uniti dal fil rouge del dramma etico, dell’uomo posto dinanzi alla “scelta”. Se il ritmo volutamente piatto, quasi assopito, di un’ordinaria dimensione familiare fa del primo un vero capolavoro, sconvolgente per lo spettatore, il secondo acquista un afflato poetico commovente, affidando alla voce ribelle di Milva il Bella ciao delle mondine, uno straziante inno alla libertà che fa da colonna sonora a una fuga illusoria e impossibile, dove l’assenza di lieto fine ci viene lasciata soltanto presumere. Il terzo affronta un tema caro alla letteratura e alla cinematografia, quello dei sentimenti tra persone divise da valori tra loro antitetici, ma riesce a farlo in maniera non eccessivamente didascalica e mai manichea, sottolineando il romantico egoismo giovanile di un ragazzo deciso ad ottenere a caro prezzo tre giorni di licenza per tornare dalla sua amata e chiederla in sposa il giorno del suo compleanno. Un segreto doloroso accompagna, infine, lo spettatore lungo il quarto ed ultimo episodio senza mai sconfinare nel sentimentalismo, racchiudendo in alcune immagini cariche di significato il messaggio confezionato dal regista: sarà una volpe, che si avvicina solo se non vista, allegoria forse del “male”, ma forse anche di un invincibile germe di speranza, a fare capolino nel momento in cui tutto si dipana ed è a lei che, forse, occorre rivolgere la nostra attenzione.
There is no evil è molto più di quattro diversi modi di porsi nei confronti della pena di morte ed è molto più anche della classica riflessione sulla dicotomia tra legge e giustizia, tra reato e crimine e del tormento di coraggiose e disubbidienti Antigoni contemporanee, contrapposte alla viltà (la “banalità del male”) di cui - quasi - tutti, in determinati scenari, saremmo capaci. Non a caso l’idea del film nacque in Rasoulof dall’incontro con uno dei suoi persecutori, seguito a lungo, fino ad accorgersi della totale assenza in lui di alcuna evidente malvagità: il regista vi scorse soltanto il volto anonimo e ordinario del grigio burocrate, privo di coraggio e integrità, al pari di quello conosciuto e descritto da Hannah Arendt al processo di Adolf Eichmann.
Quest’opera, distribuita da Satine Film con il patrocinio di Amnesty International, è una lente d’ingrandimento sul magma ove è racchiusa tutta la potenza dell’umanità, nella sua fragilità e nella sua ineliminabile finitudine, ciò che rende l’umano nell’uomo così stupefacente e affascinante in ogni sua sfaccettatura.
La bontà risiede nei singoli e perciò fragili gesti di alcuni dei personaggi che si muovono negli episodi di cui è composta la preziosa pellicola, ma in questa fragilità è racchiusa tutta la loro potenza e il segreto della loro immortalità e, dunque, della loro invincibilità, anche dinanzi al più dispotico dei regimi.
È il grido di allarme che ognuno deve sentire nel profondo della propria coscienza e al quale appigliarsi per restare umani, nonostante tutto.
“Le persone dimenticate”: l’OCF al CNEL rilancia la riforma del sistema carcerario
Roma, 10 luglio 2025 – In piena estate, con temperature record, le carceri italiane si trasformano in trappole di calore. Celle roventi, sovraffollamento, strutture fatiscenti e personale insufficiente rendono le condizioni di detenzione non solo disumane ma pericolose per la salute e la vita dei detenuti e degli operatori. È da questo scenario estremo che l’Organismo Congressuale Forense (OCF) ha scelto di partire per rilanciare con urgenza una riforma profonda del sistema penitenziario, durante l’evento “Le persone dimenticate”, ospitato oggi al CNEL.
I numeri parlano da soli: 62.722 detenuti in spazi pensati per 46.706, con un tasso di sovraffollamento del 134,29%. A ciò si aggiungono 34 suicidi tra i detenuti e 2 tra gli agenti penitenziari dall’inizio dell’anno, segno di un malessere diffuso che il caldo estremo sta solo esasperando. Celle senza aria condizionata, ambienti chiusi e affollati, mancanza di personale e impossibilità di accedere a percorsi rieducativi rendono il carcere un luogo invivibile.
“In troppe carceri italiane si muore di caldo, di abbandono e di silenzio. La pena detentiva, per Costituzione, deve tendere alla rieducazione. Ma come può esserci riscatto laddove si nega la dignità umana più elementare, come l’accesso a un ambiente vivibile? Questo non è più solo un tema di giustizia penale, ma una questione morale e civile”, ha dichiarato il Coordinatore dell’OCF Mario Scialla.
L’incontro è stato aperto dal Presidente del CNEL Renato Brunetta, che ha dichiarato “Il tema carcerario non può più essere affidato solo alla buona volontà dei singoli. Stiamo parlando di un universo di oltre 250.000 persone coinvolte, tra detenuti, soggetti in esecuzione esterna e in attesa di esecuzione della pena. Per dare risposte strutturali, non bastano le buone pratiche isolate: servono interventi sistemici, replicabili in tutti i 189 istituti penitenziari italiani. È questo il nostro “coefficiente di razionalità”. Per questo, abbiamo avviato un accordo con Cassa Depositi e Prestiti, coinvolgendo le sue partecipate, per promuovere numerosi progetti di investimento in carcere: spazi, formazione, capitale umano, logistica, tecnologie, contrattualistica. Parallelamente, stiamo lavorando per includere i detenuti nella piattaforma SIISL del Ministero del Lavoro, nata per il matching tra domanda e offerta per i soggetti più fragili. Un’infrastruttura che, se estesa anche al mondo penitenziario, potrà diventare uno strumento reale di reinserimento sociale e lavorativo. È un lavoro complesso, ma necessario. Solo dando struttura, visione e continuità all’azione istituzionale, potremo onorare davvero l’articolo 27 della nostra Costituzione”.
La giornata ha visto la partecipazione di giuristi, accademici, operatori del settore e testimoni diretti come Beniamino Zuncheddu, che ha raccontato i suoi trent’anni di ingiusta detenzione, e Andrea Noia, esempio concreto di reinserimento sociale attraverso il lavoro.
L’OCF ha ribadito l’urgenza di una riforma su tre direttrici principali:
Investimenti strutturali: non solo nuove carceri, ma riqualificazione dell’esistente, con spazi adeguati per attività formative, lavorative e trattamentali. Fondamentale anche garantire il diritto all’affettività, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 10/2024.
Potenziamento delle misure alternative: comunità terapeutiche, case famiglia, centri di servizio sociale, per favorire percorsi di pena che permettano il reinserimento nel tessuto sociale, in una logica non emergenziale ma di sistema.
Riforma del processo esecutivo: snellimento del procedimento di sorveglianza e rafforzamento del ruolo della difesa anche nella fase esecutiva, attraverso la formazione specialistica degli avvocati e il dialogo interdisciplinare con magistrati, educatori, psicologi e terzo settore.
Inoltre, è stata rilanciata la necessità di valutare la proposta di legge sulla liberazione anticipata come strumento immediato per alleggerire la pressione interna, nell’attesa di riforme strutturali.
Il messaggio è chiaro: il carcere non può essere una zona grigia della Repubblica. È lo specchio del nostro grado di civiltà democratica.
Dal copione di Senza titolo: (…) Cesare (Lucio) – Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali. – (Dopo aver citato Marinetti, chiude il taccuino. Un lungo silenzio. Poi, esce dal suo perimetro detentivo, dalla sua scatola, torna verso la sua branda e continua…) – Delle ali. Anche nella mia carne, forse. Anche qui, dove tutto sembra fermo e dove non è possibile volare se non in sogno. –
Cesare (Lucio) – Ho sognato un carcere in cui ogni porta era un quadro, La coscienza di Cesare (Fabio): -ogni ora un colore, Cesare (Fabio) – ogni urlo una canzone, Cesare (Lucio) – e ogni pena una poesia. Cesare (Fabio) – Non pareti, ma pensieri. Cesare (Bruno)– Dove il tempo non si conta, non si ferma, Cesare (Lucio)– Dove i corpi danzano in scatole che si aprono, Cesare (Fabio) – Dove la punizione è costruire qualcosa di bello. Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro! Cesare (Lucio) – Un carcere del futuro Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro…

(Foto di Marta Baciocchi)
Senza titolo-Manifesto per un carcere futurista non è stato solo uno spettacolo. È stato un lavoro estremo, sofferto: da loro, i detenuti, ma anche da noi. È stato un atto di resistenza dentro il momento più difficile che io abbia vissuto in quasi trent’anni di carcere. Il carcere, oggi, è una polveriera. La Polizia Penitenziaria è sottorganico, stremata da turni doppi per coprire la mancanza di personale. In Alta Sicurezza i detenuti sono chiusi nelle camere di pernottamento tornate celle. Nei transiti, negli spazi comuni, nei passeggi ovunque, d’estate, si bolle. E quando dico “si bolle” non parlo solo di calore fisico, ma di nervi che saltano, di umanità che rischia di perdersi. In questo scenario infernale, riuscire a mettere in scena Senza titolo è stato, lo dico senza retorica, un vero miracolo. Perché Senza titolo non è solo il racconto del carcere. È il tentativo disperato e necessario di rovesciare lo sguardo, di cambiare visuale, di non accettare il carcere come puro luogo di pena. Nel nostro Manifesto del carcere del futuro, scritto insieme ai detenuti e distribuito a tutto il pubblico, c’è un articolo che grida più forte di tutti il senso del nostro lavoro.
È l’ultimo del manifesto-[1], l’Articolo 18, e parla di teatro: -Il teatro è un’esplosione! Il teatro in carcere non è intrattenimento, è detonatore. Fa saltare le sbarre simboliche, scardina i ruoli fissi, apre crepe nei muri del giudizio e del pregiudizio. È un atto di verità che smonta la finzione della pena come fine. Sul palco, il detenuto non finge, si espone. Il teatro non cura, ma rivela; non salva, ma trasforma. Ogni prova è un rischio, ogni replica un’esistenza che si mette in discussione. La scena diventa il solo luogo dove un uomo può essere interamente sé stesso o altri, senza paura, senza numero, senza etichetta, dove le sue emozioni tornano ad essere. Fare teatro in carcere è atto politico, gesto umano, urgenza civile. È un patto tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi guarda e chi si fa vedere. È la prova vivente che la bellezza resiste anche dove tutto sembra spento. Per questo: non togliete il teatro alle carceri. Portiamolo ovunque. Facciamolo crescere, contaminate la giustizia con l’arte. Perché là dove nasce una scena, può finire una condanna.
Abbiamo costruito Senza titolo lavorando giorno e notte. Io e i detenuti insieme a Pina Segoni , Sara Ragni e Anna Flamini, abbiamo curato ogni dettaglio della mise en scène per uno spettacolo che sentivamo necessario. Non uno spettacolo da salotto ma un grido collettivo. Un’esperienza che nascesse dal corpo vivo dei detenuti e dalla loro urgenza di parola. La musica di Anna Flamini non è solo colonna sonora: è carne viva. Ha dentro il battito d’ansia, la malinconia, la furia, la nostalgia di casa. Si intreccia ai suoni registrati dal vero: porte blindate che sbattono, carrelli portavitto, chiavi nelle serrature, cancelli, passi veloci, brusii di voci lontane. Non sono effetti. È la vita vera del carcere che entra in teatro. È la voce del carcere. Come le scene, i costumi-pensieri, le cattedre patibolo, le grate i blindi tutto è stato prodotto a Maiano in un carcere che diventa teatro per qualche giorno e contamina lo spazio e il tempo della pena e si confronta con il pubblico del festival e la città. Lo spettacolo, frutto di un anno di lavoro laboratoriale, è dedicato alla memoria di Sergio Lenci, architetto visionario e progettista della Casa di Reclusione di Spoleto, di Rebibbia e di Livorno. Lenci fu vittima del terrorismo di Prima Linea per la costruzione di Maiano, colpevole di aver immaginato un carcere “troppo umano”: un’architettura in stretto dialogo con il paesaggio e la città, capace di ridurre il potenziale rivoluzionario tra i reclusi. Aveva concepito spazi penitenziari trasformabili, meno punitivi, una sorta di città di passaggio e non un luogo perenne destinato agli scarti della società, e sognava un futuro in cui il carcere stesso non sarebbe più esistito. Il suo sogno, bruscamente interrotto dalla violenza, rappresenta oggi la radice da cui proviamo a ripartire. Senza titolo è stato uno spazio di libertà di pensiero e di parola. Sul doppio palco, realtà e sogno si alternano: azioni palesi si intrecciano ad azioni surreali, in un contrasto emotivo ed estetico tra distorsioni e messe a fuoco. La narrazione, nella dimensione della realtà, segue Cesare, ex artista ora detenuto, che rivendica l’idea che il carcere non sia solo luogo di detenzione, ma anche spazio per ridefinirsi. La creatività e l’arte diventano mezzi per sfidare i limiti della condizione ristretta. La scena urbana reale, quella del carcere progettato da Lenci, fa da fondale ai due palchi bianco e nero, enfatizza questa trasformazione ed accoglie la scena di un interno, come se il pubblico guardasse tra le sbarre oblique delle finestre, dall’altro lato i Signori Consonante e i Signori Vocale con copricapi e costumi sacerdotali si arrampicano su cinque troni patibolo e si sfidano in tre ring linguistici, dove la parola è insieme arma, confessione e speranza, è una parola che scomparirà nel sesto quadro, il Signor O, .iu.e..e .e..o.e, detto Rinnegato, ergastolano, in carcere da 32 anni, interprete e autore del testo onirico, impastato di non senso, è inquisitore, testimone e imputato allo stesso tempo. Cesare e i compagni detenuti si interrogano: -La Giustizia non deve essere vendetta. La giustizia deve tendere alla bellezza. La giustizia può essere bella? La parola Bellezza risuona più volte dai megafoni degli speakers che fanno da contrappunto al: -…conta uomini, conta chiavi, conta cancelli conta…- : La domanda – se la giustizia possa essere bella – è il cuore pulsante del nostro spettacolo. Cesare è un ex artista, oggi detenuto, che sogna un carcere trasformato in spazio di bellezza e rinascita. Il suo nome rimanda subito a tanti altri Cesare in particolare: il Cesare dei Taviani e Cavalli a Rebibbia, il Cesare di Shakespeare, e il sonnambulo de Il gabinetto del dottor Caligari (1920). Quest’ultimo è il riferimento a noi più vicino. Entrambi vivono imprigionati: il Cesare sonnambulo di R. Weine è chiuso in una bara, strumento di morte nelle mani di Caligari; il nostro Cesare è rinchiuso in una cella scatola, sospeso tra sogno e realtà, tra desiderio di libertà e mura invalicabili. Sono figure parallele: corpi osservati, manipolati. Ma se il Cesare di Weine resta vittima di un potere tirannico, il nostro tenta di ribellarsi, di svegliarsi dal sonno in cui lo hanno confinato. Entrambi abitano mondi deformati: linee oblique e ombre nere nel film, sbarre, blindi e piani inclinati nel carcere. Ma nonostante tutto, il nostro Cesare sogna ancora di trasformare quelle sbarre in parole, in arte, in libertà. Nel crescendo drammatico, l’opera culmina con la costruzione del Manifesto del Carcere del Futuro, atto collettivo e corale che non si limita a evocare desideri astratti, ma si radica profondamente nella storia e nelle prospettive della giustizia penale italiana. Questo Manifesto prefigura il carcere non più come luogo esclusivamente punitivo, ma come un laboratorio di innovazione culturale e crescita personale, dove la pena perda la sua dimensione vendicativa per assumere una funzione di cura, di reinserimento e di riduzione di recidiva nel ritorno in libertà. La redazione del Manifesto si ispira esplicitamente agli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015–2016), promossi dal Ministero della Giustizia per ripensare il senso della pena, i 18 tavoli di Rebibbia coinvolsero magistrati, operatori, studiosi, volontari e società civile. Convinti che sicurezza e rieducazione non siano in contrasto, ma debbano camminare insieme; allo stesso tempo, inoltre il testo drammaturgico analizza e cita la grande stagione riformatrice della Legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario), che per la prima volta pose al centro il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Una legge che compie 50 anni e che, pur tra tante difficoltà, ha segnato un passaggio storico verso una giustizia più umana e costituzionale. È in questo solco che si colloca il Manifesto del Carcere del Futuro, composto volutamente di 18 articoli e un articolo introduttivo, lo zero. Il numero non è casuale: è un omaggio sia all’Articolo 18 della Costituzione, che garantisce la libertà di associazione sia ai 18 tavoli di Rebibbia… Ecco l’epilogo della nostra storia, un manifesto per cambiare con Senza Titolo abbiamo portato in scena la vita vera, abbiamo chiesto al pubblico di farsi attraversare da una domanda: La giustizia, quella vera, può essere anche un atto di bellezza? Io credo di sì. Anche se è difficile. Anche se costa lacrime, fatica, notti insonni, porte chiuse in faccia. E mi tornano in mente, potentissime, le parole di Peter Brook nella sua definizione di ciò che dovrebbe essere il teatro, anche e soprattutto il teatro in carcere: “Il teatro non è estraneo alla vita. Il vero teatro si occupa di esseri umani, di creare per loro una esperienza che va oltre l’ordinario, una sorpresa, così che quando lasci il teatro senti di aver ricevuto qualcosa che non avevi.” Ecco. Io spero che chi ha vissuto Senza titolo sia uscito portandosi via almeno una cosa: la convinzione che la giustizia non deve essere vendetta. Deve tendere alla bellezza. E può, forse, essere bella.
Ringrazio apertamente chi ci ha sostenuto nelle difficoltà: la Direttrice, la Comandante, il Magistrato di Sorveglianza, l’Area Educativa, tutta la Polizia Penitenziaria, l’ufficio di sorveglianza, gli agenti delle scuole, della MOF, della Falegnameria, della segreteria, del Nucleo, gli agenti GOM. Senza il loro coraggio e la loro disponibilità, questo spettacolo non sarebbe mai esistito.
Ringrazio Monique Veaute, Paola Macchi, Roberto e Ruggero Lenci, la fondazione Festival e la Fondazione Francesca Valentina e Luigi Antonini, i docenti e il dirigente del percorso di secondo livello artistico dell’IIS Sansi-Leonardi-Volta, lo spettacolo è nel programma di ARTI IN DIALOGO progetto dell'associazione culturale Atalante è stato in parte finanziato con i Fondi per il Bando Sostegno Spettacoli dal vivo anno 2024 PR FESR 2021-2027. Az. 1.3.4 della Regione Umbria.
Giorgio Flamini (direttore artistico di #SIneNOmine)

(Foto di Vinnie Porfilio)
[1] Art.0 -Scriviamo questo manifesto perché crediamo nel dialogo, nella possibilità di cambiare insieme. Scriviamo questo manifesto per parlare con voi, con le istituzioni, con la società tutta. Scriviamo perché crediamo che anche nella carne ferita dell’uomo dormano ali chiuse, pronte a schiudersi. Scriviamo perché non vogliamo distruggere, ma crescere, tornare trasformati, restituirci migliori, più vivi, più degni. Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1 – Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
Art.2 – Lavoro vero! Basta spazzare cortili senza senso. Manifattura, cucina, carpenteria, digitale, agricoltura, arte: lavoro dignitoso, utile, retribuito. Chi crea, si ricrea.
Art.3 – Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come «evasione buona». Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita. Art. 4 – Il trattamento è cammino! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
Art. 5 – Amore senza censura! Affetti, relazioni, figli, compagni, un bacio può essere rivoluzione. La cella non è un muro tra i corpi. La distanza è già pena, non va aumentata. Art.6 – Liberi fuori! Anche dentro! Le misure alternative sono libertà vigilata dal senso, non pena soft ma giustizia viva. Chi esce prima, spesso non torna più.
Art.7 – Riparare è umano! Giustizia è voce reciproca. Rei, vittime, comunità: si parla, si ascolta, si ripara. Chi chiede perdono può essere oltre la condanna. La vittima è al centro. Il corpo detenuto non è proprietà dello Stato. Chi soffre va curato, non punito due volte.
Art.12 – Proteggere i fragili! Anziani, disabili, trans, persone in crisi: il carcere non è uguale per tutti. Serve delicatezza, non indifferenza. Ogni corpo ha diritto alla sua misura.
Art. 13 – Il Terzo Settore è ossigeno! Volontari, associazioni, mediatori, facilitatori: non ospiti e visitatori ma costruttori . Il carcere non cambia da solo. Servono mani, sguardi, parole altre.
Art.14 – Alfabetizzare all’uso del digitale! Accesso, formazione, preparazione per il dopo. Corsi per tornare a vivere nel presente. Anni di carcere ti lasciano indietro: il carcere può accompagnarti al futuro.
Art. 15 – La pena è ovunque! L’esecuzione penale esterna non è fuga, è presenza altra: case, comunità,
lavori di pubblica utilità, istruzione. La pena si può scontare tra gli altri, non contro.
Art.16 – Cambiare lo sguardo! Media, giornali, TV: il carcere non è fiction. Non servono allarmi, ma alfabetizzazione emotiva. Chi sbaglia può cambiare. Chi giudica, lo consideri.
Art.17 – Anche la legge deve tendere alla bellezza! Norme, regolamenti, burocrazie: il carcere è pieno di scarti giuridici. Il codice deve respirare con il corpo.
Art18 – -: -Il teatro è un’esplosione!....
Si veda anche Il carcere futurista al Festival dei Due Mondi di Fabio Gianfilippi.
La foto in copertina è di Vinnie Porfilio.
Polvere di guerra: gli effetti invisibili dell’uranio impoverito (Nota a Cons. Stato, Sez. I, parere, 13 marzo 2024, n. 291)
di Roberto Leonardi
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto. – 3. Il parere del Consiglio di Stato. Brevi osservazioni conclusive.
1. Premessa.
Nelle guerre moderne, non sempre i danni si esauriscono con la fine delle ostilità. Alcuni effetti permangono nel tempo, silenziosi e difficili da misurare. Tra questi, l’uso dell’uranio impoverito[1] rappresenta una delle eredità più oscure e controverse[2], da cui è scaturito un intenso e controverso dibattito giuridico, soprattutto giurisprudenziale e in ordine a diversi profili della fattispecie - in mancanza di una normativa nazionale organica - che ancora non ha trovato la pace, nonostante le molteplici Commissioni d’inchiesta Parlamentari[3] in riferimento alla cd. Sindrome dei Balcani[4]. Utilizzato nei proiettili anticarro per la sua elevata densità e capacità perforante, l’uranio impoverito ha lasciato dietro di sé un’onda lunga di dubbi, malattie e richieste di giustizia. L’uranio impoverito (DU, dall’inglese depleted uranium) è un sottoprodotto del processo di arricchimento dell’uranio naturale, durante il quale l’isotopo fissile U-235 viene separato dall’uranio naturale, lasciando un materiale con una radioattività ridotta, ma comunque presente. Questo materiale, sebbene meno radioattivo, mantiene una tossicità chimica simile a quella dei metalli pesanti come il piombo o il mercurio, ed è altamente piroforico e, quindi, si incendia al momento dell’impatto.
A partire dalla Guerra del Golfo (1991), gli Stati Uniti e altri Membri della NATO hanno iniziato a utilizzare proiettili perforanti contenenti DU per la loro efficacia contro mezzi corazzati. La combustione dell’uranio durante l’impatto genera un aerosol tossico che può essere inalato o depositarsi sul suolo e sulle acque, con effetti potenzialmente duraturi sulla salute umana e sull’ambiente (Schröder, 2002). Numerose ricerche scientifiche hanno messo in relazione l’esposizione all’uranio impoverito con un aumento del rischio di cancro, danni al DNA e malformazioni congenite. In Iraq, dopo i bombardamenti della coalizione, si è registrato un aumento dei tumori infantili e delle leucemie in aree pesantemente colpite come Bassora. Anche nei Balcani, in particolare in Kosovo e Bosnia, sono stati segnalati livelli anomali di contaminazione e incidenze di malattie simili.
Tuttavia, la comunità scientifica è divisa. Rapporti militari e agenzie governative, come il Department of Defense degli Stati Uniti e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tendono a ridimensionare la pericolosità dell’uranio impoverito, sostenendo che i livelli di esposizione sul campo non raggiungono soglie dannose per la salute (WHO, 2001). Al contrario, alcuni studiosi denunciano la mancanza di studi indipendenti, la difficoltà di accedere ai siti contaminati e l’insufficienza dei sistemi di monitoraggio. In Italia, il caso ha assunto rilievo pubblico a partire dagli anni 2000, con decine di militari ammalatisi dopo missioni all’estero. Nel 2018, una sentenza della Corte d’Appello di Roma ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire la famiglia di un militare deceduto, riconoscendo il nesso causale tra l’esposizione a uranio impoverito e l’insorgenza del tumore (Associazione Vittime Uranio Impoverito, 2020). Un’altra sentenza di rilievo è quella del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3967/2011, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento e all’equo indennizzo per un militare colpito da linfoma di Hodgkin dopo una missione in Kosovo, affermando che la prova del nesso causale può fondarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti, non su certezze assolute.
L’uso dell’uranio impoverito non è solo un problema sanitario o scientifico, ma è una questione anche giuridica, morale e politica. Il principio di precauzione, che dovrebbe guidare l’impiego di tecnologie a rischio, è spesso subordinato a logiche di efficacia bellica e segretezza militare. Molti civili, in teatri di guerra già devastati, sono esposti inconsapevolmente a contaminazioni potenzialmente pericolose, senza assistenza né possibilità di tutela legale.
A livello internazionale, esistono risoluzioni non vincolanti delle Nazioni Unite che chiedono maggiore trasparenza e una valutazione più approfondita dei rischi, ma non esiste ancora un trattato internazionale che ne vieti l’uso, come avvenuto invece per le mine antiuomo o le armi chimiche (ICBUW, 2022). L’uranio impoverito rappresenta una delle “polveri di guerra” più insidiose: invisibile, persistente, e difficile da collocare tra le vittime dirette o indirette dei conflitti. Una guerra che uccide anche dopo la fine delle ostilità e che non lascia solo rovine materiali, ma anche una contaminazione silenziosa e duratura.
2. Il fatto.
Il parere in esame del Consiglio di Stato[5] ha ad oggetto il Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da parte di un Luogotenente dell’Esercito italiano, in servizio presso l’8° Reggimento Alpini, contro il Ministero della Difesa per l’annullamento del rigetto della richiesta del ricorrente di riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio della patologia “cardiopatia ischemica silente senza disfunzione ventricolare sinistra sottoposta a duplice PTCA” e di concessione dell’equo indennizzo[6]. Allo stesso tempo, il ricorrente chiede l’annullamento del parere espresso dal Comitato di verifica per le cause di servizio (CVCS), che ha escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la patologia e il servizio prestato dal ricorrente “in quanto trattasi di patologia riconducibile a insufficiente irrorazione del miocardio per riduzione del flusso ematico coronarico, a sua volta derivante da restringimento o subocclusione del lume vasale per fatti ateromatosi dell’intima della parete arteriosa. Poiché l’ateromatosi vasale può derivare da fattori multipli costituzionali o acquisiti su base individuale, la forma in questione non può attribuirsi al servizio prestato, anche perché in esso non risultano sussistenti specifiche situazioni di effettivi disagi o surmenage psico – fisico tali da rivestire un ruolo di causa o concausale efficiente e determinante”. Il ricorrente sostiene la violazione delle seguenti norme: d.P.R. n. 37/2009 (“Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell’articolo 2, c. 78 e 79, della l. 24 dicembre 2007, n. 244”), abrogato dall’art. 2269, c. 1, n. 385), d.P.R. n. 90/2010 (“Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell'articolo 14 della l. 28 novembre 2005, n. 246”), d.P.R. n. 40/2012 (“Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 90, concernente il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’art. 14 della l. 28 novembre 2005, n. 24”). Pur non esplicando, il ricorrente, le disposizioni che si ritengono violate, l’utilizzo nel ricorso delle locuzioni “rischio tipizzato” ed “elementi chimici tipizzati espressamente dal Legislatore” sostengono l’assunto secondo il quale l’Amministrazione non avrebbe valutato tutti i fattori di rischio cui sarebbe stato esposto il ricorrente, che avrebbero “contribuito all’insorgenza della predetta terribile patologia”, nonché le fattispecie cui ha riguardo la giurisprudenza richiamata nel gravame lasciano intendere che il ricorrente basi le proprie censure sulla disciplina dell’istituto della speciale elargizione di cui agli artt. 1078 ss. d.P.R. n. 90/2010.
3. Il parere del Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, con il parere in esame, ritiene di non dovere accogliere il gravame per due motivi: sul piano fattuale, in riferimento alla patologia del ricorrente, il parere reso dal Comitato di verifica per le cause di servizio si riferisce ad una patologia di natura cardiologica e non neoplastica. Sotto il profilo giuridico, invece, l’istituto applicabile alla controversia non è riconducibile alla speciale elargizione di cui all’art. 1079, d.P.R. n. 90/2010 e non è nemmeno riconducibile alla disciplina delle vittime del dovere, non rientrando nelle fattispecie di cui all’art. 1, c. 563-565, l. n. 266/2006. Infatti, in entrambi questi due ultime casi, devono ricorrere delle specifiche circostanze. Ai fini della disciplina delle vittime del dovere, tali circostanze sono integrate, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 243/2006, dalle “particolari condizioni ambientali od operative”, di “carattere straordinario”, ove “per circostanze straordinarie devono essere intese, secondo il significato indicato dalla legge, condizioni ambientali ed operative ‘particolari’ che si collocano al di fuori del modo di svolgimento dell'attività ‘generale’, per le quali è quindi sufficiente che non siano contemplate in caso di normale esecuzione di una determinata funzione”[7]. La giurisprudenza amministrativa ha sottolineato l’eccezionalità di tali circostanze[8] e la specialità dell’istituto rispetto alla causa di servizio, poiché esso richiede che “il rischio affrontato vada oltre quello ordinario connesso all’attività di istituto[9]. In merito all’asserita “tipizzazione del rischio”, ai fini della speciale elargizione, il legislatore non ha stabilito alcuna presunzione. Infatti, se il militare non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito (o ad altri metalli pesanti) e neoplasia, egli deve però dimostrare di aver affrontato “particolari condizioni ambientali od operative”[10], connotate da un carattere “straordinario”[11]rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio, che siano “la verosimile causa di un’infermità”[12]. Da qui, segue l’infondatezza di tutte le pretese del ricorrente in riferimento ad un eccesso di potere, da riferirsi all’operato del CVCS e del Ministero della difesa, avendo fondato, il ricorrente, la propria richiesta del riconoscimento della causa di servizio della patologia neoplastica sofferta su generici fattori di rischio.
Di rilievo, poi, un altro tema affrontato dal parere in esame: l’esposizione del militare all’uranio impoverito e il riconoscimento del rapporto causale ai fini dell'accertamento della dipendenza della patologia oncologica da causa di servizio[13]. Infatti, l’operatività dei militari in contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito può essere ritenuta causa dell’insorgenza di specifiche patologie tumorali. Per tali ragioni, la connessione tra esposizione ad uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie ha indotto l’ONU a vietare armi con uranio.
La probabile connessione tra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie, anche di natura oncologica, ha indotto l’ONU, come si diceva, a vietare l’utilizzo di armi contenenti tale elemento (risoluzione n. 1996/16) e diversi Paesi hanno assunto misure di protezione e di precauzione a favore dei militari impiegati nelle operazioni NATO. Va, quindi, riconosciuta la responsabilità del Ministero della Difesa, secondo la fattispecie astratta dell'art. 2087 c.c., nel caso di contrazione da parte del militare impegnato in missioni ad alto rischio della patologia ematoncologica classificata come Linfoma di Hodgkin, a causa dell’assenza di dispositivi di protezione personale ed informazioni sull’utilizzo di armamenti e proiettili a uranio impoverito[14].
Per giurisprudenza amministrativa consolidata sulla cd. sindrome dei Balcani, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici[15]. Si è, quindi, affermato che, una volta dedotto e comprovato dal militare lo svolgimento di missioni di pace nei teatri bellici esteri caratterizzati dall’uso dell’uranio impoverito e, al rientro da queste, l’insorgenza di determinate patologie, l’onere della prova della riconducibilità della patologia stessa al servizio da lui svolto nella predetta missione, sotto il profilo causale o almeno concausale, si ritiene assolto mediante l’allegazione di essersi trovato ad operare in un territorio indubbiamente caratterizzato dalla presenza di « inquinanti » legati all’utilizzo, nelle operazioni di guerra, di proiettili contenenti uranio impoverito[16]. Il militare interessato non deve dimostrare la sicura esistenza di un nesso eziologico fra l’esposizione all’uranio impoverito e la malattia, ma soltanto di avere affrontato condizioni ambientali e operative particolari, le quali possano essere la verosimile causa di un’infermità[17], mentre spetta all’amministrazione dimostrare che l’insorgenza della patologia è stata determinata da fattori esogeni[18]. Di conseguenza andrà annullato il provvedimento di rigetto della domanda di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità contratta dal militare e dunque di concessione dell’equo indennizzo, nel caso in cui il CVCS non appaia aver dato adeguata motivazione riguardo agli altri specifici fattori di rischio e situazioni di disagio evidenziati (permanenza, anche se per breve periodo, in territori fortemente e notoriamente contaminati, anche da uranio impoverito, dichiarata circostanza di utilizzo continuativo di solventi e oli per armi), non assolvendo a quell’onere della prova invertito richiesto dalla giurisprudenza sul tema[19].
Si deve, inoltre, evidenziare, la differenza tra risarcimento del danno e speciale elargizione prevista dall’art. 1079, c. 1, d.P.R. n. 90 del 2010 per i militari che hanno contratto infermità per le condizioni operative[20]. Il militare interessato a percepire la speciale elargizione di cui al richiamato art. 1079, d.P.R. n. 90 del 2010 non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito (o ad altri metalli pesanti) e neoplasia; siffatto accertamento è necessario ove l’interessato proponga una domanda risarcitoria, ossia assuma la commissione, da parte dell’Amministrazione, di un illecito civile consistente nella colpevole esposizione del dipendente ad una comprovata fonte di rischio in assenza di adeguate forme di protezione, con conseguente contrazione di infermità. In tale ipotesi, invero, grava sull’assunto danneggiato dimostrare, inter alia, l’effettiva ricorrenza del nesso eziologico (ossia la valenza patogenetica di siffatta esposizione), sia pure in base al criterio del più probabile che non[21]. Laddove, invece, l’istanza tenda alla percezione della speciale elargizione, si verte in un ben diverso ambito indennitario. I presupposti del risarcimento del danno e della speciale elargizione sono del tutto diversi: nel primo caso l’integrazione di tutti gli elementi propri di un’ipotesi di responsabilità civile, tra cui pure la prova del nesso eziologico e dell’elemento soggettivo in capo al danneggiante; nel secondo caso la mera dimostrazione di aver affrontato — senza che ciò integri « colpa »dell’Amministrazione — « particolari condizioni ambientali od operative », connotate da un carattere « straordinario »rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio, che siano la verosimile causa di un’infermità. Inoltre, il risarcimento del danno compete a chiunque e dipende nel quantum dall’effettivo danno riportato, mentre la speciale elargizione spetta solo ai soggetti individuati dalla legge ed è quantificata a monte in misura predeterminata. Il fatto che, allo stato delle conoscenze scientifiche, non sia acclarata l’effettiva valenza patogenetica dell’esposizione all’uranio impoverito non osta, dunque, al diritto alla percezione dell’indennità, che comunque spetta allorché l’istante abbia contratto un’infermità verosimilmente a causa di « particolari condizioni ambientali ed operative », di cui « l’esposizione e l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e la dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte da esplosione di materiale bellico » costituiscono solo un possibile aspetto. La disposizione, in sostanza, non si incentra esclusivamente (né, a ben vedere, primariamente) sul profilo dell’esposizione ad uranio impoverito o ad altre nano particelle di metalli pesanti, ma intende concedere ad una platea ben delimitata di soggetti un beneficio monetario predeterminato in ragione della sottoposizione a gravose «condizioni ambientali ed operative” e della conseguente contrazione di infermità[22].
Alla luce di questi elementi giurisprudenziali consolidati, il parere in esame sottolinea che nel gravame non si ravvisa alcuna congrua deduzione in merito al notevole intervallo di tempo intercorso tra l’ultima missione all’estero e la data del 6 settembre 2019 nella quale il ricorrente riferisce di aver avuto contezza
della patologia cardiologica, tale da fornire almeno un ragionevole indizio della sussistenza di un rapporto di causalità tra le condizioni di svolgimento del servizio in dette missioni, o in altre circostanze, e la patologia cardiaca, nonostante il medesimo intervallo di tempo. Occorre anche sottolineare che risulta del tutto insussistente il secondo dei due termini della relazione di causa - effetto tra servizio prestato e patologia nella tesi del ricorrente secondo la quale “la relazione tra l’insorgenza della patologia neoplastica sofferta dal ricorrente ed il servizio prestato emerge dal suo stato di servizio dal quale si rileva che il militare è stato impiegato in svariate missioni all’estero, in territorio balcanico (oltre ad una missione in Mozambico) alloggiando nelle zone più massicciamente bombardate della Bosnia, presso la caserma ‘Tito Barrack’ di Sarajevo, caserma che ha registrato il più alto numero di militari ammalati e deceduti tra coloro che ivi erano alloggiati”. Tale tesi, infatti, è riferita a patologia completamente diversa da quella per la quale lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio.
Un ultimo profilo affrontato dal Consiglio di Stato nel parere in esame riguarda il valore della perizia di parte, secondo la quale la presenza nel sangue del ricorrente di metalli pesanti “assenti nella popolazione italiana di riferimento” confermerebbe che egli “non ha potuto contrarre la patologia per cui è causa sul suolo nazionale”, ma solo in un contesto internazionale. Al di là della carenza dei profili motivazionali, il Consiglio di Stato, in merito a detta perizia, richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale conclusioni diverse da quelle del CVCS “risultanti da perizie, relazioni e/o certificazioni mediche di parte non sono idonee, di norma, a confutare l’attendibilità del giudizio tecnico del Comitato, atteso che le valutazioni mediche formulate da organi sanitari diversi da quelli dell’Amministrazione non hanno rilevanza per quest’ultima quando risultino in contrasto con i referti emessi dagli organi tecnici della stessa Amministrazione[23]. Dunque, per porre in discussione il parere del CVCS di esclusione della causalità di servizio da parte occorre una riconducibilità effettiva e comprovata dell’infermità, almeno in termini di concausalità, al servizio svolto, poiché l’art. 11 del d.P.R. n. 461/2001 - che prevede che il CVCS “accerta la riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l'infermità o lesione” (primo comma) - “non ritiene sufficiente, a tale fine, la mera ‘possibile’ valenza patogenetica del servizio prestato, ma, di contro, impone la puntuale verifica, connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia[24]. Infatti, “ai fini del riconoscimento della causa di servizio, è necessario che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni. Il principio della causalità adeguata richiede sempre la riconoscibilità dell’esistenza di fattori riconducibili al servizio che rivestano un ruolo di adeguata efficiente incidenza nell’insorgenza e nello sviluppo del processo morboso, mentre devono ritenersi totalmente escluse tutte le altre condizioni che un tale grado di concausale ingerenza non presentino, le quali - benché parimenti verificatesi in servizio - restano tuttavia riguardabili unicamente quali ‘mere occasioni rivelatrici’ di una infermità non avente alcun nesso di causalità o concausalità con le condizioni di servizio[25].
In conclusione, emergono, da quanto detto fin qui, alcuni dei profili critici del tema oggetto del parere del Consiglio di Stato in esame e che il giudice d’appello ha ben evidenziato. L’assenza di una normativa nazionale organica sul riconoscimento delle patologie legate all’uranio impoverito ha trasferito il problema alla giurisprudenza. I giudici, in mancanza di leggi specifiche, hanno dovuto decidere caso per caso, con risultati spesso difformi, a partire dal principio del nesso causale presunto. Una parte della giurisprudenza ha aperto alla possibilità di riconoscere il nesso causale non in base a prove certe, ma sulla base di presunzioni e di un ragionamento probabilistico, specie in presenza di contesti operativi contaminati (Kosovo, Iraq, Bosnia), di una esposizione non protetta o documentata, e di una coerenza tra patologia e tipo di rischio ambientale. Questa impostazione valorizza il principio di precauzione e i diritti costituzionali alla salute e alla tutela del lavoratore pubblico[26]. L’orientamento restrittivo di un’altra parte della giurisprudenza, invece, richiede prove dirette e scientificamente inoppugnabili del nesso tra esposizione a DU e patologia[27], anche in relazione all’intervallo di tempo trascorso tra il contesto nel quale si presume la latenza dell’uranio impoverito e l’insorgenza della patologia lamentata[28]. In assenza di queste, si è negato l’equo indennizzo e il riconoscimento di causa di servizio. Questo orientamento evidenzia il peso dell’incertezza scientifica, il timore di una giurisprudenza troppo espansiva e l’assenza di criteri ufficiali, ad esempio in relazione alle liste di patologie correlate. Questa incertezza crea una vera e propria giustizia diseguale, con decisioni che variano sensibilmente da caso a caso, una possibile disparità di trattamento tra il personale delle forze armate e di polizia, con una profonda incertezza nelle procedure e una mancanza di equità e trasparenza nel riconoscimento delle cause di servizio, in mancanza di criteri più chiari e uniformi. Per questo, una riforma della materia parrebbe urgente, ancor più in un quadro geopolitico complesso e in presenza di sempre più conflitti internazionali, colmando il vuoto legislativo con una legge-quadro nazionale che disciplini l’indennizzo per esposizione a contaminanti in missione, un elenco aggiornato di patologie correlate, un fondo specifico e una procedura semplificata di riconoscimento e una valutazione scientifica e indipendente dei rischi.
[1] Sul tema, v. R. Fusco, Il diritto al risarcimento del militare per danni subiti a causa dell’esposizione all’uranio impoverito, (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560), in Dir. e proc. amm., 5 gennaio 2021; C. Felicetti, Ammissibilità in appello dei mezzi di prova “sopravvenuti”. Il principio dispositivo con metodo acquisitivo e il divieto di nova in appello (nota a Cons. di Stato, Sez. II, 26 gennaio 2024, n. 845), ivi, 3 aprile 2024.
Cfr. l. 24 dicembre 2007 n. 244, artt. 78 e 79, in relazione « al riconoscimento della causa di servizio e di adeguati indennizzi al personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonché al personale civile italiano nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, che abbiano contratto infermità o patologie tumorali connesse all'esposizione e all'utilizzo di proiettili all'uranio impoverito e alla dispersione nell'ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico, ovvero al coniuge, al convivente, ai figli superstiti nonché ai fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti in caso di decesso a seguito di tali patologie (...) ». Cfr. poi d.p.r. 7 luglio 2006 n. 243 recante regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere ed ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo, a norma dell'articolo 1, comma 565, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, ed ivi in particolare la disciplina relativa ai soggetti c.d. equiparati (art. 6).
Cfr., sulla sua acclarata pericolosità, in particolare il rapporto stilato fra il 1978 e il 1979 dall’Air Force Armament Laboratory della base di Eglin in Florida, nonché i seguenti documenti ad esso successivi: la comunicazione del Defence Support della N.A.T.O. del 20 dicembre 1984; le linee guida USA Peace time limits on the intake of depleted uranium, pubblicate nella appendixB top art. 20, 1001 thru 2401, p. 23409, Federal Register del 21 maggio 1991; la comunicazione dell'Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General, con riferimento all’impiego delle forze armate statunitensi in Somalia del 14 ottobre 1993; il rapporto del General Accounting Office-National Security and International Affairs Division del 1993; la direttiva N.A.T.O. sulle basse radiazioni del 1996. Per un riferimento ai contributi scientifici recenti da cui si evince un nesso di causalità fra esposizione all'UI e patologie tumorali, neurologiche e dell’apparato riproduttivo, cfr. D. Fahey, The Emergence and Decline of the Debate over Depleted Uranium Munitions1991-2004, 20 June 2004, 3 e 9, consultabile sul sito www.wise-uranium.org, ove vengono richiamate le seguenti ricerche: D.E. McClain, et al., Biological effects of embedded depleted uranium (DU): summary ofArmed Forces Radiobiology Research Institute research, in The Science of the Total Environment (2001) 274: 117; F.F. Hahn-R.A. Guilmette-M.D. Hoover, Implanted Depleted Uranium Fragments Cause Soft Tissue Sarcomas in the Muscles of Rats, in Environmental Health Perspectives (2002) 110: 51; D.E. McClain, Project Briefing: Health Effects of Depleted Uranium, U.S. Armed Forces Radiobiology Research Institute (Bethesda, MD, 1999).
[2] Il tema è stato ampiamente trattato dalla dottrina internazionale, civilistica e giuslavoristica. Per un approfondimento, si rinvia a R. Pucella, Un nesso, due nessi, l’irrisolto groviglio della causalità, in Resp. civ. e prev., 2023, 6, 1797; S. Ferrara, Responsabilità del Ministero della difesa per morte del militare esposto a particelle di uranio impoverito e motivazione per relationem, in Resp. civ., 2018, 17, 1245; S. Rodriguez, Missioni all’estero e uranio impoverito: la responsabilità del Ministero della Difesa nei confronti dei propri dipendenti, Resp. civ. e prev., 2012, 2, 619; A. Mantelero, Uranio impoverito: i danni da esposizione e le responsabilità, in Danno e responsabilità, 5/2012, 543; M. Losana, La legislazione in materia di benefici erogati in favore delle vittime del dovere, del servizio, di talune fattispecie di reato e di particolari eventi storici: tra principio di uguaglianza formale e discrezionalità politica, in Giur. cost., 2011, 3, 2631; A. Viscomi, La causa di servizio oggi: spunti per una riflessione, in Il lavoro nelle p.a., 2009, 2, 241; A. Mantelero, La svolta nelle controversie sull’uranio impoverito, in Resp. civ. e prev., 2009, 12, 2492.
[3] Il riferimento è alle indagini svolte dalle seguenti commissioni: Commissione di indagine istituita dal Ministro della Difesa sull’incidenza di neoplasie maligne tra i militari impiegati in Bosnia e Kosovo, insediata con decreto ministeriale della Difesa del 22 dicembre 2000; Commissione Parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale militare italiano impiegato nelle missioni internazionali di pace, sulle condizioni della conservazione e sull'eventuale utilizzo di uranio impoverito nelle esercitazioni militari sul territorio nazionale, istituita con delibera del Senato del 17 novembre 2004; Commissione Parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonché le popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell'ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico, istituita con deliberazione del Senato dell’11 ottobre 2006.
[4] Tale sindrome consiste in una pluralità di possibili patologie di natura prevalentemente neoplastica, conseguenti all’esposizione dei militari ad agenti patogeni − in specie uranio impoverito − presenti nelle aree teatro di scontri armati durante la recente guerra dei Balcani, ove i soldati italiani hanno operato a conflitto terminato in occasione delle diverse missioni di pace svoltesi in Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Kosovo. Analoghe patologie sono state anche riscontrate in relazione ad altre attività realizzate all'estero dalle Forze Armate italiane nel corso della prima guerra del Golfo, in Somalia e in Albania.
[5] Precedenti conformi: sulla necessità che il militare dimostri di aver affrontato “particolari condizioni ambientali ed operative”, connotate dal carattere “straordinario” rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio: ex multis, Cons. St., Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3418, in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla inidoneità delle conclusioni diverse risultanti da perizie, relazioni e/o certificazioni mediche di parte confutare l’attendibilità del giudizio tecnico del comitato: tra le tante, Cons. St., Sez. I, parere 13 luglio 2023, n. 1030, che richiama Cons. St., Sez. IV, n. 142/2020; Cons. St., Sez. I, n. 993/2020. Sulle condizioni per porre in discussione il parere del comitato di verifica di esclusione della causalità di servizio: tra le tante, Cons. St., Sez. II, 8 maggio 2019, n. 2975, che richiama Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2017 n. 4619 e Cons. St., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076. Sul nesso causale in materia di causa di servizio, v. Cons. St., Sez. II, 28 febbraio 2023, n. 2101 e, con specifico riferimento all’uranio impoverito, Cons. St., Sez. I, 10 luglio 2023, n. 1013, che richiama Cons. St., Sez. II, n. 6456/2022, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] A. Crismani, Le indennità nel diritto amministrativo, Torino, 2012, 45, osserva che l’art. 603, c. 1 e 2, d.lgs. n. 66/2010 riconosce «al personale italiano entro e fuori i confini nazionali in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, nonché al personale impiegato nei poligoni di tiro e nei siti dove vengono stoccati munizionamenti, e al personale civile italiano nei teatri operativi all’estero e nelle zone adiacenti alle basi militari sul territorio nazionale, adeguati indennizzi in caso di infermità o patologie tumorali per le particolari condizioni ambientali od operative»
[7] Cass. civ., Sez. Lav., 8 giugno 2018, n. 15027, in Giust. civ. Mass., 2018.
[8] Cfr. Cons. St., Sez. III, 11 agosto 2015, n. 3915, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. III, 1° febbraio 2019, n. 816, ivi.
[9] Cons. St., Sez. IV, 13 aprile 2015, n. 1855; Cons. St., Sez. IV, 18 gennaio 2018, n. 306; Cons. St., Sez. III, 1° febbraio 2019, n. 816; Cons. St., Sez. III, 7 maggio 2019 n. 2927, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Tribunale di Bari, Sez. Lav., 6 ottobre 2023, n. 2623, in Red. Giuffrè 2023, il quale osserva che “affinché possa ritenersi che una vittima del dovere abbia contratto un'infermità in qualunque tipo di servizio non è sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio, occorrendo che quest'ultima sia legata a “particolari condizioni ambientali o operative” implicanti l’esistenza, od anche il sopravvenire, di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, sicché è necessario identificare, caso per caso, nelle circostanze concrete alla base di quanto accaduto all'invalido per servizio, un elemento che comporti l'esistenza o il sopravvenire di un fattore di rischio maggiore rispetto alla normalità di quel particolare compito”. Tribunale Napoli, Sez. Lav., 7 febbraio 2023, n. 849, Red. Giuffrè, 2023.
[11] Cfr. Cass. civ., Sez. Lav., 8 marzo 2023, n. 6881, in Diritto & Giustizia, 9 marzo 2023, nota A. Ievolella. In tema di vittime del dovere, ricorre la fattispecie del comma 563, lett. a), l. n. 266/2005 quando l’evento dannoso si sia verificato nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, senza che sia richiesto un rischio specifico ulteriore a quello insito nelle ordinarie attività istituzionali, necessario, invece, per le ipotesi previste dal successivo c. 564, ove è necessaria l’esistenza o il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari.
Cfr. Cons. St., Sez. IV,30 novembre 2020, n. 7560, in www.giustizia-amministrativa.it in cui si afferma che “nell’ipotesi di missioni all’estero (cosiddette “missioni di pace”) l’Amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità di posizione, cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile - giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito - ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi (nella specie, uranio impoverito) che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, ciononostante lo possano essere, secondo un giudizio di non implausibilità logico-razionale; la diligenza cui è tenuta l’Amministrazione si situa dunque, in tali casi, ad un livello massimo e la prova liberatoria non può consistere semplicemente nell’invocare il fattore causale ignoto, ma deve spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno”.
[12] Cfr. Cass. civ., Sez. Lav., 24 dicembre 2024, n. 34299, in Diritto & Giustizia, 2024, n.30, in cui si afferma che “ai fini del riconoscimento dello status di vittima del dovere, ai sensi dell’art. 1, c. 563, della l. n. 266 del 2005, non è sufficiente che le lesioni patite dal pubblico dipendente siano state riportate in conseguenza di eventi verificatisi in occasione di una delle attività tipizzate dalle lett. a), b), c), d), e) ed f), del citato art. 1, essendo piuttosto necessario che l’evento da cui è scaturita la lesione costituisca, a sua volta, una concretizzazione della speciale pericolosità e/o del rischio che è tipicamente proprio di quelle determinate attività”; Cons. St., Sez. IV, 24 maggio 2019, n. 3418. Allo stesso modo. Cass. civ., Sez. Lav., 4 gennaio 2024, n. 287, in Giust. Civ. Mass., 2024, in cui si afferma che “affinché possa ritenersi che una vittima del dovere abbia contratto un’infermità in qualunque tipo di servizio non è sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio, occorrendo che quest’ultima sia legata a “particolari condizioni ambientali o operative” implicanti l’esistenza, od anche il sopravvenire, di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto, sicché è necessario identificare, caso per caso, nelle circostanze concrete alla base di quanto accaduto all'invalido per servizio, un elemento che comporti l’esistenza o il sopravvenire di un fattore di rischio maggiore rispetto alla normalità di quel particolare compito”.
[13] T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 16 ottobre 2024, n. 716, in www.giustizia-amministrativa.it. “Nel caso di invio di militari all'estero, data l’impossibilità di stabilire - sulla base delle attuali conoscenze scientifiche - un nesso diretto e univoco di causa-effetto collegato ai contesti fortemente degradati e inquinati ove questi abbiano operato, non è pretendibile la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta; pertanto, una volta accertata l’esposizione del militare all'uranio impoverito e ai metalli pesanti, è l’Amministrazione che deve dimostrare che tale agente patogeno non abbia determinato l’insorgere della malattia oncologica e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni), dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica”.
[14] T.A.R. Valle d’Aosta, Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56, in Foro amm., 2017, 9, 1873; T.A.R. Toscana, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] T.A.R. Trentino-Alto Adige, Bolzano, Sez. I, 5 luglio 2024, n. 178, in cui si osserva che “in tema di cd. sindrome dei Balcani, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l'insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici. Una volta accertata l’esposizione del militare agli inquinanti, è l’amministrazione che deve dimostrare che tale agente patogeno non abbia determinato l’insorgere della riscontrata infermità e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni), dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l’insorgere dell’infermità”.
Cfr., in tal senso, esplicitamente, Cass. civ, Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576, cit.; Id., 11 gennaio 2008, n. 581, in Foro it., 2018.
V, a riguardo, in dottrina, D. Poletti, Le regole di (de)limitazione del danno risarcibile, in Lipari-Rescigno, diretto da, Diritto Civile, IV, Attuazione e tutela dei diritti, Milano, 2009, 306 ss., la quale sottolinea come, specie nell’attuale c.d. società del rischio, “il nesso eziologico è ormai trascorso da una valutazione richiesta in termini di certezza degli effetti della condotta ad un giudizio di tipo probabilistico”.
[16] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 16 settembre 2024, n. 16391; Cons. St., Sez. I consultiva, parere n. 210 del 16 febbraio 2021; Cons. St., Sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1661; T.A.R. Toscana, Sez. I, 28 febbraio 2021 n. 156; Cons. St., Sez. II, 7 marzo 2022, n. 1638.T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 1° giugno 2024, n. 11238, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. L’insorgere di una patologia, l’onere della prova della riconducibilità della patologia stessa al servizio svolto nella predetta missione, sotto il profilo causale o almeno concausale, si ritiene assolto mediante l’allegazione, da parte del militare, di essersi trovato ad operare in un territorio in cui erano indubbi la presenza di “inquinanti” metallici e, soprattutto, l’utilizzo, nelle operazioni di guerra, di proiettili contenenti uranio impoverito.
[17] Corte conti, Lazio, Sez. reg. giurisd., 2 novembre 2017, n. 318, Red. Giuffrè, 2018, in cui si afferma che “l’impossibilità di stabilire un nesso immediato di causa-effetto, congiuntamente valutata con il concorso di altri fattori collegati a contesti fortemente inquinati e degradati dei teatri operativi, hanno indotto il legislatore a non richiedere, in caso di malattia dipendente da esposizione all’uranio impoverito per missione militare, la dimostrazione del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendone sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici. Quanto all’accertamento della dipendenza da causa di servizio, l’art. 64 del DPR n. 1092/73 valorizza sia i fatti che siano stati la causa diretta dell'insorgere della patologia, sia quelli che abbiano svolto un ruolo “concausale” o indiretto nel decorso evolutivo, sino all'eventuale esito (concausa efficiente e determinante)”.
L'impossibilità di stabilire un nesso immediato di causa-effetto, congiuntamente valutata con il concorso di altri fattori collegati a contesti fortemente inquinati e degradati dei teatri operativi, hanno indotto il legislatore a non richiedere, in caso di malattia dipendente da esposizione all’uranio impoverito per missione militare, la dimostrazione del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendone sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici.
[18] T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 15 novembre 2023, n. 1043; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 15 dicembre 2022, n. 16931, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Incombe sull’Amministrazione l’onere di provare che l’esposizione del militare all’inquinante (uranio impoverito) non abbia determinato l’insorgere della patologia e che essa dipende invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica, e determinanti per l’insorgere dell’infermità. Del resto, una volta accertata l'esposizione del militare all’inquinante, che non necessita di un accertamento in termini di certezza, è la P.A. che deve dimostrare che detta esposizione non abbia determinato l’insorgere della patologia e che essa dipende invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica.
Cfr., inoltre, Cons. St., Sez. I, 17 marzo 2021 n. 435; Cons. St., Sez. IV, 26 febbraio 2021 n. 1661; Id., 30 novembre 2020, n. 7560 e 7562; Id., Sez. II, 22 aprile 2022, n. 3112, tutte in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Brescia, 1° luglio 2022, n. 655, in Foro amm., 2022, 7-08, II, 973.
La natura della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero è stata spesso dibattuta in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento tale responsabilità deve essere ascritta alla genus della responsabilità extra-contrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (in tal senso vedasi in primis la nota sentenza Trib. Roma, Sez. XXII, 1° dicembre 2009, n. 10431, in Foro it., 2010, 2, I, p. 676 ss., seguita da diverse altre pronunce tra cui si cita ex multis Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16456, in Foro it., Mass. 2009). Un diverso orientamento, col tempo divenuto maggioritario, inquadra detta responsabilità nell’alveo dell’art. 2087 c.c. e, quindi, nella categoria della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (in tal senso si vedano ex multis: Trib. Roma, Sez. XIII, 15 luglio 2009, n. 16320, in www.dejure.it, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, T.A.R. Valle d’Aosta, Aosta, Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56 e T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it).
[19] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 12 dicembre 2023, n. 18756, in www.giustizia-amministrativa.it.
T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 24 aprile 2019, n. 331, in www.giustizia-amministratuva.it, in cui si afferma che “è viziato da difetto di istruttoria e di motivazione il decreto con cui il direttore della direzione di amministrazione - sezione equo indennizzo del comando generale dell'arma dei carabinieri ha stabilito che le infermità non dipendono da causa di servizio, nonché ha rigettato la domanda di equo indennizzo senza considerare i possibili legami causali tra la patologia tumorale, seppure benigna, che ha colpito il ricorrente e l’esposizione ai fattori nocivi presenti sul territorio della missione internazionale denominata Kfor in Kosovo, il cui territorio veniva colpito da bombardamenti con munizionamenti contenenti uranio impoverito con conseguente inquinamento atmosferico e ambientale; invero, in caso di infermità contratte da militari a causa dell'esposizione a polveri sottili derivanti dall'uranio impoverito, il verificarsi dell'evento costituisce un dato ex se sufficiente a ingenerare il diritto per le vittime delle patologie e per i loro familiari al risarcimento a meno che la pubblica amministrazione non riesca a dimostrare che essa non aveva determinato l'insorgenza della patologia la quale dipenda, invece, da fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l’insorgere dell’infermità”.
Negli stessi termini, T.A.R. Piemonte, Sez. I, 6 marzo 2015 n. 429, in Foro amm., 2015, 3, 867; Id., Sez. I, 6 giugno 2018, n. 710 T.A.R. Friuli Venezia-Giulia, Trieste, Sez. I, 12 marzo 2018, n. 63, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Secondo la Corte di Cassazione (ex multis: Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 31007, in www.dejure.it) dal risarcimento del danno spettante al militare che abbia contratto una patologia tumorale a seguito dell’esposizione all’uranio impoverito durante una missione internazionale va detratto, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, l’indennizzo a questi erogato ex art. 2, c. 78 e 79, l. n. 244/2007 (ratione temporis applicabile), essendo una elargizione avente finalità compensativa posta a carico del medesimo soggetto (pubblica amministrazione) obbligato al risarcimento del danno.
[21] Il criterio del “più probabile che non” è stato posto alla base della responsabilità dell’amministrazione della difesa in diverse altre sentenze. A titolo esemplificativo si può citare T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «a causa dell’impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto, e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei Teatri Operativi, non debba essere richiesta la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione, in termini probabilistico-statistici…». In termini analoghi vedasi anche T.A.R. Liguria, Genova, Sez. I, 29 settembre 2016, n. 956, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «il verificarsi dell’evento costituisce ex se un dato sufficiente, secondo il cosiddetto “criterio di probabilità”, a far sì che le vittime delle patologie abbiano diritto ai benefici previsti dalla legislazione vigente ogni qual volta, accertata l’esposizione del militare all’inquinante in parola, l’amministrazione non riesca a dimostrare che essa non abbia determinato l’insorgenza della patologia e che questa dipenda, invece, da fattori esogeni dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica».
In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Cons. St., Sez. II, 20 aprile 2022, n. 2991, in Foro amm., 2022, 4, II, 496; Cons. St., Sez. II, 12 aprile 2022, n. 2742, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “il militare che sostiene la commissione di illecito civile da parte della P.A. deve provare la connessione fra neoplasia e esposizione all’uranio. Il militare interessato a percepire la speciale elargizione di cui all'art. 5, comma 1, della l. n. 206 del 2004 non deve dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito e neoplasia, essendo, invece, necessario un tale accertamento qualora lo stesso proponga una domanda risarcitoria, ossia assuma la commissione di un illecito civile da parte dell’Amministrazione.
[23] Ex multis, Cons. St., Sez. I, parere, 13 luglio 2023, n. 1030, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2017 n. 4619; Id., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076; Cons. St., Sez. II, 8 maggio 2019, n. 297, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[25] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1510; Cons. St., Sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[26] Cfr., Cass. civ., Sez. Lav., Sez. III, 17 febbraio 2019, n. 1052, in Giust. civ. Mass., 2019; Cons. St., Sez. IV, 4 luglio 2011, n. 3967, in Foro amm.-CdS, 2011, 7-8, 2482.
[27] Cfr., Cons. St., Sez. IV, 29 gennaio 2015, n. 430; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 28 settembre 2020, n. 9807, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Ex. multis, cfr. Cons. St., Sez. I, 10 luglio 2023, n. 1013, in www.giustizia-amministrativa.it.
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