ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il 6 aprile u.s. è stata pubblicata l’importante sentenza delle Sezioni Unite n. 9479/2023 sulla tutela del consumatore nell’esecuzione forzata fondata su titolo costituito da decreto ingiuntivo non opposto. La Corte ha affrontato il delicato problema posto da quattro coeve pronunce della CGUE, emesse dal Collegio della Grande Sezione in data 17 maggio 2022 (sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco; sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza; sentenza in C-725/19, Impuls Leasing Romania; sentenza in C-869/19, Unicaja Banco), una delle quali (sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza) a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Milano con ordinanze del 10 agosto 2019 e del 31 ottobre 2019. La questione posta da quest’ultima richiesta pregiudiziale può essere sintetizzata nei seguenti termini: «(…) se l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. Nella causa C-831/19, esso chiede altresì se la circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva abbia una qualsivoglia rilevanza al riguardo».
La questione era giunta alla S.C. grazie al ricorso straordinario di un consumatore che, dopo aver subìto l’espropriazione forzata di un immobile in qualità di garante di un’impresa di costruzioni, aveva sollevato in fase di distribuzione del ricavato una contestazione sull’inesistenza del credito della banca procedente perché il decreto ingiuntivo non opposto, in base al quale l’esecuzione era stata compiuta, era stato emesso da giudice territorialmente incompetente (nullità di protezione). Dopo un’ordinanza negativa del g.e., l’opposizione ex art. 617 c.p.c. proposta dal consumatore era stata rigettata dal tribunale, e la relativa sentenza era stata appunto impugnata con ricorso straordinario.
Tuttavia, prima della celebrazione della pubblica udienza (fissata per l’indubbia rilevanza delle questioni implicate) il ricorso veniva rinunciato. Ciò che non ha impedito alla Corte, dopo la declaratoria dell’estinzione, di pronunciare taluni princìpi di diritto d’ufficio a norma dell’art. 363, comma 3, c.p.c. Premette infatti la Corte: «L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, ex art. 363 c.p.c., non ha “un carattere meramente esplorativo o preventivo”, ma si lega necessariamente alla fattispecie concreta oggetto di cognizione (Cass., S.U., n. 404/2011 e Cass., S.U., n. 23469/2016). E ciò anche là dove la norma anzidetta intesta tale potere direttamente in capo alla Corte di cassazione (terzo comma dell’art. 363 c.p.c.) e ne attiva, dunque, la funzione nomofilattica pur a prescindere, eccezionalmente, dalla decisione sul fondo delle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio. Dunque, anche nell’applicazione dell’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge rimane viva e vitale quella necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e i “fatti della vita” portati dalle parti dinanzi al giudice. Ciò dà fondamento alle ragioni di una disciplina che, a fronte di questioni di diritto e di fatto rivestenti particolare importanza, consente di pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente sulla concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili (tra le altre, Cass., S.U., n. 27187/2007 e Cass., S.U., n. 19051/2010)» (sentenza, § 3.).
Senonché – è curioso rilevarlo in limine – nonostante la premessa incentrata sul comma 3 dell’art. 363 c.p.c., le SS.UU. incorrono in un incidente freudiano. Infatti, dopo aver giustificato (a fronte della norma che parla di inammissibilità del ricorso, previsione che dalla stessa Corte è stata estesa a tutti i casi in cui il ricorso non può essere deciso nel merito) la declaratoria d’ufficio dei principi di diritto “nell’interesse della legge”, la Corte motiva che la questione «per i connotati che la caratterizzano e per le implicazioni che ne discendono, si presta, altresì, ad essere esempio paradigmatico di come possa trovare virtuosa applicazione l’istituto, di nuovo conio, del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363-bis c.p.c. (introdotto dall'art. 3, comma 27, lett. c, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con decorrenza dal 1° gennaio 2023 per effetto dell'art. 35, comma 7, del citato d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lett. a), della legge 29 dicembre 2022, n. 197), rimesso alla valutazione del giudice di merito in base a concorrenti presupposti (questione di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio non ancora risolta da questa Corte di cassazione, che presenta gravi difficoltà interpretativa e che è suscettibile di porsi in numerosi giudizi), tutti ricorrenti nel caso in esame» (§ 2.3.). Al punto che, nel prosieguo della motivazione, la Corte appare del tutto dimentica dell’art. 363, comma 3, c.p.c., e parla della «presente pronuncia nomofilattica ex art. 363-bis c.p.c.» (§ 6.), come se, appunto, un giudice di merito l’avesse investita ab origine di una questione pregiudiziale interpretativa. Il lapsus è rivelatore, perché da un lato riflette l’attuale tensione della Corte verso una giurisdizione “nomofilattica” in quanto meramente consultiva e “in purezza”, dall’altro lato mette in luce lo stretto legame esistente tra i due istituti che in vari contributi, apparsi anche su questa Rivista, abbiamo appunto identificato come gli indici (o i sintomi) più significativi del mutamento istituzionale (in atto e in prospettiva) della nostra Cassazione. Al punto che la stessa Corte sembra confondere i due istituti in maniera piuttosto plateale.
Torniamo ora alla questione posta dalla GCUE.
Il problema da risolvere non era di poco momento, perché invitava a ripensare criticamente i poteri cognitivi del giudice del monitorio e l’efficacia del decreto ingiuntivo non opposto, nonché i poteri del giudice dell’esecuzione in relazione al titolo esecutivo costituito dal decreto. Le sentenze della CGUE avevano sollevato un ampio dibattito e molte soluzioni erano state indicate (anche dalla P.G.) sul piano dell’adeguamento giurisprudenziale; tenuto conto che una questione dirompente come quella della stabilità del giudicato e dei poteri del g.e. rispetto al titolo esecutivo “passato in giudicato” (nei limiti in cui questa formula possa essere richiamata a proposito del decreto ingiuntivo non opposto) avrebbero potuto giustificare un intervento del legislatore con l’introduzione di una disciplina ad hoc per la tutela speciale del consumatore.
Personalmente, avevo pensato – mantenendo la questione sul piano dell’adeguamento giurisprudenziale, dato lo scarso interesse che il legislatore ha sempre colpevolmente mostrato per questioni similari – che l’occasione era propizia per rivedere, a diritto positivo invariato, l’orientamento della giurisprudenza consolidata sull’estensione del giudicato derivante dal decreto ingiuntivo non opposto (La Corte di Giustizia stimola una riflessione su contenuto e limiti della tutela monitoria, in Rass. esec. forz., 2023, 126 ss.), sembrandomi irragionevole ritenere – come appunto la giurisprudenza fa – che un titolo emesso senza previo contraddittorio possa attingere gli stessi risultati della sentenza passata in giudicato anche sui “presupposti impliciti” e “logicamente necessari”; e avevo pensato che, una volta “degradato” il decreto ingiuntivo non opposto al rango di un titolo stragiudiziale, gli strumenti interni al processo esecutivo (dal potere di rilevazione d’ufficio del g.e. alle opposizioni esecutive) avrebbero consentito di fornire una risposta tranquillante alle questioni poste dalla CGUE senza compiere totali stravolgimenti della normativa di riferimento, che stimavo (sbagliando, evidentemente) impossibili in via interpretativa perché appunto riservati al legislatore (cfr. A.M. Soldi – B. Capponi, Consumatore e decreto ingiuntivo: le soluzioni ermeneutiche percorribili per l’integrazione tra diritto eurounitario e diritto interno, in www.judicium.it dal 10 febbraio 2023). D’altra parte, a supporto della mia opinione avevo rilevato che nessuna norma del procedimento speciale parla mai della formazione del giudicato sul decreto ingiuntivo perché il fenomeno regolato, e che continuamente riemerge nella disciplina speciale degli artt. 633 ss. c.p.c., è unicamente quello dell’esecutorietà del decreto. Anche la prospettiva storica mostra che il nostro legislatore non si è mai preoccupato di associare alla produzione dell’effetto di esecutorietà il diverso effetto della formazione del giudicato: l’art. 6, comma 1, r.d. 24 luglio 1922, n. 1036, si limitava infatti a prevedere che «qualora non sia proposta l’opposizione nel termine stabilito, il decreto d’ingiunzione acquista forza di sentenza spedita in forma esecutiva ed è titolo per la ipoteca giudiziale»; tale formula venne sostituita dall’art. 16, comma 1, r.d. 7 agosto 1936, n. 1531, con la seguente: «quando non sia stata fatta opposizione nel termine stabilito il conciliatore, il pretore o il presidente, su istanza anche verbale del ricorrente, dichiara la definitiva esecutorietà del decreto», e, in sostanza, tale lezione è quella ribadita dall’attuale art. 647 c.p.c. Mi sembrava quindi che, tutto sommato, le sentenze della CGUE imponessero un ripensamento non di una norma (che non c’è) bensì soprattutto di un orientamento giurisprudenziale tanto consolidato quanto opinabile perché metteva sullo stesso piano la sentenza e il decreto ingiuntivo non opposto.
Le SS.UU. sono state di diverso avviso, e dopo una complessa motivazione hanno deliberato il seguente dispositivo:
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara l’estinzione del giudizio di legittimità per intervenuta rinuncia e, nell’interesse della legge, enuncia i seguenti principi di diritto:
Fase monitoria
Il giudice del monitorio:
a) deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
b) a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione: b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;
b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;
c) all’esito del controllo:
c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;
c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla
anzidetta effettuata delibazione;
c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.
Fase esecutiva
Il giudice dell’esecuzione:
a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;
(ulteriori evenienze)
e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
Fase di cognizione
Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:
a) una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
b) procederà, quindi, secondo le forme di rito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 7 febbraio 2023.
Siamo, probabilmente, dinanzi al dispositivo più articolato e complicato mai pronunciato dalla Cassazione. E siamo, all’evidenza, dinanzi a una decisione che non interpreta (secondo quanto previsto dall’art. 363 bis c.p.c., norma alla quale la Corte si è all’evidenza ispirata) bensì crea nuovo diritto, piegando alle necessità del caso “consumeristico” una serie di istituti processuali che, sinora, avevano ricevuto una diversa applicazione. Oltre la giustezza o l’opinabilità delle ricostruzioni offerte dalle SS.UU. un dato risulta chiaro: la Corte ha fatto quel che avrebbe potuto fare il legislatore, posto che siamo ben oltre la mera interpretazione del diritto esistente (anche di matrice “giurisprudenziale”). Ha fatto ciò che normalmente non fa la Corte costituzionale, quando si arresta dinanzi al potere discrezionale del legislatore, cui implicitamente rinvia la soluzione del caso.
Nell’economia del discorso che stiamo svolgendo – che riguarda soprattutto il ruolo che la Corte intende occupare nel futuro della “nomofilachia” – non è necessaria un’analisi dettagliata delle varie prescrizioni di questo interminabile dispositivo “creativo”. Basti tuttavia osservare:
-l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, secondo l’art. 650 c.p.c., deve essere giustificata (comma 2) da irregolarità della notificazione del decreto, caso fortuito o forza maggiore, e non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione (comma 3); quella di cui parlano le SS.UU. ne conserva il nome, ma si tratta in realtà di istituto che ha presupposti del tutto diversi;
-il giudice dell’opposizione a precetto, dovendo “riqualificare” l’opposizione esecutiva in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., perde il potere di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo (art. 615, comma 1, c.p.c.) a vantaggio del potere sospensivo del giudice dell’opposizione tardiva ex art. 649 c.p.c., che, tuttavia, tale potere potrà esercitare in tempi anche di molto posposti rispetto a quelli del giudice dell’opposizione a precetto (che viene così privato di un potere che la legge gli attribuisce);
-allo stesso modo, il g.e., investito della fase sommaria dell’opposizione all’esecuzione, non potrà sospendere l’esecuzione (art. 624 c.p.c.) bensì dovrà, con un implicito provvedimento di rimessione in termini (che forse dovrebbe competere al giudice adito), invitare l’esecutato a proporre, nei quaranta giorni successivi, l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., impegnandosi, dal canto suo, a non provvedere sulla vendita o l’assegnazione in attesa che il giudice dell’opposizione tardiva provveda ex art. 649 c.p.c.; siamo sempre dinanzi a una dilazione degli atti simile alla sospensione (avverso la qual dilazione non sarà però esperibile il reclamo nelle forme del cautelare), ma coordinata a una situazione processuale del tutto nuova: in cui il g.e., in sostanza, ravvisa una sorta di pregiudizialità a favore del giudice dell’opposizione tardiva (dinanzi al quale il giudizio ancora non pende) che non gli consente di provvedere sull’opposizione esecutiva (che deve cedere il passo all’opposizione tardiva a d.i.); potere che dovrebbe tuttavia riemergere qualora, nonostante il suo invito, l’interessato non sperimenti l’opposizione tardiva a d.i. nel termine assegnato, ipotesi peraltro non presa in diretta considerazione dalle SS.UU.;
-a sua volta il g.e., per verificare la presenza di clausole abusive nel contratto che ha dato origine all’ingiunzione non opposta, deve svolgere un sommario accertamento documentale che di norma gli è precluso, perché i titoli esecutivi di formazione giudiziale non possono essere sindacati nel loro intrinseco ovvero ripercorrendo criticamente il processo della loro formazione. Il richiamo alle controversie distributive e all’accertamento dell’obbligo del terzo appare fuori luogo, perché in quei casi il g.e. è chiamato a svolgere, ai soli fini interni all’esecuzione in atto, un accertamento sommario in difetto del quale il processo esecutivo non potrebbe andare avanti, mentre nel caso attuale quel processo deve, semmai, arrestarsi;
-qualora risulti proposta l’opposizione all’esecuzione (art. 615, comma 2, c.p.c.) o altra opposizione esecutiva (l’esecuzione è dunque già iniziata), il g.e. dovrà assegnare al consumatore termine di quaranta giorni per proporre l’opposizione tardiva a d.i., ma non è chiaro quale sarà la sorte dell’opposizione già proposta, fermo restando che il g.e. non potrà né autonomamente sospendere né compiere atti della procedura sin quando il giudice dell’opposizione tardiva non si sia pronunciato a norma dell’art. 649 c.p.c. E mentre l’opposizione a precetto va “riqualificata”, le SS.UU. non si spingono ad affermare che identica sorte spetta alle opposizioni esecutive, il che pone il problema dei rapporti con l’opposizione tardiva a d.i. di successiva instaurazione (ma di fatto “pregiudiziale”).
Molto altro potrebbe dirsi e, siamo certi, molto altro sarà detto nei più ragionati commenti a questa “rivoluzionaria” sentenza delle SS.UU.; dal nostro limitato angolo prospettico, è però sufficiente osservare che la Cassazione ha colto una ghiotta (dal suo punto di vista) occasione per annunciare al mondo dei giuristi quali traguardi futuri intende prefiggersi: la creazione di un diritto “libero” in cui gli istituti disegnati dai codici possono tradursi, al più, in fonte di ispirazione per adattamenti e manipolazioni ormai del tutto svincolati dal dato normativo e dalle concezioni sinora ricevute anche del rapporto tra cognizione ed esecuzione. La funzione interpretativa delle leggi viene surclassata dalla funzione di pura creazione di regole nuove, che confliggono con l’esistente giustificandosi con esigenze di tutela “speciale”. Un potere di simile estensione non è mai stato riconosciuto neppure alla Corte costituzionale, che pure è il “giudice delle leggi”.
Saranno, evidentemente, gli interpreti e soprattutto i giudici di merito a dirci se questi programmi potranno trovare conferma, e se essi saranno disposti ad applicare norme, specie processuali, coniate dalla Cassazione spigolando qui e là da un dato positivo che si mostra sempre più incerto e recessivo.
Indice: 1. Un’attrazione fatale - 2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio - 3. Il problema del punto di equilibrio - 4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020 - 5. L’importanza di una logica di sistema - 6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
1. Un’attrazione fatale.
In maniera molto efficace, un articolo recentemente apparso su una rivista giuridica è stato titolato “L’attrazione fatale per il delitto di abuso di ufficio” (Gianluca Ruggiero, L’attrazione fatale per il delitto di abuso d’ufficio, in CamminoDiritto.it, 25 01 2023), volendo con ciò l’Autore sottolineare il fatto che il desiderio di rimaneggiare questa fattispecie penale sia praticamente quasi irrefrenabile per qualsiasi Governo che si sia alternato alla guida della nostra Repubblica negli ultimi anni o decenni.
Anche tra i (primi e) principali obbiettivi programmatici della legislatura appena iniziata figura infatti la riforma dell’abuso d’ufficio, nonostante dagli anni novanta in poi il testo originario del 1930 abbia subito non poche e non poco profonde modifiche che lo hanno già di molto allontanato dalla primigenia versione.
Nella sua veste originaria, l’abuso in atti d’ufficio è, come suol dirsi, “innominato”. Nel disegno originario del codice penale del 1930, l’abuso d’ufficio è descritto all’art. 323 con formula semplice, ma molto elastica perché strettamente correlata all’elemento finalistico dell’azione del pubblico ufficiale, il quale viene sanzionato (penalmente) se e quando usa per perseguire finalità diverse da quelle ipotizzate dal legislatore il potere pubblico che gli è stato attribuito : viene punito il pubblico ufficiale che «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge>>. Nella formulazione originaria, si noti, il termine “abuso” compare sia nella rubrica, che nel corpo della disposizione normativa, esprimendo con ciò chiaramente una stretta correlazione con l’elemento finalistico dell’azione amministrativa.
L’idea dell’abuso ha infatti in sé quella della spettanza del potere che venga esercitato perseguendo finalità diverse da quelle per le quali il potere è stato conferito dalla legge. Si tratta di una considerazione che non rimane limitata all’ambito strettamente penalistico. Specie nei tempi più recenti, la crescente rilevanza assunta nell’ordinamento dalle tematiche dell’abuso del diritto, dell’abuso del processo, del contratto “giusto” (per non parlare della figura tradizionalmente nota al diritto amministrativo come eccesso di potere) mostra chiaramente come la categoria dommatica dell’abuso possa valere per individuare una figura generale correlata all’elemento finalistico dell’azione (e in ptcl alla deviazione dell’azione dal fine).
L’esercizio di un diritto o di un potere giuridico non viene più protetto, ma diviene illecito, se viene compromesso il motivo, la ragione che nella coscienza sociale, come cristallizzata dal legislatore, ne ha giustificato la protezione. L’esercizio del diritto che risulti “sproporzionato” viene sanzionato. E valutare se una certa azione risponda o meno ad un principio di proporzionalità apre inevitabilmente le porte al sindacato sulle ragioni e sulla finalità della protezione di un dato interesse.
In un ordinamento di civiltà giuridica evoluta, che non protegge più il diritto come jus utendi ac abutendi, la tematica dell’abuso d’ufficio merita dunque innanzi tutto di essere inquadrata in una logica più generale di sistema, che deve decidere se e come sanzionare le deviazioni dell’azione concreta dalle finalità per le quali l’ordinamento riconosce determinati interessi, pubblici o privati, come meritevoli di tutela e attribuisce ai soggetti, pubblici o privati, i poteri necessari per la cura di tali interessi: se solo sul piano amministrativo, o anche su quello civile e su quello penale; con intensità diversa e crescente a seconda della gravità dell’abuso.
La figura originaria dell’abuso d’ufficio, destinata ad essere applicata solo in via sussidiaria e comunque stretta dalle figure tipiche del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio, s’iscrive pienamente in un disegno generale che ritiene rilevante e quindi sanziona l’abuso su tutti e tre i piani suddetti (amministrativo, civile e penale). (SISTO : ritiene che ci sia bisogno di tutela penale sotto questo profilo).
Direi che questo è il punto di partenza di qualsiasi discorso sull’abuso d’ufficio.
2. La parabola della disciplina dell’abuso d’ufficio.
La successiva parabola della figura si caratterizza per l’assorbimento in essa della fattispecie dell’“interesse privato in atti d’ufficio” e per la progressiva limitazione della possibilità del sindacato giudiziario attraverso ripetuti tentativi di tipizzare maggiormente l’ipotesi delittuosa, in origine “innominata”.
Il filo conduttore che ispira i diversi interventi che si susseguono è sempre lo stesso: cercare di limitare quella che viene ritenuta un’eccessiva ingerenza del giudice penale nell’attività della PA; e i tentativi vanno sempre nella direzione di limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale (nel merito de) sull’azione amministrativa, relegando tale possibilità al mero vaglio di legalità della formale violazione di legge e di regolamento.
Questo processo approda alla riforma del 2020, che interviene sulla riscrittura fatta solo tre anni prima con l’effetto di espungere quasi del tutto la rilevanza dell’elemento finalistico dalla fattispecie: il sindacato del giudice penale sul fine non è più possibile se non è riconducibile ad una violazione di legge in senso proprio. In sostanza: ad una mancanza di potere. Non c’è il potere di perseguire quel dato fine. Il sindacato di ragionevolezza sulla scelta (come vizio autonomo rispetto alla violazione di legge), in ultima analisi, rimane fuori.
Il generico riferimento all’abuso dell’ufficio, rimasto solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen., era stato già dismesso con la modifica del 1997, che aveva individuata la condotta tipica nella «violazione di norme di legge o di regolamento» (ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti»). Nel 2020 si specifica ulteriormente che il pubblico ufficiale è punibile unicamente se la condotta è posta in essere “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Nel 2020 il confine viene quindi riposizionato in maniera molto chiara e netta eliminando la possibilità di sindacato sulla discrezionalità
3. Il punto di equilibrio.
Credo che, tutto sommato, il nuovo punto di equilibrio tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale, sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico, potesse esser ritenuto anche soddisfacente, se visto in relazione all’obbiettivo che si è voluto raggiungere nel 2020.
Solo per fare un esempio, cito il caso deciso da Cassazione Sesta Penale sentenza n. 1146 del 8 1 2021, nel quale il Commissario straordinario e Direttore generale di una Azienda Ospedaliera era stato condannato in primo e secondo grado nel presupposto che avesse illegittimamente dequalificato un dato servizio., da struttura complessa a struttura semplice, al fine di demansionare la posizione giuridica ed economica del suo Direttore; finalità desunta da una serie di indici sintomatici, tra cui l'assenza di una seria e urgente finalità riorganizzativa dell'Azienda, neppure esplicitata in atti, e il difetto del necessario presupposto dell'adozione del c.d. atto aziendale.
Figure sintomatiche; vizi procedimentali.
Val la pena ripercorrere la motivazione della sentenza, che illustra in maniera presso che esemplare il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020:
“Premesso che la ragion d'essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod. pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante - introdotti dalla più recente riforma - sono costituiti dalle <<specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati - dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione "mediata" di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero "cattivo uso" - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa. … …
La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di ufficio (ne) restringe l'ambito di operatività (escludendo che assuma rilevanza ai fini della fattispecie penale) la violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità". La sentenza non rappresenta certo un unicum. Tra le tante si può ricordare v. ad es. anche Cassazione Sezione Sesta, 8 1 2021 n 442, (annotata da A. Crismani La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio, in GiustiziaInsieme, 29 aprile 2021), nella quale parimenti si afferma in maniera chiara che “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
4. Rilevanza del contesto in cui matura la riforma del 2020.
Merita di essere sottolineato il contesto nel quale è maturata la scelta di riposizionare il confine nei termini appena ricordati. La scelta si è consumata infatti in occasione dell’evento pandemico, allorquando si sono dovuti ideare e programmare interventi pubblici straordinari per garantire la ripresa economica del Paese.
Il programma di intervento straordinario voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale viene sviluppato in Italia, come noto, dal PNRR. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Il timore che l’obbiettivo della ripresa economica potesse essere compromesso dall’inefficienza della Pubblica amministrazione ha fatto sì che siano state da subito previste misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano, approntando uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa.
L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni.
Le principali misure di “semplificazione” specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure) e si sviluppano lungo tre linee direttrici.
La prima linea d’intervento ha interessato la disciplina dei procedimenti amministrativi in quanto tali, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque con certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il dl. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare i meccanismi sostitutivi commissariali (non sostituendo ab origine l’organo, ma solo in corso di attività) in corso di in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La seconda linea d’intervento è stata quella che lo stesso legislatore a volte ha definita come della “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. Sotto questo profilo, le misure possono distinguersi a seconda che siano volte a limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto ovvero a cercare di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art 4 del dl 76/2020, espressamente volto a disciplinare il rapporto tra ricorsi giurisdizionali e conclusione dei contratti pubblici, reca diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art 125 comma 2 del cpa agli appalti aggiudicati entro il 31 dicembre 2021, il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori.
L’art 6 reca invece previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento, recuperando /introducendo la figura del Collegio Consultivo Tecnico. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, il CCT deve essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
La terza linea d’intervento seguita è stata infine quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”.
Non si è intervenuti solo sull’abuso di ufficio. Prima ancora (con l’art. 21 del d.l. n 76 del 2020)si è intervenuti sul problema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile.
Si è poi intervenuti anche sull’abuso di ufficio, con l’art. 23, circoscrivendo il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità: le parole “in violazione di norme di legge o di regolamento” vengono sostituite con “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalle legge o da atti aventi forza di legge e delle quali non residuino margini di dicrezionalità”, rendendo evidente la già sottolineata tendenza a limitare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice penale nel merito dell’azione amministrativa.
5. L’importanza di una logica di sistema.
Ho insistito nel richiamare gli elementi del contesto in cui matura la riforma dell’istituto nel 2020, poiché ciò rende evidente come l’intervento riformatore, piaccia o meno la ridefinizione dei confini operata, abbia trovato fondamento giustificativo nell’ambito di un insieme complesso di misure, di diversa natura, dichiaratamente volte a comprimere e sacrificare le garanzie di legalità dell’azione amministrativa a vantaggio di una logica di puro risultato, divenuta prioritaria per non perdere l’occasione irripetibile di utilizzo di risorse straordinarie volte a garantire la ripresa economica dopo l’emergenza del periodo pandemico. Si è comunque mosso in una logica di sistema.
Tant’è vero ciò che proprio sulla base di questa considerazione la Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 18 1 2022, respinge i motivi d’incostituzionalità sollevati per il fatto che la riforma fosse stata introdotta con decreto legge. Vale la pena ricordarne il passo saliente della motivazione sul punto: “Il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato ad una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22 del 2012). Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che rileva è dunque il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza (sentenze n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Anche su tale fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità ed urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021). Alla luce dei principi ora ricordati, le censure del giudice rimettente non possono essere condivise. Non si può ritenere, anzitutto, come egli opina, che la norma censurata sia «eccentrica ed assolutamente avulsa», per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita. Come emerge dal preambolo, dai lavori preparatori e dalle dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l’approvazione, il d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica. In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici”.
Insomma, la riforma del 2020 ha avuto il suo fondamento giustificativo proprio nell’urgenza di provvedere per privilegiare la valutazione dell’azione amministrativa, a tutto tondo (in tutte le materie), secondo una logica di risultato anzichè di pura legalità. Si è mosso in una logica di sistema.
6. È davvero necessaria una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?
Si torna oggi nuovamente a parlare della necessità di riformare l’istituto. Perché?
Siamo fuori dalla logica di sistema che si è sopra ricordata.
Come fondamento giuridico si evoca il dato statistico (ma, a fronte della considerevole mole dei procedimenti aperti, ben pochi si concludono con una condanna) o il puro e semplice fatto che il funzionario ha paura d’incorrere in responsabilità penale (ma le figure di reato esistono apposta per fare paura).
Le ragioni addotte non paiono dunque convincenti, ma rimane il fatto che il tema riemerge comunque periodicamente in maniera carsica. E ciò si verifica perché, come ben sintetizzato dalla citata Corte cost. 8/22, “la figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolve(ndo) una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (e) rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante”.
La vera questione quindi è e rimane se debba esserci o meno un presidio anche penale per lo sviamento (radicale) dalla funzione amministrativa.
Credo sia difficile modificare ancora il punto di equilibrio raggiunto con la riforma del 2020, tra le valutazioni discrezionali dell’amministratore pubblico e quelle del giudice penale sul se e come sia stato effettivamente curato un dato interesse pubblico; credo sia cioè difficile spostare ulteriormente il confine senza rinunciare completamente alla figura dell’abuso d’ufficio.
Sul fronte della discrezionalità si è già agito e non si vede come si possa andare oltre.
Si può andare oltre solo escludendo la possibilità di ravvisare l’abuso anche in caso di vera e propria mancanza di potere, di comportamenti cioè puramente arbitrari. La figura classica dello sviamento. Ma questo significherebbe praticamente escludere in radice la possibilità di punire il funzionario che abbia agito senza che nessuna norma di legge gli abbia attribuito il potere. Meglio dire chiaramente che il reato viene abrogato.
Oppure si può escludere una (buona) parte dell’azione amministrativa dall’ambito di applicazione. Il che avverrebbe escludendo l’abuso di vantaggio. Ma ciò significa rinunciare a presidiare penalmente violazioni del principio d’imparzialità per la metà forse più significativa dell’azione amministrativa distributiva di vantaggi e ricchezza.
Non credo vi siano ragioni di sistema che impongano di tornare sul tema per migliorarlo.
Credo più semplicemente che, nel suo carsico fluire, la classica tensione tra sindacabilità e insindacabilità delle scelte amministrative da parte del giudice penale stia riemergendo in un momento storico che vede la magistratura in posizione di particolare debolezza, e la politica particolarmente forte grazie a una maggioranza solida e stabile. E la classe politica stia cercando di cogliere l’occasione non già per riposizionare un confine, ma per eliminare la possibilità di sindacato del giudice penale sul perseguimento di fini illeciti da parte della pubblica amministrazione. E’ una questione di rapporti di forza tra poteri, non di sistema.
[1] L’articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno del 31 gennaio 2023 su “Abuso d’ufficio e diritto alla buona amministrazione”organizzato dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Bari Aldo Moro.
Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Alice Giannini, dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e presso l’Università di Maastricht, vincitrice della prima edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone era un giovane magistrato che, fino alla sua morte a soli 36 anni, ha prestato servizio presso il Tribunale di Roma, dove ha trattato tra l’altro il processo relativo ai depistaggi nel caso Cucchi, e che prima di entrare in magistratura aveva dedicato ampia parte delle sue energie intellettuali alla ricerca accademica in materia penalistica, con un percorso di ampio respiro internazionale. Aveva infatti effettuato periodi di tirocinio presso Istituzioni europee, vinto borse di studio e svolto periodi di ricerca presso importanti istituti stranieri, fino al dottorato di ricerca in cotutela internazionale tra l’Università La Sapienza di Roma e l’Università Paris II Patnhéon Assas di Parigi. La comparazione, lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione, è lo strumento che Giulia ha scelto, convinta che fosse l’unico utile, nel diritto come nella vita.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatori che, con quello stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri. E il testimone è stato raccolto da Alice Giannini, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso la University of California Hastings College of the Law, San Francisco, e coronata con la cotutela internazionale attivata tra l’Università di Firenze e quella di Utrecht per il suo progetto di ricerca intitolato “Criminal behaviour and accountability of Artificial Intelligence Systems”, nell’ambito del Curriculum internazionale European and Transnational Legal Studies.
Accogliendo Alice tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Alice, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1350-giulia-cavallone-un-ricordo
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022
Navigating the Grey Area: brevissime riflessioni su IA, “nuovi” dilemmi morali e responsabilità penale
Alice Giannini*
Sommario: 1. Introduzione – 2. Un problema di “allineamento”? La formalizzazione di scelte morali – 3. Una vita vale più di mille? L’esempio di bilanciamento tedesco
1. Introduzione
I dilemmi morali costituiscono scenari ipotetici allettanti: sono in grado di suscitare una discussione accesa in qualsiasi tipo di uditorio. La loro attrattiva risiede anche nel fatto che contribuiscono a illustrare i valori fondamentali di una cultura giuridica in un modo accessibile a un pubblico più ampio.[1] Spesso, le soluzioni proposte per risolvere tali dilemmi sono connesse alla discussione dell’attribuzione di responsabilità per le conseguenze dannose derivanti dall’una o dall’altra scelta. Il tema non è nuovo al diritto penale, ma ha riacquistato notorietà con il diffondersi di sistemi di intelligenza artificiale (IA) sempre più avanzati.
Probabilmente il dilemma morale più “famoso” è il c.d. “trolley problem” (problema del carrello ferroviario). Immaginate di essere il conducente di un carrello che si dirige verso cinque operai che stanno riparando i binari. Per evitare di investire i cinque operai, dovete fermare il carrello, ma vi rendete conto che i freni non funzionano. Vedete un binario laterale sulla destra, sul quale c’è un solo operaio. A questo punto vi si presentano due scelte: far virare il carrello a destra e uccidere un uomo, oppure continuare ad andare dritto e uccidere cinque operai.[2] Con lo sviluppo delle tecnologie di IA, in particolare nel settore dei veicoli a guida (semi) autonoma, e la conseguente attenzione dedicata ad una loro possibile regolamentazione, è nato anche un dibattito su come si dovrebbe comportare il sistema di guida in caso di un incidente stradale ricostruito in termini di dilemma morale, nonché su chi dovrebbe essere destinatario di responsabilità a causa dei danni causati in seguito alla scelta posta in essere da tale sistema.[3]
In via generale, vi è uno sbilanciamento tra l’emergere di nuove tecnologie e la loro regolamentazione. Non sorprende la lentezza nella regolamentazione dell’IA tramite hard-law, soprattutto in un campo delicato come quello del diritto penale. Come è stato osservato, “il ramo legislativo sembra muoversi a una velocità trascurabile rispetto ai progressi tecnologici, rafforzando la percezione che la normazione tradizionale non sia adatta a questa sfida”.[4] Tra le possibili cause, gli autori citano “la mancanza di una definizione esauriente e precisa di IA... aggravata dal fatto che la definizione cambia con l’evolversi della tecnologia”.[5] Rileva notare come il dibattito in materia sia polarizzato. Da un lato, vi è chi sostiene che la regolamentazione “soffochi” l’innovazione, dall’altro, vi è chi crede in una “politica anticipatrice” del diritto.[6] Senz’altro, nel campo dell’IA è possibile rilevare un divario enorme fra lo sviluppo di varie forme di linee guida/principi etici e quello di leggi (o altre disposizioni vincolanti ad esse assimilabili). Ciò è dimostrato dall’impennata nell’elaborazione di principi relativi all’ “IA etica” negli ultimi 5 anni.[7]
Il settore della guida (semi)automatizzata è stato di recente teatro di numerosi incidenti che hanno chiamato in causa l'applicazione del diritto penale. Si pensi ad esempio al sinistro avvenuto nel 2018 a Tempe, Arizona, che ha portato all’uccisione di una donna in seguito all’impatto con un veicolo di prova di Uber (classificato come livello 3 di automazione)[8] a bordo del quale si trovava un agente umano, oggi accusato di omicidio stradale colposo.[9] Ciò ha portato all’avanzare di primigenie forme di regolamentazione dell’IA specificamente attinenti ai profili di responsabilità penale.[10] Si pensi ad esempio alla recente riforma francese del Code de la Route che ha regolamentato i profili di responsabilità penale connessi all’uso di auto a guida autonoma,[11] prevedendo l’esclusione di responsabilità nel caso in cui il sistema di guida sia attivo, sia utilizzato in conformità alle istruzioni per l’utilizzo e venga commessa un’infrazione delle norme del codice della strada o i reati di omicidio e lesioni stradali.[12]
2. Un problema di “allineamento”? La formalizzazione di scelte morali.
Se si presuppone che i sistemi di IA dovranno affrontare in un futuro prossimo situazioni paradossali, quali i dilemmi morali, è necessario porsi la seguente domanda: possiamo insegnare norme morali ad un sistema artificiale?[13] In particolare, “[l]a definizione dell’algoritmo ‘morale’ delle auto senza conducente ripropone il dilemma del carrello e le sue varianti”.[14]
Gli studi su come programmare sistemi di IA “etici” sono già iniziati.[15] Nello specifico si è assistito ad un’impennata di ricerche sulla creazione di agenti morali artificiali (c.d. “AMA”), ossia su come implementare principi etici e facoltà decisionali morali nelle macchine affinché il loro comportamento possa essere ritenuto “eticamente accettabile”, sia nei confronti degli utenti umani, che di altre macchine. Gli AMA dovrebbero affrontare, o addirittura sostituire, il giudizio umano in situazioni moralmente difficili o ambigue. [16]
Uno degli esempi più noti è l'esperimento Moral Machine del MIT, realizzato come un gioco online in cui gli utenti si trovano di fronte a uno scenario che prevede un dilemma morale.[17] Nello specifico, gli utenti si devono confrontare con un incidente inevitabile e con due possibili scelte (mantenere la rotta o sterzare), che portano alla morte di un determinato numero di esseri umani o di animali (o di entrambi). Analizzando le scelte tra i “due mali” espresse dagli utenti, cioè il risultato da questi ritenuto preferibile, in combinazione con i dati demografici e il loro luogo di residenza, i creatori dell'esperimento sono stati in grado di identificare tre tendenze principali che, a loro avviso, rappresentano scorci di un’ “etica universale delle macchine”: la preferenza a risparmiare vite umane, la preferenza a risparmiare il maggior numero di vite possibili e la preferenza a risparmiare vite di persone giovani.[18]
Ricerche come quella della Moral Machine (e altre ancora) incorrono in diverse difficoltà. In primo luogo, per insegnare una regola morale a una macchina (seguendo un approccio top-down), la regola deve essere formalizzata in un linguaggio che possa essere compreso dal sistema (cioè un codice). Formalizzare le decisioni etiche è un’operazione estremamente impegnativa. Si tratta, difatti, di “delineare una moralità di tipo operazionale, che dovrebbe definire algoritmicamente le condotte morali da assumere, specie in scenari di danno inevitabile”.[19] Le regole morali sono per loro natura ambigue, quindi difficili da tradurre e da scomporre secondo una precisa struttura riproducibile tramite un algoritmo.[20] Inoltre, vi è la difficoltà nel ricostruire la flessibilità della “mente morale umana”, capace non solo di fare scelte morali in situazioni mai affrontate prima (a differenza dei sistemi di IA attuali, che si basano sull’esperienza passata) , ma anche di decidere di infrangere regole prestabilite.[21] Ciò può portare al c.d. “alignment problem”, termine utilizzato per descrivere situazioni in cui vi è un disallineamento tra valori comuni agli esseri umani e quelli espressi da un sistema di IA.[22] Esempio eclatante di tale problema è stato Tay, chatbot rilasciato da Microsoft nel 2016. Una volta permessogli di interagire liberamente online con gli utenti Twitter, Tay ha diffuso contenuti razzisti e antisemiti, dopo sole 24 ore dalla sua “nascita”.[23] Da ultimo, è importante sottolineare come non vi sia un metodo per misurare l’ “eticità” di un sistema di IA. In altri termini, al momento non esiste un “sistema etico ottimale”.[24] Ciò si riflette anche sul fatto che “dietro” la formalizzazione della regola etica vi sia sempre un essere umano, che ha i propri principi, stereotipi e convinzioni. Da un punto di vista normativo, alcuni abbandonano del tutto la questione, posto che “non si può seriamente pensare che la progettazione di regole che governano un’area così critica del progresso tecnologico debba essere messa in attesa finché i filosofi non ‘risolvono’ il trolley problem o l’infinità di esperimenti mentali ad esso assimilabili”.[25]
3. Una vita vale più di mille? L'esempio di bilanciamento tedesco
Nel maggio 2021, il Bundesrat ha approvato una legge che modifica il Codice della Strada (Straßenverkehrsgesetz - StVG).[26] Anche se non disciplina direttamente aspetti legati alla responsabilità penale, è di estremo interesse per questa riflessione, in quanto tenta di fornire una soluzione giuridica a dilemmi morali simili a quelli esaminati nel Moral machine Experiment del MIT. Così facendo, la Germania parrebbe aver aperto la strada alla regolamentazione dei livelli più alti di guida autonoma.[27]
Tra le disposizioni più interessanti di questo provvedimento vi è quella contenuta nell'articolo 1 § 1e (2)2, che elenca i requisiti tecnici che devono essere soddisfatti da un veicolo con funzioni di guida autonoma (livello 4 di automazione):
(2) I veicoli con funzione di guida autonoma devono essere dotati di un sistema tecnico in grado di,
[...]
2. rispettare autonomamente le norme del codice della strada rivolte al conducente del veicolo ed essere dotati di un sistema di prevenzione degli incidenti che
(a) sia progettato per prevenire e ridurre i danni,
(b) in caso di danni alternativi inevitabili a diversi beni giuridici, tenga conto dell'importanza dei beni giuridici, a condizione che la protezione della vita umana abbia la massima priorità, e
(c) in caso di danno alternativo inevitabile alla vita umana, non tenga conto di caratteristiche personali.[28]
La legge non chiarisce quali siano tali caratteristiche personali, né afferma se i veicoli autonomi possano decidere di scontrarsi con individui che violino le regole del traffico nel caso di un incidente inevitabile. Un elenco delle suddette caratteristiche si trova nei principi elaborati nel 2017 dalla Ethics Commission on Automated and Connected Driving nominata dal Bundesministerium für Digitales und Verkehr ai quali si ispira la legge: si tratta di età, sesso, condizioni fisiche o psichiche.
La Commissione ha pubblicato un Report nel 2017, nel quale ha elaborato venti linee guide etiche dedicate al settore della guida automatizzata.[29] Non è possibile analizzare l’intero contenuto del Report della Commissione Etica in questa breve riflessione. Ci si limiterà dunque a portare all’attenzione brevemente ad alcuni dei principi ivi contenuti. Innanzitutto, preme soffermarsi sulle regole 7 ed 8, che affrontano i casi di “situazioni pericolose inevitabili”, ossia i dilemmi morali. La regola 7 stabilisce che, in tali scenari, la protezione della vita umana deve avere la massima priorità, se bilanciata con altri interessi giuridicamente protetti. Di conseguenza, entro i limiti di ciò che è tecnologicamente fattibile, i sistemi di IA preposti alla guida del veicolo devono essere programmati per accettare danni agli animali o alle proprietà in un conflitto di interessi, se ciò significa che così facendo di possono evitare danni alle persone.
La soluzione sembra semplice, a prima vista. Eppure, si pensi al caso in cui il danno alla proprietà - che, in astratto, non dovrebbe essere preferito alla protezione della vita - equivalga a causare la fuoriuscita di petrolio da un’autocisterna o, peggio ancora, il collasso della rete elettrica di un’intera area metropolitana.[30]
In effetti, la prima parte della regola 8 riconosce che la “normalizzazione” dei dilemmi morali, cioè l'invenzione di soluzioni generalizzate basate sul “male minore” non sia sempre fattibile, in quanto “i veri dilemmi etici, come quelli relativi alla scelta tra più vite umane, dipendono dalla situazione concreta, che comprende un comportamento ‘imprevedibile’ delle parti coinvolte. Non possono quindi essere chiaramente standardizzati, né possono essere programmati in modo da essere eticamente incontestabili”.[31] L’approccio proposto dalla Commissione Etica sarebbe simile a quello adottato con le vaccinazioni, dove “l’obbligo di vaccinazione imposto per legge si traduce in una generale minimizzazione del rischio senza che sia possibile sapere in anticipo se la persona vaccinata apparterrà al gruppo dei (pochi) danneggiati (sacrificati)” e, nonostante ciò, “è nell'interesse di tutti essere vaccinati e ridurre il rischio complessivo di infezione”.[32]
In conclusione, è possibile traslare tali riflessioni al campo di applicazione del diritto penale. Ci si potrebbe domandare, in ultima battuta, se così facendo la Germania abbia posto le basi per l’esclusione di una responsabilità penale nel caso di una situazione assimilabile ad un dilemma morale “stradale”. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se sia possibile determinare l’applicazione di una scriminante (applicabile al sistema stesso – qualora si apra alla responsabilità diretta del sistema di IA – e/o al soggetto umano destinatario della norma penale, sia questo il proprietario del veicolo o il produttore) nel caso in cui l’auto effettui il bilanciamento, secondo le regole prestabilite, e ciò causi un danno penalmente rilevante. A contrario, chi dovrebbe essere responsabile qualora tale bilanciamento sia svolto erroneamente? Tali quesiti verranno lasciati di proposito aperti. È importante ridimensionare, tuttavia, il valore dei dilemmi morali quali “guide normative”,[33] soprattutto nell’ambito della diritto penale, basato su una responsabilità di natura personale, di conseguenza intrinsecamente collegata alla valutazione della singola situazione in concreto realizzatasi.
* Alice Giannini è dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e la Maastricht University. Le riflessioni proposte in questo articolo fanno parte della sua tesi di ricerca, che si concentra sulla responsabilità penale dei sistemi di intelligenza artificiale. È stata la vincitrice della prima edizione del premio Giulia Cavallone, istituito dalla Fondazione Calamandrei e dalla famiglia Cavallone per onorare la memoria della dott.ssa Cavallone, giudice del Tribunale di Roma e dottoressa di ricerca in diritto e procedura penale.
[1] H. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems”, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018, p. 60.
[2] L’invenzione di questo tipo di dilemma è attribuita a Philippa Foot. Il termine “Trolley Problem” è stato coniato più tardi da Judith Jarvis Thomson. Cfr. P. Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, in Oxford Review, Vol. 51978; J. J. Thomson, The Trolley Problem, in The Yale Law Journal, n. 66, 1985, pp. 1395-1415. Si veda inoltre E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, cit., p. 60.
[3] Sul rapporto fra dilemmi morali e diritto penale, si veda O. Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, il Mulino, 2022.
[4] P. Gomes Rêgo de Almeida, C. Denner dos Santos & J. Silva Farias, Artificial Intelligence Regulation: a framework for governance, in Ethics and Information Technology, vol. 23, 2021, p. 507.
[5] Ivi, p. 508.
[6] N. Boucher, European Parliamentary Research Service - Scientific Foresight Unit, What if AI regulation promoted innovation?, PE 729.515, 2022, p. 2.
[7] Si pensi ad esempio a; AI-HILEG, Ethics Guidelines for Trustworthy Artificial Intelligence (AI), 2019; OECD, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449; UNESCO, Recommendation on the Ethics of Artificial Intelligence, SHS/BIO/REC-AIETHICS/2021; Council of Europe - CEPEJ, European Ethical Charter on the Use of AI in Judicial Systems Council of Europe, 2018.
[8] Ai sensi degli standard sviluppati dalla Society for Automotive Engineers International (SAE), “J3016 Taxonomy and Definitions for Terms Related to Driving Automation Systems for On-Road Motor Vehicles”, Aprile 2021.
[9] National Transportation Safety Board (NTSB), Collision Between Vehicle Controlled by Developmental Automated Driving System and Pedestrian, Tempe, Arizona, March 18, 2018, Highway Accident Report NTSB/HAR-19/03. Si veda anche: A. DeArman, “The Wild, Wild West: A Case Study of Self Driving Vehicle Testing in Arizona”, Arizona Law Review, Vol. 61, 2019.
[10] Si veda, su questa Rivista sul medesimo tema, C. Corridori, Machina delinquere non potest, 19 maggio 2022. Si veda ex multis: E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, in Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018; A. Cappellini, Machina delinquere potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale, in Criminalia, 2018; L. D’Amico, Intelligenza artificiale e auto a guida autonoma. Tra prevenzione primaria, colpa penale e rischio consentito, in Riv. It. Med. Leg., vol. 3, 2022.
[11] Ordonnance n° 2021-443 du 14 avril 2021 relative au régime de responsabilité pénale applicable en cas de circulation d'un véhicule à délégation de conduite et à ses conditions d'utilisation (TRAT2034523R, JORF n°0089 du 15 avril 2021, Texte n° 36), 2021.
[12] M. Giuca, Disciplinare l’intelligenza artificiale. La riforma francese sulla responsabilità penale da uso di auto a guida autonoma, in Archivio Penale, vol. 2, 2022
[13] Ezra Klein Interviews Alison Gopnik, The New York Times, 16 April 2021.
[14] M. B. Saponaro, L’insostenibile leggerezza del tragico, in Scelte tragiche - Atti del III convegno “Medicina e diritto penale”, Taranto, 11 dicembre 2020 a cura di Giuseppe Losappio, p. 89.
[15] Si veda ex multis: E. Awad et al., Computational ethics, in Trends in Cognitive Sciences, vol. 26, Issue 5, 2022; D. Leslie, The Alan Turing Institue, Understanding artificial intelligence ethics and safety. A guide for the responsible design and implementation of AI systems in the public sector, 2019; J. Ganascia, Ethical System Formalization using Non-Monotonic Logics, in Proceedings of the Annual Meeting of the Cognitive Science Society, vol. 29, 2007; S. Serafimova, Whose morality? Which rationality? Challenging artificial intelligence as a remedy for the lack of moral enhancement, in Humanities and Social Sciences Communication, 2020; P. Schramowski et al., The Moral Choice Machine, in Frontiers in Artificial Intelligence, vol. 3, 2020; V. Charisi, Towards Moral Autonomous Systems, in arXiv:1703.04741v3, 2017.
[16] A. Martinho, Perspectives about artificial moral agents, in AI and Ethics, vol. 1, 2021, p. 481.
[17] L’esperimento è accessibile presso il sito https://www.moralmachine.net/. I risultati dell’esperimento sono discussi in: E. Awad et al., The Moral Machine experiment, in Nature, Vol. 563, 2018; E. Awad et al., Crowdsourcing Moral Machines, in Communications of the ACM, vol. 63, n. 3, 2020, pp. 48-55; E. Awad et al., Universals and variations in moral decisions made in 42 countries by 70,000 participants, in PNAS, vol. 117, n. 5, 2020, pp. 2332-2337.
[18] Awad et al., The Moral Machine experiment, cit., p. 63.
[19] M. B. Saponaro, cit., p. 89.
[20] E. Mokhtarian, The Bot Legal Code: Developing a Legally Compliant Artificial Intelligence, in Vanderbilt Journal of Entertainment and Technology Law, vol. 21, 2020, p. 173.
[21] Awad et. al, When Is It Acceptable to Break the Rules? Knowledge Representation of Moral Judgement Based on Empirical Data, in arXiv:2201.07763, 2022.
[22] I. Gabriel, Artificial Intelligence, Values, and Alignment, in Minds and Machines, vol. 30, 2020, pp. 411-437
[23] E. Hunt, Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter, The Guardian, 24 March 2016. t
[24] Mokhtarian, cit., p. 173.
[25] A. Guerra, F. Parisi & D. Pi, Liability for robots I: legal challenges, in Journal of Institutional Economics, vol. 18, n. 3, 2021, p.10.
[26] Bundestag, Gesetz zur Änderung des Straßenverkehrsgesetzes, 2021.
[27] A. Kriebitz, R. Max & C. Lütge, The German Act on Autonomous Driving: Why Ethics Still Matter, in Philosophy & Technology, vol. 35, 2022, p. 11.
[28] “(2) Kraftfahrzeuge mit autonomer Fahrfunktion müssen über eine technische Ausrüstung verfügen, die in der Lage ist,
[…] 2. selbstständig den an die Fahrzeugführung gerichteten Verkehrsvorschriften zu entsprechen und die über ein System der Unfallvermeidung verfügt, das
a) auf Schadensvermeidung und Schadensreduzierung ausgelegt ist,
b) bei einer unvermeidbaren alternativen Schädigung unterschiedlicher Rechtsgüter die Bedeutung der Rechtsgüter berücksichtigt, wobei der Schutz menschlichen Lebens die höchste Priorität besitzt, und
c) für den Fall einer unvermeidbaren alternativen Gefährdung von Menschenleben keine weitere Gewichtung anhand persönlicher Merkmale vorsieht”.
[29] Il report è disponibile presso: https://bmdv.bund.de/SharedDocs/EN/publications/report-ethics-commission.pdf?__blob=publicationFile. Gli stessi ideatori della Moral Machine fanno riferimento al lavoro della Commissione etica tedesca e affermano che il loro esperimento rappresenta il primo e unico tentativo di fornire linee guida ufficiali per le scelte etiche dei veicoli autonomi.
[30] L’esempio è fatto dalla Commissione Etica a p. 17 del Report.
[31] Report, cit., p.11.
[32] Ibid.
[33] M. B. Saponaro, cit., p. 90.
* Alice Giannini è dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università di Firenze e la Maastricht University. Le riflessioni proposte in questo articolo fanno parte della sua tesi di ricerca, che si concentra sulla responsabilità penale dei sistemi di intelligenza artificiale. È stata la vincitrice della prima edizione del premio Giulia Cavallone, istituito dalla Fondazione Calamandrei e dalla famiglia Cavallone per onorare la memoria della dott.ssa Cavallone, giudice del Tribunale di Roma e dottoressa di ricerca in diritto e procedura penale.
[1] H. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems”, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018, p. 60.
[1] L’invenzione di questo tipo di dilemma è attribuita a Philippa Foot. Il termine “Trolley Problem” è stato coniato più tardi da Judith Jarvis Thomson. Cfr. P. Foot, The Problem of Abortion and the Doctrine of the Double Effect, in Oxford Review, Vol. 51978; J. J. Thomson, The Trolley Problem, in The Yale Law Journal, n. 66, 1985, pp. 1395-1415. Si veda inoltre E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, cit., p. 60.
[1] Sul rapporto fra dilemmi morali e diritto penale, si veda O. Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, il Mulino, 2022.
[1] P. Gomes Rêgo de Almeida, C. Denner dos Santos & J. Silva Farias, Artificial Intelligence Regulation: a framework for governance, in Ethics and Information Technology, vol. 23, 2021, p. 507.
[1] Ivi, p. 508.
[1] N. Boucher, European Parliamentary Research Service - Scientific Foresight Unit, What if AI regulation promoted innovation?, PE 729.515, 2022, p. 2.
[1] Si pensi ad esempio a; AI-HILEG, Ethics Guidelines for Trustworthy Artificial Intelligence (AI), 2019; OECD, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449; UNESCO, Recommendation on the Ethics of Artificial Intelligence, SHS/BIO/REC-AIETHICS/2021; Council of Europe - CEPEJ, European Ethical Charter on the Use of AI in Judicial Systems Council of Europe, 2018.
[1] Ai sensi degli standard sviluppati dalla Society for Automotive Engineers International (SAE), “J3016 Taxonomy and Definitions for Terms Related to Driving Automation Systems for On-Road Motor Vehicles”, Aprile 2021.
[1] National Transportation Safety Board (NTSB), Collision Between Vehicle Controlled by Developmental Automated Driving System and Pedestrian, Tempe, Arizona, March 18, 2018, Highway Accident Report NTSB/HAR-19/03. Si veda anche: A. DeArman, “The Wild, Wild West: A Case Study of Self Driving Vehicle Testing in Arizona”, Arizona Law Review, Vol. 61, 2019.
[1] Si veda, su questa Rivista sul medesimo tema, C. Corridori, Machina delinquere non potest, 19 maggio 2022. Si veda ex multis: E. Hilgendorf, The dilemma of autonomous driving: Reflections on the moral and legal treatment of automatic collision avoidance systems, in E. Hilgendorf & J. Feldle (Eds), Digitization and the Law, in Robotik und Recht, vol. 15, Nomos, 2018; A. Cappellini, Machina delinquere potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale, in Criminalia, 2018; L. D’Amico, Intelligenza artificiale e auto a guida autonoma. Tra prevenzione primaria, colpa penale e rischio consentito, in Riv. It. Med. Leg., vol. 3, 2022.
[1] Ordonnance n° 2021-443 du 14 avril 2021 relative au régime de responsabilité pénale applicable en cas de circulation d'un véhicule à délégation de conduite et à ses conditions d'utilisation (TRAT2034523R, JORF n°0089 du 15 avril 2021, Texte n° 36), 2021.
[1] M. Giuca, Disciplinare l’intelligenza artificiale. La riforma francese sulla responsabilità penale da uso di auto a guida autonoma, in Archivio Penale, vol. 2, 2022
[1] Ezra Klein Interviews Alison Gopnik, The New York Times, 16 April 2021.
[1] M. B. Saponaro, L’insostenibile leggerezza del tragico, in Scelte tragiche - Atti del III convegno “Medicina e diritto penale”, Taranto, 11 dicembre 2020 a cura di Giuseppe Losappio, p. 89.
[1] Si veda ex multis: E. Awad et al., Computational ethics, in Trends in Cognitive Sciences, vol. 26, Issue 5, 2022; D. Leslie, The Alan Turing Institue, Understanding artificial intelligence ethics and safety. A guide for the responsible design and implementation of AI systems in the public sector, 2019; J. Ganascia, Ethical System Formalization using Non-Monotonic Logics, in Proceedings of the Annual Meeting of the Cognitive Science Society, vol. 29, 2007; S. Serafimova, Whose morality? Which rationality? Challenging artificial intelligence as a remedy for the lack of moral enhancement, in Humanities and Social Sciences Communication, 2020; P. Schramowski et al., The Moral Choice Machine, in Frontiers in Artificial Intelligence, vol. 3, 2020; V. Charisi, Towards Moral Autonomous Systems, in arXiv:1703.04741v3, 2017.
[1] A. Martinho, Perspectives about artificial moral agents, in AI and Ethics, vol. 1, 2021, p. 481.
[1] L’esperimento è accessibile presso il sito https://www.moralmachine.net/. I risultati dell’esperimento sono discussi in: E. Awad et al., The Moral Machine experiment, in Nature, Vol. 563, 2018; E. Awad et al., Crowdsourcing Moral Machines, in Communications of the ACM, vol. 63, n. 3, 2020, pp. 48-55; E. Awad et al., Universals and variations in moral decisions made in 42 countries by 70,000 participants, in PNAS, vol. 117, n. 5, 2020, pp. 2332-2337.
[1] Awad et al., The Moral Machine experiment, cit., p. 63.
[1] M. B. Saponaro, cit., p. 89.
[1] E. Mokhtarian, The Bot Legal Code: Developing a Legally Compliant Artificial Intelligence, in Vanderbilt Journal of Entertainment and Technology Law, vol. 21, 2020, p. 173.
[1] Awad et. al, When Is It Acceptable to Break the Rules? Knowledge Representation of Moral Judgement Based on Empirical Data, in arXiv:2201.07763, 2022.
[1] I. Gabriel, Artificial Intelligence, Values, and Alignment, in Minds and Machines, vol. 30, 2020, pp. 411-437
[1] E. Hunt, Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter, The Guardian, 24 March 2016. t
[1] Mokhtarian, cit., p. 173.
[1] A. Guerra, F. Parisi & D. Pi, Liability for robots I: legal challenges, in Journal of Institutional Economics, vol. 18, n. 3, 2021, p.10.
[1] Bundestag, Gesetz zur Änderung des Straßenverkehrsgesetzes, 2021.
[1] A. Kriebitz, R. Max & C. Lütge, The German Act on Autonomous Driving: Why Ethics Still Matter, in Philosophy & Technology, vol. 35, 2022, p. 11.
[1] “(2) Kraftfahrzeuge mit autonomer Fahrfunktion müssen über eine technische Ausrüstung verfügen, die in der Lage ist,
[…] 2. selbstständig den an die Fahrzeugführung gerichteten Verkehrsvorschriften zu entsprechen und die über ein System der Unfallvermeidung verfügt, das
a) auf Schadensvermeidung und Schadensreduzierung ausgelegt ist,
b) bei einer unvermeidbaren alternativen Schädigung unterschiedlicher Rechtsgüter die Bedeutung der Rechtsgüter berücksichtigt, wobei der Schutz menschlichen Lebens die höchste Priorität besitzt, und
c) für den Fall einer unvermeidbaren alternativen Gefährdung von Menschenleben keine weitere Gewichtung anhand persönlicher Merkmale vorsieht”.
[1] Il report è disponibile presso: https://bmdv.bund.de/SharedDocs/EN/publications/report-ethics-commission.pdf?__blob=publicationFile. Gli stessi ideatori della Moral Machine fanno riferimento al lavoro della Commissione etica tedesca e affermano che il loro esperimento rappresenta il primo e unico tentativo di fornire linee guida ufficiali per le scelte etiche dei veicoli autonomi.
[1] L’esempio è fatto dalla Commissione Etica a p. 17 del Report.
[1] Report, cit., p.11.
[1] Ibid. [1] M. B. Saponaro, cit., p. 90.
1) La detenzione, oggi, consente una prospettiva di risocializzazione e di reinserimento nel mondo del lavoro? Cosa ha visto funzionare e cosa manca?
La detenzione dovrebbe consentire una prospettiva di socializzazione e di inserimento nel mondo del lavoro, così come previsto dall’art 27 della nostra costituzione. Non utilizzo il suffisso -ri- in quanto molte delle persone che finiscono in carcere provengono da quello che io definisco una condizione sociale deprivata: di opportunità, di cultura, di lavoro. I dati dello scorso anno ci dicono che solo il 10% delle persone che entra in carcere ha un diploma di scuola superiore e questo ci deve interrogare maggiormente per capire i contesti di provenienza di queste persone. Cosa è mancato? Quali opportunità non sono state offerte a partire dalla scuola? Ed allora il carcere da solo non può farcela, non è attrezzato per costruire e ri-costruire queste opportunità. Lo può fare solo se si apre al mondo esterno, alle associazioni, al volontariato, alle comunità e se gli enti locali intervengo con politiche attive. Fra le politiche attive e quindi servizi ed opportunità annovero in primo luogo l’alloggio: molti senza fissa dimora arrivano in carcere perché non hanno un domicilio da indicare per scontare misure alternative alla detenzione; formazione professionale e lavoro sono altro elemento indispensabile da acquisire durante il periodo detentivo; la scuola, i momenti culturali (teatro e scrittura). Nella mia esperienza di questi anni ho potuto constatare che lì dove queste opportunità sono state costruite è stato possibile costruire il cambiamento ed abbattere la recidiva. C’è bisogno di un maggior lavoro di coordinamento dei vari ambiti di interventi e forse la nascita dei consigli di aiuto sociale (pure previsti nell’ordinamento penitenziario e mai attuati) potrebbero favorire questo lavoro di squadra.
2) La detenzione femminile, come vivono le detenute la loro condizione, soprattutto negli istituti di detenzione non dedicati ove sono presenti solo sezioni separate?
Le donne in carcere rappresentano (fortunatamente) solo il 4,2 % della popolazione detenuta (la media dei Paesi del Consiglio di Europa è del 4,7%). In Italia abbiamo 4 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) che accolgono di media ¼ del numero complessivo di donne detenute (circa 610 donne su 2314). Le altre (circa 1700) sono distribuite nelle 45 sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti maschili: da 117 a Torino fino ad arrivare 4 a Paliano e 3 a Mantova. Le donne straniere (dati al 30 giugno 2022) erano 710 (30,7% delle donne detenute).
Conosco bene il carcere femminile di Rebibbia (il più grande di Europa con una media di 350 donne presenti). Si tratta sempre di un carcere, ma si avverte che è pensato al “femminile” con spazi, attività e servizi maggiormente pensati per donne. A partire dalle scuole (sia di alfabetizzazione che superiori), formazione professionale, attività culturali e sportive. Maggiore attenzione alla sanità (anche se su questo versante i servizi stanno complessivamente peggiorando in tutti gli istituti penitenziari). La fortuna di Rebibbia femminile è la presenza di un ottimo Magistrato di Sorveglianza (il dott. Marco Patarnello) che è molto presente in istituto, incontra le detenute, le ascolta, e lì dove è possibile con gli strumenti legislativi attuali, costruisce misure alternative alla detenzione. E questo è stato fondamentale soprattutto per quello che riguarda l’annosa vicenda delle mamme detenute con i bimbi in carcere.
Situazione diversa si verifica nelle sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti penitenziari maschili. L’ordinamento penitenziario in vigore dal 2018 prevede esplicitamente che le donne ospitate in istituti maschili debbano essere un numero tale da non compromettere l’attività trattamentale. Ma questo è difficile da applicare quando, per assurdo, i piccoli numeri di donne presente non favoriscono l’organizzazione di attività dedicata. Per non parlare dei limiti delle strutture: il 30%delle celle ospitanti donne non ha il bidet (nonostante sia previsto dal regolamento penitenziario del 2000) e nel 17,4% non vi è servizio di ginecologia.
3) Essere madri in carcere. Quale idea si è fatta, nel corso della sua esperienza, sul rapporto tra genitorialità e detenzione? Le condizioni detentive, dalla legge 354/75 in avanti riescono a tutelare il “superiore interesse del minore” anche nella prospettiva dell’attuazione della legge 62 del 2011?
Quando per la prima volta ho varcato la soglia del nido del carcere di Rebibbia, a luglio del 2017, vi erano 16 donne e 18 bambini. Quando ho finito il mio mandato, marzo 2022, nello stesso nido vi erano due mamme e due bambini. Un risultato quindi molto importante che è stato possibile per due condizioni fondamentali: la prima è quella di aver aperto a Roma la prima struttura protetta per detenute mamme con bambini e gestita dal terzo settore e la seconda di aver avuto la fortuna di poter contare sulla sensibilità e presenza del Magistrato di Sorveglianza con il quale si sono affrontate in tempi celeri tutte le questioni legate all’individuazione di misure alternative per queste mamme. Facile quando si è trattato di donne che avevano domicilio all’esterno, più complicato quando ci siamo trovate davanti a ragazze, principalmente rom, che vivevano nei campi. Ma alla fine fra casa protetta e comunità il posto si è sempre trovato. Il Nido di Rebibbia è comunque una struttura di avanguardia, con puericultrici, nido all’esterno dove i bambini vengono accompagnati con un servizio garantito dal Municipio, la presenza costante di associazioni che si occupano di organizzare attività ricreative per i bambini comprese le gite all’esterno il sabato mattina. In questi anni sono stati pensati e costruiti gli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri ). Anche a Roma ne è stato allestito uno che non è però funzionante, proprio perché la strada fino ad oggi intrapresa è stata quella dei domiciliari in casa protetta. Vi è stata molta attesa in questo periodo per l’approvazione della legge presentata dall’on. le Paolo Siani nella scorsa legislatura che prevedeva il divieto per legge del carcere per le mamme con bambini piccoli. La legge passata al Senato nella scorsa legislatura, non ha visto la luce alla Camera ed è stata ripresentata in questa nuova legislatura. È notizia di questi giorni che tale proposta è stata ritirata in quanto non si è trovato accordo fra i gruppi parlamentari. Rimangono quindi 24 bambini in carcere (in tutta Italia) ed anche se si tratta di un numero esiguo, rappresentano un vulnus per la nostra democrazia.
4) La gestione del disagio psichico nell’universo penitenziario. Come l’amministrazione penitenziaria si confronta con le peculiarità del percorso di un detenuto affetto e che incidenza ha avuto la soppressione degli O.P.G.?
La presenza in carcere di persone con problemi di salute mentale è in aumento continuo e questo crea problemi all’interno degli istituti penitenziari, sia per la gestione del quotidiano e sia per la carenza di cure che vengono offerte a queste persone. La gestione del servizio sanitario all’interno degli istituti penitenziari è da tempo di competenza delle Asl. Ma come sempre accade in questi casi, i servizi non sono uniformi in tutta Italia e si assiste spesso a carenza di personale specializzato ed a mancanza strutture di accoglienza specifiche sul territorio. Ritroviamo quindi nelle celle persone con forte disagio psichico (che in regime di detenzione è destinato ad aumentare) e molto spesso sono solo gli agenti della penitenziaria a dover gestire queste situazioni difficili durante tutta la giornata (e la notte). Sono in aumento gli atti di autolesionismo per non parlare del numero dei suicidi (lo scorso anno 84). Diminuisce il numero degli operatori presenti e molto spesso i bandi per il reclutamento di personale specializzato vanno deserti (soprattutto dopo la pandemia Covid). Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono stati chiusi (e questo è stato un bene). Al loro posto hanno visto la luce le Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza) i cui posti sono stati ipotizzati tenendo conto dei pazienti di ogni regione presenti negli Opg al momento della loro chiusura. Il più delle volte i posti non risultano attualmente sufficienti per le persone che debbono scontare la misura di sicurezza e si crea quindi una lunga lista di attesa. La cosa ancor più grave è che alcune persone rimangono in carcere in attesa di trovare posto e sono “sine titulo”: la permanenza in carcere diventa illegale. Personalmente ho attivato, seguito e vinto due ricorsi alla Cedu (Corte Europea dei diritti dell’Uomo) per due ragazzi che erano in carcere in quanto il posto in Rems non si era trovato. L’Italia è stata già richiamata per queste inadempienze ed è necessario realizzare una maggiore sinergia fra Ministero della Giustizia e quello della Salute per cercare di affrontare questa questione così delicata
5) Nell’organizzazione degli istituti penitenziari da Lei seguiti ha avuto modo di verificare l’adozione di percorsi trattamentali che tutelino le individualità dei detenuti transessuali? Quali sono le criticità che ha incontrato e se e come l’ordinamento penitenziario ha apprestato garanzie di tutela?
La condizione delle persone transessuali e transgender in carcere necessita, a mio avviso, di una maggiore attenzione da parte delle autorità competenti. L’ordinamento penitenziario non ha mai considerato la peculiarità di queste persone e non a caso ci troviamo oggi ad avere sezioni transessuali all’interno degli istituti penitenziari maschili. Con tutto ciò che questa convivenza provoca all’interno del reparto. Ho faticato molto all’inizio del mio mandato per far garantire i diritti necessari per la loro condizione, a partire dalle cure ormonali che molti avevano già intrapreso all’esterno e che debbono continuare anche in regime detentivo; stessa difficoltà anche per favorire la sorveglianza dinamica che permette una maggiore mobilità all’interno della sezione ed il diritto allo studio ed al lavoro (anche quello interno). Fortunatamente a Rebibbia Nuovo Complesso, dove è situato il reparto per le persone transessuali, si è creta una condizione favorevole sia con la direzione (Dott.ssa Rosella Santoro) che con una ispettrice (Dott.ssa Cinzia Silvano) che hanno favorito tutte queste innovazioni e che hanno reso questo reparto più vivibile. E’ necessario però prevedere una formazione specifica per gli operatori (sia educatori che polizia penitenziaria) affinché ci sia maggiore conoscenza delle esigenze delle persone transessuali. Da quello che mi risulta dovrebbero essere istituite a breve dei padiglioni in alcune territori italiani per superare le attuali anomalie.
6) Il rispetto dei valori di libertà e di dignità nella “detenzione amministrativa dei migranti” e l’affidamento della gestione dei servizi a figure private. Qual è la sua esperienza?
I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) sono un obbrobrio che deve essere “superato”. Nati con l’obiettivo di trattenere per poco tempo persone straniere sprovviste di documenti ed in attesa dell’iter di identificazione, sono diventati molto spesso luoghi di sofferenza e di violazione di diritti fondamentali. Oltre che per la precarietà delle strutture, luoghi fatiscenti e privi delle più elementari basi di accoglienza, sono diventati facili strumenti di arricchimenti per società private. Sono tantissimi gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno accompagnato il loro proliferare. Tante le denunce da parte di associazioni che si occupano di diritti umani. Nella mia funzione di Garante ho visitato più volte il CPR di Ponte Galeria ed ho sempre registrato criticità. Dai bagni senza porte per gli alloggi delle donne, alle zanzare che in estate invadono la zona, al cibo scadente, alla mancanza di qualsiasi attività di socializzazione. Gli ingressi dei volontari sono vietati, cosi come quelle della stampa. Solo nell’ultimo anno, e grazie all’impegno del Garante Nazionale Mauro Palma, è stato reso possibile l’accesso del Garante territoriale senza previa autorizzazione della Prefettura. E questi Centri costano molto allo Stato. Gli appalti sono gestiti dalle Prefetture e dai bilanci dell’ultima società che gestisce il cpr di Ponte Galeria si evince che sono diventati un ottimo business.
L’attuale gestore del cpr di Ponte Galeria è il gruppo ORS, società con sede a Zurigo e che gestisce strutture di accoglienza e trattenimento dei migranti in 4 paesi europei: Svizzera, Germania, Austria, Italia. Nel 2015 0RS è stato oggetto di un rapporto di Amnesty International che ha denunciato le condizioni inumane di accoglienza nei migranti nel centro austriaco di Traiiskirchen. Anche per la gestione del centro di Macomer e Monastir (Sardegna) sono state registrate molte criticità. L’appalto è stato affidato nel giugno del 2021 per un biennio alla somma di 7.201.998,38.[1]
Il gruppo ORS internazionale - che solo nel 2021 ha generato un fatturato di 97 milioni di euro - è stato acquistato il primo settembre 2022 da gruppo SERCO per 39 milioni. Il gruppo SERCO è una azienda britannica fondata nel 1929 nel regno unito. È specializzata nei trasporti privati, nel controllo del traffico, nell’aviazione, nei contratti delle armi militari e nucleari. [2]
Ecco perché mi sono chiesta e continuerò a farlo cosa c’entra tutto questo con l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti?
7) Un bilancio di questi 6 anni di esperienza quale Garante dei detenuti di Roma. Quale è stato il suo rapporto con la popolazione carceraria e cosa le rimane?
Una precisazione: la definizione esatta del mio ruolo è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e ciò significa che oltre al carcere il Garante deve occuparsi di tutti i luoghi dove sono trattenute le persone e quindi anche le caserme dei carabinieri e polizia, istituti minorili di pena, detenzioni domiciliari, le Rsa (residenze sanitarie per anziani), gli Hotspot e simili. E’ evidente che il carcere rimane il luogo per eccellenza della limitazione della libertà personale ed infatti la maggior parte del mio impegno in questi anni è stato all’interno dei 5 istituti penitenziari romani. Rebibbia comprende infatti 4 istituti: femminile, reclusione, circondariale e terza casa (cioè a custodia attenuata). Vi è poi Regina Coeli che dovrebbe essere un circondariale. Dico dovrebbe perché invece attualmente il 50% circa della popolazione detenuta ha condanne definitive e non dovrebbe essere lì. A Roma vi è anche l’istituto minorile di Casal del Marmo ed il Cpr di Ponte Galeria. Ogni giorno quindi a Roma abbiamo circa 3500 persone ristrette negli istituti di pena ed altrettante che scontano la pena ai domiciliari e/o nelle misure alternative. Sono entrata ogni giorno negli istituti di pena, anche durante il difficile lungo periodo del Covid. Ho ricevuto tantissime richieste: per cure sanitarie non effettuate, per richiesta di documenti, liberazioni anticipate da parte della magistratura di sorveglianza, ricerca di alloggio per poter ottenere i domiciliari, ricerca di un lavoro per prepararsi al dopo carcere. Ho toccato di persona le difficoltà che vivono le persone detenute che non hanno contesti famigliari esterni di supporto e di quanto sia vitale la possibilità di un colloquio o di una telefonata. Ho incontrato tante persone povere, senza fissa dimora, stranieri arrivati in Italia sperando di migliorare la propria condizione di vita e finiti in giri di spaccio, tossicodipendenti che dovrebbero essere curati nelle comunità. Ho parlato con persone da tanti anni detenute (soprattutto nel reparto di Alta Sicurezza) entrati giovani e con la licenza elementare. Molti di loro si sono addirittura laureati in carcere – un detenuto ha conseguito 4 lauree- fanno teatro, dipingono. Sono uomini profondamente cambiati. Non sono più “il reato “per il quale hanno ricevuto lunghe e dure condanne. Ma sono lì e ci rimarranno ancora perché il legislatore non è ancora riuscito ad affrontare i limiti previsti dal regime ostativo. Ho conosciuto Magistrati di Sorveglianza attenti e scrupolosi, disponibili al confronto e che hanno sempre risposte alle istanze inviate. Ho conosciuto anche Magistrati distratti ed assenti. Ho parlato e mi sono confrontata con tanti agenti della polizia penitenziaria: il loro lavoro è difficile e la lunga permanenza in una istituzione totale incide anche per loro. Molto spesso si trovano ad affrontare situazioni complicate e pericolose ed avrebbero bisogno di maggiori supporti ed attenzione per svolgere un ruolo così delicato. Ho incontrato tanta umanità dolente e capito che il carcere così come è ora non funziona e che rischia di essere il tappeto sotto il quale nascondere quello che la società all’esterno non riesce a prevenire ed intercettare. Alla fine di questi sei anni ho rafforzato la convinzione che la nostra società abbia bisogno di più sociale e meno penale.
[1] Fonte; Rapporto CILD (coalizione italiana libertà e diritti civili): "Buchi neri: la detenzione senza reato nei Cpr -ottobre 2021”;
[2] Fonte: Sharecast.com (sito di quotazioni azionarie).
Sommario: 1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’. - 2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto. - 3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’. - 4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato. - 5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
1. Premessa: sulla progressiva implementazione di uno statuto garantistico per il c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 3570 del 9 maggio 2022 – qui brevemente annotata – interviene su una questione di fondamentale importanza per lo statuto giuridico del c.d. diritto amministrativo ‘punitivo’[i], ossia lo standard probatorio richiesto per il sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
È noto il progressivo percorso di trasposizione dei principî e delle regole garantistiche propri della materia penale agli illeciti amministrativi qualificabili come ‘criminal offences’[ii] secondo i c.d. criteri ‘Engel’[iii]. A tale riguardo, sia sufficiente richiamare[iv] l’acquisita applicazione dei canoni di irretroattività[v] e di sufficiente precisione[vi] delle norme incriminatrici, di retroattività delle disposizioni sopravvenute più favorevoli al trasgressore (c.d. retroattività ‘in mitius’)[vii], di proporzionalità dei regimi sanzionatori[viii], di ‘ne bis in idem’[ix] e di protezione contro l’auto-incriminazione[x].
Nondimeno, in disparte all’invocazione e al rispetto delle suddette garanzie di civiltà giuridica, autorevole dottrina[xi] ha segnalato le gravi difficoltà che i soggetti destinatari di sanzioni amministrative punitive incontrano, sul versante dell’effettività della tutela, nel contestare giudizialmente detta tipologia di provvedimenti per vedere accolte le proprie ragioni (il pensiero corre, in particolar modo, alle sanzioni irrogate dalle autorità amministrative indipendenti nelle materie finanziaria o antitrust). L’argomento, di tutta evidenza, involge i profili dello standard probatorio utilizzabile, in prima battuta, dall’autorità amministrativa sanzionante, ma soprattutto dall’organo giurisdizionale nel successivo riesame (in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’[xii]) della fattispecie, onde verificare la sussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito contestato e, di riflesso, la sussistenza della responsabilità.
La questione, sebbene di rilevanza centrale, non è stata sinora posta ampiamente al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale[xiii]; ragione per cui, la sentenza in commento risulta significativa e meritevole della massima attenzione.
2. Sanzioni amministrative ‘punitive’ e standard probatorio: il caso concreto.
Al fine di meglio delineare la portata (innovativa) del principio espresso dal Consiglio di Stato è opportuno rassegnare, di seguito, alcuni limitati profili di fatto relativi al contenzioso trattato dal giudice amministrativo.
Segnatamente, la sentenza in commento interviene su una fattispecie di intesa segreta restrittiva (per oggetto) della concorrenza, in violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), contestata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nei confronti di una pluralità di operatori economici, i quali – asseritamente legati da dinamiche concertative – hanno partecipato a diversi lotti di una procedura di gara aperta per la stipula di una convenzione quadro finalizzata all’erogazione di servizi di c.d. ‘facility management’ presso uffici pubblici e immobili in uso a enti universitari e di ricerca.
Il procedimento, avviato su impulso dell’AGCM, si è concluso con l’accertamento dell’illecito antitrust sulla scorta di un quadro probatorio di matrice prevalentemente indiziaria, con conseguente irrogazione di severe (ai sensi CEDU) sanzioni amministrative pecuniarie.
Il provvedimento disposto dall’AGCM è stato, dunque, impugnato – avanti al competente giudice amministrativo – da tutte le parti interessate che hanno sollevato plurime censure di ordine sostanziale e procedurale. Alcuni ricorsi sono stati accolti dal T.a.r per il Lazio, sede di Roma, limitatamente al c.d. ‘quantum’[xiv]; altri, invece, [xv] con riguardo a vizi relativi al c.d. ‘an’, con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento sanzionatorio.
Avverso le sentenze di prime cure, le parti soccombenti hanno proposto impugnazione (in via principale o incidentale) avanti al Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione – disposta la riunione degli appelli per ragioni di connessione oggettiva e parzialmente soggettiva – ha infine definito la controversia con la pronuncia in esame n. 3570 del 9 maggio 2022.
La complessità del caso di specie discende dall’esigenza di sindacare l’articolato compendio probatorio indiziario, su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio contestato, al fine di verificare la fondatezza della pretesa punitiva, e dunque la sussistenza dell’illecito nei suoi profili fattuali e nella relativa configurabilità in senso giuridico. Del resto, la necessità di impostare il c.d. ‘enforcement’ degli illeciti anticoncorrenziali e di abuso di mercato su ragionamenti presuntivi trova giustificazione nel principio dell’effetto utile del diritto europeo, atteso che si tratta di fattispecie rispetto alle quali è estremamente difficoltoso rinvenire prove dirette o rappresentative[xvi].
Ragion per cui, il Consiglio di Stato ha giustamente rimarcato che «[…] la prova delle intese restrittive della concorrenza può essere sostenuta da un compendio probatorio di natura indiziaria, ovvero un complesso di prove esclusivamente indirette, purché queste possano essere significative al pari della prova rappresentativa (anche il processo penale consente il ricorso alla prova indiziaria ed ai principi fondati sull’esperienza)» (§ 8.2).
Sennonché, al di là dell’astratta ammissibilità di presunzioni e prove di matrice inferenziale, ciò che risulta invero di fondamentale importanza per l’asserito trasgressore è l’intensità dello standard probatorio richiesto all’autorità per giustificare la concreta irrogazione della sanzione amministrativa punitiva. Questa è, per l’appunto, la questione sulla quale si incentra il nucleo essenziale del ragionamento garantistico svolto dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, per la cui miglior comprensione occorre dare conto – in estrema sintesi – del consolidato indirizzo che emerge dall’analisi del formante giurisprudenziale.
3. (Segue): Il tradizionale orientamento giurisprudenziale: il canone della ‘ragionevole probabilità’ o della c.d. ‘preponderanza delle evidenze’.
In particolare, nella prassi giudiziaria (pressoché unanime) non si afferma espressamente, pur al cospetto di fattispecie sanzionatorie punitive ai sensi CEDU, che il sindacato delle corti amministrative od ordinarie debba svolgersi in conformità all’elevato standard penalistico del c.d. ‘oltre ogni ragionevole dubbio’[xvii].
Pur in difetto di enunciazioni esplicite, salvo talune limitate eccezioni[xviii], la dinamica giudiziale risulta fattualmente assestata sul (meno intenso) paradigma probatorio della ‘ragionevole probabilità’ ovvero della c.d. preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ (sebbene in un senso a-tecnico, poiché l’anzidetta formula si riferisce propriamente al nesso di causalità in materia risarcitoria)[xix]. In altri termini, i provvedimenti sanzionatori vengono giudicati legittimi laddove il corredo probatorio portato dall’amministrazione, cui compete il relativo onere sostanziale[xx], sia connotato da un grado di probabilità prevalente o, comunque, superiore rispetto alle ricostruzioni alternative addotte dall’asserito trasgressore.
Si è consapevoli che quanto sommariamente evidenziato palesi la difficoltà di sintetizzare, entro schemi concettuali ‘rigidi’, modelli di ragionamento che – per loro natura – sono destinati a essere applicati, caso per caso, a fattispecie assai diversificate sul piano empirico-fattuale. Nondimeno, è possibile ritenere che il segnalato coefficiente probabilistico esprima comunque uno standard inferiore[xxi] al livello di certezza richiesto per le sanzioni ‘formalmente’ penali, ove – com’è noto – la sussistenza di un ‘ragionevole dubbio’ è di per sé idonea a incrinare la coerenza dell’impianto accusatorio.
Con larga frequenza, infatti, si rinviene la massima[xxii] secondo cui l’esistenza del fatto ‘ignoto’, ricavabile per effetto del processo logico sotteso alla prova presuntiva, debba risultare quale conseguenza naturalisticamente accettabile del fatto ‘noto’ secondo canoni di ‘ragionevole probabilità’: il che non significa pretendere un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva tra i due termini del ragionamento inferenziale, bensì una conclusione di prevalente attendibilità rispetto alle ipotesi ricostruttive alternative.
Ne discende, pertanto, una significativa difficoltà probatoria per il soggetto sanzionato, il quale potrà confutare il compendio probatorio fornito dall’autorità amministrativa soltanto convincendo il giudicante che l’allegata (e corroborata) spiegazione alternativa dei fatti superi – in termini di coefficiente probabilistico e logico – la tesi sulla quale si fonda la pretesa punitiva.
In via di estrema sintesi, si potrebbe definire il suddetto schema nei termini di un processo di falsificazione (richiamando, in un’accezione forse impropria, il lessico ‘popperiano’[xxiii]) che finisce per tradursi, nella concreta dinamica processuale, in un’inversione ‘mascherata’ dell’onere della prova sostanziale (anche se nella forma della prova contraria[xxiv]).
Ed è proprio su questi aspetti che interviene la pronuncia in commento.
4. (Segue): Presunzione d’innocenza e ‘dubbio ragionevole’: lo standard probatorio enunciato dal Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, prima di svolgere lo scrutinio sugli indici fattuali del caso concreto, ha cura di illustrare le coordinate teorico-giuridiche relative allo standard probatorio da osservare nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Il ragionamento muove, anzitutto, dalla pacifica constatazione della natura ‘penale’ (ai sensi CEDU) delle sanzioni amministrative comminate dall’Autorità antitrust[xxv]: il che è indubbio in ragione delle «[…] finalità repressive e preventive perseguite e del fatto che l’accertamento di antitrust infringement determina, oltre all’irrogazione di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e alla condanna al risarcimento del danno eventualmente cagionato, anche un significativo danno reputazionale» (§ 8.1.).
Trattandosi di sanzioni sostanzialmente penali, si impone – in via generale – l’applicazione del fondamentale principio garantistico di presunzione d’innocenza (rectius: di non colpevolezza), come peraltro sancito dalla giurisprudenza europea[xxvi] sulla scorta dell’art. 48, § 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata») nonché dell’art. 6, § 2, della CEDU («Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata»)[xxvii].
Ai nostri fini, il passaggio logico successivo è di fondamentale importanza.
Se si ammette che le procedure (amministrative o giurisdizionali) aventi a oggetto fattispecie sanzionatorie ‘punitive’ debbano rispettare il principio di presunzione di innocenza[xxviii], è altrettanto necessario – quale corollario applicativo – che esse siano assoggettate al rigoroso standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: di talché, «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione»[xxix] (§ 8.1.).
Per l’effetto, l’organo giudiziale è tenuto a caducare il provvedimento sanzionatorio qualora l’‘accusato’ sia in grado di fornire in giudizio una ‘plausibile’ spiegazione alternativa dei fatti accertati dall’autorità amministrativa[xxx], essendo allo scopo sufficiente che il dubbio trasferito al giudicante sia ‘ragionevole’[xxxi], ossia correlato a dati empirici riscontrabili e di rilievo non meramente ipotetico o congetturale.
Con riferimento agli illeciti anticoncorrenziali, la suddetta conclusione si correla alla specifica disciplina sull’onere della prova posta dall’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1/2003[xxxii], ove si dispone che «[i]n tutti i procedimenti nazionali o comunitari relativi all’applicazione degli articoli 81 e 82 del trattato, l’onere della prova di un’infrazione dell’articolo 81, paragrafo 1, o dell’articolo 82 del trattato incombe alla parte o all’autorità che asserisce tale infrazione» (oggi artt. 101 e 102 TFUE).
Sennonché, fermo restando lo standard probatorio sopra richiamato, il Consiglio di Stato rileva che il medesimo regolamento – in altra sua parte[xxxiii] – sembra invece rimettere ai giudici domestici l’individuazione del ‘grado di intensità della prova’ richiesto per i procedimenti nazionali, beninteso in compatibilità con i principî generali del diritto euro-unitario.
Dal momento che il principio di presunzione di innocenza non osta – di per sé – all’utilizzo di prove presuntive, ai fini del giudizio di responsabilità in materia sostanzialmente penale è importante precisare il rilievo assunto dal canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio rispetto al procedimento logico-giuridico di matrice inferenziale.
Il Consiglio di Stato, allo scopo, analizza la struttura del ragionamento indiziario ricorrendo a uno schema concettuale ‘bifasico’. Segnatamente, si afferma che il giudicante deve, innanzitutto, apprezzare la ‘valenza qualitativa’ del singolo indizio, vale a dire «[…] la forza di necessità logica con la quale esso è in grado di dimostrare il fatto rilevante, al fine di eliminare gli elementi che appaiono semplici illazioni o supposizioni arbitrarie» (§ 8.5.); per poi, in secondo luogo, svolgere un esame globale degli indizi risultanti dal segnalato ‘filtro’ logico-giuridico onde accertare, valendosi dei canoni di gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c., se «[…] gli stessi, una volta integrati gli uni con gli altri, siano in grado di dissolvere la loro intrinseca ambiguità» (§ 8.5.).
All’esito della suddetta attività conoscitiva, da implementare nel rispetto del contraddittorio processuale, il giudice dovrà applicare al caso concreto il richiamato canone probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio: l’ipotesi ‘accusatoria’ potrà ritenersi conforme allo standard della ‘certezza processuale’ solo se «[…] essa risulti l’unica in grado di giustificare i vari elementi probatori raccolti, ovvero la più attendibile rispetto alle altre ipotesi alternative, pure astrattamente prospettabili, ma la cui realizzazione storica, in quanto priva di riscontri significativi nelle emergenze istruttorie, appaia soltanto una eventualità remota» (§ 8.5.).
Ciò premesso, si ha cura di rimarcare che l’intensità del sindacato giudiziale in materia di sanzioni amministrative punitive non tollera limitazioni (nemmeno) al cospetto dei concetti giuridici indeterminati eventualmente presenti nella fattispecie incriminatrice di fonte legale. In questi casi, infatti, non è conferente il tradizionale modello di controllo giudiziale sull’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, nell’impostazione tipica dei processi di natura meramente impugnatoria aventi a oggetto provvedimenti amministrativi non sanzionatori[xxxiv], stante la rilevanza interpretativa dell’attività di accertamento dell’illecito soggetta a un sindacato giurisdizionale ‘parametrico’ e non ‘funzionale’[xxxv].
In altri termini, nella materia in esame, il giudicante – in coerenza con i connotati strutturali del giudizio sul c.d. ‘rapporto’[xxxvi] – non può confinare il proprio scrutinio a una (invero più deferente) verifica di mera ‘ragionevolezza tecnica’ della soluzione adottata dal provvedimento impugnato[xxxvii], nell’ambito della più ampia gamma di plausibili opzioni decisorie per lo specifico ‘problema amministrativo’. Invero, «[…] la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati (ad esempio, quella del “mercato rilevante”) è una attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa» (§ 8.5.).
Ragione per cui, il sindacato sulle fattispecie sanzionatorie sostanzialmente penali deve necessariamente procedere attraverso una piena e diretta verifica, in conformità ai canoni della c.d. ‘full jurisdiction’, «[…] della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità, per quanto, in senso epistemologico, controvertibile» (§ 8.5.)[xxxviii].
5. Brevi conclusioni: per un allineamento della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) al canone dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ nel sindacato sulle sanzioni amministrative ‘punitive’.
Sulla scorta di quanto premesso, la sentenza annotata è di indubbia importanza.
Il Consiglio di Stato, infatti, riconoscendo l’applicabilità dello standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio nel sindacato giudiziale sulle sanzioni amministrative punitive, aggiunge un ulteriore e rilevante ‘tassello garantistico’ allo statuto giuridico dei provvedimenti sostanzialmente penali ai sensi CEDU.
Si auspica, pertanto, che tale precedente assurga a ‘leading case’ non restando isolato nella futura prassi giurisprudenziale del giudice amministrativo, ma soprattutto di quello ordinario quando è chiamato a pronunciarsi sulle opposizioni a sanzione amministrativa (si pensi, a titolo di esempio, alle importanti potestà ‘punitive’ di competenza della Banca d’Italia e della Consob).
Invero, non sarebbe accettabile una marcata disarmonia tra le due giurisdizioni rispetto a garanzie che attengono al ‘core’ dell’effettività della tutela giurisdizionale. Sicché, fondamentali esigenze di eguaglianza e di unità della giurisdizione (nell’accezione ‘funzionale’ del termine[xxxix]) imporranno un allineamento al canone probatorio del c.d. ‘in dubio pro reo’[xl], evitando così che l’asserito trasgressore (beneficiario, sino a prova contraria, della presunzione di non colpevolezza) non subisca un’inaccettabile contrazione della tutela a seconda del plesso giurisdizionale ove, secondo criteri di riparto sovente espressione di contingenti esigenze di politica del diritto, sia radicata la singola controversia.
[i] Sulla definizione di sanzione amministrativa ‘punitiva’ cfr., per tutti, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, in Riv. reg. merc., 2022, I, p. 47, ove si ricorre a tale espressione per identificare «[…] le misure afflittive che, per quanto applicate da organi di natura amministrativa e non giurisdizionale, sono attratte, per impulso degli impegni assunti a livello internazionale, nell’alveo protettivo delle principali garanzie riconosciute in ‘materia penale’, al di là della loro formale qualificazione giuridica».
[ii] Sull’autonomia della nozione di ‘materia penale’ nella CEDU cfr. G. Ubertis, L’autonomia linguistica della Corte di Strasburgo, in Arch. Pen., 2012, I, p. 21 e ss.
[iii] Cfr. Corte Edu, 8 giugno 1976 (‘Engel e altri c. Paesi Bassi’), § 82, ove si rinviene la formulazione dei tre criteri alternativi per la qualificazione di una sanzione amministrativa o disciplinare in senso ‘penale’ ai fini CEDU: la classificazione giuridica effettuata dall’ordinamento nazionale, la natura dell’infrazione e il grado di severità della sanzione («[…] it is first necessary to know whether the provision(s) defining the offence charged belong, according to the legal system of the respondent State, to criminal law, disciplinary law or both concurrently. This however provides no more than a starting point. The indications so afforded have only a formal and relative value and must be examined in the light of the common denominator of the respective legislation of the various Contracting States. The very nature of the offence is a factor of greater import. […] However, supervision by the Court does not stop there. Such supervision would generally prove to be illusory if it did not also take into consideration the degree of severity of the penalty that the person concerned risks incurring. In a society subscribing to the rule of law, there belong to the ‘criminal’ sphere deprivations of liberty liable to be imposed as a punishment, except those which by their nature, duration or manner of execution cannot be appreciably detrimental»). Si v., anche, quanto affermato dalla successiva (e fondamentale) decisione della Corte Edu, 21 febbraio 1984 (‘Öztürk c. Germania’), in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, III, p. 894 e ss. (con nota di C. Paliero), § 49, ove si chiarisce che «[…] se gli Stati contraenti potessero, a loro piacimento, qualificare ‘amministrativo’ piuttosto che penale un illecito, l’effetto delle norme fondamentali degli artt. 6 e 7 sarebbe subordinato alla loro volontà sovrana. Una così ampia libertà rischierebbe di condurre a risultati incompatibili con l’oggetto e lo scopo della Convenzione».
[iv] Per ogni approfondimento si rinvia, per tutti, a D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 47 e ss.; F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, IV, p. 1775 e ss.; e F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018.
[v] Cfr., per tutte, Corte cost. 4 giugno 2010, n. 196, in Cass. pen., 2011, II, p. 528 e ss., ove si afferma che «[d]alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale - data l’ampiezza della sua formulazione (‘Nessuno può essere punito...’) - può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato»; Id., 18 aprile 2014, n. 104, in Cass. pen., 2015, V, p. 1825 e ss.; Id., 7 aprile 2017, n. 68, in Giur. Cost., 2017, II, p. 681 e ss.; e Id., 5 dicembre 2018, n. 223, in Giur. Cost., 2018, VI, p. 2575 e ss.
[vi] Cfr., per tutte, Corte cost. 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. Cost., 2018, III, p. 1359 e ss., ove si afferma che «[…] il principio di legalità, prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile e della sanzione aventi carattere punitivo-afflittivo, qualunque sia il nomen ad essa attribuito dall’ordinamento, del resto, non può, ormai, non considerarsi patrimonio derivato non soltanto dai principi costituzionali, ma anche da quelli del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, in base ai quali è illegittimo sanzionare comportamenti posti in essere da soggetti che non siano stati messi in condizione di ‘conoscere’, in tutte le sue dimensioni tipizzate, la illiceità della condotta omissiva o commissiva concretamente realizzata»; e Id., 29 maggio 2019, n. 134, in Foro it., 2019, VII-VIII, p. 2217 e ss., ove si rimarca che le leggi «[…] che stabiliscono sanzioni amministrative debbono garantire ai propri destinatari […] la conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: requisiti questi ultimi che condizionano la legittimità costituzionale di tali leggi regionali, al cospetto del diverso principio di determinatezza delle norme sanzionatorie aventi carattere punitivo-afflittivo, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
[vii] Cfr., ex multis, Corte cost. 21 marzo 2019, n. 63, in Giur. Cost., 2019, II, p. 819 e ss., ove si afferma che rispetto «[…] a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità ‘punitiva’, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della ‘materia penale’ - ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior […] - non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. […] L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento». A siffatte conclusioni è possibile derogare unicamente nei casi in cui «[…] sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo ‘vaglio positivo di ragionevolezza’, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale».
[viii] Cfr., per tutte, Corte cost. 10 maggio 2019, n. 112, in Giur. Cost., 2019, III, p. 1364 e ss., ove si rimarca che «[…] non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative».
[ix] Cfr., nella giurisprudenza convenzionale, Corte Edu, 4 marzo 2014 (‘Grande Stevens e a. c. Italia’), in Giur. Cost., 2014, III, p. 2919 e ss.; e, con un parziale revirement, Id., Grande Chambre, 15 novembre 2016 (‘A e B c. Norvegia’), in Cass. Pen., 2017, III, p. 1227 e ss., ove – com’è noto – si rimette al giudicante la valutazione in ordine al ‘coordinamento’ (temporale e nell’oggetto) tra i due procedimenti nonché la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria nei casi in cui operi il ‘cumulo’.
[x] Il riferimento è al diritto al silenzio dell’incolpato (‘nemo tenetur se detegere’), riconosciuto – con riguardo alle sanzioni amministrative punitive – da Corte cost. 30 aprile 2021, n. 84, in Giur. Cost., 2021, II, p. 1028 e ss. Sia consentito rinviare, per un commento alla pronuncia cit., a M. Allena - S. Vaccari, Diritto al silenzio e autorità di vigilanza dei mercati finanziari, in Riv. Dir. Banc., 2022, III, p. 689 e ss.
[xi] Cfr. M. Clarich, Quando i poteri delle autorità di Vigilanza possono anche sconfinare nell’arbitrio, in Milano-Finanza, 16 febbraio 2022, ove si rileva che «[…] al di là delle garanzie di difesa nei procedimenti sanzionatori, un altro versante critico è quello della tutela giurisdizionale a valle della sanzione o di altri provvedimenti repressivi». Invero, «[l]e statistiche, in particolare nei procedimenti della Consob e della Banca d’Italia, dimostrano che quasi mai le parti private riescono a far annullare nel merito i provvedimenti sanzionatori. I giudici tendono infatti a confermare le valutazioni delle autorità e le conclusioni raggiunte specie là dove si tratta di casi ad alta complessità tecnica».
[xii] Cfr., per la chiarezza, Cons. Stato, sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1595, in Foro amm., 2015, III, p. 763 e ss.: «[i]l sindacato di full jurisdiction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale. La piena giurisdizione implica il potere del giudice di condurre un’analisi “point by point” su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione, senza ritenersi vincolato all’accertamento compiuto dagli organi amministrativi e anzi dovendo sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell’amministrazione. In altre parole, quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco». Sul tema cfr., in dottrina, M. Allena, La full jurisdiction tra sindacato di “maggiore attendibilità” del giudice amministrativo e mito della separazione dei poteri, in A. Carbone (a cura di), L’applicazione dell’art. 6 CEDU nel processo amministrativo dei paesi europei, Napoli, 2020, p. 23 e ss.
[xiii] Si v., per tutti, S.L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Torino, 2018, p. 27, ove si è, innanzitutto, evidenziato che «[…] una rilevante differenza tra processo volto alla irrogazione della sanzione penale e procedimento volto alla irrogazione della sanzione amministrativa risiede nello standard probatorio applicabile». Com’è noto, infatti, mentre «[…] nel processo penale, in considerazione della rilevanza degli interessi in gioco, può giungersi ad una sentenza di condanna solo ove la colpevolezza per il reato sia accertata ‘oltre il ragionevole dubbio’, per il processo civile e amministrativo, così come a fortiori per il procedimento amministrativo, è richiesto un minore standard probatorio, compendiato nella formula del ‘più probabile che non’. Di conseguenza, deve ritenersi che anche nei procedimenti di irrogazione delle sanzioni amministrative dovrà applicarsi tale ultimo standard probatorio». Preso atto di ciò, l’A. ha dovuto constatare che «[l]a questione non è stata messa pienamente in luce dalla dottrina che ha studiato la sanzione amministrativa, ma a nostro avviso assume oggi rilevanza nell’analisi degli aspetti differenziali che intercorrono tra questa e la sanzione penale».
[xiv] Il riferimento è alle sentenze T.a.r Lazio, Roma, sez. I, Id., 27 luglio 2020, n. 8769; Id. 27 luglio 2020, n. 8774; Id., 27 luglio 2020, n. 8775; Id., 27 luglio 2020, n. 8776; Id., 27 luglio 2020, n. 8777; Id., 27 luglio 2020, n. 8778; Id., 27 luglio 2020, n. 8779.
[xv] Cfr. T.a.r Lazio, Roma, sez. I, 27 luglio 2020, n. 8765; Id., 27 luglio 2020, n. 8767; Id., 27 luglio 2020, n. 8768.
[xvi] Cfr., nella giurisprudenza europea in materia di illeciti anticoncorrenziali, CGUE 7 gennaio 2004, in C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P (‘Aalborg Portland A/S e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 55 e ss., ove si chiarisce che «[p]oiché sono noti tanto il divieto di partecipare a pratiche e accordi anticoncorrenziali quanto le sanzioni che possono essere irrogate ai contravventori, di norma le attività derivanti da tali pratiche ed accordi si svolgono in modo clandestino, le riunioni sono segrete, spesso in un paese terzo, e la documentazione ad esse relativa è ridotta al minimo. Anche se la Commissione scoprisse documenti attestanti in modo esplicito un contatto illegittimo tra operatori, come i resoconti di una riunione, questi ultimi sarebbero di regola solo frammentari e sporadici, di modo che si rivela spesso necessario ricostituire taluni dettagli per via di deduzioni. Nella maggior parte dei casi, l’esistenza di una pratica o di un accordo anticoncorrenziale dev’essere dedotta da un certo numero di coincidenze e di indizi i quali, considerati nel loro insieme, possono rappresentare, in mancanza di un’altra spiegazione coerente, la prova di una violazione delle regole sulla concorrenza». Analogamente, cfr. CGUE 1° luglio 2010, in C-407/08 P (‘Knauf Gips KG c. Commissione europea’), § 49. In materia di sanzioni per violazione delle disposizioni sull’intermediazione finanziaria si v. Cass. civ., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20930, in Foro it., 2010, XI, p. 3129 e ss., ove la Corte «[s]ulla generale premessa per cui la responsabilità va provata dall’amministrazione» e «[…] dopo avere ribadito il pieno rispetto del principio dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in capo all’ente sanzionante» ritiene ammissibile la possibilità di «[…] ricorrere con ampiezza a presunzioni idonee in ordine alla prova, da parte dell’amministrazione, dell’elemento oggettivo della condotta».
[xvii] Cfr. l’art. 533, co. 1, c.p.p. ove, nella versione vigente (che segue alle modifiche apportate dall’art. 5, co. 1, della l. 20 febbraio 2006, n. 46), si dispone che «[i]l giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Sullo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio restano fondamentali, in giurisprudenza, i precedenti Cass. pen., Sez. Un., 30 ottobre 2003, n. 45276 (‘Andreotti’), in Cass. pen., 2004, III, p. 811 e ss.; Id., 10 luglio 2002, n. 30328 (‘Franzese’), in Foro it. 2002, II, p. 601 e ss.; Id., 21 aprile 1995, n. 11 (‘Costantino’), in Giust. pen., 1996, III, p. 321 e ss. Sul piano comparato, anche in chiave storica, cfr. il § 1096 del ‘Penal Code of California’, ove si rinviene la seguente (chiara) definizione di ‘ragionevole dubbio’ (rispetto al quale si v. l’altrettanto noto precedente ‘People of the State of California v. Orenthal James Simpson’, richiamato da Corte d’Assise di Milano 18 aprile 2005): «[a] defendant in a criminal action is presumed to be innocent until the contrary is proved, and in case of a reasonable doubt whether his or her guilt is satisfactorily shown, he or she is entitled to an acquittal, but the effect of this presumption is only to place upon the state the burden of proving him or her guilty beyond a reasonable doubt. Reasonable doubt is defined as follows: ‘It is not a mere possible doubt; because everything relating to human affairs is open to some possible or imaginary doubt. It is that state of the case, which, after the entire comparison and consideration of all the evidence, leaves the minds of jurors in that condition that they cannot say they feel an abiding conviction of the truth of the charge’». Per ogni approfondimento sullo standard in esame, cfr. in dottrina, oltre all’importante ricostruzione (anche sul piano culturale) offerta da F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003, p. 116 e ss., quantomeno G. Canzio - M. Taruffo - G. Ubertis, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio), in Criminalia, 2009, p. 305 e ss.; F. Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, I, p. 51 e ss.; M. Pisani, Riflessioni sul tema del ‘ragionevole dubbio’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, IV, p. 1243 e ss.; F. D’Alessandro, L’oltre ogni ragionevole dubbio sulla valutazione della prova indiziaria, in Cass. pen., 2005, III, p. 764 e ss.; M.C. Galavotti - F. Stella, ‘Oltre il ragionevole dubbio’ come standard probatorio. Le infondate divagazioni dell’epistemologo Laudan, in Riv. it. dir proc. pen., 2005, III, p. 883 e ss.; G. Canzio, L’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ come regola probatoria e di giudizio del processo penale, in Riv. it. dir proc. pen., 2004, I, p. 303 e ss.; C. Piemontese, Il principio dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ tra accertamento processuale e ricostruzione dei presupposti della responsabilità penale, in Dir. pen. proc., 2004, VI, p. 757 e ss.
[xviii] Si v., per tutte, T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3099, in Giustizia-amministrativa.it, ove – con riferimento alle sanzioni irrogate dall’AGCM in materia di tutela del consumatore (rilevanti, secondo un significativo orientamento, in senso penale ai sensi CEDU - cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. VI, 11 novembre 2019, n. 7699, in Giustizia-amministrativa.it) – si afferma che «[…] l’adozione di un provvedimento sanzionatorio per pratica commerciale scorretta nei confronti di un professionista deve comunque basarsi su un sostrato probatorio sufficiente a far ritenere, secondo il criterio del più probabile che non, che effettivamente il comportamento abbia avuto una, quantomeno apprezzabile, potenzialità lesiva».
[xix] Cfr., per l’impostazione generale, Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582, in Foro amm. CdS, 2008, I, p. 93 e ss., ove si afferma che «[…] ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale […]. Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”)». La Corte di Cassazione ha cura di precisare che «[d]etto standard di ‘certezza probabilistica’ in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)».
[xx] Si pensi, con riguardo alle sanzioni amministrative ‘depenalizzate’, all’art. 6, co. 11, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ove si dispone che «[i]l giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente».
[xxi] In termini generali, sebbene con riferimento allo standard probatorio in materia di interdittive antimafia, cfr. Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483, in Giustizia-amministrativa.it, ove – dopo lo svolgimento di talune premesse in ordine alla natura ‘abduttiva’ del ragionamento giudiziario – si afferma che «[è] nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del ‘più probabile che non’: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’evidence and inference».
[xxii] Cfr. Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5787, in Foro it., 2014, XII, p. 3568 e ss., ove – riflettendo in termini generali sulle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. – si sostiene che «[l]a prova logica, qual è appunto quella presuntiva, presuppone invece non la certezza, ma la mera probabilità d’un legame logico-causale tra fatto noto e fatto ignorato». Secondo la Corte di Cassazione, infatti, esiste «[…] una inferenza presuntiva tra fatto noto e fatto ignorato quando il secondo sia probabilmente la conseguenza più attendibile del primo». In questo senso cfr. Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 1962, n. 2971, ove già si precisava che una prova presuntiva deve ritenersi convincente quando da più indizi possa trarsi una ‘armonica spiegazione’, anche se alcuni di essi siano passibili di diversa interpretazione. Si v., anche, Cass. civ., sez. II, 10 agosto 2007, n. 17615, ove l’affermazione per cui «[i]n tema di sanzione amministrativa […] l’onere di provare tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell’illecito amministrativo sanzionato con l’ordinanza ingiunzione opposta, grava sull’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato, escluso il ricorso a presunzioni legali che non possono ritenersi stabilite a favore della stessa autorità se non quando i fatti sui quali esse si fondano siano tali far apparire l’esistenza del fatto ignoto come la conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità sempreché il giudizio su tale connessione sia motivato adeguatamente in relazione ai suddetti canoni». In materia di illeciti anticoncorrenziali, cfr. T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 14 novembre 2018, n. 10997, in Foro amm., 2018, XI, p. 2004 e ss., ove si afferma che «[…] il giudice amministrativo, nella materia in esame, è chiamato comunque ad operare un sindacato estrinseco sulla correttezza logica dell’operato dell’Autorità, al fine di verificare l’‘iter’ ricostruttivo da questa seguito nell’analisi della norma e della sua applicabilità ai fatti concreti […], accertando, in sostanza, se la ‘possibilità’ di pregiudizio alla concorrenza su un dato mercato, a scongiurare la quale la legislazione in materia è volta, si sia tradotta o meno, nell’attuazione pratica posta in essere dagli operatori economici, in una situazione di apprezzabile ‘probabilità’ di lesione, valutando il potenziale impatto negativo delle relative condotte sulla concorrenza, con riguardo al contesto giuridico ed economico»; nonché Id., 2 dicembre 2014, n. 12168, in Foro it. 2015, I, p. 29 e ss., ove si conclude nel senso che l’autorità amministrativa «[…] ha dunque svolto una adeguata istruttoria, e ciò ha condotto al rinvenimento di numerosi ed univoci elementi indiziari circa la ragionevole sussistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza, […], è ciò rende non irragionevole, e quindi non sindacabile, la valutazione di rilevante gravità della condotta che l’Autorità ha adottato nella decisione impugnata».
[xxiii] Cfr. K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica. I. Il realismo e lo scopo della scienza, I, Milano, 1984, p. 35: «[u]n’asserzione o teoria […] è falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa».
[xxiv] Cfr., per tutte, Cass. civ., sez. I, 4 febbraio 2005, n. 2363, nella parte in cui si rileva che «[s]e è vero […] che l’opposizione all’ordinanza irrogativa di una sanzione amministrativa introduce un ordinario giudizio di cognizione sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, cui spetta l’onere di dimostrarne gli elementi costitutivi, è altrettanto vero che detta autorità può avvalersi di presunzioni che trasferiscono a carico dell’intimato l’onere della prova contraria, purché i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità e secondo regole di esperienza». In senso analogo cfr. Cass. civ., sez. I, 16 marzo 2001, n. 3837, in Foro it. 2002, I, p. 1502 e ss.
[xxv] La suddetta affermazione è assolutamente consolidata nella giurisprudenza convenzionale. Cfr., per tutte, Corte Edu, 27 settembre 2011 (‘Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia’).
[xxvi] Cfr., in particolare, Trib. UE, sez. II amp., 10 novembre 2017, in T-180/15 (‘Icap plc c. Commissione europea’), § 256 s., ove si osserva che il principio di presunzione di innocenza «[…] costituisce un principio generale del diritto dell’Unione attualmente sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, il quale si applica alle procedure relative a violazioni delle norme sulla concorrenza applicabili alle imprese, che possono sfociare nella pronuncia di multe o ammende». Il principio richiamato, inoltre, «[…] implica che ogni persona accusata è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Essa osta, quindi, a qualsiasi constatazione formale ed anche a qualsiasi allusione alla responsabilità della persona cui sia imputata una data infrazione in una decisione che pone fine all’azione, senza che la persona abbia potuto beneficiare di tutte le garanzie inerenti all’esercizio dei diritti della difesa nell’ambito di un procedimento che segua il suo corso normale e si concluda con una decisione sulla fondatezza dell’addebito». Cfr., anche, Corte Edu, 1° aprile 2007 (‘Geerings c. Paesi Bassi’), § 41 e ss.
[xxvii] Sul piano domestico è possibile riferirsi al principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, co. II, Cost. («[l]’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»). Il principio in discorso è sancito anche dall’art. 11, § 1, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ove si afferma che «[o]gni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa».
[xxviii] Con riferimento agli illeciti in materia antitrust, è stata avanzata in dottrina (cfr. M. Cappai, Il delicato equilibrio tra full jurisdiction ed effettività del diritto antitrust nel sindacato dei provvedimenti dell’Agcm, in Dir. soc., 2018, IV, p. 746), la proposta ricostruttiva secondo cui l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 15, co. 1, della l. 10 ottobre 1990, n. 287, impedirebbe «[…] all’Autorità di accertare e sanzionare l’illecito in presenza di valide ragioni addotte dall’accusato a difesa dei propri comportamenti». Secondo questa tesi, infatti, il principio di presunzione di innocenza, di cui all’art. 6, § 2, CEDU, dovrebbe valere quale parametro interposto idoneo a conformare la disposizione cit. della l. n. 287/1990, abilitando per l’effetto il giudice amministrativo a censurare – nella forma della violazione di legge – le decisioni dell’Autorità che non abbiano adeguatamente esaminato le difese ‘attendibili’ o ‘maggiormente attendibili’ addotte dall’asserito trasgressore in sede procedimentale. In altri termini, laddove «[…] simili prospettazioni difensive siano state tempestivamente e ritualmente dedotte in sede procedimentale e l’Autorità nel provvedimento finale abbia omesso di prendervi specificamente posizione oppure vi abbia semplicemente preferito, a parità di pregio, la propria (diversa) ricostruzione, tale carenza potrebbe ridondare anzitutto in una semplice violazione di legge ex art. 21-octies legge n. 241/1990 (se, appunto, l’art. 15, comma 1 legge n. 287/1990 fosse letto in combinato disposto con l’art. 6, § 2 CEDU)».
[xxix] La sentenza, a sua volta, riprende una massima espressa dal giudice europeo. Cfr. CGUE 22 novembre 2012, in C-89/11 P (‘E.ON Energie AG c. Commissione europea’), § 72, nella parte in cui si afferma che «[…] qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione […]. Infatti, la presunzione di innocenza costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, oggi sancito dall’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
[xxx] Cfr., ancora, CGUE 22 novembre 2012 cit., § 74, ove si sostiene che «[…] il giudice dell’Unione sarà indotto ad annullare la decisione di cui trattasi qualora le imprese interessate adducano un’argomentazione che ponga in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consenta quindi di sostituire una diversa spiegazione plausibile dei fatti a quella indicata dalla Commissione per concludere per la sussistenza di un’infrazione. Infatti, in un’ipotesi del genere, non si può considerare che la Commissione abbia fornito la prova della sussistenza di un’infrazione al diritto della concorrenza»; nonché, già in precedenza, CGUE 31 marzo 1993, in C-89/85, C-104/85, C-114/85, C-116/85, C-117/85 e da C-125/85 a C-129/85 (‘Ahlström Osakeyhtiö e a. c. Commissione delle Comunità europee’), § 126, ove si è annullata la decisione impugnata sulla base della constatazione per cui «[…] nella fattispecie, la spiegazione del parallelismo di comportamenti basata sulla concertazione non è l’unica plausibile»; e CGUE 28 marzo 1984, in C 29/83 e 30/83 (‘Compagnie royale asturienne des mines SA e Rheinzink Gmbh c. Commissione delle Comunità europee’), § 16, nella parte in cui si rileva che «[i]l ragionamento della Commissione è basato sull’ipotesi che i fatti accertati non possano essere spiegati se non con un’intesa fra le due imprese. Di fronte ad un assunto del genere, basta alle ricorrenti provare delle circostanze che pongano in una luce diversa i fatti accertati dalla Commissione e che consentano quindi di sostituire una diversa spiegazione dei fatti a quella indicata nel provvedimento impugnato».
[xxxi] Cfr. G. Canzio, Il dubbio e la legge, in Dir. pen. cont., 20 luglio 2018, p. 2, ove si rinviene la seguente definizione di ‘dubbio ragionevole’: «[…] non qualsiasi, possibile dubbio, astrattamente sempre configurabile, né il dubbio marginale, ma solo quello che, sorretto da oggettive evidenze probatorie, sia in grado di destrutturare l’apparente solidità dell’enunciato di accusa e, grazie all’opera maieutica del contraddittorio, immettere nel ragionamento giudiziale una plausibile spiegazione alternativa del fatto». Sui riflessi che lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio dispiega (in senso limitativo) sul principio del libero convincimento del giudice cfr. F. Stella, Giustizia e modernità, cit., p. 207, ove si chiarisce che «[l]a libertà del giudice è talmente vincolata che egli non può valutare le prove, la loro sufficienza o insufficienza, secondo un parametro purchessia, o, di nuovo, secondo il suo imperscrutabile giudizio; in particolare, non è libero di valutare le prove secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che no’: se le prove presentate dall’accusa sono ‘preponderanti’ ma lasciano aperti dei dubbi, egli dovrà prosciogliere. E dovrà farlo perché glielo impone la legge: nel processo penale non basta che l’accusa presenti evidences ‘preponderanti’, giacché il suo onere probatorio si modella sullo standard molto più stringente dell’‘oltre il ragionevole dubbio’».
[xxxii] Sull’applicazione di tale previsione si v., in particolare, CGUE 8 luglio 1999, in C49/92 P (‘Commissione delle comunità europee c. Anic Partecipazioni SpA’), § 86, ove si rimarca che «[i]n caso di controversia sulla sussistenza di un’infrazione alle regole di concorrenza, spetta alla Commissione fornire la prova delle infrazioni che essa constata e produrre gli elementi di prova idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti che integrano l’infrazione […]. In quest’ambito spetta in particolare alla Commissione produrre tutti gli elementi che portino a concludere nel senso della partecipazione di un’impresa a una simile infrazione e della sua responsabilità per i diversi elementi che comporta».
[xxxiii] Cfr. il 5° considerando del Regolamento n. 1/2003 cit.: «[i]l presente regolamento non incide né sulle norme nazionali in materia di grado di intensità della prova né sugli obblighi delle autorità garanti della concorrenza e delle giurisdizioni nazionali degli Stati membri inerenti all’accertamento dei fatti pertinenti di un caso, purché dette norme e detti obblighi siano compatibili con i principi generali del diritto comunitario».
[xxxiv] Sullo sfondo vi è l’idea della differente declinazione della legalità ‘penalistica’ (nel senso CEDU) rispetto a quella amministrativa. Si v., a riguardo, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 76, ove si rileva che «[…] le norme penali “definiscono” da sé i termini del conflitto tra le sfere giuridiche coinvolte; le norme amministrative “indirizzano” l’azione regolatrice degli apparati amministrativi, per fare in modo che gli stessi ‒ in quanto delegati dall’ordinamento a “comporre” la gerarchia degli interessi coinvolti ‒ operino in modo imparziale e coerente con l’indirizzo politico-amministrativo». Per queste ragioni, «[…] l’atto di accertamento dell’illecito amministrativo si configura, sul piano strutturale e funzionale, in termini diversi dalla nozione di “provvedimento”». Per la differente tesi, volta a sostenere la compatibilità tra la discrezionalità e la potestà sanzionatoria dell’amministrazione, con conseguente titolarità della posizione giuridica di interesse legittimo in capo al privato, cfr. S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017, p. 383 e ss., ma anche passim.
[xxxv] Cfr. D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 77.
[xxxvi] La formula ‘giudizio sul rapporto’ è qui utilizzata in funzione meramente descrittiva e non in chiave dogmatica. Cfr., in proposito, D. Simeoli, Le sanzioni amministrative ‘punitive’ tra diritto costituzionale ed europeo, cit., p. 80, ove giustamente si osserva che «[n]ei giudizi sulle sanzioni amministrative punitive, oggetto del processo è, dunque, sia l’atto, sia il fatto illecito»: di talché, il controllo giudiziale è incentrato (p. 81) «[…] sul fondamento della pretesa punitiva dell’autorità amministrativa, potendo l’incolpato contestare, non solo il modo con cui gli è stata applicata la sanzione, ma anche la stessa esistenza del “fatto”, nonché la concreta configurabilità giuridica della violazione».
[xxxvii] Cfr., in particolate, quanto affermato da Cass. civ., Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, ove si afferma che – al cospetto di provvedimenti amministrativi – il giudice «[…] non può esercitare un controllo c.d. di tipo forte sulle valutazioni tecniche opinabili, che si tradurrebbe nell’esercizio da parte del suddetto giudice di un potere sostitutivo spinto a sovrapporre la propria valutazione a quella dell’amministrazione, fermo però restando che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile un controllo di ragionevolezza, logicità, coerenza». Cfr., tuttavia, quanto rilevato da G. Greco, L’illecito anticoncorrenziale, il sindacato del giudice amministrativo e i profili tecnici opinabili, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2021, III-IV, p. 487, ove si osserva che la prospettiva volta a limitare il sindacato del giudice amministrativo sui profili tecnici che caratterizzano – con larga frequenza – le fattispecie sanzionatorie si muove «[…] secondo la linea interpretativa che tende a stabilire il carattere illecito o lecito della condotta attraverso la legittimità o meno della decisione dell’Autorità (trasformando così un presupposto sostanziale in limite della discrezionalità)». Ad avviso dell’A. (p. 489), la condotta basata su una valutazione ‘possibile’, sebbene opinabile, deve essere considerata ‘lecita’ (o, quantomeno, non illecita). In termini generali, cfr. anche quanto autorevolmente osservato da F.G. Scoca, Giudice amministrativo ed esigenze del mercato, in Dir. amm., 2008, II, p. 257 e ss., ove – con riferimento ai provvedimenti delle autorità neutrali (e, in specie, dell’AGCM) – si è affermato che, trattandosi di atti che incidono su diritti soggettivi, si «[…] può pensare che il provvedimento amministrativo sia tale soltanto nella forma, ma non nella sostanza, e che, nel giudizio, venga ad emergenza non tanto l’atto (la legittimità dell’atto) quanto direttamente la situazione soggettiva, che ha natura, come si è detto, di diritto soggettivo» (p. 261). Di conseguenza, siccome «[…] non possono esservi scelte tecniche (tecnico-discrezionali) riservate all’Autorità, dato il carattere neutrale del suo potere, la natura decisoria dei suoi provvedimenti, e la loro incidenza su diritti soggettivi», sul piano processuale «[…] quello che viene qualificato come un giudizio di legittimità, si rivela in realtà essere un giudizio di verità e di fondatezza» (p. 265).
[xxxviii] Il ragionamento ripreso in corpo trova una più compiuta articolazione argomentativa nella precedente decisione, a firma del medesimo estensore, Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990, in Dir. proc. amm., 2020, III, p. 740 e ss. (con importanti argomentazioni – in chiave critica – di M. Del Signore), ove si riflette sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM nel quadro dei (più generali) rapporti tra diritto e tecnica. Ivi, infatti, si osserva che «[m]entre gli studiosi del diritto civile e penale non hanno mai dubitato del fatto che la “decodificazione” dei concetti giuridici indeterminati spetti al giudice, cui è deputata la responsabilità istituzionale di estrapolare la norma dalla disposizione, nel diritto amministrativo si è per lungo tempo pensato ad essi come ad un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione, non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale, se non attraverso i dettami della c.d. “discrezionalità tecnica”. Nella sua primigenia formulazione, il principale corollario di tale concetto ‒ che, peraltro, non ha mai raggiunto una definizione ed uno statuto univoco ed, anzi, ha dato luogo in passato a sofisticate categorizzazioni ‒ era quello di delimitare il controllo giudiziale sulle valutazioni complesse all’interno di una prospettiva critica del tutto estrinseca ed esterna rispetto alla fattispecie concreta». In materia sanzionatoria, invece, «[…] non pare corretto impostare il discorso sul grado di intensità del controllo giurisdizionale sugli atti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in termini di possibilità o meno di sindacato sostitutivo del giudice. Non operano infatti i limiti cognitivi insiti nella tecnica del sindacato sull’esercizio del potere, quando il giudice è pienamente abilitato a pervenire all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale invocata (nella specie, l’accertamento della realizzazione o meno dell’intesa illecita punita con una pesante sanzione pecuniaria)». Per una diversa impostazione, fondata sul presupposto teorico della presenza di discrezionalità (pura e tecnica) nell’attività sanzionatoria dell’AGCM, cfr. M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro ... e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, in Federalismi.it, n. 21/2019, p. 40, ove si perviene alla formulazione della proposta ricostruttiva – pur sempre incentrata sulla valorizzazione del principio di presunzione di innocenza – per cui «[r]imanendo all’interno di una giurisdizione di legittimità e senza andare dunque a snaturare la natura demolitoria del giudizio amministrativo di annullamento, si titolerebbe in questo modo il G.a. ad accogliere la censura di violazione o falsa applicazione di legge in tutti quei i casi in cui, specie con riferimento all’attività di contestualizzazione dei concetti generali al caso concreto e di applicazione della norma contestualizzata al fatto concreto, la parte sia riuscita a fornire una spiegazione “attendibile” dei propri comportamenti incorrendo nondimeno in una sanzione». Il suddetto precedente è stato, tuttavia, ‘ridimensionato’ dalla medesima Sezione con la sentenza – di pochi mesi successiva – Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2019, n. 6022, in Foro amm., 2019, IX, p. 1471 e ss., ove si è affermato che «[i]l sindacato giurisdizionale volto ad accertare le intese anticoncorrenziali è finalizzato a verificare se l’Autorità ha violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali».
[xxxix] Cfr. Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77, in Giur. cost., 2007, II, p. 726 e ss. (con nota di A. Mangia), ove si rimarca che «[s]e è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi». Di talché, «[q]uesta essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale».
[xl] Si badi, nell’accezione di standard effettivamente ‘applicato’ dal giudicante e non quale mera formula verbale richiamata dalle sentenze di merito.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
