ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Fabio Francario
Sommario: 1. – Le misure straordinarie per il processo amministrativo: dal d.l. 11/2020 al d.l. 18/2020; 2. - La sospensione dei termini processuali; 4. - Il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari conseguentemente all’introduzione del periodo di sospensione; 5. - Riti e modalità di decisione semplificati tanto per le domande cautelari quanto per quelle di merito: a) decisioni cautelari; b) decisioni di merito e altri camerali; c) Le ulteriori misure derogatorie introdotte dal comma 2 dell’art 84; 6.- Peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
1.- Le misure straordinarie per il processo amministrativo dal d.l. 11/2020 al d.l. 18/2020.
Il decreto – legge 17 marzo 2020, n. 18, decreto cd “Cura Italia”, detta “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Nel Titolo V reca “Ulteriori misure per fronteggiare l’emergenza derivante dalla diffusione del Civ-19” e, tra queste, misure volte a contrastare l’emergenza e a contenerne gli effetti in materia di giustizia. Le misure in materia di giustizia vengono definite “nuove” in quanto destinate a sostituire quelle in precedenza emanate con il d.l. 8 marzo 2020 n. 11, che aveva appunto recato “misure straordinarie e urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria”[1]. Il d.l. 11/2020 non è stato convertito in legge e le sue disposizioni vengono adesso sostituite da quelle recate dal nuovo d.l., che dispone l’abrogazione del primo conservandone tuttavia l’impianto sostanziale, con significativi aggiustamenti.
Preliminarmente è doveroso sottolineare che, come noto, l’abrogazione ha efficacia ex nunc e che il nuovo decreto - legge non prevede una disciplina transitoria per disciplinare i rapporti sorti per effetto dell’entrata in vigore del dl 11/2020, la mancata conversione del quale ne comporta comunque l’inefficacia ab origine. Detto in altre parole: se è vero che l’abrogazione ha efficacia ex nunc, è anche vero che, ai sensi dell’art 77 Cost., la mancata conversione in legge comporta la perdita di efficacia del decreto “sin dall’inizio”.
Il nuovo decreto non reca, almeno apparentemente, disposizioni volte a regolare “i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti” e i problemi interpretativi di diritto transitorio hanno trovato per quanto possibile risposta nelle disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 (Primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sulle disposizioni introdotte dall'art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18). La scelta fatta dal Governo è stata di riproporre, con significativi aggiustamenti, la disciplina sostanzialmente già introdotta dal primo decreto, facendo retroagire l’efficacia del nuovo decreto alla data di entrata in vigore del precedente. Il d.l. 18/2020, in buona sostanza, dispone (anche) retroattivamente sui rapporti processuali, a decorrere dall’8 marzo 2020.
Le disposizioni che interessano specificamente il processo amministrativo sono contenute nell’art. 84, rubricato Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza da COVID- 19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia amministrativa[2], il quale, nella sostanza, ripropone il disegno proprio già dell’art 3 del d.l. 11/2020. Anche il nuovo decreto prevede infatti misure che, in deroga alla disciplina generalmente dettata dal d. lgs. 104/2010, introducono:
3.- La sospensione dei termini processuali.
Il nuovo decreto conferma innanzi tutto la misura consistente nella introduzione di un periodo eccezionale di vigenza del regime della sospensione dei termini processuali a decorrere dall’8 marzo 2020. Rispetto alla previsione recata dal previgente dl 11/2020, il nuovo decreto precisa espressamente che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, dissipando i dubbi interpretativi che aveva originato il parere reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato reso nell’Adunanza del 10 marzo 2020.
La prima misura introdotta consiste nella sospensione dei termini processuali nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020, data di pubblicazione in GU del decreto, e il 22 marzo 2020. La disposizione recata dal comma 1 dell’art. 3 non individua particolari categorie di atti o di adempimenti processuali che debbano ritenersi sospesi, ma, attraverso il rinvio ai commi 2 e 3 dell’art 54 del d. lgs 104/2010, ritiene chiaramente applicabile, eccezionalmente nel suddetto periodo, l’istituto generale della sospensione dei termini processuali: “… dal 8 marzo 2020 e fino al 15 aprile 20202 … Tutti i termini relativi al processo amministrativo sono sospesi, secondo quanto previsto dalle disposizioni di cui all’art. 54 commi 2 e 3 del codice del processo amministrativo”. In realtà, come univocamente chiarito dai primi contributi dottrinari immediatamente apparsi sul tema[3], la formulazione del precedente d.l. 11/2020, che si limitava a dichiarare applicabili ““Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”, non dava adito a dubiti interpretativi di sorta. In piena aderenza ai principi generali che vogliono che la disciplina della sospensione dei termini nel periodo feriale si applichi indistintamente a tutti i termini processuali e che, in ragione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, la sospensione sia esclusa per i soli procedimenti cautelari (in quanto il principio sarebbe vulnerato ammettendo che possa aversi soluzione di continuità nella tutela cautelare), l’art 54 del d lgs 104/2010 al secondo comma dispone, senza alcuna limitazione, che “I termini processuali sono sospesi…” e al terzo comma che “La sospensione dei termini previsti dal comma 2 non si applica al procedimento cautelare”. In linea teorica, pertanto, la disposizione recata dal d.l. 11/20202 non aveva di per sé posto problemi interpretativi sull’applicabilità dell’istituto della sospensione dei termini processuali al periodo in questione, che erano stati però originati dal già citato parere della Commissione speciale, che aveva escluso la configurabilità di una vera e propria sospensione dei termini processuali ai sensi del pur richiamato art 54 d lgs 104/2010 e auspicato un intervento interpretativo da parte del legislatore [4].
Quel che realmente innova il nuovo d.l. è la durata del periodo di sospensione, originariamente prevista (dal 8 marzo) fino al 22 marzo 2020 e che viene adesso prolungata fino al 15 aprile 2020.
Dove il disposto dell’art 3 del d.l. 11/2020 aveva effettivamente posto un qualche problema interpretativo è stato con riferimento alle modalità di computo di quei termini, ad esempio per il deposito di memorie e documenti, che vengono calcolati a ritroso da un’udienza già fissata. Nel caso in cui il termine così calcolato venga in scadenza nel periodo di sospensione, è evidente che, differentemente dall’ipotesi generale della sospensione feriale, le parti non hanno previamente avuto contezza dell’esistenza del periodo di sospensione e si troverebbero nell’impossibilità di compiere quelle attività processuali i cui termini sarebbero già scaduti. Già in sede di commento al d.l. 11/2020 ho sostenuto che il problema deve trovare e trova soluzione nell’esercizio del potere presidenziale di riordino dei calendari e dei ruoli d’udienza e comunque nella facoltà di chiedere la rimessione in termini, previsti tanto nel vecchio quanto nel nuovo decreto. Nei casi in cui l’udienza non sia già stata rinviata d’ufficio o in cui il rinvio non risulti sufficiente a garantire il rispetto dei termini a difesa, la parte può chiedere di essere rimessa in termini e il giudice è vincolato al rinvio dell’udienza. Dal momento che la decadenza dal termine processuale è stata determinata da causa non imputabile alla parte perché dipendente da un evento assolutamente imprevedibile ed estraneo alla sua volontà, l’istanza di rimessione finisce con il vincolare il giudice al rinvio dell’udienza nei casi in cui non abbia già provveduto d’ufficio in tal senso al fine di assicurare il rispetto del contraddittorio, esponendo in caso contrario la sentenza resa in violazione del contraddittorio e del diritto di difesa all’annullamento con rinvio ai sensi dell’art 105 comma 1 del d. lgs. 104/2010. Se resa dal giudice di primo grado. E non è affatto da escludere che possano riaprirsi la porte della cassazione per rifiuto di giurisdizione delle sentenze, se rese dal Consiglio di Stato, in ragione del carattere aprioristico e generale della violazione del diritto di difesa.
4.- Il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari conseguentemente all’introduzione del periodo di sospensione
Dal momento che la sospensione dei termini processuali viene introdotta con riferimento ad un periodo in cui risultano già fissate udienze pubbliche e camerali (tanto cautelari, quanto dei riti speciali), il primo comma dell’art 84, al secondo cpv, come già la corrispondente norma recata dall’art 3 del d.l. 11/2020, ne dispone il rinvio “d’ufficio a data successiva” alla fine del suddetto periodo. Come chiarito dal Comunicato del 9 marzo dell’ “Ufficio stampa e comunicazione istituzionale della giustizia amministrativa” che aveva accompagnato l’uscita del precedente decreto, si tratta di una “misura drastica ma necessaria al fine di consentire su tutto il territorio nazionale comportamenti coerenti con gli obbiettivi di contenimento del virus in questa prima fase in cui ci si attende il picco epidemiologico” e volta ad ottenere che “nessuna udienza sarà celebrata”. Il rinvio viene disposto ex lege per le udienze già calendarizzate fino a tutto il 15 aprile (e non più soltanto fino al 22 marzo, come nel d.l. 11/2020), ivi comprese le camere di consiglio previste per la discussione delle domande cautelari, che, a prescindere da una richiesta della parte, durante il periodo di sospensione verranno decise soltanto con decreto monocratico (infra, par 5).
Il comma 4 dell’art 84 ripropone poi la previsione, anch’essa sostanzialmente già recata dall’art 3 del d.l. 11/2020, per cui i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possano adottare “direttive vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato” e possano altresì disporre il rinvio delle udienze procedendo ad una opportuna ricalendarizzazione delle stesse. Le differenze con la norma recata dal precedente d.l. 11/2020 non si limitano alla differenza lessicale del termine “direttive” impiegato in luogo di “linee guida” rispetto al precedente decreto e allo spostamento dal 31 maggio al 30 giugno 2020 della data successivamente alla quale possono essere spostate le udienze. Rispetto alla precedente versione scompaiono sia il limite massimo del rinvio entro il 31 dicembre 2020, sia la previsione che ciò dovrebbe avvenire “in aggiunta all’ordinario carico programmato delle udienze fissate e da fissare entro tale data”. I rinvii a mezzo dei suddetti decreti presidenziali a data successiva al 30 giugno 2020 vanno comunque disposti, com’era già nelle previsioni del d.l. 11/2020, dopo avere sentito sia l’autorità sanitaria regionale che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio e, differentemente dal rinvio disposto ex lege per le udienze calendarizzate fino al 15 aprile, in tal caso non riguarda le udienze camerali per le domande cautelari e i ricorsi elettorali, che potranno svolgersi secondo le modalità indicate dal successivo comma 5. Analoga possibilità è prevista per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, ma in tal caso è necessario che l’urgenza sia previamente dichiarata dai presidenti con decreto non impugnabile.
5. - Riti e modalità di decisione semplificati tanto per le domande cautelari quanto per quelle di merito;
Per contrastare e contenere gli effetti della situazione emergenziale nel settore della giustizia amministrativa vengono previste misure straordinarie che semplificano i processi decisionali, tanto cautelari, quanto di merito.
Per agevolare la comprensione delle misure straordinarie introdotte è opportuno distinguere la disciplina delle decisioni cautelari da quella delle decisioni di merito e delle altre camerali e trattare distintamente le ulteriori misure derogatorie introdotte dal comma 2 dell’art 84.
Differentemente dal giudizio di merito e dagli altri giudizi che si svolgono in forma camerale, come si è già ricordato, il giudizio cautelare non è mai soggetto alla sospensione dei termini processuali. Conseguentemente la tutela cautelare deve continuare ad esser fruibile anche durante il suddetto periodo.
La soluzione disegnata già dal d.l. 11/2020, al fine di assicurare il rispetto tanto del principio che non ammette soluzioni di continuità nella possibilità di fruizione della tutela cautelare, quanto dell’esigenza di evitare di tenere qualunque tipo di udienza durante il periodo di emergenza, è stata di trattare le domande cautelari, nel periodo di sospensione, unicamente secondo il rito di cui all’art 56 del d. lgs 104/2010, con decisione monocratica, posponendo l’udienza cautelare camerale al termine del periodo della sospensione.
Nella versione del d.l. 11/2020, la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); e lasciava aperto il problema di garantire il rispetto del contraddittorio in quanto controinteressato e amministrazione resistente, pur se si dichiarassero disponibili ad essere “sentiti” dal magistrato prima dell’emanazione del decreto non potrebbero esserlo per via del divieto di tenere “udienza”, nè hanno certezza di alcun termine a difesa.
L’art. 84 ridisegna in maniera significativa la trattazione della domanda cautelare durante il periodo di sospensione sotto entrambi i profili. Per un verso, esclude che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte, imponendola come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Per l’altro, prevede opportunamente che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito); facendo peraltro salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55[5]. Potrà apparire per certi versi singolare che si disponga di trattare la domanda “con il rito di cui all’art 56 del codice del processo amministrativo … nel rispetto dei termini di cui all’art 55, comma 5 … salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56 comma 1”, ma la formulazione sembra risolvere efficacemente il problema di assicurare e graduare la tutela cautelare, nel rispetto del contradditorio, nel periodo emergenziale. Le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 si preoccupano di precisare (par 4.5) che “la decisione monocratica è assunta dopo lo scadere dei termini di venti e dieci giorni liberi previsti dal comma 5 dell’art 55 c.p.a. a prescindere dall’eventuale precedente fissazione di una camera di consiglio”.
Rimarrebbe invero ancora da chiarire come debbano essere calcolati i due giorni liberi per il deposito di memorie e documenti dal momento che non c’è una camera di consiglio di riferimento. Sarebbe senz’altro auspicabile a tal fine che i presidenti titolari adottino apposite misure organizzative, anche nell’esercizio delle potestà espressamente contemplate dai commi 3 e 4, quale ad esempio la fissazione di una camera di consiglio perlomeno virtuale, atta a valere come termine per la emanazione dei decreti da parte dei magistrati delegati alle pronunce monocratiche e al tempo stesso termine di riferimento per le parti. Qualora ciò non avvenisse, allo stato i due giorni liberi (uno nei riti accelerati) andrebbero necessariamente calcolati con riferimento alla scadenza dei termini previsti dal comma 5 primo cpv dell’art 55 d. lgs 104/2010. Si ricorda che le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 hanno opportunamente sottolineato che in ogni caso “il decreto monocratico non potrà essere emesso prima della data che era stata fissata per l’udienza camerale (oggi divenuta meramente virtuale), rispetto alla quale gli avvocati delle parti avevano calibrato le proprie strategie difensive e in ispecie la tempistica di deposito dei documenti e delle memorie”.
Rimane in ogni caso ferma la necessità che i decreti cautelari concessi durante la sospensione, stante la natura intrinsecamente provvisoria, vengano portati quanto prima possibile in udienza camerale collegiale al termine del periodo di sospensione, ragion per cui il terzo cpv del comma 1 dell’art 84, in chiusura, prevede, come già ricordato, che “la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”. L’uso dell’indeterminativo e la possibilità che si accumuli una mole quantitativa tale da non poter essere ragionevolmente smaltita in un'unica udienza camerale dovrebbero lasciar propendere l’interpretazione nel senso che, al termine della sospensione, l’udienza camerale venga fissata quanto prima possibile. Tanto più che i ruoli d’udienza dovranno farsi carico anche della trattazione in udienza camerale dei provvedimenti monocratici pronunciati prima della sospensione e per i quali, per via della sospensione, non si è potuta più tenere l’udienza camerale. Ipotesi contemplata dall’ultimo cpv del comma 1 dell’art 84, il quale dispone per l’appunto che “I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all’articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4”. Se la parte “su cui incide la misura cautelare” non si opponga ai sensi del secondo comma dell’art. 84, nei casi in cui vi sia stato accoglimento totale o parziale della domanda cautelare, la trattazione può essere fissata anche prima del 15 aprile (e successivamente al 6 aprile), durante quindi il periodo di sospensione (v. infra, par. 5, sub C).
In considerazione del fatto che il provvedimento monocratico, per quanto provvisoriamente, rischia comunque di stabilizzare per un considerevole arco temporale la decisione della lite cautelare, sarebbe stato opportuno prevedere forme di reclamo immediato al collegio ovvero l’appellabilità del decreto monocratico, ma l’ipotesi è stata scartata. Sarebbe opportuno che una delle due ipotesi (reclamo al collegio, prevedendo la possibilità di partecipazione al collegio anche del magistrato autore del provvedimento monocratico ove ciò sia reso necessario da esigenze di organico; ovvero l’appello, che beninteso non potrebbe essere mai limitato ai soli decreti di accoglimento escludendo quelli di rigetto pena la palese incostituzionalità per violazione dei principi di uguaglianza e del giusto processo) venisse seriamente presa in considerazione in sede conversione del decreto, non essendo allo stato escluso che possano anche aversi ulteriori proroghe del periodo di sospensione alla luce del più generale contesto emergenziale nel quale s’inquadrano le misure straordinarie in materia di giustizia e che la lite cautelare continui pertanto a rimanere definita per un consistente arco temporale in forma monocratica. Il che eviterebbe peraltro di stressare oltremodo la calendarizzazione in tempi ristretti delle camere di consiglio cautelari, imposta dalla necessità di non lasciare privo di controlli l’esercizio del potere cautelare monocratico oltre lo stretto necessario. Nelle more della decisione camerale, avverso il decreto monocratico allo stato rimane esperibile unicamente il rimedio della revoca o modifica “su istanza di parte notificata”, a norma dell’art 56 comma 4.
L’art 84 del d.l. 18/2020, al quinto comma, conferma anche la previsione, alla scadenza della sospensione, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
Rebus sic stantibus, la norma non pone problemi interpretativi di sorta per le udienze che risultino fissate nel mese di giugno o alla fine del mese di maggio. La scadenza del termine di sospensione al 15 aprile assicura il rispetto del più ampio termine possibile per garantire il contraddittorio in punto di produzione di documenti, memorie e repliche (ordinariamente fissato in 40, 30 e 20 giorni e dimezzato nei riti speciali).
Il problema si pone, come già accennato, nel caso in cui l’udienza risulti fissata ad una data che non consente di assicurare il rispetto dei suddetti termini in quanto questi sarebbero già venuti a scadere nel periodo della sospensione.
Si spiegano in quest’ottica le disposizioni recate dal secondo, dal terzo e dal quarto cpv del comma 5, a norma delle quali:
Ferma la limitazione del contraddittorio derivante dall’esclusione della possibilità di tenere la discussione orale, l’ipotesi è che la possibilità di limitare ulteriormente il contraddittorio elidendo anche la possibilità di difesa documentale e scritta possa avvenire unicamente con il consenso delle parti e dipenda pertanto, in sostanza, dalla loro rinuncia ad avvalersene. E’ evidente che le parti devono ritenere che le produzioni effettuate prima della sospensione siano comunque sufficienti per consentire il passaggio in decisione del ricorso e che non sia necessario avvalersi delle ulteriori facoltà concesse dal contradditorio ovvero che queste possano essere compensate e condensate in sintetiche note da depositare due giorni prima dell’udienza. L’ipotesi classica è che una o entrambe le parti non abbiano potuto depositare la memoria conclusionale o di replica e che ciò non sia necessario o possa essere compensato dalle note d’udienza. La disposizione nulla dice sui limiti dimensionali delle note d’udienza, se non che debbano essere “brevi”, concetto che rimane indeterminato ma sufficiente per escluderne l’equiparazione alla trattazione ampia e sistematica tipica di una memoria difensiva. Nel disegno normativo le “brevi note” si propongono come succedanee della discussione orale, atte a rappresentare una comparizione figurata delle parti davanti al collegio, attesa l’impossibilità di tenere la discussione in forma orale[6]. Sostituiscono quest’ultima, non le memorie difensive, ragion per cui, ove ve ne sia effettiva necessità, la parti devono chiedere la rimessione in termini. Conseguentemente, il quarto cpv vincola il magistrato a disporre “la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo”[7]. L’ultimo cpv del comma 5 dispone conclusivamente, come già ricordato, che, in tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario.
Sembrerebbe esser stato dunque raccolto l’invito, da più parti rivolto in sede d’interpretazione delle analoghe disposizioni recate dal d.l. 11/2020, ad impiegare l’istituto della rimessione in termini per non comprimere ulteriormente, avendo già infranto il principio dell’oralità, le garanzie del contraddittorio. Per quanto sopra chiarito, la rimessione dovrebbe a rigore esser chiesta anche nell’ipotesi in cui le parti, magari proprio nell’osservanza del citato parere espresso dalla Commissione speciale nell’adunanza dello scorso 10 marzo, abbiano ugualmente depositato memorie e repliche nel periodo della sospensione e, concordemente, intendano avvalersi delle note d’udienza per limitarsi a rinviare alle produzioni effettuate durante la sospensione. La soluzione più rigorosa, di chiedere la rimessione in termini e di escludere il rinvio per relationem attraverso le note d’udienza, potrebbe apparire eccessivamente formalista nel momento in cui evidenti ragioni d’economia processuale sembrerebbero suggerire il contrario, ma la fattispecie in linea di principio pone problemi di non poco conto. Ad esempio stabilire se e fino a che punto si possa ritenere che, in virtù del principio dispositivo, gli atti inefficaci e invalidamente compiuti durante la sospensione abbiano ugualmente raggiunto il loro scopo se vi sia espresso riconoscimento delle parti in tal senso; ovvero se la sospensione sia posta nell’interesse di tutte le parti, giudice compreso, differentemente dalle ipotesi di interruzione che si suppongono disposte a favore della parte che subisce l’evento e che ne ha pertanto una relativa disponibilità. Sarebbe pertanto opportuno che il punto venisse univocamente chiarito in sede di conversione del decreto, chiarendo se, sussistendo l’accordo delle parti, le note d’udienza possano rinviare per relationem alle produzioni effettuate durante il periodo di sospensione con conseguente dovere del giudice di prenderle in esame, e che non sia lasciato alla libera interpretazione dei singoli collegi giudicanti.
Rimane fermo che, se la sospensione non ha pregiudicato la proponibilità di documenti e memorie nei termini (sarebbe il caso in cui i termini erano già maturati tutti nel periodo anteriore alla sospensione che avrebbe interessato soltanto l’udienza o il caso delle udienze che verranno fissate nel mese di giugno o nella fine di maggio), non sussiste la possibilità della parte di chiedere la rimessione in termini (perlomeno ai sensi dell’art 84 del d.l. 18/2020), ma, per quanto si è chiarito, solo quella di presentare brevi note due giorni liberi prima dell’udienza.
Va infine sottolineato che la nuova disciplina non ha conservato la possibilità, contemplata dai commi 4 e 5 del d.l. 11/2020, che a richiesta di almeno una delle parti la causa venisse trattata in udienza camerale o in udienza pubblica, organizzandone lo svolgimento mediante collegamenti da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori alla trattazione dell’udienza. La possibilità di collegamento da remoto rimane limitata alla partecipazione dei magistrati alla camera di consiglio che, sino al 30 giugno, si svolge senza discussione orale (art 84, comma 6: “Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”). Le disposizioni di coordinamento emanate il 19 marzo 2020 dal Presidente del Consiglio di Stato chiariscono che le camere di consiglio decisorie possono essere effettuate con collegamenti da remoto, con qualsiasi modalità (videoconferenza o audioconferenza), purché sia garantita la collegialità e che sono escluse le modalità di comunicazione asincrona quale, ad esempio, lo scambio di email. E’ auspicabile che la verbalizzazione si curi di identificare e circostanziare il luogo dal quale i singoli magistrati si colleghino da remoto, in modo da poter ritenere garantita la segretezza della camera di consiglio.
Il comma 2 dell’art 84 reca disposizioni particolari per il periodo dal 6 al 15 aprile 2020.
Difficile comprendere la necessità della previsione di un regime particolare per tale periodo, che cade peraltro nella settimana pasquale.
Nell’economia delle disposizioni straordinarie recate dall’art 84, quelle del comma 2 rivelano, anche sotto il profilo quantitativo, un impegno significativo del legislatore, che sembrerebbe essere sproporzionato rispetto all’utilità che si prefigge di conseguire e alla ulteriore distorsione che comporta per la comprensibilità del sistema.
Le disposizioni prevedono che, nel periodo dal 6 aprile al 15 aprile 2020, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati. Tale modalità di trattazione, come si è visto, è già eccezionalmente contemplata dal comma 5 per il periodo che va dalla fine della sospensione, attualmente prevista per il 15 aprile, fino al 30 giugno 2020. Il comma 2 consente che ciò possa avvenire anche durante il periodo della sospensione, ma solo nel periodo dal 6 al 15 aprile, e a condizione che vi sia l’accordo delle parti (“se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite”).
Le disposizioni recate dal comma 2 prevedono inoltre che a partire dal 6 aprile possa essere definito il giudizio cautelare con le medesime modalità (passaggio in decisione senza discussione orale sulla base degli atti depositati) nei casi in cui vi sia stata concessione di un decreto monocratico, in accoglimento anche solo parziale della domanda cautelare. Anche in questo caso è però necessario il consenso delle parti (“delle parti su cui incide la misura cautelare”), che possono opporsi depositando un’istanza di rinvio, che comporterà lo spostamento della trattazione a data “immediatamente” successiva al 15 aprile.
In sostanza, il comma 2 reca disposizioni ulteriormente derogatorie al regime già di per sé straordinario generalmente introdotto dall’art 84 (“In deroga a quanto previsto dal comma 1”), che consentono che durante il periodo della sospensione, a date condizioni, possano comunque aversi trattazioni collegiali delle controversie, sia cautelari che di merito.
Rimane da capire quale sia l’effettiva utilità di anticipare, durante il periodo di sospensione e solo per le cause la cui udienza collegiale risulti fissata tra il 6 e il 15 aprile, la possibilità di trattazione senza discussione orale e sulla base degli atti depositati, già generalmente prevista, si ripete, come regime transitorio, dalla fine del periodo di sospensione fino al 30 giugno.
Si può ipotizzare che la previsione abbia un intento deflattivo, nel senso che potrebbe esser volta ad evitare un accumulo eccessivo delle cause da trattare al termine del periodo di sospensione, consentendo di smaltire quelle già fissate nel periodo tra il 6 e il 15 aprile. Se così fosse, se l’esigenza fosse cioè quella di cercare di evitare un sovraccarico al termine del periodo di sospensione smaltendo, ove vi sia l’assenso delle parti alla decisione senza discussione orale e allo stato degli atti, le cause fissate durante il periodo di sospensione, non si capisce perché la possibilità sia stata limitata al solo periodo dal 6 al 15 aprile, e non sia stata estesa a tutto il periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione originariamente fissato dal d.l. 11/2020 al 22 marzo. Ciò avrebbe una sua logica, una volta introdotto il principio per cui durante la sospensione possono essere trattate non solo le domande cautelari, ma anche quelle di merito, ove vi sia il consenso delle parti a che la causa passi in decisione allo stato degli atti. Diversamente, la norma rischia solo di arrecare maggior confusione e di complicare la ricalendarizzazione delle trattazioni. Soccorrono opportunamente nel senso sopra detto le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo, secondo le quali “ancorché non previsto dal decreto, nel periodo sottoposto alla sospensione dei termini, rientra nella facoltà dei capi degli uffici giudiziari fissare un’ulteriore udienza nel periodo dal 6 aprile al 15 aprile 2020, per la trattazione degli affari già assegnati a udienze di merito e camerali fissate dall’8 marzo al 5 aprile 2020 e che devono essere rinviate a data successiva al 15 aprile 2020, qualora le parti chiedano congiuntamente il passaggio in decisione delle medesime sulla base degli atti depositati”.
6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
Il decreto legge prevede infine che, durante il periodo della sospensione dei termini processuali e fino al 30 giugno 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, per quanto di rispettiva competenza, possano adottare le misure organizzative necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni impartite con i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri emanati ai sensi dell’art. 3 del del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone. Oltre alle già ricordate direttive per la fissazione e la trattazione delle udienze e al rinvio delle udienze a data successiva al 3° giugno 2020, le misure organizzative possono prevedere la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti; la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico; la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento.
La sospensione dell’obbligo del deposito di almeno una copia del ricorso in forma cartacea (cd copie d’obbligo o di cortesia) non è più rimessa alla previsione delle suddette direttive, com’era nel d.l. 11/2020, ma è operata direttamente dal comma 10 dell’art 84, che precisa al contempo che il deposito può essere effettuato anche a mezzo del servizio postale.
Tali misure devono armonizzarsi con le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della Giustizia Amministrativa e devono essere comunque adottate dopo aver sentito l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio.
***
Segue testo dell’art 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18
Art. 84
(Nuove misure per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID – 19 e contenerne gli effetti nel processo amministrativo)
1. Fatto salvo quanto previsto dal comma 2, dal 8 marzo 2020 e fino al 15 aprile 2020 inclusi si applicano le disposizioni del presente comma. Tutti i termini relativi al processo amministrativo sono sospesi, secondo quanto previsto dalle disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo. Le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa, fissate in tale periodo temporale, sono rinviate d’ufficio a data successiva. I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020. Il decreto è tuttavia emanato nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo, salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56, comma 1, primo periodo, dello stesso codice. I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all’articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4.
2. In deroga a quanto previsto dal comma 1, dal 6 aprile al 15 aprile 2020 le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite. La richiesta è depositata entro il termine perentorio di due giorni liberi prima dell’udienza e, in tal caso, entro lo stesso termine le parti hanno facoltà di depositare brevi note. Nei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento, totale o parziale, della domanda cautelare la trattazione collegiale in camera di consiglio è fissata, ove possibile, nelle forme e nei termini di cui all’articolo 56, comma 4, del codice del processo amministrativo, a partire dal 6 aprile 2020 e il collegio definisce la fase cautelare secondo quanto previsto dal presente comma, salvo che entro il termine di cui al precedente periodo una delle parti su cui incide la misura cautelare depositi un’istanza di rinvio. In tal caso la trattazione collegiale è rinviata a data immediatamente successiva al 15 aprile 2020.
3. Per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID- 19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giurisdizionale e consultiva, a decorrere dal 8 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, sentiti l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio, adottano, in coerenza con le eventuali disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della giustizia amministrativa per quanto di rispettiva competenza, le misure organizzative, anche incidenti sulla trattazione degli affari giudiziari e consultivi, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni impartite con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri emanati ai sensi dell’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone.
4. I provvedimenti di cui al comma 3 possono prevedere una o più delle seguenti misure:
a) la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti;
b) la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico;
c) la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento;
d) l’adozione di direttive vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato;
e) il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, assicurandone comunque la trattazione con priorità, anche mediante una ricalendarizzazione delle udienze, fatta eccezione per le udienze e camere di consiglio cautelari, elettorali, e per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti; in tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dai presidenti di cui al comma 3 con decreto non impugnabile.
5. Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario.
6. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge.
[1] Per il commento del quale si rinvia a F. Francario, La giustizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo, Id., Postilla a La giusitizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordarie per il processo amministrativo, in questa rivista.
[2] Per commenti a prima lettura v. M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, cit.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.
[3]Oltre a F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, in questa stessa rivista, Osservatorio emergenza Covid – 19; v anche M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3 , D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it.
[4] Nel parere reso nell’adunanza del 10 marzo 2020 la Commissione Speciale si era espressa nel senso che “il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.)” e non anche gli altri termini endoprocessuali, conclusione raggiunta muovendo dalla duplice considerazione che “con precipuo riguardo al termine per il deposito del ricorso (art. 45 c.p.a.) e soprattutto a quelli endoprocessuali richiamati dal già citato art. 73, comma 1, c.p.a., non si ravvisano le medesime esigenze che hanno giustificato la sospensione delle udienze pubbliche e camerali perché trattasi di attività che il difensore può svolgere in via telematica e senza necessità di recarsi presso l’ufficio giudiziario. Non appare esservi, dunque, alcun pericolo per la salute dei difensori né si moltiplicano le occasioni di contatto sociale e dunque le possibilità di contagio” ; e che “se la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali”. Secondo il Consiglio di Stato, in buona sostanza, non si sarebbe affatto trattato di un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, ma di una sospensione del solo termine per la notifica del ricorso giustificata da una ratio normativa che si prefigge di evitare gli spostamenti delle persone e la loro riunione presso gli uffici giudiziari. Il parere aveva peraltro auspicato che s’intervenisse “a livello normativo, con provvedimento chiarificatore di carattere interpretativo e quindi di portata retroattiva, in modo da assicurare la certezza nella materia dei termini processuali a beneficio di tutte le parti dei giudizi”.
[5] Le disposizioni di coordinamento adottate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 chiariscono efficacemente che “il comma 1 dell’art. 84 distingue tra la tutela monocratica “sostitutiva” di quella collegiale in ragione della situazione emergenziale da Covid-19 e la tutela monocratica in senso proprio; la prima è ancorata ai presupposti e termini della tutela cautelare collegiale (art. 55 c.p.a.) e mutua dalla tutela cautelare monocratica “ordinaria” solo il rito dell’art. 56 c.p.a.; la seconda è ancorata ai presupposti e termini della tutela cautelare monocratica “ordinaria”. Ne consegue che nel primo caso il decreto monocratico verrà adottato nel rispetto dei termini dilatori previsti dall’art. 55 c.p.a., per salvaguardare il diritto di difesa della parte destinataria del ricorso, e non prima della data in cui si sarebbe dovuta tenere l’udienza collegiale anteriore al 15 aprile 2020”.
[6] Norma analoga è dettata dal decreto anche per il processo civile. Con riferimento alle disposizioni come recate dal d.l. 11/2020 v. F. Caroleo, R. Ionta, Udienza civile ai tempi del coronavirus. Comparizione figurata e trattazione scritta (art. 2, comma 2, lettera h, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11), in Giustiziainsieme.it.
[7] L’ipotesi deve pertanto necessariamente rientrare nelle “specifiche esigenze” indicate nel par 3.5 delle disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 come possibili eccezioni alla regola della non rinviabilità delle udienze calendarizzate dal 16 aprile in poi.
L’estremo saluto: il rito “inutile” (ma necessario)
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Un divieto che comporta una perdita. 2. Il significato del rito. 3.Ciò che è utile e ciò che è importante. 4. Fuga dalla morte. 5. Il tabù della morte nella nostra società. 6.Il rito del funerale ultima apertura verso l’“oltre”
1. Un divieto che comporta una perdita.
Il divieto di celebrare i funerali, nel quadro della lotta contro il coronavirus, ha avuto sicuramente un impatto umano particolarmente forte in una società come quella italiana, ancora molto legata ad un modello di famiglia dove gli anziani – i più esposti ad andarsene, in generale, ma tanto più in queste settimane di epidemia - , per quanto spesso ormai relegati nelle case di riposo, continuano comunque ad avere un posto importante nella graduatoria degli affetti. Ma anche per chi non aveva col defunto o la defunta un legame di parentela, il rito funebre erano un modo di sottolineare il legame con lui o lei e di testimoniare pubblicamente il valore che si attribuiva a questo legame. Senza dire che la partecipazione a un funerale aveva anche il significato di un gesto di prossimità e di solidarietà verso chi restava.
Ora, fino a una data che ormai è difficile indicare come prossima, tutto questo è reso impossibile dal decreto che impone la riduzione delle esequie a una scarna benedizione della salma all’interno del cimitero, alla presenza dei soli parenti più stretti.
Avvertiamo che qualcosa è andato perduto. Ma forse proprio per questo, come spesso accade nella vita, siamo costretti a renderci conto di quanto fosse importante per noi e a comprendere meglio perché.
2. Il significato del rito.
In primo piano, qui, vi è il valore del rito. Costituisce una peculiarità degli esseri umani, rispetto agli altri animali, il bisogno di andare oltre la sfera fattuale e visibile dell’esistenza, per accedere a quella dei significati. Per questo l’uomo, in ogni sua manifestazione, ha bisogno di simboli. Questa dimensione simbolica conferisce alle cose, ai gesti, alle parole, un valore che va molto oltre la loro portata materiale. Una stretta di mano non è soltanto una contrazione muscolare, ma può esprimere un’intesa, una riconciliazione, un’alleanza....
Si collega a questa esigenza di dare una risonanza simbolica alle vicende della vita la pratica, antica quanto l’uomo, di accompagnare i momenti cruciali dell’esistenza con dei “riti di passaggio” che ne evidenzino e ne celebrino il significato a livello non solo personale, ma anche sociale. Attraverso essi una comunità si costituisce e si rinsalda, riconoscendosi in un patrimonio comune di valori condivisi di cui vivere e da trasmettere ai propri figli.
3.Ciò che è utile e ciò che è importante.
Il funerale è uno di questi riti. Importante, a ben vedere, non tanto per i morti, quanto per i vivi. Dove il termine “importante” rivela la sua peculiare differenza rispetto a quello, spesso scambiato per un suo sinonimo, di “utile”. “Utili” potevano essere le cure, finché il soggetto era in vita. Il funerale è del tutto “inutile”. Se si può tuttavia affermare che è importante, siamo costretti a rimettere in discussione una logica utilitarista che ci porta a confondere le due cose.
In realtà, ciò che è utile non può, per definizione, essere importante in se stesso, perché ha valore solo in funzione di qualcos’altro. Emblematico il caso del denaro, ricercato da tanti come un fine, mentre è solo un mezzo, del tutto insignificante quando non può essere usato come tale. Robinson Crusoe, nel romanzo di Defoe, darebbe volentieri la somma ingente di sterline in suo possesso e che lo renderebbero ricco in un altro contesto, in cambio del più umile attrezzo che nella sua situazione potesse essergli utile.
Il funerale, che si celebra quando per la persona non c’è più niente da fare, ci ricorda che tutti i riti sono inutili, a cominciare da quello, semplicissimo, del saluto reciproco. Dal punto di vista dell’efficienza, una società dove le persone non si salutassero funzionerebbe benissimo. Solo, non sarebbe umana. Perché niente è più necessario all’uomo di ciò che è superfluo, inutile. Spogliata dei riti, la vita sarebbe insostenibile. Perché solo nell’ordine dei simboli essa realizza i suo carattere umano.
4. Fuga dalla morte.
Un passo avanti in questa riflessione può essere costituito dalla messa a fuoco dello specifico valore simbolico che proprio il rito del funerale riveste. E qui non si può fare a meno di menzionare il grande tabù della nostra società: la morte.
In realtà al pensiero della morte, nel mondo moderno, si è sempre cercato di sfuggire. Già nel Seicento Pascal ha denunciato con estrema lucidità questa fuga: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici» (Pensieri, Edizione Brunschvig, n.168).
E in altro passo: «Così si spiega perché sono così ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si può guadagnare al gioco, oppure nell'inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non le vorremmo. Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte. Questa è la ragione per cui si gusta più la caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto; per questo la prigione è un supplizio così orribile; per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile (...) Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. E quelli che fanno i filosofi su questo e credono che il mondo è troppo poco ragionevole nel passare tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non accetterebbero se comprata, non conoscono la nostra natura. Quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce» (n.139).
5. Il tabù della morte nella nostra società.
Su questa scia, oggi il tentativo di distogliere lo sguardo dalla morte ha raggiunto il suo punto estremo. Mentre nel medioevo il rapporto con essa era considerato un salutare richiamo alla condizione creaturale dell’essere umano (si pensi, per esempio, al fatto che tutta la famiglia si riuniva per congedarsi a moribondo, e che i defunti venivano seppelliti nella chiesa parrocchiale o nel piccolo cimitero attiguo ad essa, come ancora in certi paesi dell’Alto Adige), da noi, ormai, si muore quasi soli in ospedale (e comunque, se anche il decesso avviene in casa, si allontanano i bambini), e le sepolture dei morti, per validissimi motivi igienici, vengono relegate alla periferia delle nostre città. La stessa parola “morte” viene accuratamente evitata, come un tempo lo erano quelle riferite agli organi sessuali. E il fenomeno del giovanilismo, per cui persone decisamente anziane rincorrono un’immagine di se stesse che non esiste più, è probabilmente legato alla paura di potere scorgere nei propri tratti i segni della prossima fine.
6.Il rito del funerale ultima apertura verso l’“oltre”
I funerali sono rimasti, nella nostra società, l’ultimo appiglio simbolico al mistero della morte. Se sono importanti non è perché assecondano le mode, ma perché avvertiamo che esorcizzare del tutto questo mistero ci impedirebbe perfino di salutare chi se ne va. Dove il saluto comporta anche la memoria di quello che il defunto è stato per noi e la speranza che il legame stretto durante la nostra comune storia terrena possa sopravvivere, in qualche modo, anche dopo. In questo senso i funerali sono una sosta sul ciglio di una immensa ombra, il solo contatto rimastoci con un “oltre” di cui abbiamo timore, ma in cui sono entrate persone a noi care da cui non vorremmo del tutto separarci.
Si capisce, alla luce di queste considerazioni, perché durante le cerimonie funebri ci siano alcuni che preferiscono chiacchierare di tutt’altro o perfino scherzano. E si capisce anche perché la maggior parte di noi, uscendo dalla chiesa o dal cimitero, si rituffi nelle proprie occupazioni. Pascal non si meraviglierebbe.
Eppure la morte è fondamentale per capire e apprezzare la vita. Il limite creaturale di cui essa è indizio ci restituisce alla nostra identità, fragile e proprio per questo preziosa. Per questo c’è da sperare che la rinunzia ai funerali, che tengono viva la percezione di questo limite, resti un fatto provvisorio, perché senza di essi la censura nei confronti della morte sarebbe completa. E forse si può sperare che proprio l’averne dovuto fare a meno per un certo tempo risvegli in noi la consapevolezza di ciò che questo rito “inutile” significa.
Processo telematico e sistema delle impugnazioni penali
di Ignazio Pardo
sommario: 1. Premessa - 2. Quadro normativo e regolamentare - 3. Le prassi operative nell'immediato e gli ostacoli esistenti - 4. Una soluzione semplice e possibile. - 5. Conclusioni
1. Premessa
La drammatica situazione sanitaria in cui versa il paese ha imposto il blocco di tutti gli affari giudiziari non urgenti; nelle more della ripresa, si impone una riflessione sulle possibili prassi operative che, senza gravare le cancellerie da ulteriori adempimenti, permettano ai giudici delle impugnazioni penali di procedere all'esame preliminare degli atti, effettuare le necessarie ricerche di giurisprudenza, predisporre le bozze dei provvedimenti.
2.
Quadro normativo e regolamentare
Come è noto i recenti provvedimenti normativi urgenti emanati in relazione all'emergenza Coronavirus hanno sollecitato i capi degli uffici e tutti gli operatori giudiziari ad adottare le migliori prassi per garantire la trattazione degli affari a distanza. In particolare, il noto art. 83 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 (Nuove misure urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare), dopo avere stabilito al comma 1 il rinvio d'ufficio ex lege di tutti i processi penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari a data successiva al 15 aprile 2020, nonché dettato le regole per la trattazione degli affari urgenti in tale fase temporale, ha espressamente previsto, al successivo comma 6 che, per il periodo compreso tra il 16 aprile ed il 30 giugno 2020 “ i capi degli uffici......adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie.....al fine di evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. Al successivo comma settimo si prevede espressamente che per realizzare tali fini i capi degli uffici giudiziari possono adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze (lett. d), stabilire la celebrazione a porte chiuse delle udienze penali pubbliche ( lett. e), prevedere il rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 delle udienze penali non rientranti nei casi urgenti.
Dal canto suo il CSM con la precedente deliberazione del 5 marzo 2020, adottata a seguito di disposizioni normative sostanzialmente analoghe già in vigore, ha espressamente stabilito che.” I dirigenti degli uffici dovranno......... adottare.... misure organizzative volte a modulare mediante modalità alternative lo svolgimento dell'attività lavorativa dal domicilio del magistrato e di favorire il più possibile modalità organizzative del lavoro da remoto mediante l'utilizzo delle dotazioni tecnologiche ed informatiche fornite dal ministero”.
3. Le prassi operative nell'immediato e gli ostacoli esistenti
Ora, proprio in forza di tali disposizioni e prima di disciplinare l'eventuale trattazione delle udienze da remoto, si pone, subito, il problema della individuazione di prassi operative tali da permettere anche in questa fase l'operatività del sistema giustizia e di quello delle impugnazioni in particolare che, per la sua struttura, può rendere meno indispensabile l'accesso agli uffici giudiziari; certamente l'assenza del fascicolo telematico penale si rileva un grave pregiudizio al momento poiché i consiglieri di corte di appello ed i consiglieri della corte di cassazione che volessero consultare gli atti del c.d. fascicoletto delle cause già fissate per il periodo 16 aprile-30 giugno si vedono preclusa tale possibilità.
Nel tentativo di utilizzare il forzato periodo di isolamento sono così pervenute alle diverse cancellerie della corte di cassazione istanze dei consiglieri del settore penale dirette ad ottenere o la spedizione materiale dei fascicoletti ovvero la scannerizzazione degli stessi ed il successivo invio in forma telematica per permetterne lo studio e procedere, poi, con la predisposizione delle bozze dei provvedimenti. Comprensibilmente, tali iniziative hanno determinato la immediata reazione del personale amministrativo cui sarebbe stata imposta una presenza in ufficio certamente duratura e gravosa, così che il Segretario Generale della Corte di Cassazione ha emesso una apposita circolare il 16 marzo u.s. con la quale ha comunicato l'attuale impossibilità di trasmissione di tali atti per posta o per via telematica a carico delle cancellerie.
Pare evidente, quindi, che la strada della trasmissione dei fascicoletti non può imporre adempimenti ad un personale che viene dirottato verso forme di lavoro agile e cui non può essere imposta la presenza in ufficio; problematiche analoghe appaiono prospettabili anche per gli uffici di appello ove, analogamente, l'acquisizione dei fascicoletti di tutti i procedimenti già fissati per il periodo 16 aprile-30 giugno non può essere effettuato attraverso oneri imposti alle diverse cancellerie ed ove si impone comunque di limitare l'accesso di personale e giudici agli uffici giudiziari.
Pertanto, appare a mio avviso evidente che la strada della spedizione o scannerizzazione degli atti non è percorribile; del resto una soluzione alternativa vi è, è di immediata operabilità, può costituire una prassi idonea a fungere da strada percorribile anche per il futuro, anticipando il processo telematico nella fase delle impugnazioni quanto meno in parte.
Difatti, i documenti costituenti il c.d. fascicoletto del giudice relatore in cassazione od in grado di appello sono files informatici originari poi trasferiti su supporto cartaceo e successivamente trasmessi al Presidente ed al relatore; imporre la ridigitalizzazione di files originari è un non senso; tanto più in un momento in cui bisogna garantire il lavoro a distanza di tutti, senza distinzione di funzioni. Ma anche imporlo in futuro si rileva una scelta insensata.
4. Una soluzione semplice e possibile.
Ciò che occorre fare è molto semplice; i capi degli uffici o lo stesso C.S.M. devono soltanto prevedere la trasmissione di sentenza e ricorso, ovvero pronuncia di primo grado ed appello, da parte del giudice relatore del procedimento a quo e del difensore o pubblico ministero impugnante con destinazione al giudice ad quem, sia esso la corte di cassazione o la corte di appello. In questo modo, al supporto cartaceo formato dalle cancellerie dei giudici a quo, siano esse le corti di appello, i tribunali della libertà ovvero gli uffici di primo grado, si affianca un fascicolo telematico, costituito naturalmente dai soli atti essenziali, provvedimento ed impugnazione, immediatamente consultabile dal giudice relatore a seguito della fissazione della causa. Davvero non sembra che una previsione di tal genere a fronte del profluvio normativo di disposizioni che invitano a realizzare il lavoro a distanza sia di difficile realizzazione; basta prevedere una casella di posta di ciascuna sezione in cui i giudici a quo ed i difensori ricorrenti od appellanti (ovvero p.m.), riversino i loro files con una semplice mail. Questa casella è naturalmente accessibile a presidenti e giudici relatori dei collegi i quali così consultano gli atti, studiano il caso, predispongono le bozze.
E nel caso dovesse anche partire l'udienza penale in cassazione da remoto è certo che lo scopo della stessa sarebbe mortificata se poi personale o giudici dovessero accedere ugualmente all'ufficio per acquisire i fascicoletti; con la trasmissione via telematica di provvedimenti impugnati e ricorsi tale evenienza sarebbe esclusa.
Accanto a questa prospettiva per il futuro, si pone il problema di come operare per tutti i procedimenti già trasmessi dal giudice a quo a quello ad quem ed in cui, ad oggi, manca naturalmente il supporto informatico; per esemplificare, che fare nei procedimenti già pervenuti presso la corte di cassazione che risultino già fissati, od in corso di fissazione ? Bene, anche questi procedimenti potrebbero essere oggetto di studio preventivo da parte dei consiglieri relatori pur in questo periodo di assenza forzata con possibilità di predisposizione degli argomenti di studio e delle bozze per le future udienze di trattazione; idem per i presidenti degli stessi collegi. A tal fine pare sufficiente prevedere la possibilità, in questa fase di passaggio ed emergenziale, per i componenti le sezioni penali della corte di cassazione di contattare immediatamente essi stessi i relatori dei provvedimenti impugnati e gli autori delle impugnazioni per sollecitare la trasmissione dei files in via informatica sulla base dei quali iniziare lo studio senza accedere all'ufficio. Analogamente potrebbe prevedersi anche per i componenti le sezioni di appello che sarebbero messi in condizione di analizzare provvedimento ed atto di impugnazione dei procedimenti già fissati e ciò senza essere loro imposto l'accesso all'ufficio. Se si dovesse ritenere non opportuno un contatto diretto con le parti private lo si preveda almeno attraverso i consigli dell'ordine.
5. Conclusioni
L'adozione della spedizione via mail del provvedimento impugnato e dell'atto di impugnazione dal giudice a quo e dalla parte impugnante con destinazione giudice ad quem si configura quale semplice prassi del tutto idonea a sgravare le cancelleria da oneri e compiti e che, una volta standardizzata alla ripresa ordinaria delle attività, si profila utile ad alleggerire il lavoro delle stesse strutture amministrative, ad oggi gravate dalla predisposizione di numerose copie dei c.d.fascicoletti, idonea ad abbattere l'utilizzo massiccio di carta negli uffici giudiziari, idonea ancora a ridurre i costi di spedizione.
Inoltre, nella eventuale predisposizione ed attuazione delle udienze da remoto anche per il settore penale, è il solo sistema compatibile con la minor presenza in ufficio di personale, giudici e parti.
Insomma il fascicolo telematico non è mai stato realizzato nel settore penale; adoperiamoci almeno per realizzare il fascicoletto telematico. Questo si può fare, anche subito.
Saepe in periculis
Note in tema di persona e comunità
di Marco Dell’Utri
Il distanziamento e l’isolamento forzati, imposti dal controllo del rischio epidemico, rivelano il volto violento del diritto e, insieme, nuove forme o visioni della socialità.
Il saggio propone una rilettura del rapporto tra il potere e le libertà individuali, seguendo schemi propri del discorso biopolitico, sullo sfondo dello spazio e dei limiti costituzionali.
Sommario - 1. Controllo epidemico e isolamento forzato: il volto violento del diritto. - 2. Diritto e paradigma immunitario: salvezza e giustizia della forza. - 3. Stato di eccezione, biopolitica e sovranità della persona. - 4. Lo spazio costituzionale. Costruzione della persona e fede nel diritto.
1. Controllo epidemico e isolamento forzato: il volto violento del diritto. - «Saepe in periculis … periculis in civitate, periculis in solitudine».[1] I provvedimenti assunti dal governo per la difesa della collettività dalla diffusione del virus COVID-19, in assenza di adeguati presidi di carattere farmacologico o di altre specifiche terapie preventive, hanno drasticamente imposto (salve le specifiche necessità) la chiusura di tutti i luoghi aperti al pubblico, il divieto di circolare senza adeguata giustificazione, la permanenza domiciliare.[2]
Allo scopo di impedire l’ulteriore propagazione dell’epidemia, attraverso il distanziamento e l’isolamento forzato dei corpi, la disciplina giuridica si piega all’estrema misura dell’interdetto del contatto ravvicinato tra le persone, secondando le ferme indicazioni degli esperti biomedici: avvicinarsi o toccarsi, in ambito pubblico, è giuridicamente proibito.
L’immagine indotta dalle misure del governo suggerisce una singolare inversione di quel ‘capovolgimento del timore d’essere toccati’ descritto in Massa e potere da Elias Canetti.
Nel paragrafo d’esordio di Massa e potere, nota Canetti: «nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito. Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro […]. La ripugnanza d’essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo tra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli. Se facciamo l’opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno: nostra è quindi l’iniziativa di avvicinarci a lui. La prontezza con cui gli uni si scusano se ci toccano involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l’odio che proviamo per il ‘malfattore’ – anche se non possiamo affatto essere certi che sia stato lui – tutto questo groviglio di reazioni psichiche intorno all’essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci conferma che si tratta qui di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona. Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo facilmente da un timore di questo tipo.
«Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. È necessario per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi ‘ci sta addosso’. Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il più compiutamente possibile del timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa».[3]
La riflessione di Canetti – per lungo tempo suggestionata dall’esperienza della partecipazione politica, e ad oggi ancora preziosa (secondo l’interpretazione ‘positiva’ del fenomeno) nell’analisi dei raduni musicali giovanili o del tifo calcistico organizzato – guarda alla dimensione collettiva della massa, e alla fusione in questa dell’individuale, come a una forma istintiva di protezione dalle insidie dell’ignoto: il corpo unico della massa affranca il singolo da ogni angoscia di annientamento, secondo un meccanismo d’indole vagamente mistica.
Quando tuttavia il pericolo si insinua all’interno della stessa struttura corporale della massa, tutti, singoli e massa, divengono improvvisamente esposti in modo indifferenziato all’angosciosa minaccia dell’oscurità.
L’indistinta confusione dei corpi non è più in grado di garantire il singolo; cessa di costituire la naturale nicchia protettiva dal timore d’essere toccati.
E’ allora che, per singolare paradosso, la regola giuridica assume la difesa della comunità attraverso l’imposizione formale proprio di quell’istintiva difesa ancestrale dal contatto tra i corpi. Nel farlo, tuttavia, assume la necessità di estendere l’interdetto a tutte le condotte potenzialmente suscettibili di favorire quel contatto, impedendo forzosamente l’apertura di tutti i luoghi di ritrovo e la stessa circolazione delle persone.
Con un gesto di apparente e paradossale violenza, la regola giuridica raggiunge l’estremo limite della sua stessa essenza ontologica, negando in radice, pena l’irrogazione di severe sanzioni, la possibilità stessa del rapporto umano.
2. Diritto e paradigma immunitario: salvezza e giustizia della forza. - Il carattere strutturalmente paradossale, non solo dell’estremo contingente appena rilevato, ma dell’intera esperienza giuridica in quanto tale, è alla radice dell’articolata riflessione condotta da Roberto Esposito nel saggio composto (con singolare coincidenza) nel segno dell’Immunitas.[4]
Il meccanismo di funzionamento del fenomeno giuridico viene ricondotto da Esposito al paradigma immunitario; uno schema che non limita il proprio orizzonte di senso alla sola esperienza biologica (dell’immunizzazione dell’organismo vivente dal contagio di una malattia), prestandosi a letture più complesse, anche di carattere sociale. «Che ad essere insidiato sia il corpo individuale da parte di una malattia diffusa, il corpo politico da parte di un’intrusione violenta o il corpo elettronico da parte di un messaggio deviante, ciò che resta costante è il luogo in cui si situa la minaccia: che è sempre quello del confine tra l’interno e l’esterno, il proprio e l’estraneo, l’individuale e il comune. Qualcuno o qualcosa penetra in un corpo – singolare o collettivo – e lo altera, lo trasforma, lo corrompe. Il termine che meglio si presta a rappresentare questa dinamica dissolutiva – proprio per la sua polivalenza semantica che lo colloca all’incrocio tra i linguaggi della biologia, del diritto, della politica e della comunicazione – è quello di ‘contagio’».
I dizionari latini ci insegnano che il sostantivo immunitas è un vocabolo privativo, che deriva il proprio senso da ciò che nega, o di cui risulta privo, vale a dire il munus. Se si esamina il significato prevalente di quest’ultimo termine, si ricava per contrasto quello dell’immunitas: rispetto all’ufficio, incarico, onere, dovere (anche nel senso di un dono da restituire), rappresentato dal munus. «Chi risulta muneribus vacuus, sine muneribus, sgravato, esonerato, ‘dispensato’ dal pensum di tributi o prestazioni nei confronti di altri. È immune chi non deve niente a nessuno secondo il doppio registro della vacatio e della excusatio: che si tratti di autonomia originaria o di sollevamento successivo da un debito precedentemente contratto, ciò che conta nella determinazione del concetto è l’esenzione dall’obbligo del munus – personale, fiscale o civile che sia». Quello di ‘immunità’, oltre che privativo, è anche un concetto essenzialmente comparativo: è la diversità rispetto alla condizione altrui, «al punto che si potrebbe ipotizzare che il vero antonimo di immunitas non sia il munus assente, bensì la communitas di coloro che, viceversa, se ne fanno portatori. Se la privazione, insomma, riguarda il munus, il punto di contrasto da cui l’immunità assume senso è il cum in cui esso si generalizza nella forma della communitas». Rispetto a tale generalità, l’immunità è una condizione di particolarità, di privilegio: che si riferisca ad un singolo o ad un collettivo, essa è sempre ‘propria’, nel senso specifico di ‘appartenente a qualcuno’, e dunque di ‘non comune’.[5]
Al campo semantico di prevalente connotazione giuridica occorre accostare, secondo Esposito, la descrizione del processo di immunizzazione propria dell’ambito semantico biomedico. Da questo punto di vista, per immunità deve intendersi la condizione di refrattarietà dell’organismo rispetto al pericolo di contrarre una malattia contagiosa. Con la scoperta del vaccino antivaioloso da parte di Jenner e poi con gli esperimenti di Pasteur e di Koch nasce la vera e propria batteriologia medica. Il passaggio rilevante è quello che conduce dall’immunità naturale all’immunità acquisita: l’idea di fondo è che una forma attenuata di infezione può proteggere da una più virulenta dello stesso tipo. Da qui la deduzione – comprovata dall’efficacia dei vari vaccini – che l’inoculazione di quantità non letali di virus stimola la formazione di anticorpi capaci di neutralizzarne anticipatamente le conseguenze patogene.
Il paradigma immunitario, prosegue Esposito, si presenta non in termini di azione, bensì di reazione – più che di una forza propria, si tratta di un contraccolpo, di una controforza, che impedisce a un’altra forza di manifestarsi. «Ciò significa che il meccanismo dell’immunità presuppone la presenza del male che deve contrastare. E ciò non solo nel senso che deriva da esso la propria necessità – è il rischio dell’infezione a giustificare la misura profilattica. Ma anche in quello, più impegnativo, che funziona precisamente attraverso il suo uso. Che riproduce in forma controllata il male da cui deve proteggere. […] Attraverso la protezione immunitaria la vita combatte ciò che la nega, ma secondo una strategia che non è quella della contrapposizione frontale, bensì dell’aggiramento e della neutralizzazione. Il male va contrastato – ma non tenendolo lontano dai propri confini. Al contrario includendolo all’interno di essi. La figura dialettica che così si delinea è quella di un’inclusione escludente o di un’esclusione mediante inclusione. Il veleno è vinto dall’organismo non quando è espulso al suo esterno, ma quando in qualche modo viene a far parte di esso. Lo si diceva: più che a un’affermazione, la logica immunitaria rimanda a una non-negazione, alla negazione di una negazione. Il negativo non soltanto sopravvive alla sua cura, ma ne costituisce la condizione di efficacia. È come se esso si sdoppiasse in due metà di cui l’una è necessaria al contenimento dell’altra – un negativo minore destinato a bloccare quello maggiore ma all’interno dello stesso linguaggio».
Per restare tale, la vita, deve piegarsi ad una forza estranea, se non ostile, che ne inibisce lo sviluppo. Incorporare un frammento di quel niente che vuole evitare – in realtà semplicemente differendolo. «Da qui il carattere strutturalmente aporetico della procedura immunitaria: non potendo raggiungere direttamente il proprio obiettivo, è costretta a perseguirlo rovesciato. Ma, così facendo, lo trattiene nell’orizzonte di senso del proprio opposto: può prolungare la vita solo facendole di continuo assaggiare la morte».
Trasferendo in ambito giuridico il paradigma immunitario così descritto, Esposito richiama il pensiero di Simone Weil là dove coglie il passaggio che dal diritto conduce alla forza, o meglio che fa della forza il presupposto, insieme logico e storico, del diritto. Il diritto è per natura dipendente dalla forza: qui si determina come un transito interno all’immunizzazione giuridica che sembra raddoppiarla: «per potere immunizzare la comunità dalle sue tendenze autodistruttive, il diritto ha bisogno di proteggere innanzitutto se stesso. Ma, secondo quella dialettica dell’immunità che abbiamo imparato a conoscere, può farlo solo affidandosi allo stesso principio che intende dominare – alla medesima forza che deve tenere a bada».
Sono distinguibili tre passaggi distinti e concatenati: 1) all’inizio è sempre un atto violento – giuridicamente infondato – a fondare il diritto[6]; 2) quest’ultimo, una volta istituito, tende ad escludere ogni altra violenza ad esso esterna; 3) ma tale esclusione non può essere effettuata che attraverso un’ulteriore violenza, non più istitutiva, bensì conservativa del potere statuito. Questo è, in ultima analisi, il diritto: una violenza alla violenza per il controllo della violenza.
«Il suo carattere immunitario nei confronti della comunità è fin troppo evidente: se anche l’esclusione della violenza esterna all’ordinamento legittimo si produce attraverso mezzi violenti – l’apparato di polizia o addirittura la pena di morte – ciò significa che il dispositivo giuridico funziona mediante l’assunzione della medesima sostanza da cui intende proteggere. E cos’è, del resto, l’esclusione di un esterno, se non la sua inclusione? Benjamin è molto chiaro in proposito. Della violenza esterna, il diritto non vuole eliminare la violenza, ma, appunto, l’‘esterno’ – cioè tradurla al suo interno».
Il tema della violenza, naturalmente, non esaurisce il profondo significato simbolico e culturale dell’esperienza giuridica.
In uno degli ultimi saggi dedicati al diritto, nel ‘rileggere’ un frammento[7] dei ‘Pensieri’ di Blaise Pascal, Jacques Derrida ha tentato di ordinare il rigore e il senso di quella riflessione: il frammento suggerisce che «quello che è giusto deve - ed è giusto - essere seguìto: seguìto di conseguenza, seguìto d’effetto, applicato, enforced; poi che ciò che è ‘il più forte’ deve ugualmente essere seguìto: di conseguenza, d’effetto ecc. Detto altrimenti, l’assioma comune è che il giusto e il più forte, il più giusto come il più forte devono essere seguiti. Ma questo ‘dover essere seguìto’ comune al giusto e al più forte, è ‘giusto’ in un caso, ‘necessario’ nell’altro: è giusto che ciò che è giusto sia seguìto [detto altrimenti, il concetto o l’idea del giusto, nel senso di giustizia, implica analiticamente e a priori che il giusto sia ‘seguìto’, enforced, ed è giusto - anche nel senso di giustezza - pensare così], è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto (enforced).
«Pascal prosegue: “La giustizia scompaginata dalla forza è impotente [detto altrimenti, la giustizia non è la giustizia, non è resa se non ha la forza di essere enforced; una giustizia impotente non è una giustizia, nel senso del diritto]; la forza scompaginata dalla giustizia è tirannica. La giustizia senza forza viene contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Bisogna dunque congiungere la giustizia e la forza; per fare in modo che quel che è giusto sia forte e che quel che è forte sia giusto”».[8]
‘Giustizia’, ‘diritto’ e ‘forza’ riannodano così, in un rapporto di reciproca implicazione, il legame che trascorre tra la legittimazione della forza (e quindi del ‘potere’ che ne costituisce l’espressione più saliente sul territorio dei rapporti politici) in base al diritto; e ancora di quest’ultimo in base alla giustizia. Per il mistico cristiano (se tale può qualificarsi la vocazione del giansenismo pascaliano), un potere che pretenda di legittimare l’imposizione di regole sulla base della sola forza (come valore in sé), svincolandone ‘programmaticamente’ la manifestazione da alcun nesso con il valore della ‘giustizia’, costituisce l’esempio più evidente dell’azione ‘arbitraria’ e ‘violenta’, della criminosa pretesa del tiranno.
Tornando al tema inizialmente introdotto, varrà concludere rilevando come la misura del divieto, giuridicamente sanzionato, dell’accostamento dei corpi, assuma, secondo il paradigma immunitario, la forma della violenza del diritto (che si autolegittima come forza secondo i propri canoni di giustizia) che si esercita per la salvezza della comunità. Il distanziamento forzato diviene – in quanto inclusione della violenza – il dispositivo immunitario a tutela del gruppo sociale, la dimensione simbolica del contributo individuale alla comune salvezza e, dunque, il gesto solidale per eccellenza.
3. Stato di eccezione, biopolitica e sovranità della persona. - L’emergenza sanitaria (implicata dalla minaccia radicale della vita della comunità) non sospende, né attenua, il tradizionale (necessario) rigore del discorso critico rivolto nei riguardi dell’istanza biopolitica.
Converrà interrogarsi fino a che punto il potere e il diritto che agiscano, secondo i propri canoni di giustizia, in esecuzione di paradigmi scientifici ordinati all’unico scopo della salvezza collettiva, consentono di escludere il riscontro di finalità che (almeno in apparenza) valgano a tradursi nel controllo o nello sfruttamento in chiave politica o economica dei ‘corpi docili’, secondo le preziose denunce di ascendenza foucaultiana.
Occorre non sottovalutare il carattere sottile o insidioso della sorveglianza democratica condotta in un contesto emergenziale, e stabilire con rigorosa nettezza i confini che separano il quadro dell’emergenza sanitaria dalla nozione che allude, secondo il tradizionale linguaggio, ai presupposti dello stato di eccezione.
Ai temi dello ‘stato di eccezione’, dell’infondatezza della legge e dei tratti essenzialmente violenti del diritto, si lega la riflessione di Giorgio Agamben, nei suoi scritti più sensibili alla lezione del pensiero tedesco del Novecento, e alla figura di Carl Schmitt in particolare.
Il recupero della teoria schmittiana dello ‘stato di eccezione’, e della connessa dottrina della sovranità, suggerisce ad Agamben l’idea della ‘decisione sovrana’ che, pur rimanendo ancora all’interno dell’ordine giuridico, vale ad annullare, o a sospendere, il vigore della norma giuridica, ponendosi in uno spazio - per l’appunto lo ‘stato di eccezione’ - ‘che non è (per riprendere l’immagine già incontrata a proposito del paradigma immunitario) né fuori né dentro’ quello che corrisponde alla norma annullata o sospesa. Il «sovrano sta fuori dell’ordine giuridico normalmente valido e tuttavia, appartiene ad esso, perché è responsabile per la decisione se la costituzione possa essere sospesa in toto».[9]
«Essere-fuori e, tuttavia, appartenere: questa è la struttura topologica dello stato di eccezione, e solo perché il sovrano, che decide sull’eccezione, è, in verità, logicamente definito nel suo essere da questa, può anch’esso essere definito dal suo ossimoro estasi-appartenenza».[10]
Lo stato di eccezione secondo la dottrina schmittiana rappresenta dunque un «campo di tensioni giuridiche, in cui un minimo di vigenza formale coincide con un massimo di applicazione reale e viceversa. Ma anche in questa zona estrema e, anzi, proprio in virtù di essa, i due elementi del diritto mostrano la loro intima coesione».[11]
Da un punto di vista tecnico, la prestazione specifica dello ‘stato di eccezione’ non dev’essere rinvenuta in una generica ‘confusione dei poteri’, bensì nell’isolamento della ‘forza di legge’ dalla ‘legge’. «Esso definisce uno ‘stato della legge’ in cui, da una parte, la norma vige, ma non si applica (non ha ‘forza’) e, dall’altro, atti che non hanno valore di legge ne acquistano la ‘forza’. […] Lo stato di eccezione è uno spazio anomico, in cui la posta in gioco è una forza-di-legge senza legge».[12]
L’esperienza istituzionale della Roma repubblicana e imperiale fornisce al discorso suggestioni concettuali e schemi esplicativi di rara limpidezza. La vicenda della ‘sospensione’ senatoriale del diritto in epoca repubblicana, con la conseguente proclamazione del c.d. iustitium[13], riconsegna, alla riflessione attuale, la nozione centrale dell’auctoritas patrum: «è noto che il termine che designava a Roma la prerogativa più propria del Senato non era, infatti, né imperium, né potestas, ma auctoritas».[14]
Nei casi estremi - cioè quelli che meglio la definiscono, se è vero che sono sempre l’eccezione e la situazione estrema a definire il carattere più proprio di un istituto giuridico – «l’auctoritas sembra agire come una forza che sospende la potestas dove essa aveva luogo e la riattiva dove essa non era più in vigore. Essa è un potere che sospende o riattiva il diritto, ma non vige formalmente come diritto». In tali casi, il potere di attivare o riattivare la potestas vacante non è un potere giuridico ricevuto dal popolo o da un magistrato, ma scaturisce immediatamente dalla condizione personale dei patres.
L’essenza dell’auctoritas – come potenza che può, insieme, ‘accordare la legittimità’ e ‘sospendere il diritto’ - esibisce il suo carattere più intimo proprio nel punto della sua massima inefficacia giuridica. Essa «è ciò che resta del diritto se si sospende integralmente il diritto».[15]
La dialettica di potestas e auctoritas – seguita nella profondità delle sue implicazioni storico-culturali - vale pertanto ad esprimere il rapporto di reciproca fondazione tra ‘diritto’ e ‘vita’, e dunque tra ‘diritto’ e ‘senso’ o, se si preferisce, tra diritto e ‘cultura’.[16]
Dallo specifico punto di vista evidenziato da Agamben, i sistemi giuridici dell’Occidente si presentano nella forma di una doppia struttura, formata da quei due elementi eterogenei e (tuttavia) coordinati: uno normativo e giuridico in senso stretto (la potestas) e uno anomico e metagiuridico, in cui si riassumono le istanze della ‘vita’, del ‘senso’, della ‘cultura’ (l’auctoritas).
L’elemento normativo «ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas. In quanto risulta dalla dialettica fra questi due elementi in certa misura antagonistici, ma funzionalmente connessi, l’antica dimora del diritto è fragile e, nella sua tensione verso il mantenimento del proprio ordine, sempre già in atto di rovinare e corrompersi. Lo stato di eccezione è il dispositivo che deve, in ultima istanza, articolare e tenere insieme i due aspetti della macchina giuridico-politica, istituendo una soglia di indecidibilità fra anomia e nomos, tra vita e diritto, fra auctoritas e potestas. Esso si fonda sulla finzione essenziale per cui l’anomia - nella forma dell’auctoritas, della legge vivente o della forza-di-legge - è ancora in relazione con l’ordine giuridico e il potere di sospendere la norma è in presa immediata sulla vita. Finché i due elementi permangono correlati, ma concettualmente, temporalmente e soggettivamente distinti […], la loro dialettica - ancorché fondata su una finzione - può tuttavia in qualche modo funzionare. Ma quando essi tendono a coincidere in una sola persona, quando lo stato di eccezione, in cui essi si legano e si indeterminano, diventa la regola, allora il sistema giuridico-politico si trasforma in una macchina letale».
Accanto al movimento che cerca di mantenere a ogni costo in relazione violenza e diritto, vita e norma, «vi è un contromovimento che, operando in senso inverso nel diritto e nella vita, cerca ogni volta di sciogliere ciò che è stato artificiosamente e violentemente legato. Nel campo di tensione della nostra cultura agiscono, cioè, due forze opposte: una che istituisce e pone e una che disattiva e depone. Lo stato di eccezione è il punto della loro massima tensione e, insieme, ciò che, coincidendo con la regola, minaccia […] di renderle indiscernibili. Vivere nello stato di eccezione significa fare esperienza di entrambe queste possibilità e tuttavia, separando ogni volta le due forze, incessantemente provarsi a interrompere il funzionamento della macchina che sta conducendo l’Occidente verso la guerra civile mondiale».
Esibire il diritto nella sua non-relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto «significa aprire fra di essi uno spazio per l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di ‘politica’. La politica ha subito una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto. Veramente politica è, invece, soltanto quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto. E soltanto a partire dallo spazio che così si apre sarà possibile porre la domanda su un eventuale uso del diritto dopo la disattivazione del dispositivo che, nello stato di eccezione, lo legava alla vita».[17]
Sul piano dei rapporti che il potere istituisce con la disciplina dei corpi, la norma giuridica trova dinanzi a sé, paradossalmente, il situarsi di un oggetto ‘bifronte’: il ‘corpo’ come portatore della soggezione al potere sovrano, e il corpo come portatore delle libertà individuali.[18]
Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo, originariamente concepiti sul piano della riflessione morale e filosofica (e dunque sul terreno ‘anomico’ della cultura), si mostrano sprovvisti di ogni tutela e di ogni realtà fino al momento in cui non sia possibile configurarli come diritti dei cittadini di uno stato.
Ciò è implicito, se ben si riflette, nell'ambiguità del titolo stesso della dichiarazione del 1789: Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, dove non è chiaro se i due termini nominino due realtà autonome o formino invece un sistema unitario, in cui il primo è già sempre contenuto e occultato nel secondo; e, in questo caso, che tipo di relazioni esista fra di essi.[19]
Nello spazio giuridico contemporaneo, le dichiarazioni dei diritti hanno cessato, ormai da lungo tempo, di costituire mere a proclamazioni gratuite di valori eterni metagiuridici, tendenti a vincolare il legislatore al rispetto di principi etici eterni, avendo (definitivamente?) assunto una funzione storico-giuridica reale.
«Le dichiarazioni dei diritti rappresentano la figura originaria dell'iscrizione della vita naturale nell'ordine giuridico-politico dello Stato-nazione. Quella nuda vita naturale che, nell'antico regime, era politicamente indifferente e apparteneva, come vita creaturale, a Dio e, nel mondo classico era (almeno in apparenza) chiaramente distinta (come zoé) dalla vita politica (bios), entra ora in primo piano nella struttura dello stato e diventa anzi il fondamento terreno della sua legittimità e della sua sovranità».[20]
Le dichiarazioni dei diritti (che, dal tempo storico delle Carte di fine Settecento, giungono, nell’attuale panorama giuridico italiano, alla Costituzione del 1948, alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e alla Carta di Nizza integrata nel Trattato istitutivo dell’Unione Europea) vanno allora viste come il luogo in cui si attua il passaggio dalla sovranità regale di origine divina alla sovranità nazionale.
Trasformando il ‘suddito’ in ‘cittadino’, la nascita - cioè la nuda vita naturale come tale - diviene per la prima volta (con una trasformazione le cui conseguenze biopolitiche possiamo solo oggi cominciare a misurare) il portatore immediato della sovranità: «il principio di natività e il principio di sovranità, separati nell’antico regime (dove la nascita dava luogo solo al sujet, al suddito) si uniscono ora irrevocabilmente nel corpo del soggetto sovrano per costituire il fondamento del nuovo Stato-nazione. […] Il nuovo principio ugualitario [..] nomina il nuovo statuto della vita come origine e fondamento della sovranità. […]. Ciò che […] aveva costituito [in epoca storica] solo un tema fra gli altri discussi nelle antropologie filosofiche, comincia […] a diventare una questione politica essenziale, presa, come tale, in un costante lavoro di ridefinizione, finché, col nazionalsocialismo, la risposta alla domanda “chi e che cosa è tedesco” (e, quindi, anche: “chi e che cosa non lo è”) coincide immediatamente col compito politico supremo».[21]
«Uno dei caratteri essenziali della biopolitica moderna (che giungerà nel nostro secolo all’esasperazione) è la sua necessità di ridefinire continuamente nella vita la soglia che articola e separa ciò che è dentro da ciò che è fuori. Una volta che l'impolitica vita naturale, divenuta fondamento della sovranità, varca le mura dell'oicos e penetra sempre più profondamente nella città, essa si trasforma nello stesso tempo in una linea in movimento che dev’essere incessantemente ridisegnata».[22]
4. Lo spazio costituzionale. Costruzione della persona e fede nel diritto. - Sottrarre l’esercizio della potestà regolativa dei corpi, così come concretizzatasi nel quadro delle attuali misure di salvaguardia contro l’emergenza COVID-19, allo spazio anomico dello stato di eccezione (in cui la ‘nuda vita’ si presenta del tutto indifesa, siccome al di fuori delle strutture formali del nomos), significa, in primo luogo, lasciar emergere i punti cardine del discorso costituzionale sul rapporto tra il potere e il corpo e, segnatamente, i documenti normativi in relazione ai quali il riconoscimento della dimensione del corpo vale a porsi nei termini di un momento essenziale e indissolubile nel processo di costruzione della persona.
Vale qui richiamare, più ancora delle norme che la Costituzione detta in materia di circolazione (dove limitazioni sono consentite, nei soli casi stabiliti in via generale dalla legge, per motivi di sanità o di sicurezza, e mai per ragioni politiche), il punto di non ritorno segnato dall’art. 32, là dove, anche nei casi in cui la stessa legge è autorizzata a disporre trattamenti sanitari in via obbligatoria a tutela della salute individuale o collettiva, si erge il limite, in nessun caso valicabile, del rispetto della persona umana.
Il rispetto della persona umana non può non rappresentare, per sua stessa natura, il confine estremo di ogni esercizio del potere in qualsivoglia situazione, pur definibile nei termini della ‘necessità’ o dell’‘eccezione’. Si tratta, come si è in precedenza avuto modo di segnalare, di un limite connaturato alle stesse radici che alimentano la sovranità nazionale e che si rinviene al fondamento degli stessi diritti inviolabili dell’uomo, quali veicoli essenziali del processo (dinamico) di realizzazione della persona (art. 2).
Interrogarsi sul limite (il rispetto della persona umana, appunto) entro il quale la mobilitazione giuridica dei corpi rischia di attivare il corto circuito che annulla lo spazio politico tra diritto e vita, significa risalire alle ragioni ultime che individuano nel corpo, e segnatamente nel corpo-in-relazione, il luogo primario di costruzione della persona.
Fuori da ogni più complessa implicazione d’indole filosofica o psicologica sul senso del ‘riconoscimento’ come momento costitutivo del soggetto e dell’autocoscienza, varrà più sobriamente fermarsi a leggere (vorrebbe dirsi fenomenologicamente) il dato dell’istintiva fuga dalla solitudine che pure è possibile riscontrare negli esempi della cronaca dei giorni dell’isolamento.
Al di là dei casi di più marcata difficoltà nell’adesione psicologica o morale all’ottemperanza dei provvedimenti governativi (talora non privi di una qualche ingenua o, più spesso, condannabile incoscienza), colpisce con immediatezza la spontanea emersione del senso di comunità che si manifesta a distanza nell’organizzazione estemporanea di momenti di condivisione musicale o altrimenti simbolici (i c.d. flash-mob) esibiti attraverso le finestre, i terrazzi o i tetti condominiali.
Anche il massiccio ricorso alla rete sorprende per l’impressionante quantità delle connessioni, al punto (secondo quanto riportato dalle cronache dei quotidiani) da indurre gli esperti, o le imprese che gestiscono le infrastrutture, a porre sotto stretta osservazione l’andamento dei collegamenti e la sostenibilità tecnologica del sistema complessivo.
Si organizzano a distanza, oltre all’esecuzione di prestazioni di lavoro (secondo i moduli del c.d. smart working incoraggiato dagli stessi provvedimenti dell’autorità), riunioni, discussioni tematiche, giochi, lezioni scolastiche e universitarie, celebrazioni di riti religiosi, session musicali, spettacoli di intrattenimento, terapie psicologiche, perfino visioni cinematografiche, cene o aperitivi vissuti online: una forma di negazione dell’isolamento che suona come il segno inequivoco di un istintivo rifiuto.
Le stesse esperienze, apparentemente solitarie, della lettura o della visione televisiva, chiedono ancora d’essere decifrate nel segno della naturale propensione alla condivisione ideale e all’ascolto silenzioso.
La cifra antropologica dell’inquietante ‘presenza’ della solitudine nell’esperienza esistenziale[23] si arricchisce con profitto della testimonianza dell’arte (essa stessa forma par excellence della comunicazione), dove è appena il caso di rammentare (e in ciò s’insinua il valore universale della cultura come vettore di senso) i silenziosi ritmi del cinema di Michelangelo Antonioni o l’intera esperienza pittorica di Edward Hopper: un ricco patrimonio figurativo e simbolico di quel senso di angoscia, che, almeno in un evidente caso (Nighthawks, esposto all’Art Institute of Chicago), la critica artistica ha ricondotto al clima mortifero della guerra.
L’ombra di morte che la solitudine trascina con sé discende dalla sua capacità di offrirsi come il luogo dell’insensatezza, o, più ancora, come un ‘non-luogo’ dell’anima, allo stesso modo dei concretissimi ‘non-luoghi’ urbani mirabilmente descritti nei saggi di Marc Augé.[24]
Risuona, dalla mesta ricapitolazione dei punti di emersione esistenziale della solitudine, l’ammonimento di Jean-Paul Sartre sull’intrinseca ‘nullità’ dell’uomo privo di relazione, e s’intende il significato o la ragione dell’affermazione sartriana dell’uomo come il risultato che di quel nulla ‘hanno fatto gli altri’.
Si comprende il senso del principio che vuole l’esistenza (come luogo dell’interrelazione e, dunque, della costruzione del ‘senso’) come momento che ‘precede l’essenza’ umana. L’uomo è ‘mancanza d’essere’; il nulla (ossia l’essere umano, secondo la logica e il lessico sartriano) è chiamato a colmare il vuoto attraverso l’esistenza. L’esistenzialismo è un umanismo in chiave intersoggettiva, dove all’idea del progetto esistenziale corrisponde la costruzione comune del senso e della reciproca responsabilità, e in cui la distinta percezione della ‘nausea’[25] si addensa in un eccesso di insensatezza.
E’ un richiamo, quello all’esperienza esistenzialista francese (storicamente vicina ai tempi e all’ambiente culturale in cui andava preparandosi la redazione della nostra carta costituzionale), da ritenersi non casuale in periodo di epidemia, se ancora s’avvertono le sferzanti e dolorose pagine della Peste di Camus.
La cultura francese ancora ci regala, sul versante del carattere costitutivo ed essenziale del rapporto intersoggettivo, i richiami alla responsabilità del ‘Volto dell’Altro’ nel pensiero di Emmanuel Lévinas, la preziosa riflessione lacaniana sul linguaggio, e la splendida analisi del pensiero spinoziano di Gilles Deleuze.[26]
Anche una certa lettura dei classici della letteratura americana (ancora una volta auspice Deleuze) ci aiuta a intendere, attraverso l’incontro fatale con il Moby Dick di Melville, il senso delle progressive trasformazioni di Achab, della sua vita, del suo modo d’essere e di ‘cambiare divenendo’ (mercé il suo simbolico nemico), fino al limite estremo della disfatta.
Costringere una collettività entro i limiti angusti di un domicilio coatto, ancora non sembra giungere al punto di ferire in modo irrispettoso il senso della persona umana, se in quella costrizione è dato ravvisare l’unico ed estremo rimedio di salvezza della salute e della vita di ciascuno.
Varrà piuttosto intendersi sui modi e le forme esecutive di una simile scelta biopolitica, se è vero – come pure occorre ritenere – che in ogni evenienza della vita converrà tenersi distanti dalla grossolanità delle semplificazioni e imparare ad articolare, o sapersi lasciar educare dalla complessità delle cose.
Raggiungere il ‘senso’ della persona umana all’interno della sua clausura fisica, potrà allora – per un potere che sappia (o voglia) innalzarsi all’altezza delle regole e dei valori che danno significato alla vita comune – tradursi in una rassegna di criteri regolativi: non tradire, nell’esercizio delle prerogative di potere, le forme che ne scandiscono limiti e competenze; contenere nel tempo, con scrupoloso rigore, ogni misura limitativa in rapporto alle esigenze effettive di protezione; selezionare con ragionevolezza le cause di giustificazione delle deroghe al divieto di circolazione; rifuggire da ogni pregiudiziale selezione ‘per categorie’ (come l’età, il sesso, la provenienza, etc.) le persone ammesse alle cure e quelle da abbandonare alla deriva della sofferenza e della morte; assicurare o agevolare il ricorso massivo agli strumenti alternativi che consentono la comunicazione a distanza (computers o devices connettibili; l’accesso libero alla rete; un flusso continuo e sicuro di collegamenti; etc.); potenziare i modelli organizzativi che consentono il pieno assetto della cooperazione lavorativa da remoto (smart working); disciplinare con intransigenza i divieti di controllo a distanza, non solo nel corso dell’attività lavorativa, ma nel quadro della stessa rilevabilità elettronica degli spostamenti nello spazio; misurare con costante attenzione e scrupolo il rispetto di tutte le norme sulla protezione dei dati personali; agevolare (anche attraverso la collaborazione di enti, istituzioni o imprese private) l’accesso alle fonti di informazione, di comunicazione riflessiva, alla stampa, alle biblioteche, alle cineteche, pubbliche e private.
Si tratta di una rassegna che non soffre di puntuali o conclusive definizioni, come non ne soffrono la latitudine e l’intensità dei percorsi e dei progetti realizzativi della persona, nel potenziale raccolto della profondità di senso della soggettività, della sua ricca, complessa e articolata teatralità, che proprio la dimensione simbolica della regola e del diritto accoglie e fa propria.
La fedeltà alle regole, fino a quelle minime o essenziali che trattengono ogni potere dalla perdizione o dalla follia della sua ybris, torna a proporsi, in ogni circostanza, come l’esortazione che il giurista è chiamato a riproporre, in ogni tempo, da quello dei giorni più luminosi, a quello della pena e del ripiego.
In un saggio che ha accompagnato la pubblicazione del libro sulla ‘certezza del diritto’ di Lopez de Oñate, Piero Calamandrei ammoniva sulla necessità di rendersi consapevoli che «il diritto è perpetuamente in pericolo».[27]
Questo passaggio è stato ricordato (da Guido Alpa) nella presentazione della pubblicazione di una conferenza tenuta dallo stesso Calamandrei nel 1940 nella sede della Fuci: una pubblicazione arricchita, oltre a quello di Guido Alpa, dai saggi di presentazione di Gustavo Zagrebelsky e di Pietro Rescigno.[28]
Il testo della conferenza, intitolata alla ‘fede nel diritto’, valeva, allora, come un monito contro la creazione libera del diritto fuori dal perimetro costituito dal sistema positivo.
La fede dell’intellettuale liberale nel diritto positivo si poneva, in quegli anni, in ultima analisi, come la disperata difesa contro l’arbitrarietà del potere, che appariva, a quel tempo, più facilmente predicabile in relazione all’attività dei giudici e dei funzionari, che alla volontà del legislatore.
Se è doveroso trarre un insegnamento dai fatti del passato, tocca dunque al nostro impegno di contemporanei, e alla nostra responsabilità di interpreti, lavorare affinché quella “fede nel diritto” possa senza riserve tradursi (non certo in una del tutto inappropriata fede nel giudice, bensì) in una sincera ‘fede nell’uomo’ e nella sua capacità di interrogarsi con intelligenza sulle più profonde ragioni della vita vissuta in comune e sul valore dell’accoglienza dell’altro.
Si tratta di un appello che è anche un invito a considerare, di quel diritto “perpetuamente in pericolo”, la natura e la vocazione autentiche di un’arte dell’incontro.
Converrà dunque tornare, a conclusione del lungo discorso sui tempi della clausura, a raccomandare, nel conflitto apparentemente insolubile tra principi e valori, la pratica della saggezza e del compromesso, come insegnamento e lezione superstite della storia: un grano di significato da destinare al futuro, individuale e collettivo, nel segno dell’antico verso di Hölderlin, per cui “lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
[1] Paolo, 2 Cor. XI, 26. L’estratto della seconda lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso compare in esergo all’introduzione del volume Persona e comunità (Cedam - Padova, 1987, rist., [ma Il Mulino - Bologna, 1966]) di Pietro Rescigno.
[2] Le misure legislative per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 sono contenute, principalmente, nel decreto-legge del 23 febbraio 2020, n. 6, nel successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020 e nell’ordinanza della Protezione civile del 9 marzo 2020.
[3] E. Canetti, Massa e potere, Adelphi - Milano, 1960.
[4] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi – Torino, 2002.
[5] Ai temi dell’immunità e del privilegio in chiave giusprivatistica è dedicato il saggio di P. Rescigno, Immunità e privilegio, in Riv. dir. civ., 1961; ricompreso nel volume Persona e comunità richiamato all’esordio del presente saggio.
[6] Sull’infondatezza del diritto (o della legge), sui suoi tratti essenzialmente violenti e sul ‘fondamento mistico’ dell’autorità, si soffermano gli Essai di M. De Montaigne (Essais, libro III, cap. XIII, De l’expérience; trad. it. Saggi, Milano - Adelphi, 1992, vol. II, pp. 1433 s.) più di recente ripresi da J. Derrida (Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità» Bollati Boringhieri - Torino, 2003, pp. 60 ss.).
[7] «Giustizia, forza. – E’ giusto che ciò che è giusto sia seguìto, ed è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto».
[8] J. Derrida, Diritto alla giustizia, in Annuario filosofico europeo. Diritto, giustizia e interpretazione, Laterza - Roma-Bari, 1998, p. 12.
[9] C. Schmitt, Politische Theologie, München, 1922, p. 13.
[10] G. Agamben, Stato di eccezione, Einaudi - Torino, 2003, p. 48.
[11] G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 49.
[12] Op. ult. cit., p. 52
[13] Il iustitium era un istituto del diritto romano in forza del quale, in caso di diffusione di notizie relative ad una situazione idonea a porre in pericolo la stabilità della Repubblica, il Senato era ‘autorizzato’ ad emettere il c.d. senatus consultum ultimum col quale chiedeva ai consoli (o a coloro che ne facevano le veci a Roma, interrex o proconsoli) e, in alcuni casi anche ai pretori e ai tribuni della plebe, e, al limite, ad ogni cittadino, di prendere qualsiasi misura che si ritenesse necessaria per la salvezza dello Stato. «Questo senatoconsulto aveva alla sua base un decreto che dichiarava il tumultus (cioè la situazione di emergenza conseguente in Roma a una guerra esterna, a un’insurrezione o a una guerra civile) e dava luogo di solito alla proclamazione di un iustitium» (G. Agamben, op. cit., p. 55)
[14] Op. ult. cit., p. 95.
[15] G. Agamben, op. cit., p. 103.
L’interesse degli studiosi moderni per la dottrina dello stato di eccezione, e per la connessa nozione dell’auctoritas, non tarda a manifestarsi, là dove occorra fornire immediate patenti di legittimità a figure in cui ‘immanente’ deve apparire la relazione tra il ‘diritto’ e la ‘vita’. Nel 1933, «in un breve articolo che cerca di delineare i concetti fondamentali del nazionalsocialismo, Schmitt definisce il principio della Führung attraverso “l’identità di stirpe fra capo e seguito”. […] Nel 1938 viene pubblicato il libro del giurista berlinese Heinrich Triepel Die Hegemonie, che Schmitt si affretta a recensire. Nella prima sezione, il libro espone una teoria del Führertum come autorità fondata non su un ordinamento preesistente, ma su un carisma personale. Il Führer è definito attraverso categorie psicologiche (volontà energica, cosciente e creatrice) e la sua unità col gruppo sociale e il carattere originario e personale del suo potere sono fortemente sottolineati. Ancora nel 1947, l’anziano romanista Pietro De Francisci pubblica Arcana imperii, che dedica ampio spazio all’analisi del “tipo primario” di potere che egli, cercando con una sorta di eufemismo di prendere le distanze dal fascismo, definisce ductus (e ductor il capo in cui s’incarna). De Francisci trasforma la tripartizione weberiana del potere (tradizionale, legale, carismatico) in una dicotomia, calcata sull’opposizione autorità/potestà. L’autorità del ductor o del Führer non può mai essere derivata, ma è sempre originaria e scaturisce dalla sua persona; essa, inoltre, non è, nella sua essenza, coercitiva, ma si fonda, come già Triepel aveva mostrato, sul consenso e sul libero riconoscimento di una “superiorità di valore”. «Né Triepel né De Francisci, che pure avevano sotto gli occhi le tecniche di governo naziste e fasciste, sembrano rendersi conto che l’apparenza di originarietà del potere che essi descrivono deriva dalla sospensione o dalla neutralizzazione dell’ordine giuridico - cioè, in ultima istanza, dallo stato di eccezione. Il «carisma» - come il suo riferimento (in Weber perfettamente consapevole) alla charis paolina avrebbe potuto suggerire - coincide con la neutralizzazione della legge e non con una figura più originaria del potere. «In ogni caso, ciò che i tre autori sembrano dare per scontato è che il potere autoritario-carismatico scaturisce quasi magicamente dalla persona stessa del Führer. La pretesa del diritto di coincidere in un punto eminente con la vita non poteva essere affermata con più forza. In questo senso la dottrina dell’auctoritas convergeva almeno in parte con la tradizione del pensiero giuridico che vedeva il diritto come, in ultima analisi, identico alla vita o immediatamente articolato ad essa. Al motto di Savigny (“Il diritto non è che la vita considerata da un punto di vista particolare”) faceva riscontro nel Novecento la tesi di Rudolph Smend secondo cui “la norma riceve il suo fondamento di validità [ Geltungsgrund ], la sua specifica qualità e il senso della sua validità dalla vita e dal senso che ad essa è attribuito, come, all’inverso, la vita deve essere compresa solo a partire dal suo senso vitale [ Lebensinn ] normato e assegnato” (Smend, 1954, p. 300)» (G. Agamben, op. cit., pp. 107 ss.).
[16] Sia consentito il richiamo alle più distese riflessioni svolte in M. Dell’Utri, Diritto, politica e cultura, Roma – Aracne, 2012.
[17] Cfr. G. Agamben, op. cit., pp. 109-113.
[18] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino – Einaudi, 2005, p. 138
[19] La boutade di Burke, secondo cui ai diritti inalienabili dell'uomo egli preferiva di gran lunga i suoi «diritti di inglese» (Rights of an Englishman), acquista, in questa prospettiva una insospettata profondità (G. Agamben, Homo sacer, cit p. 140).
[20] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 140.
[21] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 141-143.
[22] G. Agamben, Homo sacer, cit. p. 144-145.
[23] Dove nel paradossale e contraddittorio confronto con il ‘timore d’essere toccati’ rilevato da E. Canetti (v. supra) trova riscontro il rilievo kantiano dell’‘insocievole socievolezza dell’uomo’.
[24] M. Augé, Nonluoghi, Elèuthera – Milano, 1993.
[25] Da cui il nome del capolavoro letterario del 1938 di J.-P. Sartre, La nausea (ora in Torino – Einaudi, 2014).
[26] Nella raccolta di lezioni contenute in G. Deleuze, Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Ombre Corte – Verona, 2010.
[27] P. Calamandrei, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto, Milano, 1968, pp. 169 ss. (v., in partic., p. 190).
[28] P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, 2008.
Viaggio in Cina
di Giovanni Tamburino
Sono reduce da un viaggio in Cina (con rientro anteriore all’epidemia) e vorrei porre in comune, per il poco che può valere la conoscenza, alcune rapide considerazioni.
Il testo non contiene citazioni di articoli di legge né riferimenti dottrinali. Non escludo, tuttavia, che possa avere qualche utilità come stimolo ad alcune riflessioni in tema di sistema e, perché no? autocritiche in noi, magistrati, ex-magistrati e giuristi.
Tre premesse. Primo: resta estranea qualunque considerazione politica. Nessuna delle opinioni che seguono implica un giudizio nemmeno implicito di approvazione o disapprovazione del regime cinese. Questa dimensione, pur rilevante, resta fuori da un discorso finalizzato a tutt’altro. Seconda premessa: la Cina ha circa 1/5 della popolazione mondiale in un territorio grande tre volte l’India (quest’ultima, com’è noto, è da sola un sub-continente). Parlarne come di un’unica cosa è assurdo. La Cina è un mondo di mille realtà diverse. Qui esprimo opinioni tratte dall’incontro durato poco più di due settimane con alcune città, seppur grandi e importanti, tra cui Pechino, Wuhan, Xi’An, Chengdu. Ultima premessa: del molto che ho visto utilizzo ciò che può avere interesse rispetto al dramma che stiamo vivendo in Italia e che la Cina, dove il dramma è iniziato alla fine dello scorso anno, sta superando.
Nell’ambito dell’interesse di cui ho detto cinque aspetti mi sono sembrati significativi.
1. - Una tecnologia informatica avanzatissima. Dai ragazzi agli anziani non ho incontrato persona incapace di utilizzare con assoluta normalità gli strumenti anche più sofisticati. Il più comune è ovviamente il telefonino. Lo smartphone è non solo mezzo di comunicazione continuamente attivo, ma è carta d’identità, certificato anagrafico e di residenza, tessera sanitaria, strumento di localizzazione, mezzo di trasferimento di denaro (basta l’account telefonico senza passare da una banca) e mezzo principale di pagamento: dal biglietto dell’autobus al ristorante tutto si paga con lo smartphone tanto che è comune uscir di casa senza denaro in tasca. Apro una parentesi, per segnalare l’importanza dello scambio economico che non richiede la mediazione del denaro, essendo sufficiente il “colloquio” tra smartphone collegati tramite un unico semplice applicativo (WeChat). Oggi, in piena emergenza epidemica, costretti a casa facciamo spesso acquisti essenziali via telefono e facendoci recapitare la spesa. Tuttavia, siamo costretti a recarci periodicamente in banca o a uno sportello bancomat per prelevare il contante. In tal modo moltiplichiamo il rischio di diffusione del contagio o di essere noi stessi contagiati. Inoltre, quando paghiamo, consegniamo a chi recapita la spesa banconote che possono essere veicolo di contagio. A sua volta colui che riceve il denaro ci dà un resto che prendiamo con le mani moltiplicando ancora una volta i rischi. Tutto ciò viene eliminato in radice con il pagamento con lo smartphone utilizzato pressoché universalmente in Cina. Lo scambio delle comunicazioni è d’altronde assai rapido. Una stessa app ti dice dove sei, dove si trova un negozio, qual è l’orario di apertura, come arrivarci e quanto impiegherai, quali merci troverai oltre ad altre comunicazioni che vanno dal tempo atmosferico alle news. Infine, appositi codici sul display consentono l’accesso automatico a musei, mezzi di trasporto, luoghi pubblici senza transitare dalle casse o far la fila. Quando arrivi alla stazione ferroviaria o in un ufficio gli addetti ti riconoscono e ciò può ridurre o azzerare le code. Vi è un interscambio pervasivo di informazioni il cui risultato è il seguente: città con decine di milioni di abitanti mostrano una scorrevolezza e un ordine a tutta prima sorprendenti. Beninteso è questa una condizione essenziale alla sopravvivenza di immense metropoli che da sole hanno la popolazione di un terzo dell’Italia. Tale condizione può ovviamente evocare l’idea del grande fratello. Ho detto che prescindo qui da giudizi di valore.
2. – La tecnologia non passa solo attraverso i telefonini, che ne sono evidentemente il livello micro. Le strade sono ricche di cartelli le cui scritte continuamente aggiornate indicano che cosa si può fare o non fare e ciò che può essere utile alla popolazione, dalle indicazioni sul traffico a segnalazioni di emergenze varie, consigli o richiami. Ho notato una cura quasi maniacale del verde e della pulizia dei parchi, delle strade e dei luoghi pubblici. Ho trovato musei affollati di giovani, famiglie (in generale di tre persone, ma anche con due figli e spesso con gli anziani genitori o nonni, che rimangono molto rispettati) e comitive che destinano il giorno di riposo alla visita dei musei, ricchi e interessanti. Nei grandi parchi ho assistito a semplici intrattenimenti creati dalla folla, come la danza o balli spontanei e la musica in un clima di spensieratezza e allegria che mi ha ricordato alcuni aspetti dell’Italia degli anni ‘60.
3. – Tornando al piano tecnologico, ho notato l’ampia diffusione delle lezioni universitarie a distanza grazie a collegamenti video sia nelle aule attrezzate, sia nei computer dei singoli studenti. Anche in questo caso il funzionamento degli apparati di trasmissione è per lo più ottimo.
4. – La presenza della polizia e delle forze militari è contenuta, salvo talune aree. L’ordine pubblico sembra fondarsi sul sistema di comunicazione continua e di conoscenza capillare garantito da canali informatici evoluti. Quando arrivi in Cina sei fotografato e la foto, scannerizzata, entra nel sistema per essere riverificata a ogni passaggio, da città a città, sia che viaggi in auto, in treno o in autobus. Nulla di invasivo, beninteso: tutto avviene in modo fluido, automatico, efficiente, quasi senza che te ne accorga. Ma ogni movimento all’occorrenza è seguito e registrato. Il sistema è stato fondamentale sia in Cina sia nella Corea del Sud per affrontare l’emergenza virus consentendo di monitorare qualunque spostamento delle persone in quarantena o comunque confinate in casa. Ed è ovviamente efficace nella prevenzione generale. Città enormi, rispetto alle quali Roma o Milano sono meno di quartieri, risultano leggibili secondo una organizzazione sicura. Si esce notte e giorno con una sensazione di tranquillità da noi dimenticata. A ciò probabilmente contribuisce la circolazione di contante ridotta al minimo.
5. – Le grandi città, da oltre 10 milioni di abitanti a oltre 20 milioni, hanno chilometri coperti da teorie di grattacieli ognuno dei quali ospita tanti abitanti quanto un nostro piccolo paese. Anche in questo caso l’esistenza di sistemi informatici avanzati consente la gestione di queste unità abitative e le collega alle strutture amministrative municipali e, a un secondo livello, alle centrali. In ogni grande caseggiato esiste, di regola, un rappresentante politico che funge da tramite: un tramite certamente informativo, ma anche di segnalazione delle necessità dei residenti.
L’immagine che mi è rimasta è di una potenza proiettata verso il futuro con un’attitudine straordinaria all’utilizzo delle tecnologie avanzate già diffuse a ogni livello, dai bambini agli anziani, da chi vende per la strada piccoli oggetti all’albergo con migliaia di camere. Mi è sembrato che il balzo da una storia plurimillenaria, caratterizzata da aspetti medievali protrattisi fino a cent’anni fa, al presente segnato dall’Intelligenza artificiale e da sofisticati sistemi di connessione-comunicazione-elaborazione, sia stato compiuto con la convinta partecipazione della popolazione, specie giovane, consapevole e fiera, per ciò che ho potuto percepire, dell’età di straordinaria crescita che sta vivendo la Cina.
Non sarei sincero se chiudessi senza dire della sensazione di precipizio o di vuoto d’aria che mi ha colto al rientro in Italia nel contatto con le miserrime strutture e le boccheggianti amministrazioni (ben prima della maledizione del virus), in particolare del sistema giustizia (certo non il solo, né il peggiore) afflitto da grave arretratezza: un sistema in cui ancora non si è realizzato il processo per videoconferenza quanto meno per tutti i detenuti ([1]), non si sono attrezzate sufficienti ed efficienti postazioni per colloqui audiovisivi a distanza in tutte le carceri, non si è abbracciato con entusiasmo nemmeno il processo telematico. E’ di questi giorni la notizia che finanche sistemi pur modesti se non arcaici, come il SIUS ([2]), trovano difficoltà di funzionamento sui portatili dei magistrati. Tutto ciò è sconcertante e rinvia al ritardo, forse ormai incolmabile, dovuto all’immobilismo e all’arretratezza ai quali l’Italia si è condannata per mantenere posizioni di comodo, vecchie abitudini mentali, ossequio a regole concepite per un mondo che non esiste più. Si sono così paralizzate per decenni la semplificazione e l’efficienza, utili entrambe anzitutto ai cittadini con maggiori difficoltà: anziani e giovani, malati, disoccupati, poveri.
Il breve confronto con la Cina, in particolare con la città di Wuhan subito prima dell’epidemia, ha reso facilmente prevedibile la risposta che sarebbe stata data al flagello del virus. La capacità di strutture pubbliche che controllano il sistema e l’efficienza della strumentazione informatica hanno consentito, certamente aiutate dall’attitudine degli abitanti alla disciplina e al rigore, di affrontare un’emergenza che in Italia ha fatto, mentre scrivo, più vittime dell’intera Cina. Dio non voglia che ne causi ancora se proseguirà una gestione improvvisata e caotica di quella che dovrebbe essere considerata a ogni effetto una terribile guerra.
[1] Un opportuno ampliamento dell’utilizzo del processo a distanza nei confronti dei detenuti è stato adottato con le disposizioni dell’art. 2, comma 7, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, e, poi, dell’art.83, comma 12, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Purtroppo si è ancora una volta agito nella emergenza di un’epidemia già dilagata, anziché affrontare un problema che già da anni era maturo ed era stato evidenziato. Richiamo anche l’eccellente proposta di Ignazio Pardo “Processo telematico e sistema delle impugnazioni penali” (in questa Rivista, 23 marzo 2020 https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/938-processo-telematico-e-sistema-delle-impugnazioni-penali-di-ignazio-pardo) dirette alla accelerazione delle impugnazioni penali. Si tratta, scrive Pardo, di “semplice prassi del tutto idonea a sgravare le cancelleria da oneri e compiti e che, una volta standardizzata alla ripresa ordinaria delle attività, si profila utile ad alleggerire il lavoro delle stesse strutture amministrative, ad oggi gravate dalla predisposizione di numerose copie dei c.d. fascicoletti, idonea ad abbattere l'utilizzo massiccio di carta negli uffici giudiziari, idonea ancora a ridurre i costi di spedizione”.
[2] Una surreale discussione viene attestata in questi giorni (19/20 marzo 2020) dalla mailing-list dei magistrati di sorveglianza che vivono il dramma della “prima linea” e stentano a ottenere risposte adeguate circa la possibilità di lavorare da casa servendosi del sistema SIUS. Lascia sgomenti la lettura delle mail che si sono susseguite e ancora si susseguono a dimostrazione del fatto che il problema non è risolto. E’ impossibile non pensare a un ritardo di anni che pesa come un macigno sul sistema giustizia.
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