1) La detenzione, oggi, consente una prospettiva di risocializzazione e di reinserimento nel mondo del lavoro? Cosa ha visto funzionare e cosa manca?
La detenzione dovrebbe consentire una prospettiva di socializzazione e di inserimento nel mondo del lavoro, così come previsto dall’art 27 della nostra costituzione. Non utilizzo il suffisso -ri- in quanto molte delle persone che finiscono in carcere provengono da quello che io definisco una condizione sociale deprivata: di opportunità, di cultura, di lavoro. I dati dello scorso anno ci dicono che solo il 10% delle persone che entra in carcere ha un diploma di scuola superiore e questo ci deve interrogare maggiormente per capire i contesti di provenienza di queste persone. Cosa è mancato? Quali opportunità non sono state offerte a partire dalla scuola? Ed allora il carcere da solo non può farcela, non è attrezzato per costruire e ri-costruire queste opportunità. Lo può fare solo se si apre al mondo esterno, alle associazioni, al volontariato, alle comunità e se gli enti locali intervengo con politiche attive. Fra le politiche attive e quindi servizi ed opportunità annovero in primo luogo l’alloggio: molti senza fissa dimora arrivano in carcere perché non hanno un domicilio da indicare per scontare misure alternative alla detenzione; formazione professionale e lavoro sono altro elemento indispensabile da acquisire durante il periodo detentivo; la scuola, i momenti culturali (teatro e scrittura). Nella mia esperienza di questi anni ho potuto constatare che lì dove queste opportunità sono state costruite è stato possibile costruire il cambiamento ed abbattere la recidiva. C’è bisogno di un maggior lavoro di coordinamento dei vari ambiti di interventi e forse la nascita dei consigli di aiuto sociale (pure previsti nell’ordinamento penitenziario e mai attuati) potrebbero favorire questo lavoro di squadra.
2) La detenzione femminile, come vivono le detenute la loro condizione, soprattutto negli istituti di detenzione non dedicati ove sono presenti solo sezioni separate?
Le donne in carcere rappresentano (fortunatamente) solo il 4,2 % della popolazione detenuta (la media dei Paesi del Consiglio di Europa è del 4,7%). In Italia abbiamo 4 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) che accolgono di media ¼ del numero complessivo di donne detenute (circa 610 donne su 2314). Le altre (circa 1700) sono distribuite nelle 45 sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti maschili: da 117 a Torino fino ad arrivare 4 a Paliano e 3 a Mantova. Le donne straniere (dati al 30 giugno 2022) erano 710 (30,7% delle donne detenute).
Conosco bene il carcere femminile di Rebibbia (il più grande di Europa con una media di 350 donne presenti). Si tratta sempre di un carcere, ma si avverte che è pensato al “femminile” con spazi, attività e servizi maggiormente pensati per donne. A partire dalle scuole (sia di alfabetizzazione che superiori), formazione professionale, attività culturali e sportive. Maggiore attenzione alla sanità (anche se su questo versante i servizi stanno complessivamente peggiorando in tutti gli istituti penitenziari). La fortuna di Rebibbia femminile è la presenza di un ottimo Magistrato di Sorveglianza (il dott. Marco Patarnello) che è molto presente in istituto, incontra le detenute, le ascolta, e lì dove è possibile con gli strumenti legislativi attuali, costruisce misure alternative alla detenzione. E questo è stato fondamentale soprattutto per quello che riguarda l’annosa vicenda delle mamme detenute con i bimbi in carcere.
Situazione diversa si verifica nelle sezioni femminili ricavate all’interno degli istituti penitenziari maschili. L’ordinamento penitenziario in vigore dal 2018 prevede esplicitamente che le donne ospitate in istituti maschili debbano essere un numero tale da non compromettere l’attività trattamentale. Ma questo è difficile da applicare quando, per assurdo, i piccoli numeri di donne presente non favoriscono l’organizzazione di attività dedicata. Per non parlare dei limiti delle strutture: il 30%delle celle ospitanti donne non ha il bidet (nonostante sia previsto dal regolamento penitenziario del 2000) e nel 17,4% non vi è servizio di ginecologia.
3) Essere madri in carcere. Quale idea si è fatta, nel corso della sua esperienza, sul rapporto tra genitorialità e detenzione? Le condizioni detentive, dalla legge 354/75 in avanti riescono a tutelare il “superiore interesse del minore” anche nella prospettiva dell’attuazione della legge 62 del 2011?
Quando per la prima volta ho varcato la soglia del nido del carcere di Rebibbia, a luglio del 2017, vi erano 16 donne e 18 bambini. Quando ho finito il mio mandato, marzo 2022, nello stesso nido vi erano due mamme e due bambini. Un risultato quindi molto importante che è stato possibile per due condizioni fondamentali: la prima è quella di aver aperto a Roma la prima struttura protetta per detenute mamme con bambini e gestita dal terzo settore e la seconda di aver avuto la fortuna di poter contare sulla sensibilità e presenza del Magistrato di Sorveglianza con il quale si sono affrontate in tempi celeri tutte le questioni legate all’individuazione di misure alternative per queste mamme. Facile quando si è trattato di donne che avevano domicilio all’esterno, più complicato quando ci siamo trovate davanti a ragazze, principalmente rom, che vivevano nei campi. Ma alla fine fra casa protetta e comunità il posto si è sempre trovato. Il Nido di Rebibbia è comunque una struttura di avanguardia, con puericultrici, nido all’esterno dove i bambini vengono accompagnati con un servizio garantito dal Municipio, la presenza costante di associazioni che si occupano di organizzare attività ricreative per i bambini comprese le gite all’esterno il sabato mattina. In questi anni sono stati pensati e costruiti gli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri ). Anche a Roma ne è stato allestito uno che non è però funzionante, proprio perché la strada fino ad oggi intrapresa è stata quella dei domiciliari in casa protetta. Vi è stata molta attesa in questo periodo per l’approvazione della legge presentata dall’on. le Paolo Siani nella scorsa legislatura che prevedeva il divieto per legge del carcere per le mamme con bambini piccoli. La legge passata al Senato nella scorsa legislatura, non ha visto la luce alla Camera ed è stata ripresentata in questa nuova legislatura. È notizia di questi giorni che tale proposta è stata ritirata in quanto non si è trovato accordo fra i gruppi parlamentari. Rimangono quindi 24 bambini in carcere (in tutta Italia) ed anche se si tratta di un numero esiguo, rappresentano un vulnus per la nostra democrazia.
4) La gestione del disagio psichico nell’universo penitenziario. Come l’amministrazione penitenziaria si confronta con le peculiarità del percorso di un detenuto affetto e che incidenza ha avuto la soppressione degli O.P.G.?
La presenza in carcere di persone con problemi di salute mentale è in aumento continuo e questo crea problemi all’interno degli istituti penitenziari, sia per la gestione del quotidiano e sia per la carenza di cure che vengono offerte a queste persone. La gestione del servizio sanitario all’interno degli istituti penitenziari è da tempo di competenza delle Asl. Ma come sempre accade in questi casi, i servizi non sono uniformi in tutta Italia e si assiste spesso a carenza di personale specializzato ed a mancanza strutture di accoglienza specifiche sul territorio. Ritroviamo quindi nelle celle persone con forte disagio psichico (che in regime di detenzione è destinato ad aumentare) e molto spesso sono solo gli agenti della penitenziaria a dover gestire queste situazioni difficili durante tutta la giornata (e la notte). Sono in aumento gli atti di autolesionismo per non parlare del numero dei suicidi (lo scorso anno 84). Diminuisce il numero degli operatori presenti e molto spesso i bandi per il reclutamento di personale specializzato vanno deserti (soprattutto dopo la pandemia Covid). Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono stati chiusi (e questo è stato un bene). Al loro posto hanno visto la luce le Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza) i cui posti sono stati ipotizzati tenendo conto dei pazienti di ogni regione presenti negli Opg al momento della loro chiusura. Il più delle volte i posti non risultano attualmente sufficienti per le persone che debbono scontare la misura di sicurezza e si crea quindi una lunga lista di attesa. La cosa ancor più grave è che alcune persone rimangono in carcere in attesa di trovare posto e sono “sine titulo”: la permanenza in carcere diventa illegale. Personalmente ho attivato, seguito e vinto due ricorsi alla Cedu (Corte Europea dei diritti dell’Uomo) per due ragazzi che erano in carcere in quanto il posto in Rems non si era trovato. L’Italia è stata già richiamata per queste inadempienze ed è necessario realizzare una maggiore sinergia fra Ministero della Giustizia e quello della Salute per cercare di affrontare questa questione così delicata
5) Nell’organizzazione degli istituti penitenziari da Lei seguiti ha avuto modo di verificare l’adozione di percorsi trattamentali che tutelino le individualità dei detenuti transessuali? Quali sono le criticità che ha incontrato e se e come l’ordinamento penitenziario ha apprestato garanzie di tutela?
La condizione delle persone transessuali e transgender in carcere necessita, a mio avviso, di una maggiore attenzione da parte delle autorità competenti. L’ordinamento penitenziario non ha mai considerato la peculiarità di queste persone e non a caso ci troviamo oggi ad avere sezioni transessuali all’interno degli istituti penitenziari maschili. Con tutto ciò che questa convivenza provoca all’interno del reparto. Ho faticato molto all’inizio del mio mandato per far garantire i diritti necessari per la loro condizione, a partire dalle cure ormonali che molti avevano già intrapreso all’esterno e che debbono continuare anche in regime detentivo; stessa difficoltà anche per favorire la sorveglianza dinamica che permette una maggiore mobilità all’interno della sezione ed il diritto allo studio ed al lavoro (anche quello interno). Fortunatamente a Rebibbia Nuovo Complesso, dove è situato il reparto per le persone transessuali, si è creta una condizione favorevole sia con la direzione (Dott.ssa Rosella Santoro) che con una ispettrice (Dott.ssa Cinzia Silvano) che hanno favorito tutte queste innovazioni e che hanno reso questo reparto più vivibile. E’ necessario però prevedere una formazione specifica per gli operatori (sia educatori che polizia penitenziaria) affinché ci sia maggiore conoscenza delle esigenze delle persone transessuali. Da quello che mi risulta dovrebbero essere istituite a breve dei padiglioni in alcune territori italiani per superare le attuali anomalie.
6) Il rispetto dei valori di libertà e di dignità nella “detenzione amministrativa dei migranti” e l’affidamento della gestione dei servizi a figure private. Qual è la sua esperienza?
I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) sono un obbrobrio che deve essere “superato”. Nati con l’obiettivo di trattenere per poco tempo persone straniere sprovviste di documenti ed in attesa dell’iter di identificazione, sono diventati molto spesso luoghi di sofferenza e di violazione di diritti fondamentali. Oltre che per la precarietà delle strutture, luoghi fatiscenti e privi delle più elementari basi di accoglienza, sono diventati facili strumenti di arricchimenti per società private. Sono tantissimi gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno accompagnato il loro proliferare. Tante le denunce da parte di associazioni che si occupano di diritti umani. Nella mia funzione di Garante ho visitato più volte il CPR di Ponte Galeria ed ho sempre registrato criticità. Dai bagni senza porte per gli alloggi delle donne, alle zanzare che in estate invadono la zona, al cibo scadente, alla mancanza di qualsiasi attività di socializzazione. Gli ingressi dei volontari sono vietati, cosi come quelle della stampa. Solo nell’ultimo anno, e grazie all’impegno del Garante Nazionale Mauro Palma, è stato reso possibile l’accesso del Garante territoriale senza previa autorizzazione della Prefettura. E questi Centri costano molto allo Stato. Gli appalti sono gestiti dalle Prefetture e dai bilanci dell’ultima società che gestisce il cpr di Ponte Galeria si evince che sono diventati un ottimo business.
L’attuale gestore del cpr di Ponte Galeria è il gruppo ORS, società con sede a Zurigo e che gestisce strutture di accoglienza e trattenimento dei migranti in 4 paesi europei: Svizzera, Germania, Austria, Italia. Nel 2015 0RS è stato oggetto di un rapporto di Amnesty International che ha denunciato le condizioni inumane di accoglienza nei migranti nel centro austriaco di Traiiskirchen. Anche per la gestione del centro di Macomer e Monastir (Sardegna) sono state registrate molte criticità. L’appalto è stato affidato nel giugno del 2021 per un biennio alla somma di 7.201.998,38.[1]
Il gruppo ORS internazionale - che solo nel 2021 ha generato un fatturato di 97 milioni di euro - è stato acquistato il primo settembre 2022 da gruppo SERCO per 39 milioni. Il gruppo SERCO è una azienda britannica fondata nel 1929 nel regno unito. È specializzata nei trasporti privati, nel controllo del traffico, nell’aviazione, nei contratti delle armi militari e nucleari. [2]
Ecco perché mi sono chiesta e continuerò a farlo cosa c’entra tutto questo con l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti?
7) Un bilancio di questi 6 anni di esperienza quale Garante dei detenuti di Roma. Quale è stato il suo rapporto con la popolazione carceraria e cosa le rimane?
Una precisazione: la definizione esatta del mio ruolo è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e ciò significa che oltre al carcere il Garante deve occuparsi di tutti i luoghi dove sono trattenute le persone e quindi anche le caserme dei carabinieri e polizia, istituti minorili di pena, detenzioni domiciliari, le Rsa (residenze sanitarie per anziani), gli Hotspot e simili. E’ evidente che il carcere rimane il luogo per eccellenza della limitazione della libertà personale ed infatti la maggior parte del mio impegno in questi anni è stato all’interno dei 5 istituti penitenziari romani. Rebibbia comprende infatti 4 istituti: femminile, reclusione, circondariale e terza casa (cioè a custodia attenuata). Vi è poi Regina Coeli che dovrebbe essere un circondariale. Dico dovrebbe perché invece attualmente il 50% circa della popolazione detenuta ha condanne definitive e non dovrebbe essere lì. A Roma vi è anche l’istituto minorile di Casal del Marmo ed il Cpr di Ponte Galeria. Ogni giorno quindi a Roma abbiamo circa 3500 persone ristrette negli istituti di pena ed altrettante che scontano la pena ai domiciliari e/o nelle misure alternative. Sono entrata ogni giorno negli istituti di pena, anche durante il difficile lungo periodo del Covid. Ho ricevuto tantissime richieste: per cure sanitarie non effettuate, per richiesta di documenti, liberazioni anticipate da parte della magistratura di sorveglianza, ricerca di alloggio per poter ottenere i domiciliari, ricerca di un lavoro per prepararsi al dopo carcere. Ho toccato di persona le difficoltà che vivono le persone detenute che non hanno contesti famigliari esterni di supporto e di quanto sia vitale la possibilità di un colloquio o di una telefonata. Ho incontrato tante persone povere, senza fissa dimora, stranieri arrivati in Italia sperando di migliorare la propria condizione di vita e finiti in giri di spaccio, tossicodipendenti che dovrebbero essere curati nelle comunità. Ho parlato con persone da tanti anni detenute (soprattutto nel reparto di Alta Sicurezza) entrati giovani e con la licenza elementare. Molti di loro si sono addirittura laureati in carcere – un detenuto ha conseguito 4 lauree- fanno teatro, dipingono. Sono uomini profondamente cambiati. Non sono più “il reato “per il quale hanno ricevuto lunghe e dure condanne. Ma sono lì e ci rimarranno ancora perché il legislatore non è ancora riuscito ad affrontare i limiti previsti dal regime ostativo. Ho conosciuto Magistrati di Sorveglianza attenti e scrupolosi, disponibili al confronto e che hanno sempre risposte alle istanze inviate. Ho conosciuto anche Magistrati distratti ed assenti. Ho parlato e mi sono confrontata con tanti agenti della polizia penitenziaria: il loro lavoro è difficile e la lunga permanenza in una istituzione totale incide anche per loro. Molto spesso si trovano ad affrontare situazioni complicate e pericolose ed avrebbero bisogno di maggiori supporti ed attenzione per svolgere un ruolo così delicato. Ho incontrato tanta umanità dolente e capito che il carcere così come è ora non funziona e che rischia di essere il tappeto sotto il quale nascondere quello che la società all’esterno non riesce a prevenire ed intercettare. Alla fine di questi sei anni ho rafforzato la convinzione che la nostra società abbia bisogno di più sociale e meno penale.
[1] Fonte; Rapporto CILD (coalizione italiana libertà e diritti civili): "Buchi neri: la detenzione senza reato nei Cpr -ottobre 2021”;
[2] Fonte: Sharecast.com (sito di quotazioni azionarie).