ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Magistratura società civile impegno per la costituzione, Movimento per la giustizia e Giovanni Falcone
Intervista di Armando Spataro a Giustizia Insieme a cura di Paola Filippi e Roberto Conti[1]
Giustizia Insieme offre ai suoi lettori, nel giorno dell’anniversario dell’eccidio di Capaci, le riflessioni di Armando Spataro e la sua esperienza di uomo, di magistrato e di pensatore che ha segnato la storia della magistratura italiana nell’ultimo quarantennio. Gliene siamo grati e dedichiamo la sua intervista ai “nostri morti” ed alle nuove generazioni dei magistrati.
1. Hai sempre svolto il mestiere del giudice con spirito di servizio senza mai sottrarti alla responsabilità delle scelte sia nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, che in quelle di governo autonomo della magistratura, quando fosti componente del CSM nel quadriennio 1998-2002, e infine nell’ambito della società civile. Quando è stato necessario denunciare iniziative politiche lesive del potere giurisdizionale e della democrazia lo hai sempre fatto senza esitazione. La partecipazione alla cosa pubblica anche solo in forma di manifestazione del dissenso e divulgazione del pensiero l’hai sempre vissuta come un dovere del cittadino e del magistrato.
Quali sono stati, nel corso della tua carriera, i momenti in cui è stato particolarmente importante dare voce alla società civile?
Quali sono stati, nel corso della tua carriera, i momenti in cui è stato particolarmente importante dare voce alla magistratura?
Ringrazio per i generosi apprezzamenti inclusi nella domanda e perché vi si afferma che la mia partecipazione alla cosa pubblica è stata da me vissuta “come un dovere del cittadino e del magistrato”. Sì è proprio così, perché in ogni intervento pubblico non sono mai riuscito a scindere i doveri del cittadino da quelli del magistrato, pur con i limiti che soprattutto i secondi impongono. Credo fortemente, cioè, nel diritto, anzi nel dovere, del magistrato-cittadino di intervenire nel dibattito pubblico quale portatore di conoscenze ed esperienze nei settori d’interesse. Penso, prima di ogni altro tema, a quello dei diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione. Possono intervenire, insomma, per le stesse ragioni per cui lo fanno i medici in questo drammatico periodo di pandemia o gli ecologisti se si discute di ambiente o i professori se si discute di educazione e cultura. Potrei andare avanti con gli esempi, ma mi fermo.
Tengo a dire, però, che il mio impegno nella “società civile” è iniziato molto tardi, quando ero magistrato già da vari anni. Durante la mia giovinezza a Taranto, infatti, il mio impegno assorbente, quasi maniacale, era quello dello sport. Tra l’altro, oltre che per sostenere esami, frequentavo saltuariamente l’ambiente universitario e dunque rimasi anche lontano dai movimenti studenteschi di quegli anni. Per rendere la mia confessione completa, aggiungo, come dico sempre, che il ’68 l’ho conosciuto solo nel ’78 a Milano! Peraltro, anche nel primo decennio di mia attività professionale a Milano, cioè tra il ’76 e l’85, non ho avuto il tempo per seguire i dibattiti politici o per impegnarmi socialmente, assorbito com’ero nelle indagini sul terrorismo di cui mi occupavo a tempo pieno con il mio amico e maestro Enrico Pomarici. Certo lo studio dei folli documenti di Brigate Rosse e Prima Linea mi fu utile per iniziare a conoscere un mondo fino a quel momento ignoto. Devo dire, con il senno di poi, che la mia “ignoranza” in materia mi fu utile: da “tabula rasa”, quale sostanzialmente mi sentivo, studiavo e leggevo quei documenti senza pregiudizi!
Ma proprio nel pieno degli “anni di piombo” si manifestò per la prima volta un mio impegno civile che era insieme un impegno da magistrato e da cittadino: ciò avvenne quando, con tutti i colleghi che si occupavano di quella materia (non più di 25/30), sentimmo il dovere di uscire dai palazzi di giustizia per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali, di pensionati ed ovunque fosse possibile: allora per diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica, negli anni seguenti – ed ancora oggi – contro la logica mafiosa, la corruzione, nonché a difesa dei principi costituzionali e del principio di solidarietà. Fu quella una scelta necessaria ed utile per contrastare con fermezza non solo il verbo di quanti (persino alcuni noti intellettuali) teorizzavano una improponibile neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»), ma anche per fronteggiare le campagne propagandistiche dei gruppi terroristici di destra e di sinistra che diffondevano “risoluzioni strategiche” ed altri documenti per rivendicare gli attentati commessi ed illustrare la loro folle ideologia.
Fino alla metà degli anni Ottanta, comunque, non ebbi il tempo e la possibilità di riflettere approfonditamente sui rapporti tra società e mafia: iniziai a farlo in “Società civile”, un circolo nato grazie alla spinta di Nando dalla Chiesa: Nando non era allora un politico e, anzi, era una spina nel fianco di molti politici. La sua idea era quella di dare voce e presenza nella società, attraverso un’aggregazione trasversale aperta, a chiunque fosse disposto a battersi, in nome dell’etica, contro ogni tipo di degradazione morale e culturale, innanzitutto contro mafia e corruzione. Accettai con entusiasmo di partecipare a quell’avventura. Mi piaceva la trasversalità della iniziativa, un po’ simile a quella che, sia pur nel più ristretto ambito dei magistrati, fu poi alla base della nascita – nel 1988– del Movimento per la Giustizia. Ho sempre pensato, infatti, che sui principi, sull’etica, sui valori della Costituzione ci si possa trovare agevolmente insieme: progressisti e conservatori, così come laici e credenti. Fui allora socio fondatore di “Società civile”, nel dicembre del 1985, insieme a tante persone di qualità, con cui trascorsi anni i primi anni ricchi di speranze del mio impegno extraprofessionale: ricordo Corrado Stajano, Alberto Cavallari, Paolo Murialdi, Saveria Antiochia, Silvio Novembre, Guido Martinotti, Giampaolo Pansa, ed anche colleghi come Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Giuliano Turone. In molti, sia da destra che da sinistra, partirono all’attacco di quello strano circolo milanese che escludeva statutariamente i politici. Ci caddero addosso accuse di qualunquismo e venimmo bollati come «comunisti» dalla destra e come «anticomunisti» dalla sinistra. Per entrambi, «manichei»: sostenitori dell’opposizione netta tra «politica cattiva» e «società civile buona». Così ricostruì quegli anni anche Gianni Barbacetto. Rifiutavamo con una scrollata di spalle quelle polemiche, ben sapendo che la politica non è sempre «cattiva», che la società civile non è tutta «buona». Semplicemente, volevamo offrire ai cittadini uno spazio autonomo fuori dai partiti, che di spazi ne avevano occupati tanti, molti legittimi, alcuni illegittimi. “Società civile” fu da quel momento anche la denominazione di quella parte della società italiana che voleva far sentire la sua voce al di fuori dei partiti, ma non necessariamente contro di essi. Era il 1985, ed entrai anche, con Gherardo Colombo, a far parte del primo direttivo del circolo di Nando: un deciso e visibile passo verso la futura collocazione nel novero delle pericolose «toghe rosse».
Sulla spinta di quell’impegno e sostanzialmente per ragioni omogenee, contribuii nell’aprile del 1988 a fondare, nell’ambito dell’Associazione magistrati anche il Movimento per la Giustizia. Quella del gruppo fu una storia di successive e spontanee aggregazioni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa e rendendola formale e vuota di contenuti. L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confronto sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti depositavano i propri deliberati interni. E il fatto che «ci si contava» veniva scambiato per esercizio di democrazia.
Ma credo che ci sarà spazio più avanti per parlare delle correnti dell’ANM anche alla luce di fatti recenti che ancora sono oggetto di grande interesse giornalistico.
Vorrei riprendere, invece, il discorso sull’impegno personale fuori dai palazzi di giustizia, ma vicino a ciò che essi rappresentano.
Mi ritornano in mente le manifestazioni contro le cosiddette “leggi vergogna”.
Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente del Movimento per la Giustizia e dell’Associazione nazionale magistrati. Alcune, ovviamente, sono rimaste impresse con maggior nitidezza nella mia memoria.
Il 14 settembre del 2002, ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimenticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Giovanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite le «leggi vergogna», sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le reazioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra presenza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana. Non è possibile per molti comprendere e credere che un magistrato possa ben testimoniare in quel tipo di eventi, con la sua presenza e le sue parole, l’adesione al modello astratto di figura indipendente e imparziale previsto dalla nostra Costituzione. Ma se quelle polemiche mi lasciarono indifferente tanto da averle dimenticate, ricordo invece la ricchezza degli sguardi e dei sorrisi che capitava di scambiarsi tra persone che si incontravano per caso tra la folla in piazza San Giovanni e che si riconoscevano. Mentre a tarda sera stavo andando via e Fiorella Mannoia stava cantando dal palco, un gruppo di napoletani del circolo Millepiedi mi riconobbe: le mie mani furono prese e fui quasi costretto a fare un girotondo con loro.
Era anche entrata nel vivo, sin dal 2003, l’azione di governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, ma personalmente ero più preoccupato per la annunciata riforma della Parte II della Costituzione. Secondo chi ci governava, quella riforma sarebbe servita a rinnovare il paese, a renderlo moderno e a tutelare più efficacemente i diritti dei cittadini. Ma bastava qualche sommaria considerazione per smascherarne il vero assunto di partenza: la concezione dell’esercizio del potere di governo quale funzione che non tollera bilanciamenti e che caratterizzava altre leggi e riforme intervenute nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Fu per questa ragione che organizzai a Milano, nel gennaio del 2004, insieme ad Articolo 21, Libertà e Giustizia e pochi colleghi del Movimento per la Giustizia, un convegno pluritematico su Controriforme e diritti dei cittadini: nella sala affollatissima della Provincia, in via Corridoni a Milano, con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che intervennero sulle sofferenze del settore pubblico: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sanità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Alessandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Sergio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Stato». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzionale che con quella manifestazione intendevamo difendere. Proprio per questo, in quel convegno, noi magistrati scegliemmo di discutere non solo dei problemi della giustizia ma dei problemi dell’intero settore pubblico.
Del resto, fu per la stessa ragione che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo dell’epoca. Ed ancora non sapevamo che, per le stesse ragioni, ci saremmo allo stesso modo comportati nell’identica cerimonia del gennaio del 2010 e che, anzi, indossando la toga, avremmo abbandonato l’aula magna al momento del discorso del rappresentante del ministero della Giustizia.
Alla fine di gennaio del 2006, non ero più segretario del Movimento per la Giustizia, ma ero ancora dirigente dell’Associazione nzionale magistrati e le elezioni politiche erano ormai imminenti . Ebbene, insieme a due amici avvocati di Milano, pensammo fosse giusto – come cittadini elettori – sollecitare chi si candidava a guidare il paese a manifestare le proprie posizioni sui temi della giustizia. Grazie anche all’aiuto di alcuni professori universitari, scrivemmo un sintetico appello rivolto indistintamente ad entrambi gli schieramenti politici, aperto alla sottoscrizione di quanti ne condividevano il contenuto. La richiesta era quella di impegnarsi per l’abrogazione delle leggi che, negli anni precedenti, avevano devastato il sistema giustizia e per l’approvazione di una seria e complessiva riforma del settore, anche sul piano organizzativo: lo lanciammo attraverso le mailing list di magistrati, avvocati, ed associazioni varie. Il documento fu chiamato “Un impegno per la giustizia” e il suo incipit era: «Giustizia: abrogare le leggi-vergogna, bloccare la riforma dell’ordinamento giudiziario» La risposta all’appello fu straordinaria ed in molti si adoperarono per la sua diffusione. Raggiungemmo più di ottocento autorevoli adesioni in un paio di giorni. Sottoscrissero l’appello centinaia di insigni accademici, avvocati, magistrati e, quando l’appello fu aperto a cittadini ed associazioni, diventò impossibile tenere il conto delle firme. Il 20 febbraio2006 vi aderì anche Oscar Luigi Scalfaro. Inviammo il documento a vari esponenti politici, compresa la segreteria di Prodi. Inizialmente pervenne una tiepida disponibilità di qualcuno a un pubblico dibattito in cui discutere il documento, ma nessun politico diede corso a tale intenzione.
A proposito di appelli, ne rammento un altro rilevante, quello del 21 ottobre 2009, che inviai al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: era stato un appello sottoscritto da oltre mille magistrati di ogni estrazione e da circa duecento avvocati e accademici di varie discipline giuridiche e scientifiche. Le firme erano state raccolte in pochissimi giorni insieme ai colleghi Rita Sanlorenzo, Valerio Fracassi, Livio Pepino e ai professori Sergio Chiarloni e Silvia Buzzelli. I sottoscrittori esprimevano le loro preoccupazioni al capo dello Stato per le offese arrecate alla magistratura, per la conseguente erosione della sua autorevolezza, per lo stato della democrazia italiana, per le riforme della giustizia annunciate in chiave punitiva nei confronti di giudici e pubblici ministeri. Un clima conseguente, in particolare, alla sentenza del 7 ottobre precedente della Corte Costituzionale (duramente attaccata a sua volta) con cui era stato bocciato senz’appello il lodo Alfano, cioè la legge che rendeva immuni i titolari delle alte cariche dello Stato per la durata del loro mandato, persino per reati commessi anteriormente all’assunzione di questo, «Signor presidente, – concludeva l’appello – nell’assoluta abnormità della situazione che stiamo vivendo, sentiamo forte il bisogno di confidare nella Sua opera attenta ed autorevole a difesa delle Istituzioni del Paese, perché possa arrestarsi la pericolosa deriva in atto che rischia di vanificare nei fatti il principio della separazione dei poteri». Conservo gelosamente la lettera di risposta del capo dello Stato, a me indirizzata quale tramite dei sottoscrittori. Vi si afferma la comprensione dei motivi delle preoccupazioni esposte nell’appello e la riaffermazione dell’alto ruolo del presidente della Repubblica quale riferimento sicuro a difesa dell’indipendenza della giurisdizione.
Ma forse ciò di cui sono più orgoglioso – e che comunque meglio ricordo – è il duplice impegno civile a sostegno del “NO” contro due orride riforme della Costituzione, quella berlusconiana del 2006, approvata da una maggioranza di centrodestra, e quella renziana del 2016, approvata da una maggioranza di centrosinistra, entrambe caratterizzate dall’aspirazione dei due leaders politici che le avevano sostenute ad assumere il ruolo e la funzione dell’ “uomo solo al comando”: aspirazioni che ciclicamente ritornano nella storia del mondo intero.
Nel 2006, partecipai attivamente, insieme a moltissimi colleghi, ad ogni iniziativa promossa dalle associazioni Astrid, Libertà e Giustizia, Comitati Dossetti, dalle confederazioni sindacali, dall’Anpi e da chiunque altro. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica (non le altre correnti) aderirono anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potessero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo della riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. Sentivo necessario, in vista del referendum raggiungere soprattutto i cittadini più giovani e gli studenti, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche attraverso gli strumenti informatici e le moderne tecnologie, né poteva essere trascurato il coinvolgimento della rete delle istituzioni locali nella campagna per rendere consapevoli i cittadini dei rischi che correva il nostro assetto costituzionale. La riforma costituzionale si proponeva, tra gli obiettivi declamati, quello dell’incremento dei poteri dell’esecutivo: il premier sarebbe diventato padrone assoluto della politica, del Parlamento, con contestuale svuotamento di competenze e poteri delle istituzioni di controllo e garanzia: presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Parlamento, da un lato, Consiglio superiore della magistratura dall’altro.
Fino al giugno del 2006 fu per me tutto un susseguirsi frenetico di manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi sempre in difesa della Costituzione. Il 25 e 26 di quel mese, però, non riuscii a votare: ero a New York per lavoro e per un incontro di studio sul terrorismo internazionale. Spesi una considerevole somma per i continui aggiornamenti telefonici sull’esito del referendum: il «No» vinse con il 61,3%. Ripensai finalmente rilassato al tanto affannarci del periodo precedente: ne era valsa la pena! Sarei stato disperato, invece, se il “NO” avesse perso per un voto!
Battute a parte, non avrei mai immaginato che esattamente dieci anni dopo sarebbe stato necessario un impegno anche maggiore contro una indicibile riforma costituzionale approvata da una maggioranza di centro sinistra che, guidata da Matteo Renzi, si proponeva sostanzialmente gli stessi obiettivi della riforma berlusconiana del 2006. I fatti sono recenti e non ho bisogno di approfondire i contenuti della riforma renziana, mentre è giusto ricordare che il leader fiorentino investì tutta la sua potenza di fuoco nella campagna referendaria, affermando che, in caso di vittoria del “NO”, avrebbe abbandonato la politica. Non ha però mantenuto la promessa. Ricordo che, come promotore del Comitato per il No (a cui questa volte il Movimento per la Giustizia decise di non aderire!), partecipai a 56 dibattiti in ogni parte d’Italia, sfruttando weekend, giorni di ferie non goduti ed orari serali. In Tv ebbi anche un bel confronto con il Ministro della Giustizia Orlando, ma rammento anche, in altre occasioni, comportamenti e parole arroganti e provocatorie di alcuni personaggi politici che nei dibattiti parlavano a sostegno del “SI”. Alcuni quotidiani mi accusarono di essere un magistrato politicizzato: il ritornello rimesso in campo ogni volta che fa comodo, ma che non mi ha mai sfiorato. Inutile spiegare a chi non lo vuole comprendere la differenza che c’è tra “politicizzazione” e difesa della Costituzione. Il 4 dicembre del 2016, il “NO” trionfò: 60% vs. 40% !
Che dire ancora? Mi viene in mente – e tengo a citarlo anche in questa sede – l’impegno da cittadino e magistrato sui temi della immigrazione, contro i “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009 e contro i “decreti sicurezza” del 2018 e del 2019 !
La storia recente della risposta del nostro Paese a questo tema è stata infatti caratterizzata da una successione normativa di provvedimenti che le diverse maggioranze politiche di turno hanno approvato in nome della declamata tutela della sicurezza, ormai un vero brand pubblicitario: Di qui la definizione di “pacchetti-sicurezza” o “decreti-sicurezza”.
In Italia, in particolare, i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 favorirono l’estendersi di una xenofobia incontrollata. Tacendo d’altro, basti ricordare che il 23 maggio 2008, il governo aveva varato un decreto legge intitolato «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», poi convertito in legge, la cui filosofia appariva evidente sin dalla nuova denominazione dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari, che da allora e fino al 2017 si chiamarono «Centri di identificazione ed espulsione», luoghi di una lunga detenzione amministrativa, senza colpa e reati, come se lo scopo della identificazione fosse solo quella della successiva espulsione. Con il decreto, veniva anche introdotta nel codice penale una nuova aggravante, dichiarata incostituzionale due anni dopo, per i reati commessi da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio nazionale, pur in assenza di qualsiasi nesso tra questa condizione e il reato commesso. Ma anche il più recente “Decreto Sicurezza” n. 113/2018, di cui tanto si vantò il governo italiano allora in carica, contiene molte inaccettabili previsioni tra cui, solo a titolo di esempio, l’ abrogazione della “protezione umanitaria” e l’ampliamento dei criteri di diniego e revoca della protezione internazionale. E con l’altrettanto criticabile cd.“Decreto sicurezza bis”, n. 53/2019, è stata rafforzata la “politica dei porti chiusi” ed è stata anche prevista l’ irrogazione di una pesantissima sanzione amministrativa (fino ad un milione di euro e la confisca obbligatoria del natante) a carico del comandante della nave, e con responsabilità solidale dell’armatore, il quale non osservi le limitazioni e i divieti eventualmente disposti dal Ministro dell’Interno in base a nuovi poteri attribuitigli.
Non mi pare che auspicare, come sempre faccio in questo periodo, che il governo in carica mantenga la promessa di modificare quei due provvedimenti sia prova del mio essere un “pensionato politicizzato” !
Tuttora, infatti, il mio perdurante impegno è quello di contribuire a far comprendere ai cittadini non informati che la solidarietà – come disse Rodotà – non è un sentimento, ma un diritto, ed – aggiungo io - anche un dovere che impone a tutti di non voltarsi dall’altra parte. Ricordo che a fine giugno 2009, alla vigilia della definitiva approvazione del secondo ddl sicurezza, insieme a giuristi come Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona, Stefano Rodotà, Oreste Dominioni, Elena Paciotti, Luigi Ferrajoli, Livio Pepino ed altri, sottoscrissi un appello per denunciare i profili di incostituzionalità del reato di immigrazione clandestina: una norma irragionevole che si andava a sovrapporre a quelle già esistenti sulle espulsioni e a criminalizzare la mera condizione di irregolarità di uno straniero che, come la Corte Costituzionale aveva già affermato nel 2007, non è in sé sintomatica di pericolosità sociale.
Nel settembre del 2009, poi, partecipai a Lampedusa ad uno dei più coinvolgenti convegni della mia vita: lo avevo organizzato insieme ad altri magistrati del Movimento per la Giustizia-Articolo 3, di Magistratura democratica e di Medel. Lo avevamo voluto intitolare: Le frontiere del diritto, il diritto della frontiera, invitando a prendervi la parola giuristi anche stranieri (ovviamente inclusi insigni costituzionalisti), rappresentanti di organizzazioni umanitarie, giornalisti ed esponenti del mondo cattolico. Era ovviamente simbolica la scelta di tenere il convegno proprio a Lampedusa, porto d’approdo sognato dai migranti africani. Il convegno voleva essere espressione dell’attenzione che i magistrati italiani ed europei riservano da decenni all’evoluzione sociale nei rispettivi paesi, ai rapporti internazionali tra Stati e persone ed alle conseguenti scelte legislative dei governi. Addirittura, con una certa dose di presunzione «buona», chi aveva organizzato il convegno a Lampedusa si augurava che esso potesse concorrere ad alimentare ripensamenti del legislatore, spingendolo verso mutamenti, anche radicali, di una normativa in cui era facile individuare aspetti davvero impresentabili. E dieci anni dopo, il 9 e 10 settembre 2019, lanciai l’idea di organizzare sempre a Lampedusa un altro convegno sullo stesso tema. Area Democratica per la Giustizia e l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (A.S.G.I), composta da Avvocati ed Accademici di alto livello professionale, ne assunsero la paternità. Ed il titolo (“La frontiera dei diritti ed il diritto della frontiera: dieci anni dopo di nuovo insieme a Lampedusa”) richiamava l’analogo evento del 2009. Anche in questo caso, la partecipazione di avvocati, magistrati, accademici, giornalisti, scrittori, ufficiali della Guardia Costiera e la ricchezza degli interventi hanno segnato il grande successo, anche internazionale, del Convegno che aveva come fini la diffusione di conoscenze sulla tutela dei diritti fondamentali (anche a livello internazionale), nonché sulla storia dell’immigrazione e delle leggi del mare, illustrando il ruolo delle Istituzioni.
Mi fermo qui, anche se altro potrebbe essere raccontato, in particolare circa altri interventi pubblici quale componente del CSM e poi del Comitato Direttivo Centrale della ANM. Dal racconto degli eventi vissuti mi sembra chiaro che nei miei ricordi, nella mia mente e nell’anima tutto si lega e non riesco proprio a distinguere l’impegno da magistrato per i cittadini e quello – sempre da magistrato – per i magistrati, come forse la domanda mi richiedeva. Ed aggiungo che non ho mai voluto dar voce agli uni ed agli altri: non ho questa presunzione e non ne ho titolo! Al massimo ho voluto unirmi ad altre voci, a quelle di chi, ovunque ed in qualsiasi ruolo, si impegna per i diritti fondamentali di tutti.
2. Dalla fine degli anni settanta al 2000, e poi in quest’ultimo ventennio, abbiamo assistito a un graduale e inesorabile allontanamento della nuove generazioni dalla partecipazione alla “res publica”. Il dibattito collettivo, il confronto delle idee. il desiderio di “cambiare il modo” è stato sterilizzato dall’individualismo solipsistico e dal qualunquismo; l’atteggiamento che si è sviluppato è quello personalistico del rifiuto della politica in tutte le articolazioni del sociale e le espressioni della solidarietà collettiva, come se la discussione su temi sociali fosse qualcosa da lasciar trattare in via esclusiva ai “professionisti” della politica.
In conseguenza dell’ingresso massivo del qualunquismo come è cambiata la magistratura?
La domanda è importante e richiama mutamenti genetici di tutti, soprattutto di tanti giovani, non solo magistrati.
Ho in mente una immagine che fotografa i mutamenti di cui mi chiedi. Nel 2013 feci un viaggio con mio figlio Andrea in Belgio e la prima sera cenammo in uno stupendo e storico ristorante nel cuore pulsante di Bruxelles. In realtà, non pulsava niente. Tutti i tavoli, incisa una tavolata da 14 persone, erano occupati da giovani che per tutta la durata della cena non scambiarono una parola perché occupati a leggere e chattare sui rispettivi telefonici. Fotografammo la tristissima scena.
Ebbene, questo rinchiudersi nella propria stanza ed affidarsi solo al proprio sentire, magari influenzato dalle pessime modalità della nuova comunicazione, comunque senza confrontarsi con il pensiero degli altri e con la società che vive fuori dai palazzi di giustizia, si va diffondendo anche in magistratura. Spero che questa modalità di pensiero sia sconfitta o che resti minoritaria.
Gli effetti dell’ingresso massivo del qualunquismo nel mondo della magistratura si leggono anche nelle discussioni sulle mailing list, anche negli interventi di colleghi stimati.
Che senso logico, al di là dei precetti costituzionali, ha invocare il sorteggio (variamente paludato, anche come pre-sorteggio dei candidati prima del voto finale) per designare i componenti del CSM quale strumento per contrastare le deviazioni correntizie? Un’offesa enorme all’intera magistratura !
E perché mai, per ovviare a certe oscure trattative per le nomine degli incarichi direttivi o semidirettivi, questi dovrebbero essere affidati solo ad aspiranti designati dai magistrati componenti dell’ufficio interessati o addirittura questi ultimi, per quanto riguarda le funzioni semidirettive, sarebbero gli unici a poterle svolgere con periodicità . Il CSM ne uscirebbe svilito e potenziali candidati operanti in altri uffici sarebbero inevitabilmente penalizzati.
Più delicato, ma non meno pertinente al tema è il discorso sull’ostracismo che sempre più spesso si manifesta nei confronti dei magistrati che svolgono funzioni fuori ruolo o per quelli che hanno fatto parte del CSM o, ancora, per quelli che hanno rivestito ruoli dirigenziali in seno alla Associazione Nazionale Magistrati: per tutti costoro dovrebbero essere inibite per un certo periodo di tempo, peraltro non marginale, domande ed assegnazioni a ruoli dirigenziali, alla Cassazione etc., come se si trattasse di appestati o di portatori del Covid 19.
Non riesco ancora a dimenticare le polemiche attorno alla nomina dell’ottimo Giovanni Melillo a Procuratore di Napoli solo perché era stato un efficace Capo di Gabinetto del Ministro Orlando o il ritardo nella nomina di Guido Raimondi (avvenuta solo nella seconda tornata) a Presidente di Sezione della Cassazione. Quale era stata la sua penalizzante attività fuori ruolo? Componente e poi Presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo!
Sto dicendo che tutti i magistrati che hanno svolto attività fuori ruolo sono meritevoli di incarichi direttivi? Certamente no, ma occorre valutare caso per caso la natura dell’incarico e la qualità del servizio svolto per altre istituzioni, senza sposare una preconcetta tesi di contiguità politica e scarsa indipendenza dei fuori ruolo, tale da impedirne persino il confronto con altre candidature. Ed altrettanto vale per i membri del CSM o degli organismi dirigenziali dell’ANM, dovendosi riconoscere che tanti, tra coloro che si mettono in gioco per tali ruoli, lo fanno correttamente per superiori interessi e non certo per lucrarne vantaggi personali.
Rinunciare a scegliere, a valutare merito e capacità significa dar luogo ad una presunzione assoluta di inaffidabilità, ad un invincibile sospetto.
Adoro Philip Roth che ha scritto, tra molti capolavori, “Il complotto contro l’America”, un romanzo in cui l’autore descrive uno scenario immaginario e terribile che colloca nel 1942. Un candidato presidente di simpatie naziste, nientemeno che il trasvolatore dell’Atlantico Charles Lindbergh, sta conquistando gli Stati Uniti e la politica antisemita prende progressivamente corpo nel paese delle libertà. Un immigrato italiano vuole aiutare una famiglia ebrea a difendersi, si reca nella loro casa di Newark e regala una pistola al capofamiglia. Ma questi la rifiuta e spiega perché. Ha fiducia, nonostante tutto, nella democrazia: «Sai qual è la mia passione, Cucuzza? Il giorno delle elezioni [...]. Io amo votare. Da quando ero abbastanza grande non ho perso un’elezione». L’ebreo racconta poi all’italiano che cosa le elezioni, negli ultimi vent’anni, hanno determinato negli Stati Uniti, nel bene e nel male, e conclude: «E così stasera tu vieni da me, Cucuzza, a casa mia, e mi offri una pistola [...] perché io possa proteggere la mia famiglia dalla teppa antisemita del signor Lindbergh. Be’, non credere che io non ti sia grato, Cucuzza. Non dimenticherò mai che ti sei preoccupato per noi. Ma io sono un cittadino degli Stati Uniti e così mia moglie e così i miei figli [...]. Niente Mussolini qui, Cucuzza [...]. Basta con i Mussolini qui!».
Noi potremmo dire: basta con il qualunquismo qui!
Ma purtroppo serpeggia nella magistratura anche una logica burocratica: tocca ai dirigenti degli uffici giudiziari curarne la organizzazione con progetti giustamente sottoposti a discussione tra i magistrati che li compongono, prima che ai pareri dei Consigli Giudiziari ed alla delibere finali del CSM. Ebbene, la logica cui mi riferisco è quella secondo cui, ormai, i piani organizzativi sembrano dover considerare soprattutto la necessità che tutti i magistrati di un ufficio – penso alle Procure, ma non solo – dovrebbero essere assegnatari del medesimo numero di procedimenti o svolgere lo stesso numero di udienze: come se i numeri fossero la stella polare dei lavoro dei magistrati o potessero sempre misurare il peso e la qualità degli affari penali, o come se la necessità di specializzazione non potesse comportare soluzioni diverse.
Mi viene da pensare ai primi vent’anni della mia attività da magistrato: questi discorsi non trovavano accesso negli uffici e la logica dei numeri non aveva molto spazio. Ciò non per ossequio silente all’autorità dei dirigenti, ma perché il senso del dovere tendenzialmente non lasciava spazio a recriminazioni burocratiche.
A proposito dell’autorità dei dirigenti, non sopporto quelli che esercitano le loro funzioni secondo una concezione rigidamente gerarchica che li trasforma in “capi” poco disponibili ad ascoltare le osservazioni dei magistrati che fanno parte degli uffici che dirigono o che sono restii ad intavolare confronto un costruttivo, pur se dialetticamente complesso, con l’Avvocatura. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
3. Qual è il suggerimento che offriresti alle nuove generazioni di magistrati con riguardo alla partecipazione ai gruppi associativi della magistratura e alla partecipazione al dibattito in tema di politica giudiziaria?
Come sono cambiati i gruppi associati della magistratura? Ha ancora un senso iscriversi alle correnti?
Per ovvie ragioni non parlerò del merito caso di cui si stanno occupando la Procura di Perugia, il CSM ed i titolari dell’azione disciplinare, ma le sue ricadute negative sull’immagine della Magistratura e della Associazione magistrati sono evidenti.
Tra i magistrati circolano sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che le conversazioni e gli incontri di cui si parla da circa un anno costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.
Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla ANM ed alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche.
Ma se ciò è effettivamente inaccettabile, non è facile comprendere come oggi sia possibile, persino per molti magistrati, dimenticare i valori ed i fini che furono alla base, nel 1909, della fondazione dell’ Associazione Generale Magistrati Italiani (come allora si chiamava), capace di autosciogliersi, alla fine del 1925, per il rifiuto di trasformarsi in sindacato fascista. L’AGMI lo annunciò sulla sua rivista con un editoriale dal titolo “L’idea che non muore”. Quei valori (a partire da indipendenza assoluta, indifferenza alle aspettative della politica, professionalità, attenzione al pubblico interesse ed ai diritti di tutti) vanno oggi posti nuovamente in primo piano: devono vincere sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di «sindacato delle toghe» è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’ANM.
Non accetto che si disconosca il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. E ciò vale anche per le attività di competenza dell’Associazione magistrati : le correnti, insomma, sono nate come luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa unitamente al tipo di deviazione prima citate.
Dunque, la soluzione dei problemi anche gravi che ciclicamente ritornano, sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, facciano le loro scelte ed esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’Associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.
Mi sembra chiaro, da quanto ho detto, che dunque non sono tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatura, il mondo accademico e la società in genere. Ho già detto che ho contribuito a fondarne una – Il Movimento per la Giustizia – per cui spero che i magistrati, non solo i giovani, agiscano per ridare credibilità alle correnti ed alla ANM, cercando di conoscere, capire, chiedere, prendere posizione “contro” con lealtà e senza ambiguità. I “passi felpati” non pagano e neppure il silenzio se – come mi auguro - si voglia motivatamente scegliere di aderire ad una corrente che persegue i valori in cui si crede.
Mi sia consentito dire che ricordo con orgoglio il quadriennio passato al Csm: non per vanità o eccesso di autoconsiderazione. Ma perché, insieme agli altri componenti, ho avuto la fortuna di esercitarvi un ruolo nobile ed alto, cui altri magistrati mi avevano designato. E solo dopo, esaurita quella straordinaria stagione, e ritornato nell’unico ufficio in cui, sin dall’inizio della carriera, avevo esercitato le mie funzioni (la Procura di Milano), decisi di candidarmi per il CDC dell’ANM, entrando poi a far parte della GEC. Non me ne vergogno e lo rifarei, anche se oggi a qualcuno potrebbe sembrare scandaloso .
4. I gruppi associati della magistratura, le c.d. correnti, nel corso degli anni hanno avuto un ruolo incisivo sia in ambito collettivo che individuale con riguardo all’organizzazioni della giustizia e alla carriera dei magistrati.
Il carattere discretivo delle correnti è stato individuato nel diverso modo di concepire la funzione giurisdizionale con differenti effetti riguardo alle posizioni in ambito di politica giudiziaria e di “rivendicazioni” dei diritti dei singoli magistrati.
La funzione giurisdizionale, nell’ottica di talune correnti, è così intesa come un potere con prerogative proprie che ruota attorno al magistrato quale alto funzionario mentre in ottica opposta è intesa come servizio ai cittadini e il magistrato altri non è che un servitore dello Stato. Qual è la tua concezione a riguardo e quali, secondo te, le ragioni per cui schiere di “giovani magistrati” hanno seguito il tuo esempio?
“Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”: lo affermava l’on.le Angelino Alfano, intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione “In ½ ora”, in onda sui Rai Tre il 13 marzo 2011. Alfano, a quella data, era Ministro della Giustizia, impegnato nell’impossibile tentativo di spiegare ai cittadini italiani perché la “riforma” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura (Titolo quarto della Parte seconda, articoli da 101 a 113) sarebbe stata “epocale” ed avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggono la giustizia italiana. Lo stesso concetto (la Magistratura non è un potere costituzionale, ma un ordine) veniva ribadito poco più di un mese dopo, il 18 aprile, da un altro ex Ministro della Giustizia, il sen. Roberto Castelli, nel frattempo diventato Vice Ministro delle Attività produttive, anch’egli intervistato da Lucia Annunziata nel corso della trasmissione di Rai Tre, “Il Potere”. Castelli, peraltro, era stato da Ministro responsabile di un’altra riforma a suo tempo definita “epocale”, quella dell’ordinamento giudiziario, approvata nel luglio del 2005 e del tutto ininfluente rispetto alla soluzione dei problemi reali della giustizia.
Queste affermazioni di due ex Ministri della Giustizia sottintendono una visione della architettura costituzionale secondo cui la magistratura non costituisce uno dei poteri separati e indipendenti su cui si reggono le democrazie moderne ma è semplicemente un ordine sottoposto al potere legislativo e a quello esecutivo.
Già prima di Alfano e Castelli lo aveva sostanzialmente affermato l’on.le Silvio Berlusconi, da Presidente del Consiglio dei Ministri, allorché pose agli italiani un quesito che così può riassumersi: come è possibile che un magistrato, semplice funzionario dello Stato, vincitore di un pubblico concorso, possa incriminare ed eventualmente condannare chi, eletto dal popolo, è legittimato a governare il Paese?
La legittimazione a governare ed a legiferare derivante dal successo elettorale diventa cioè, in tale concezione, anche lo strumento che pone la classe politica su un gradino più alto rispetto alla magistratura, a sua volta legittimata al controllo di legalità “solo” attraverso un pubblico concorso e senza sottoposizione al giudizio degli elettori. Poco importa ai sostenitori di questa tesi che tale modalità d’accesso al lavoro del magistrato sia prevista dalla Costituzione a garanzia della indipendenza del potere giudiziario e della sua estraneità alle logiche ed agli interessi della politica
Resta il fatto, comunque, che molti politici, commentatori ed una informazione non sempre indipendente continuano a sostenere che le indagini delle Procure sono spesso mirate e politicamente motivate contro questo o quel leader, contro un partito, contro l’una o l’altra maggioranza di turno . Anche tra i cittadini si diffonde l’idea di una guerra tra poteri dello Stato, e ripeterlo all’infinito, ossessivamente, serve a rappresentare la magistratura come un’istituzione orientata non da obblighi costituzionali, ma – appunto – da finalità politiche. Ma scontri e guerre prevedono almeno due eserciti schierati l’uno contro l’altro, mentre l’Italia assiste da circa trent’anni solo ad un’aggressione del potere politico nei confronti della magistratura.
Persino sulla copertina del libro I Magistrati (2009) di un autorevole esponente del PD, Luciano Violante vi era un passo del filosofo Francis Bacon: “I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”.
Insomma, secondo certe teorizzazioni, i magistrati dovrebbero essere leoni sì, ma fino ad un certo punto, cioè senza intralciare i programmi ed il concreto esercizio del potere di chi sul trono siede. Leoni solo con gli agnelli, dunque, e con i disperati senza potere! In realtà, troni e leoni non dovrebbero essere citati quando si parla di rapporti tra poteri dello Stato, il cui reciproco rispetto dovrebbe essere scontato e costituire la base di ogni democrazia.
È questa una premessa che mi serve per rispondere con poche parole alla domanda postami: sbagliano profondamente le correnti o chiunque interpreti il ruolo dei magistrati come quello di un alto funzionario dello Stato attento a non intralciare il lavoro di chi svolge funzioni politiche e gestisce il potere reale.
La democrazia non prevede affatto che chi ha il compito di far rispettare le leggi e sanzionare quanti le violano debba camminare con passi felpati e prudenti. L’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale sono garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma, nello stesso tempo, i magistrati devono coltivare la propria professionalità, una dote che consentirà loro interventi corretti e puntuali in ogni settore del diritto penale, l’unico di cui ho esperienza. Con un’ulteriore precisazione: non deve essere ricercata la compatibilità dell’azione dei magistrati con gli interessi della politica, così come non devono neppure essere presi in considerazione il gradimento e le aspettative dei cittadini e delle piazze affollate.
È la concreta attuazione del principio di esclusiva soggezione dei giudici alla legge che caratterizza l’agire della magistratura da potere costituzionale nell’interesse dei cittadini.
È quello che in tanti abbiamo cercato di realizzare nel corso della nostra carriera professionale e credo che i giovani magistrati non considerino ciò un atto di eroismo (sbaglierebbero!) ma solo l’ovvio adempimento del proprio dovere quotidiano, sia che ci si occupi di reati che richiamano l’attenzione della pubblica opinione, sia che si tratti di affari di ordinaria amministrazione.
5.Tu e Giovanni Falcone. Quale sarebbe, secondo te, il giudizio di Falcone sulla magistratura progressista di ieri e di oggi?
Nessuno se ne abbia se non risponderò direttamente a questa domanda, ma credo che, da quando Giovanni non è più tra noi, sono stati tanti, forse troppi, coloro che si sono proposti al nostro Paese come custodi ed interpreti dei suoi pensieri, delle sue parole e delle sue segrete confidenze. Io non lo farò.
Conobbi Falcone nel periodo finale degli anni di piombo, cioè verso la metà degli anni ’80, quando, insieme ad un gruppo di magistrati siciliani che si occupavano di mafia, egli partecipò agli incontri dei pm e giudici istruttori che si occupavano di terrorismo: ciò non certo perché esistessero collegamenti fra Brigate Rosse e Cosa Nostra, ma per conoscere le modalità del coordinamento spontaneo che avevamo realizzato e per condividere gli orientamenti giurisprudenziali in tema di reati associativi. Proprio da tali incontri allargati scaturirono documenti ragionati, inviati ai vertici istituzionali, con cui si invocava l’adozione di una legislazione specialistica che favorisse l’efficacia delle investigazioni antimafia, settore nel quale mi “trasferii” alla fine degli anni ’80, una volta sconfitto il terrorismo interno.
Non posso dire di avere lavorato con Falcone nel settore dell’antimafia, ma siamo stati molto vicini tra il 1988 e il 23 maggio del 1992: abbiamo insieme partecipato alla fondazione del Movimento per la Giustizia, e insieme vi abbiamo intensamente lavorato fin quasi alla sua morte. Il gruppo, come ho detto, era nato nell’88 e l’evento che ne aveva determinato la fondazione era stata proprio la mancata nomina di Giovanni a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Solo pochi componenti del Csm avevano tentato invano, in quella occasione, di evitare che logiche ottusamente formalistiche prevalessero sulla necessità di potenziare l’efficacia dell’azione giurisdizionale in terra di mafia. Quell’episodio, che richiamava i temi della professionalità e della questione morale insieme, risvegliò l’impegno associativo di decine di magistrati, fino a quel momento apprezzati soprattutto per le loro qualità professionali (tra loro Vladimiro Zagrebelsky, Mario Almerighi, Pietro Calogero, Giovanni Tamburino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Ayala, Vito D’Ambrosio, Enrico Di Nicola, Giorgio Lattanzi, Ubaldo Nannucci, Nino Condorelli, Ernesto Lupo, Ernesto Aghina ed altri ancora). Nacque così il Movimento per la Giustizia. Giovanni Falcone vi si dedicò con tutta l’energia che gli impegni di lavoro gli consentivano di liberare, ma nel 1990 ebbe la prima delusione: si presentò candidato alle elezioni per il rinnovo del Csm ma non fu eletto, nonostante si fosse impegnato nella campagna elettorale.
Fu probabilmente più forte un’altra successiva sua delusione e anch’io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza: in molti non approvavamo il fatto che egli avesse assunto nel marzo del 1991 il ruolo di direttore generale degli Affari penali offertogli dal ministro della Giustizia ad interim Claudio Martelli. Capivamo il suo disagio nel continuare a lavorare nella Procura di Palermo – alla quale nel frattempo era stato trasferito con funzioni di procuratore aggiunto – ormai diretta secondo criteri che non condivideva e che a molti sembravano burocratici. E credevamo pure alla sua volontà di dimostrare con i fatti quando infondato fosse il nostro timore di vederlo ingabbiato e trasformato in testimonial inconsapevole del governo. Ciononostante, avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico: gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità e lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: «.. .capisco i vostri timori, ma io sarò più forte di loro... e sarò più utile al paese ed alla magistratura lavorando al ministero piuttosto che ingabbiato a Palermo». Ovviamente ci vedemmo altre volte, ma mai, sul suo volto o nelle sue parole, ho potuto cogliere un solo cenno di risentimento. Elaborò, mentre era al ministero, il progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia e patì anche qualche critica per la sua originaria impostazione: il 28 ottobre del 1991 una sessantina di magistrati (tra cui io stesso) sottoscrisse un documento contenente le critiche e le preoccupazioni per il forte rischio di una centralizzazione delle indagini in tema di mafia e di una sostanziale dipendenza della DNA dall’esecutivo. Proprio grazie a quelle critiche, il progetto di legge istitutivo della Dna venne modificato: nacque quindi un organismo privo di poteri investigativi propri (tranne nei casi di inerzia delle Procure distrettuali), ma con utili compiti di coordinamento.
Qualcuno ancora oggi, spero senza ricordare o voler capire, considera quell’appello un subdolo attacco a Giovanni. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo quelle di Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Gian Carlo Caselli. Ma altre critiche, più personali, gli piovvero addosso quando, approvata la legge istitutiva, si candidò alla carica di procuratore nazionale antimafia: in molti, anche all’interno della nostra corrente, pensavamo che per Giovanni fosse inopportuno proporre domanda per quella carica dopo essere stato l’artefice della legge con cui essa era stata istituita. Io stesso gli scrissi l’8 febbraio del 1982 un’altra lettera di cui conservo copia: gli esprimevo con franchezza le mie riserve pur confermandogli amicizia e stima. Giustamente, Vladimiro Zagrebelsky ancora oggi ricorda l’assurdità di quei dubbi diffusi: chi, se non Giovanni Falcone, poteva essere in quel momento il procuratore nazionale antimafia? Ma prima che il Csm nominasse il procuratore nazionale, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, furono trucidati dalla mafia. Ricordo precisamente dov’ero, quel 23 maggio 1992, quando appresi della tragedia. Così come lo ricordo per gli annunci dell’assassinio di John Kennedy, dello sbarco del primo uomo sulla Luna e dell’impatto degli aerei sulle Twin Towers.
Ho il rimpianto di non avere ulteriormente chiarito con Giovanni che le mie personali perplessità sul suo trasferimento al ministero di Martelli e sulla sua candidatura alla Dna non avevano intaccato neppure in minima parte la mia immensa stima e l’amicizia per lui. Un rimpianto acuito dalla lettura di alcune pagine di un libro di Francesco La Licata, ove l’autore rammenta l’amarezza con cui Falcone gli parlò della lettera che gli avevo scritto e della incomprensione delle sue ragioni da parte di molti tra i suoi amici. All’epoca, invece, ero certo che Giovanni avesse ben colto la natura dei nostri dubbi e che la diversità di vedute sulla sua possibile nomina a procuratore nazionale antimafia non avesse in alcun modo intaccato la ricchezza del nostro rapporto personale. Tra l’altro, avevamo anche messo in cantiere il progetto di scrivere un libro insieme: vi avremmo analizzato, in parallelo, le risposte dello Stato al terrorismo e alla mafia. Avevamo anche tracciato una scaletta possibile.
Detto questo, aggiungo di essere stato a suo tempo certo, come ancora oggi lo sono, circa il fatto che il dissenso e la critica, purchè lealmente, si possono manifestare proprio agli amici ed alle persone che si stimano. In quel caso una stima assoluta e senza riserve, che però non mi dà titolo per dire quale sarebbe oggi il giudizio di Falcone sulla magistratura progressista di ieri e di oggi. Potrei soltanto augurarmi che sarebbe stato simile al mio .
6. Giustizia insieme ha ospitato, di recente, un’intervista a Gaetano Silvestri, Davide Galliani e Vincenzo Militello (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio) sulla disobbedienza del giudice nel terzo millennio. Cos’è per un magistrato la disobbedienza alla legge? Hai mai disobbedito alla legge quando ti sei trovato davanti un imputato che il tuo cuore non riteneva responsabile penalmente di un fatto che secondo la legge andava comunque perseguito?
Questa domanda mi mette in difficoltà perché non sono mai stato un raffinato giurista, ma un “giurista pratico” come diceva Berlusconi per avvalorare l’immagine dei pm quali magistrati a cui il diritto era sconosciuto. Aggiungo che mi riesca difficile immaginare che il giudice possa disubbidire alle leggi, al di là di ciò che dialetticamente si può affermare .
Forse qualcuno ritiene che una tale disobbedienza possa essere l’adesione ad una interpretazione minoritaria della legge da applicare o non gradita da esponenti del potere politico : a tale ultimo proposito, si pensi, ad esempio, alle sentenze di vari Tribunali in ordine ad alcuni aspetti dei “decreti-sicurezza” del 2018 o 2019 ed ai diritti degli immigrati, sentenze ritenute da un ex Ministro dell’Interno (e non solo da lui) prova della indisponibilità dei magistrati ad accettare le scelte del legislatore e della maggioranza di turno. Ma io non lo penso. Al giudice spetta la interpretazione della lettera della legge ma qualunque essa sia, pur se discordante – in ipotesi – dai contenuti della relazione di accompagnamento di una legge, non può certo qualificarsi come manifestazione di disobbedienza: spetterà poi alla Corte di Cassazione dire la parola definitiva sulla sua correttezza o meno, pur se il nostro sistema non conosce il carattere cogente delle pronunce della Corte di legittimità..
Del resto, anche quando il giudice o un pm ritengano di non poter applicare una legge o di non poterla interpretare in senso “costituzionalmente orientato” (come si dice), è a loro consentito di sollevare motivatamente la questione della ritenuta incostituzionalità della norma: ed in questo caso sarà la Consulta a dire l’ultima parola.
Se il problema dovesse infine riguardare solo l’applicazione della pena, ritenuta non proporzionata ai fatti dal pm che la richiede o dal giudice che la decide, non si pone una questione di disobbedienza. Al di là del riconoscimento di eventuali attenuanti, la strada è infatti obbligata perché le pene previste per i reati, nei codici e nelle leggi, le stabilisce il legislatore, non il magistrato .
Nel complesso, dunque, è così che funziona il principio di legalità, caratterizzato anche dalla indipendenza ed autonomia dei magistrati.
Tutt’altra cosa rispetto alla disobbedienza è invece la critica, anche forte, che il magistrato può esprimere nei confronti di una legge in un’occasione di un pubblico dibattito, anche se non di carattere strettamente giuridico: ciò gli è consentito, salvo che si tratti di affermazioni che riguardino un procedimento da lui trattato o rese in incontri a chiara connotazione partitica. L’esternazione delle critiche, cioè, non equivale a disobbedienza alle leggi, pur se a qualcuno piace dirlo.
Comunque, non ho personalmente mai disobbedito alla legge perchè mai mi sono trovato davanti un imputato per reati punibili che io ritenevo ingiustamente perseguibili o per reati per i quali non ritenevo proporzionata ai fatti accertati la pena prevista.
La risposta – mi rendo conto – è deludente ma non saprei cos’altro dire.
7. Nel tuo “Ne valeva la pena!” la vicenda Abu Omar si conclude con la sentenza di primo grado. Molto vi è stato poi. Ti aspettavi che la Corte europea dei diritti dell’uomo adottasse la sentenza -Corte EDU, IV sezione, Nasr e Ghali c. Italia, sent. 23 febbraio 2016 (ric. n. 44883/09)- che oggi tutti conosciamo?
Mi permetto di dire che non è affatto vero che “tutti conosciamo” la sentenza della Corte Edu sul caso Abu Omar perché su di essa – e su quello che significa per la Corte Costituzionale e per il Governo, oltre che per la Presidenza della Repubblica - è calata una imbarazzante coltre di silenzio.
Sì, mi aspettavo la decisione di Strasburgo che – ricordo – è stata assunta all’unanimità.
La vicenda è diventata per me un tormentone, da cui – però – sono riuscito a prendere da tempo le opportune distanze, specie dopo avere scritto nel 2010 un libro (riguardante però anche altri temi) a scopo autoterapeutico. Permettemi, però, di ricostruirne i passaggi essenziali che qui servono.
Ben quattro governi italiani in successione (per primo quello presieduto da Prodi, poi quelli presieduti da Berlusconi, Monti e Letta) hanno opposto il segreto di Stato sulle prove raccolte dalla Procura di Milano nei confronti degli imputati italiani appartenenti al SISMi, sollevando anche conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato. Quale la conseguenza? Mentre tutti i 26 imputati americani, di cui 25 appartenenti alla CIA, sono stati condannati (caso unico al mondo) per il sequestro dell’egiziano Abu Omar in Milano, nel febbraio 2003, anche con rigetto della tesi della immunità diplomatica per alcuni di loro, gli imputati italiani l’hanno fatta franca.
La Corte Costituzionale, a seguito dei conflitti tra poteri dello Stato che sono stati sollevati, si è pronunciata due volte: la prima volta, l’11.3.2009 con una sentenza che sembrava dare ragione a tutti, pur se l’Avvocatura dello Stato esultava («abbiamo vinto sei a zero»). In realtà la Corte aveva riconosciuto sia la correttezza dell’operato della Procura che la sussistenza del segreto di Stato. La lettura delle motivazioni della sentenza mi lasciò senza fiato: i principi affermati in precedenti pronunce dalla Consulta apparivano confermati solo a parole, ma ribaltati nella sostanza con l’inibizione a usare determinate prove o parte di esse, pur se regolarmente acquisite, affidando però al Tribunale la individuazione delle prove utilizzabili. La sorpresa più grande fu forse costituita dal rigetto della tesi della Procura della Repubblica di considerare il sequestro di Abu Omar come rientrante tra i fatti-reato «eversivi dell’ordine costituzionale», con la conseguenza della inopponibilità del segreto di Stato.
Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, dunque, il giudice Oscar Magi (Tribunale Monocratico di Milano) pervenne a conclusioni sul punto non condivise dal PM, ritenendo inutilizzabili alcune delle prove acquisite al dibattimento, dichiarando in sentenza di essere stato “costretto” ad osservare “i dettami della Corte”, anche se “ne avrebbe fatto volentieri a meno se solo avesse potuto seguire i dettami della propria coscienza professionale e della propria volontà conoscitiva”. Conseguentemente, il 4 novembre del 2009, dichiarò “non doversi procedere” nei confronti dei cinque funzionari del SISMI, imputati di concorso nel sequestro di persona di Abu Omar perché “l’azione penale, per quanto legittimamente iniziata, non può essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato apposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e confermato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2009”.
Proponevo appello avverso tale decisione, con argomentazioni fatte proprie dal Procuratore generale che ne chiedeva l’accoglimento con condanna anche del Direttore del SISMi, e degli altri quattro funzionari italiani imputati.
Ma il 15 dicembre 2010, la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza di n.d.p. per i cinque imputati del Sismi che rispondevano di concorso nel sequestro in ragione del segreto di Stato sulle prove che li riguardavano.
Il Procuratore generale, però, non si “rassegnava” e proponeva ricorso per Cassazione avverso la citata pronuncia.
In data 19.9.2012, la Corte di Cassazione – V Sez. Penale, accoglieva il ricorso del P.G. disponendo nuovo giudizio d’appello nei confronti dei cinque imputati italiani del SISMi accusati di concorso nel sequestro, affermando – tra l’altro – che “la disciplina del segreto di Stato mira a tutelare l’interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza ed alla sua stessa sopravvivenza” e che “la finalità della legge e della apposizione o conferma del segreto non è quella di garantire l’immunità penale per eventuali atti illegali compiuti dagli agenti dei Servizi…che abbiano agito al di fuori delle proprie funzioni”.
Nel gennaio del 2013, pertanto, dinanzi alla Corte d’Appello di Milano – Sez. IV, iniziava il processo di rinvio a carico dei cinque funzionari del SISMi che venivano condannati il 12 febbraio del 2003 (i vertici a pene più altre di quelle inflitte agli americani della CIA)
L’ 8 febbraio 2013, comunque, il Consiglio dei Ministri del Governo Monti aveva sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Corte di Cassazione per l’annullamento della sentenza n. 46340/12 e nei confronti della Corte di appello di Milano, che durante il dibattimento aveva disposto l’acquisizione al procedimento di verbali contenenti elementi da ritenersi coperti dal segreto di Stato prima apposto e poi opposto e confermato dai precedenti Presidenti del Consiglio dei Ministri. Il 24 maggio 2013, anche il Consiglio dei Ministri presieduto da Enrico Letta deliberava di sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato avverso la sentenza di condanna del 12.2.2013 della Corte d’Appello di Milano .
Il 10 febbraio 2014 la Corte Costituzionale accoglieva i due ricorsi dei citati Presidenti del Consiglio dei Ministri, affermando, tra l’altro, che “…omissis… pare arduo negare che la copertura del segreto – il cui effettivo ambito non può, evidentemente, che essere tracciato dalla stessa autorità che lo ha apposto e confermato e che è titolare del relativo munus – si proietti su tutti i fatti, notizie e documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro di Abu Omar. Ciò, ovviamente, a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato.”
Il 24 febbraio 2014, conseguentemente, la Corte di Cassazione – Sez. I^ penale, pronunciando sul ricorso proposto dai cinque funzionari del SISMi avverso la sentenza del 12.2.2013 di condannava della Corte d’Appello di Milano, annullava senza rinvio la predetta sentenza poiché “per l’esistenza del segreto di Stato, l’azione penale non poteva essere proseguita”, contro i predetti cinque imputati. La motivazione contiene pesanti critiche alla decisione della Corte Costituzionale quale quella secondo cui la “pronuncia” è “decisamente innovativa…sia nel panorama generale della giurisprudenza della Consulta, in relazione ai precedenti in materia, in quanto … sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di segretazione …con compromissione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria, che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità della autorità politica -il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo-, sia nella concreta incidenza nel presente procedimento, posto che esso si era mosso finora proprio e fedelmente sulla strada tracciata dalle precedenti pronunce, di diverso segno, emesse nello specifico dalla stessa Corte Costituzionale”.
Con la citata sentenza della Cassazione poteva dirsi concluso l’iter processuale italiano della vicenda legata al sequestro di Abu Omar di oltre 11 anni addietro.
Ma non era concluso quello della procedura apertasi con il ricorso di Abu Omar e di sua moglie dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, proposto l’ 8 agosto 2009, cioè in data anteriore alla prima sentenza del Tribunale di Milano.
Le ragioni addotte dai difensori di Abu Omar e Ghali Nabile dinanzi alla Cedu, a sostegno del ricorso, era state tra l’altro condivise dai Pubblici Ministeri della Procura di Milano durante il dibattimento di primo grado, ove – anzi – avevano sostenuto che l’interpretazione e la applicazione estensiva dell’istituto del segreto di Stato (come si rilevava dal processo in corso) avrebbero potuto determinare – per effetto anche della ritenuta possibilità di tardiva sua apposizione del segreto stesso – la violazione di vari principi della Costituzione italiana. Ciò era stato precisato anche in un documento inviato al Ministro della Giustizia in risposta ad una richiesta di informazione, il cui Agente del Governo italiano davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva incredibilmente affermato la non attendibilità delle opinioni della Procura di Milano : “essendo una parte nei procedimenti, l’Ufficio del Pubblico Ministero di Milano è portatore di interessi suoi propri ed ha specifiche preoccupazioni ed aspettative circa l’esito dei procedimenti che nel presente caso corrispondono a quelle delle parti civili/ricorrenti”. MI astengo da commenti su queste parole.
Dopo avere atteso l’esaurimento degli strumenti previsti dal nostro ordinamento interno, la Cedu, in data 23 febbraio 2016, condannava del Governo italiano a versare ai due ricorrenti 85mila euro per i danni non patrimoniali e 30mila euro per le spese processuali sostenute, per gravi violazioni dell’articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti), dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’articolo 13 (diritto alla tutela giurisdizionale effettiva) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo .
Nella sentenza, divenuta definitiva il 26 maggio 2016 per mancata impugnazione da parte del Governo italiano, si legge che le autorità italiane sapevano della extraordinary rendition di Abu Omar organizzata dalla Cia e che ben quattro Governi avevano abusato del segreto di Stato impedendo di far luce sulle gravi violazioni dei diritti dell’uomo di cui Abu Omar è stato vittima. La CEDU “colpiva” duramente a tutto campo le istituzioni italiane, dal Governo che, secondo la sentenza, aveva abusato del segreto di Stato favorendo l’impunità dei responsabili, alla Corte costituzionale, passando per il Presidente della Repubblica che aveva concesso la grazia a due agenti della Cia condannati dai giudici italiani. La sentenza contiene anche molti apprezzamenti per la magistratura italiana, il cui impegno - vi si legge - è stato vanificato dal segreto di Stato riconosciuto legittimo dalla stessa Corte costituzionale, un segreto peraltro non funzionale a tenere coperti i fatti, ben noti anche grazie alla stampa, ma piuttosto a garantire l’impunità degli agenti del Sismi.
Tornando alla domanda, e confermato che non è vero che tutti conoscano la sentenza Cedu, sono convinto che ciò sia avvenuto soprattutto per il silenzio di tanti giuristi , tra cui – usando una definizione che qui invento - i “laudatores” della Corte Costituzionale in servizio permanente, che pure hanno altre volte raccolto il mio consenso. La Corte, infatti, almeno in questo caso, qualche critica la meritava sulla scorta dei rilievi della Cedu. O no? Ma nessuno lo ha scritto. E sono persino certo che se fossero ammesse nel nostro sistema le opinioni dissenzienti dei giudici della Consulta, avremmo letto cose interessanti.
Come non citare, poi, il numero di aprile 2019 di Questione Giustizia intitolato “La Corte di Strasburgo”), interessantissimo ed utilissimo, ma in cui sono assenti – salvo che in un articolo proprio di Roberto Conti che però non si riferisce alla decisione della Consulta - riferimenti al caso Abu Omar ed alla sentenza della CEDU. In particolare, non se ne parla negli interventi di chi era co-agente del governo all’epoca del giudizio celebrato a Strasburgo e di chi ha effettuato una approfondita analisi giurisprudenziale (“Le principali decisioni della Corte in materia penale verso l’Italia”) riguardante anche sentenze anteriori al 2016 . Un’omissione tuttora inspiegabile, visto il rilievo internazionale della sentenza prima citata e visto che, dopo le mie osservazioni, era stata prospettata l’ipotesi di parlarne in futuri numeri della rivista.
Insomma, meno male che la Corte europea dei diritti dell’uomo c’è!
8. La Corte edu e i diritti di matrice convenzionale: un orpello, un vezzo o una necessità? Cosa si prova a perseguire gli autori di un reato contro la persona commesso nei confronti di un terrorista islamico e quanta importanza hanno i diritti umani nel lavoro quotidiano del magistrato.
Il giudice italiano Guido Raimondi, Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo fino al 4 maggio 2019, concludendo un suo articolo sulla storia più recente della Corte di Strasburgo, affermava che la “Corte permanente è anche la ragione per cui, in tutta Europa, centinaia di milioni di persone sanno che in Strasburgo esiste un organismo che vigila costantemente sul rispetto dei loro diritti”. Vladimiro Zagrebelsky ebbe a sottolineare anni fa che la Corte di Strasburgo fa dell’Europa un modello di civiltà giuridica per tutto il resto del mondo ed Antonio Cassese scrisse che “ogni mattina, quando ci leviamo, dovremmo rallegrarci di vivere in Europa…abbiamo la fortuna di essere protetti da uno straordinario organo di giustizia, la Corte Europea dei diritti umani che vigila sui nostri diritti fondamentali… e contribuisce a tenerci lontani da arbitri e imbarbarimenti”.
Concordo totalmente con queste affermazioni e con la fiducia che esprimono nei confronti della Corte EDU di cui auspico la crescita di autorevolezza anche attraverso l’estensione di quegli orientamenti consolidati che dovrebbero essere cogenti per i giudici nazionali: ciò servirebbe anche al progresso omogeneo delle nostre democrazie.
Da queste mie parole, risulta chiaro che, essendo soggetti alla legge anche coloro che hanno l’obbligo di farla rispettare ad altri, devono essere puniti i pubblici ufficiali che, magari in nome di un’errata concezione del concetto di sicurezza, commettano reati in danno di terroristi o di mafiosi o di qualsiasi criminale.
La magistratura e le forze di polizia italiane hanno saputo rifiutare sistemi illegali di contrasto del cd. “terrorismo islamico”, come quelli propri della War on Terror (W.O.T.) americana, secondo cui, per gli atti di terrorismo realizzati in tempo ed in zone di guerra, non si devono rispettare la Convenzione di Ginevra, i suoi protocolli addizionali e, più in generale, il diritto umanitario. Nell’ambito della W.O.T., infatti, anche queste regole vengono spesso violate, a partire, ad esempio, dalla stessa creazione della categoria degli enemy combatants, cioè dei combattenti nemici illegali, che ha consentito agli Stati Uniti di sottrarre i sospetti terroristi “catturati” in ogni parte del mondo alle regole del diritto umanitario e persino alla giurisdizione dei Tribunali Militari ordinari. Seguendo questa logica, però, si corre il rischio di vanificare, attraverso atti amministrativi e politici unilaterali, decenni di elaborazione giuridica sul tema del rispetto dei diritti umani. Il fallimento di quel sistema statunitense di lotta al terrorismo è stato dimostrato, oltre che dal rapporto Feinstein approvato nel dicembre del 2014 dal Senato americano, da alcune storiche sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti che lo hanno demolito senza ambiguità alcuna. In una di tali sentenze è stato affermato il diritto dei prigionieri di Guantanamo a ricorrere alla giustizia ordinaria “…perché le leggi e la Costituzione sono state definite proprio per sopravvivere e non piegarsi in tempi straordinari. Perché libertà e sicurezza possono essere riconciliate nella cornice dello Stato di diritto”.
Dunque, no alle “extraordinary renditions”; no al “waterboarding” ed alle torture di qualsiasi tipo (inclusa quella consistente nel sottoporre i detenuti, per farli impazzire e crollare, all’ascolto di musica a tutto volume, 24 ore su 24, di alcuni gruppi rock tra i miei favoriti, come Massive Attack, Metallica, R.E.M. e Pearl Jam che non a caso, insieme a Brice Springsteen, sono scesi in campo contro questa tattica del governo americano); no alle black lists come strumento di contrasto del finanziamento del terrorismo; no alla “tsunami digitale” con raccolte inutili di milioni di dati personali di ogni tipo; no alle espulsioni di stranieri che – mascherate da misure antiterrorismo – sono frutto di dilaganti politiche xenofobe; no all’utilizzo improprio ed esteso dei servizi di informazione che non hanno compiti di indagini ma solo di prevenzione dei rischi per la sicurezza nazionale e che, secondo il nostro sistema, devono comunicare immediatamente alle forze di polizia giudiziaria le notizie di reato di cui vengano in possesso.
Va detto che, fortunatamente, anche le tre principali leggi specificatamente destinate a contrastare il terrorismo internazionale rispettano tali principi pur se approvate in sede di conversione di altrettanti decreti legge, rispettivamente nel 2001, 2005 e 2015, all’indomani di immani tragedie e dunque in momenti di vera emergenza: la prima dopo l’ 11 settembre 2001, la seconda dopo gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 e l’ultima dopo la strage di Parigi del 7 gennaio 2015.
Insomma, i diritti umani devono comunque rimanere al centro della risposta istituzionale e, in particolare, dell’azione dei magistrati, qualunque sia il livello di gravità dei reati che vengono contrastati e perseguiti. E’ sbagliato pensare che interessino le «informazioni» più dei processi ed è falso che, sacrificando i diritti, sia più facile ottenerle e così prevenire i rischi per la sicurezza della collettività.
Va aggiunto, comunque, che nessun sentimento particolare diverso dalla consapevolezza della propria esclusiva sottoposizione alla legge deve caratterizzare l’azione dei magistrati che perseguano un terrorista o gli autori di reati commessi nei confronti di un terrorista islamico.
Mi concedo un ricordo del mio personale metodo di “war on terror”: alla fine di luglio del 2004 interrogai nel mio ufficio a Milano un egiziano detenuto, accusato di essere uno dei capi di un’associazione terroristica operante a Milano. Prima di essere arrestato, aveva mantenuto rapporti anche con Abu Omar. L’interrogatorio era l’ultimo atto dell’indagine e durò varie ore perché l’egiziano, pur dichiarandosi innocente, spiegava molte circostanze contestategli, finendo anche con il fare qualche significativa ammissione. A un certo punto, in tono quasi di sfida, mi disse che era arrivata l’ora di una delle sue preghiere quotidiane e chiese di interrompere l’interrogatorio. Accolsi la sua richiesta e gli fornii anche qualcosa da mettere sotto le ginocchia. Mi ringraziò e mi chiese in che direzione si trova La Mecca. Non seppi aiutarlo e me ne scusai. Attesi che finisse di pregare, riprendendo poi l’interrogatorio e concludendolo in un paio di ore. L’egiziano mi ringraziò ancora ed io lo riaffidai alla polizia penitenziaria. L’anno dopo fu condannato a dieci anni di reclusione.
9. Quanto incide il giudizio della società civile nell’esercizio delle funzioni requirenti? Mi auguro che non incida neppure in minima parte.
Vorrei in proposito ricordare gli anni delle prime inchieste di “Mani Pulite”. All’inizio la solidarietà verso i magistrati della Procura di Milano scorreva a fiumi, ed il palazzo di giustizia era quotidianamente assediato da folle plaudenti. Ma bastò poco tempo perché gli scenari mutassero. Con l’aiuto di una campagna stampa martellante, e diversamente da quanto era avvenuto in passato, i magistrati (non solo quelli di Milano) iniziarono ad essere coperti prima da critiche strumentali ed ingiustificate, poi da offese. E, manco a dirlo, la loro pubblica testimonianza contro la corruzione e l’arroganza del potere politico (ricordo la famosa intervista del febbraio del 1998, a G. D’Avanzo, di Gherardo Colombo sulla “società del ricatto”) divenne presto un’ulteriore prova della loro politicizzazione. Venne coniata in quella stagione la definizione di “toghe rosse” ad indicare il colore della parte politica in nome della quale i magistrati avrebbero scelto di militare, volutamente trascurando di ricordare i tanti politici appartenenti all’aera del centro-sinistra che pure vennero incriminati e condannati in quegli anni.
Poi arrivarono offese pure e semplici, anche da parte di chi aveva incarichi politici. Nella campagna elettorale per le elezioni amministrative a Milano furono perfino affissi per le strade manifesti recanti un’offesa più grave per i magistrati uccisi che per quelli vivi: “Via le Brigate Rosse dalle Procure!”.
In questo contesto ricordo le parole di Francesco Saverio Borrelli il quale ripeteva che la solitudine è lo stato ordinario del nostro lavoro. Il nostro dovere è quello di indagare con determinazione, senza fermarci dinanzi ad ostacoli di qualsiasi natura. Dunque il magistrato non deve essere influenzato dagli applausi e dal consenso, né da critiche ingiuste ed offese.
Il modello ideale di pubblico ministero (ed in genere di magistrato) rappresentato da Borrelli rimane attuale ed è quello di coloro che non cercano consenso esterno ai palazzi di giustizia e che lavorano con riservatezza e determinazione, al solo fine di provare la verità dei fatti e la responsabilità di chi ne è autore. Voglio credere che si tratti del modello nettamente maggioritario e che l’attenzione alle aspettative dei cittadini e la conseguente tendenza al protagonismo individuale costituiscano vizi da cui è attinta solo una minoranza della magistratura requirente.
Ringrazio “Giustizia Insieme” per l’attenzione e lo spazio che mi ha concesso ma mi scuso con i possibili lettori per la lunghezza della intervista.
[1] Le dichiarazioni di A. Spataro contengono anche riferimenti a valutazioni già da lui espresse nel suo libro “Ne valeva la pena, storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza 2010), nonché in vari suoi interventi pubblicati in altri libri o in riviste (non solo giuridiche) ed in una intervista recentemente rilasciata al prof. Davide Galliani destinata ad un testo ancora non pubblicato.
La colpa del medico ai tempi del COVID-19: la soluzione nei principi generali?
di Giovanni Bovi
sommario: 1. Normativizzazione e personalizzazione della colpa medica- 2. Il sistema delle linee guida e l’art. 590 sexies c.p.- 3. Medici alla cieca: istruzioni contradditorie e inadeguatezza dell’art. 590 sexies c.p.- 4. In realtà, inadeguatezza dell’agente modello: soluzioni intermedie e rivalutazione della colpa soggettiva- 5. Osservazioni conclusive: lo stato d’eccezione come salvezza dell’Ordinamento.
Si perdonerà l’inopportunità della presente speculazione giuridica in un momento come quello attuale, eppure è innegabile che la drammatica epidemia da Covid-19 stimola numerose riflessioni, ad esempio relativamente alla tutela penale richiesta dagli operatori sanitari, impegnati in prima linea nella lotta contro il virus.
1. Normativizzazione e personalizzazione della colpa medica
Le recenti riforme della responsabilità medica[1] confermano due particolari tendenze: da un lato la progressiva “normativizzazione” del concetto di colpa che si colora sempre più di tinte oggettive e sempre meno di tinte psicologiche, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale da tempo dominante[2]; dall’altro quella di voler configurare la colpa secondo uno schema a “compartimenti stagni” in considerazione dei settori e dei relativi livelli di rischio in cui si inserisce la specifica attività. In ambito medico, ciò è avvenuto per l’adattamento via via maggiore della colpa ai quei parametri di matrice strettamente scientifica (i.e. linee guida, buone pratiche assistenziali, protocolli et similia); ciò ha consentito sicuramente una rivitalizzazione degli importanti principi inaugurati dalla celeberrima sentenza Franzese, in cui si disse che “non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato e, trattandosi di imputazione colposa, tale giudizio deve essere svolto rigorosamente ex ante ed in concreto” e che, al contrario, “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all'evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto (…) non può non comportare la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l’esito assolutorio stabilito dall'art. 530, co. 2, c.p.p., secondo il canone di garanzia <<in dubio pro reo
Dunque, i recenti sviluppi sembrerebbero porre maggiore attenzione al concetto di rischio sotteso ad ogni attività medica e con esso alla fallibilità della stessa, onde escludere la configurazione del fatto tipico colposo se al momento della condotta la regola cautelare non fosse predeterminata e/o conoscibile dal sanitario. Parimenti, con riguardo, invece, alla colpevolezza, è innegabile che la giurisprudenza valorizzi sempre più il contesto in cui il medico e la sua condotta si inseriscono, e come assuma maggiore importanza l’errore di sistema, di talché si richiede che la risposta penale consideri tutti gli “anelli della catena terapeutica” e non solo l’ultimo, vale a dire il medico che materialmente tratta il paziente.
2. Il sistema delle linee guida e l’art. 590sexies c.p.
Tra i parametri certamente più diffusi per l’imputazione colposa in ambito sanitario, ruolo predominante è da sempre quello giocato dalle c.d. “linee guida”. Si tratta, secondo una diffusa definizione, di “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche[5]”, frutto tipico della c.d. “Evidence Based Medicine”[6]. Dal punto di vista giuridico, la diffusione delle linee guida ha consentito una vera e propria codificazione delle leges artis in ambito medico, alla quale tuttavia sono conseguiti una serie di corollari negativi. Si fa riferimento, innanzitutto, alla “burocratizzazione” dell’attività del sanitario e alla contestuale limitazione dell’autonomia professionale del medico ma, soprattutto, la maggiore importanza data alle linee guida ha aumentato il rischio della c.d. medicina difensiva[7], vale a dire un’acritica e pedissequa accondiscendenza alle raccomandazioni al mero scopo preventivo di una eventuale causa giudiziaria relativa alla condotta assunta.
La difficoltà di “trattare” la materia delle linee guida è alla base dell’incerta risposta che la giurisprudenza ha talvolta dato nel determinarne la reale portata in punto di responsabilità colposa. Basti considerare che prima delle recenti riforme normative si potevano registrare ben quattro orientamenti diversi.
Una prima tesi[8] valorizzava il momento concreto, per cui l’adozione pedissequa del particolare protocollo del caso specifico, senza considerare alcuna alternativa percorribile, non solo non avrebbe mandato esente da colpa il sanitario, ma lo avrebbe in realtà esposto a profili di vera e propria negligenza. Un secondo[9] indirizzo riteneva che la valutazione sul limite del “rischio consentito”, in mancanza di un’esplicita predeterminazione normativa o amministrativa (di fatto escludendo dal novero delle fonti del diritto le linee guida), doveva essere necessariamente affidata alla discrezionalità del giudice, posto che la prevedibilità andava determinata in concreto, avendo presente tutte le circostanze del caso ed in base al parametro relativistico dell'homo eiusdem condicionis et professionis. Un terzo[10] gruppo di sentenze, invece, proponeva la condanna per i medici, in tutti i casi di immotivato discostamento dalle linee guida. Infine, un quarto gruppo[11] riguardava casi di medici assolti perché il loro operato si era uniformato alle linee guida.
In conclusione, la difficoltà di conferire alle linee guida una giusta collocazione ai fini della decisività o meno in punto di responsabilità, spiega il ricorso a lungo fatto della colpa “solo” generica (con tutto ciò che ne consegue relativamente ai problemi di genericità e di eccessiva dipendenza del giudice dalle valutazioni del proprio perito) di talché la decisione finale sulla colpa ne risultava, spesso, eccessivamente appiattita sul nesso eziologico.
Come anticipato supra, tali incertezze hanno incentivato il ricorso, da parte degli operatori sanitari, alla c.d. medicina difensiva, ed in questi termini si spiegano i due ravvicinati e (almeno nelle intenzioni) prorompenti interventi legislativi, l’ultimo dei quali ha riscritto completamente il canone della responsabilità colposa medica, introducendo direttamente nel corpo del codice l’art. 590sexies.
Nonostante gli sforzi profusi dal legislatore, i problemi interpretativi della nuova disposizione sono emersi sin dalle prime applicazioni tanto da richiedere l’intervento delle Sezioni Unite (ad un anno dalla sua introduzione) le quali hanno chiarito che il medico dovrebbe rispondere per colpa in tutti i casi in cui l’evento dannoso si sia verificato: “a) per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) per colpa (anche “lieve”) da imperizia: 1) nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 2) nell’ipotesi di errore rimproverabile nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l’obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse; c) se l’evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”[12].
In breve, ciò che si desume è che l’errore non punibile non riguarda tanto il momento della selezione delle linee guida, “dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle <<adeguate>>”, bensì, il momento dell’attuazione della linea guida adeguata alle caratteristiche del paziente concreto e correttamente individuata.
L’altro importante decisum è che ogni valutazione circa l’addebitabilità o meno della violazione della regola cautelare debba essere fatta rigorosamente ex ante, considerato che l’indagine ex post riguarda esclusivamente l’accertamento del nesso di causalità.
In conclusione, quindi, attualmente l’esonero dalla colpa sembrerebbe limitato ai soli casi richiamati dall’art. 590sexies c.p. (omicidio e lesioni entrambi colposi); alle sole ipotesi di imperizia non grave ma solo se riconducibili all’atto esecutivo; al rispetto di linee-guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali, ed in ogni caso si tratterebbe di un esonero sottoposto al un controllo in termini di adeguatezza delle raccomandazioni contenute in siffatte linee-guida alle specificità del caso concreto.
3. Medici alla cieca: istruzioni contradditorie e inadeguatezza dell’art. 590sexies
Conclusa quest’astratta premessa, è ora possibile calarsi nel (doloroso) concreto.
Sin dai primi giorni dell’epidemia, si è lanciato l’allarme che, passata l’emergenza, l’ordine medico possa essere investito da un’ondata di denunce a vario titolo.
Ebbene, una delle cause principali della diffusione del virus è stata senz’altro la carenza e l’inadeguatezza di indicazioni ufficiali, non tanto di quelle di natura prettamente scientifica, le quali, nonostante i non pochi e più o meno giustificati “chiari di luna” da parte della comunità scientifica ai più alti livelli, sono state sin da subito fruibili dagli addetti ai lavori[13], quanto di quelle di natura strutturale-organizzativa. Sul punto va, infatti, detto che l’art. 590sexies, si riferisce, non solo alle linee guida propriamente intese ma, in via residuale, anche alle c.d. buone pratiche clinico assistenziali; in queste ultime, il ventaglio di soluzioni da cui attingere si amplia considerevolmente, potendovi ricomprendere anche, ad esempio, prassi, protocolli, circolari ministeriali[14]; infatti “come è stato acutamente osservato in dottrina, il legislatore ha utilizzato nella disposizione ora citata (ndr art. 590sexies c.p.) una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list”[15] .
Ecco, allora, che eventuali responsabilità degli operatori sanitari andranno analizzate anche sulla base delle indicazioni loro fornite dagli organi ministeriali.
È opportuno, quindi, accennare brevemente alla drammatica cronistoria di quanto successo nelle prime settimane precedenti l’esplosione della pandemia[16].
Un primo provvedimento rilevante e recante indicazioni per l’individuazione dei casi sospetti di Covid-19, è stata la Circolare n. 1997 del 21 gennaio 2020, per la quale soggetti sospetti erano coloro che avessero avuto collegamenti diretti/indiretti con la Cina nonché coloro che avessero manifestato “un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica”. Tuttavia, nella successiva Circolare n. 2302 del 27 gennaio 2020, il predetto elenco spariva e, invece, i due requisiti figuravano in rapporto reciproco; prova ne è che sono stati letteralmente posti in congiunzione con la lettera “E” in maiuscolo.
Un aspetto assai doloroso e, nella sua drammaticità, singolare è che catalizzatori della diffusione siano stati, anche, gli ospedali; considerata l’assoluta contraddittorietà ed incertezza delle indicazioni ricevute, che di fatto hanno obbligato il medico a dover prendere decisioni cliniche ed organizzative di un certo rilievo (con tutto ciò che ne conseguiva) sulla base del mero colloquio col paziente e sui di lui presunti contatti con soggetti provenienti dalla Cina, si spiega più facilmente il perché si sia stati così incapaci, almeno nelle prime e cruciali fasi, di contenere il contagio tenendo distinti rigorosamente i pazienti positivi da tutti gli altri.
Allo stato, quindi, un ipotetico giudizio circa responsabilità colpose dei sanitari non potrebbe non prescindere da questo aspetto. Alla luce di quanto sopra e dell’improvvisa impennata di pazienti, della conseguente saturazione delle strutture e delle risorse ospedaliere e dunque dell’incredibile stress cui ogni sanitario ha dovuto far fronte, non richiede eccessivi sforzi constatare l’inadeguatezza dell’art. 590sexies c.p. e dello “scudo penale” in esso contenuto che, come ridisegnato dalle S. U. penali, rischierebbe di essere strumento poco utile, laddove non dannoso[17].
In questo senso si spiegano le numerose iniziative riguardanti l’introduzione di una disciplina colposa medica ad hoc in relazione al contesto clinico, terapeutico e organizzativo pandemico. In particolare, se ne evidenziano due: un primo indirizzo prevede una causa di non punibilità secca per le fattispecie di lesioni o omicidio colposo strettamente ancorata al contesto lavorativo e al momento in cui l’evento si è verificato[18]; un secondo limiterebbe ogni profilo di responsabilità relativa agli eventi occorsi durante o a causa dell’emergenza pandemica al solo dolo e colpa grave[19].
Ciò che si desume da questi propositi, è che la l’emergenza attuale può essere un serio aggregante della tendenza a voler prefigurare forme di colpa sempre più personalizzate e specifiche per determinati ruoli e situazioni, tuttavia, non in termini di estensione della responsabilità, bensì, all’opposto, in funzione limitante della stessa. Per usare una raffinata metafora, l’emergenza rende ancora più evidente la caratteristica “anisotropica” della colpa, intesa come capacità di assumere diverse forme e incisività a seconda del contesto in cui se ne richiede il vaglio[20].
In realtà, più che sforzarsi a voler individuare fattispecie sempre più specifiche e/o limitatrici, sarebbe forse il caso di operare una rivalutazione sistemica e d’insieme, nel tentativo di poter trovare una soluzione ricorrendo direttamente ai principi generali.
4. In realtà, inadeguatezza dell’agente modello: soluzioni intermedie e rivalutazione della colpa soggettiva
Nella situazione attuale, a giocare la parte del leone è senz’altro il rapporto tra comportamento assunto, virtualmente colposo, e lo stato emergenziale che, soprattutto in determinate zone del paese, ha impedito che la macchina sanitaria statale rispondesse adeguatamente. Ci si sofferma sul concetto di “scelta tragica”, che da sempre trova cittadinanza nell’ambito medico (si pensi alle probabili e frequenti situazioni in cui si sia dovuto decidere se curare X e non Y, oppure a quando si sia dovuto rifiutare l’ospedalizzazione di un soggetto non acuto per mancanza di posti, soggetto che poi, proprio in ragione di ciò, si sia successivamente acutizzato); ci si domanda, allora, come porsi in presenza di una sistematizzazione e standardizzazione della situazione straordinaria, dove, quindi, la scelta tragica perde il suo carattere di eccezionalità divenendo regola e, come tale, meritevole di una puntuale tipizzazione.
Una prima soluzione si potrebbe avere ricorrendo alle cause di giustificazione dello stato di necessità ex art. 54 c.p. oppure dell’adempimento del dovere ex art. 51 c.p[21].
La dottrina penalistica non sarebbe nuova a tali – estreme – soluzioni[22], tuttavia, la si potrebbe criticare in punto di inadeguatezza e incompatibilità col mondo medico, in considerazione della attività in esso prestata e dei rischi (e quindi delle conseguenze) che sono dall’ordinamento previste ed accettate[23]. È stato, infatti, osservato che nell’adempimento del dovere di un medico ben può rientrare la situazione di conflitto; allo stesso modo, inoltre, non può non riconoscersi eventualmente una responsabilità ab imis statuale per non aver garantito il corretto funzionamento della macchina organizzativa sanitaria[24]. In una tale prospettiva de iure condendo, l’unica soluzione potrebbe allora essere quella di prevedere una scriminante ad hoc dell’attività medico-chirurgica[25]. In secondo luogo, la scriminante dell’adempimento del dovere, ed in particolare di quello del medico, potrebbe lasciare privi di adeguata tutela il ricevente l’attività doverosa. Più opportuno sarebbe, allora, combinare lo stato di necessità proprio del diritto penale, col suo omonimo civilistico (art. 2045 c.c.) consentendo, da un lato di escludere l’illiceità penale dell’atto medico ma, dall’altro, predisponendo uno strumento comunque riparatorio delle conseguenze dannose a carico dell’interessato[26].
Eppure, si potrebbe scendere ancora più a valle e scandagliare approfonditamente il terreno dei principi. Ebbene, coniugando tali riflessioni con il drammatico contesto attuale, emergono, infatti, molte delle ambiguità dell’impianto dottrinario e normativo su cui si sono fondate sino ad oggi, la colpa, la teoria dell’agente modello ed infine l’effettiva efficacia della predeterminazione di regole cautelari (alla cui violazione corrisponde la colpa stessa).
Si è detto supra della tendenziale normativizzazione della colpa e, quindi, dell’approccio quanto mai oggettivo in punto di accertamento di violazione di regole cautelari (per l’appunto, più o meno codificate). Nell’ambito medico, poi, si è ormai concordi nel ritenere che la colpa si parametri in ragione della condotta tenuta dall’agente concreto confrontata con quella che ci si aspetti da un ideale agente modello, meccanismo tipico della colpa oggettiva.
Trattasi, tuttavia, di un canone da sempre dotato di particolare duttilità a seconda delle maggiori o specifiche conoscenze del soggetto concreto; ciò significa che, sebbene prima facie emani oggettività, lo stesso canone ritorni a colorarsi di soggettività tutte le volte in cui sia necessario “costruire lo standard” attorno allo specifico profilo dell’agente[27]. In questo senso si evidenzia, oltretutto, anche il rapporto tra colpa e prevedibilità, o meglio ancora – come precisato da autorevole dottrina – “rappresentabilità” posto che “prevedibile” è un qualcosa di futuro rispetto alla condotta umana, “rappresentabile è tanto ciò che potrà accadere quanto ciò che è precedente o contestuale all’agire umano[28]”.
Dal che una deroga al criterio oggettivo: un innalzamento “eccezionale” dello standard oggettivo per l’agente dotato di conoscenze “eccezionali”[29].
D’altra parte, non mancano coloro i quali sottolineano come, in realtà, la migliore dottrina tedesca in materia non ha mai disdegnato soffermarsi sulle componenti soggettive dell’agente concreto[30], anche in ragione del fatto che, si ripete, sebbene la teoria base sia sempre quella oggettiva, non v’è chi non veda che essa venga incisivamente soggettivata in tutti i casi di innalzamento dello standard di diligenza in ipotesi eccezionali. Da questo angolo di visuale, allora, emergono molti dei lati critici del concetto stesso di agente modello, così come sollevati in passato da coloro i quali ritenevano che tale criterio fosse, in realtà, inidoneo ad individuare correttamente la punibilità, poiché: “l’agente modello nella colpa, infatti, sembra influenzato dalle pressioni securitarie emergenti, per cui giunge ad impersonare uno standard di diligenza scandito da regole cautelative o ultraprudenziali ispirate ad una logica di mera precauzione[31]”; in questo senso si potrebbe addirittura ritenerlo un mero “espediente retorico in grado di legittimare giudizi di prevedibilità ed evitabilità così distanti da un parametro oggettivo di esigibilità, da consentire un’espansione incontrollata della responsabilità colposa anche in settori ove l’incertezza scientifica impedisce qualsiasi valutazione ex ante delle possibili conseguenze dell’agire umano[32]”
Ebbene, se in punto di modifica dello standard si è generalmente soliti ragionare in termini di innalzamento, considerando soggetti asseriti più competenti della media, la situazione attuale, richiede, invece, di ragionare in senso opposto, vale a dire assumendo l’eccezionalità della conoscenza in termini negativi, di talché sia consentito abbassare “eccezionalmente” lo standard oggettivo, ammettendo un’operazione sottrattiva e così spostando indietro il livello di rimproverabilità ed escludendo la colpevolezza[33].
Un ragionamento siffatto identifica la colpa in termini di esigibilità (poteva l’agente concreto comportarsi in maniera diversa?) e non di tipicità (l’agente concreto si è comportato come si sarebbe comportato l’agente modello?), collocandosi, quindi, nell’ambito soggettivo. La personalizzazione del giudizio di responsabilità avrebbe effetti meno preoccupanti di quanto si immagini, poiché consentirebbe di fare a meno di apportare modifiche alla regola cautelare che, si badi, rimane uguale per chiunque; cosa che, invece, non avverrebbe se si ammettesse una manipolazione del livello di diligenza richiesta a seconda delle conoscenze possedute dall’agente concreto al momento della condotta. Ciò che si deve evitare è l’utilizzo dell’elemento soggettivo come correttivo di quello oggettivo[34]. In breve, innestare sul piano oggettivo la conoscenza dell’agente concreto dovrebbe prescindere dal modo con cui lo stesso elemento si presenta nei diversi casi. Tuttavia, onde evitare problemi di equità, l’elemento relativo alle conoscenze dell’agente concreto andrebbe del tutto espunto dalla dimensione oggettiva e valorizzato esclusivamente su quella soggettiva. Solo in questo modo si riuscirebbe, coerentemente, a tenere conto delle specificità soggettive, qualunque esse siano, rispetto a quelle dell’agente modello. Nel particolare caso di qualità inferiori, ferma una dimensione oggettiva immutata, potrà, a seconda dei casi, mancare una rimproverabilità soggettiva se all’agente concreto era impossibile uniformarsi al modello.
In conclusione, invece di usare le conoscenze specifiche per poter costruire una norma cautelare ad hoc, parrebbe più opportuno, utilizzare sì le medesime conoscenze ma per una valutazione in termini di rimproverabilità soggettiva, ammettendola sicuramente nel caso di conoscenze superiori ma escludendola nel caso di conoscenze inferiori[35].
Tali temi, in realtà, sono stati già affrontati in tempi decisamente non sospetti, anni or sono. Si fa riferimento ai lavori per la riforma del codice penale, incaricati sul finir del secolo scorso[36]. Tra le varie proposte, una in particolare recava l’introduzione della seguente disposizione “la colpa è esclusa, nonostante l’oggettiva inosservanza della regola cautelare, quando l’agente si è trovato costretto ad agire, senza sua colpa, in una situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo, tale da rendere inesigibile l’osservanza della regola”. Posto che la novella non vide mai la luce, è chiaro che già all’epoca si era tentato di istituzionalizzare la colpa soggettiva, rendendola definitivamente diritto positivo.
La definizione di “inesigibilità” intesa come “situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo” (giusto per citare un esempio dell’ambito medico: stress causato da un’improvvisa e prolungata decuplicazione degli accessi in un pronto soccorso, tra l’altro per un male poco conosciuto, in carenza dei mezzi necessari alla cura dei pazienti nonché alla tutela degli operatori sanitari stessi) fa pensare, inoltre, anche ad un altro istituto che potrebbe essere utile ai fini della presente indagine: la forza maggiore.
In entrambi casi, effettivamente, la non punibilità deriva dall’eccezionale compromissione della voluntas agendi del soggetto. Tuttavia, la differenza tra i due istituti è notevole, posto che, nel caso dell’inesigibilità il fatto è, e continua ad essere, un fatto antigiuridico, ciò che manca è invece la colpevolezza, da ciò derivandone, per l’appunto, l’inesigibilità di un comportamento diverso da parte del soggetto. Diversamente, la forza maggiore costituisce quel quid contro cui resistere non potest, che “elide ogni potere di signoria sulla condotta” facendo mancare il requisito della “coscienza e volontà” e compromettendo gli elementi costitutivi del reato stesso[37].
Di similarità si può, semmai, parlare nella misura in cui, in entrambi i casi, i soggetti sono portati ad adottare una condotta che in un contesto “normale” non avrebbero senz’altro adottato, anche se nella forza maggiore ciò si spiega per il fatto che non si sia materialmente potuto fare altrimenti, mentre nell’inesigibilità è mancata a priori la capacità psicologica di comportarsi come ci si sarebbe aspettato. In breve, l’una ha a che fare con la tipicità; l’altra con la colpevolezza. Tuttavia, per quanto non siano mancati taluni che hanno ritenuto che la forza maggiore potesse essere intesa quale “espressione riassuntiva o residuale del principio di inesigibilità, come limite insormontabile della colpevolezza. In questa prospettiva, la forza maggiore assolve[rebbe] al ruolo di causa di esclusione della rilevanza della colpa nel caso concreto”[38], la differenza strutturale tra i due istituti impedisce di poterli ricondurre sul medesimo piano[39].
Effettivamente, nel caso di emergenza da diffusione del Covid-19, la regola cautelare cui debba attenersi una generalità, più o meno specifica, di consociati, può essere tale solo ad emergenza trascorsa, nel senso che la cautela potrà dirsi efficace solo successivamente alla realizzazione della situazione di pericolo[40]. Ebbene, in presenza di regole cautelari che, laddove esistenti, si siano rivelate inadeguate, contraddittorie, inefficaci e comunque in-fruibili dalla maggior parte dei medici[41], in una situazione in cui parrebbe che nemmeno i più esperti virologi siano stati in grado di scongiurare la rapidissima diffusione del virus, si chiede ora di addossare, coerentemente, eventuali responsabilità colpose in capo a tutti gli altri operatori sanitari, che, è opportuno sottolinearlo, si sono ritrovati improvvisamente internisti, pneumologi, infettivologi etc. indipendentemente dalla loro specializzazione iniziale, a maggior ragione a tutti coloro che hanno risposto alle varie “chiamate alle armi” (come definito dalle stesse Istituzioni prendendo in prestito il gergo bellico).
In quest’ottica si potrebbe, allora, ammettere uno sbilanciamento del rapporto agente concreto/agente modello in favore, invece, dell’agente di pari condizioni[42], che diventa il nuovo “modello” su cui parametrare le nuove – e però, giocoforza, inefficaci – regole cautelari, ovviamente inferiori rispetto a quelle elaborate con la miglior scienza ed esperienza. A questo punto, se si volesse trovare un senso a che l’ordinamento ammetta l’esistenza di regole del tutto prive di efficacia cautelativa, il rischio sarebbe quello di ingaggiare un pericoloso “gioco del Jenga”.
In mancanza di una specifica disciplina, ecco che, allora (come detto supra), l’interprete, per evitare di punire un soggetto che, senza sua colpa, non raggiunge gli standard richiesti (perché disponibili ad un numero assai limitato di soggetti), potrebbe valorizzare il profilo soggettivo e rimodulare l’esigibilità concreta. Trattasi di una fictio iuris, escamotage assolutamente conosciuto dall’ordinamento ma che in questo caso sembrerebbe ingiustificato; innanzitutto perché si tratterebbe di immaginare una regola cautelare che o non esiste ovvero, se esiste, è probabilmente poco utile; in secondo luogo date le circostanze, per “salvare” l’agente concreto si potrebbe direttamente far leva sulla colpevolezza tralasciando ogni aspetto riguardante la tipicità, anche perché, diversamente, si andrebbe a duplicare la regola cautelare (la prima per l’esperto virologo, la seconda per chiunque altro), il che condurrebbe, a ben vedere, a due conseguenze; si comprometterebbe fatalmente il principio della certezza del diritto, e soprattutto, ai fini della presente indagine, il medico chiamato in giudizio vedrebbe aumentare a dismisura i fisiologici rischi dell’agone processuale; conseguenze entrambe poco accettabili[43].
5. Osservazioni conclusive: lo stato d’eccezione come salvezza dell’Ordinamento
In conclusione, può dirsi che tutte le sopra esposte considerazioni potrebbero giustificare una riforma della colpa medica, ora, però, letta in chiave soggettiva. L’attuale emergenza pandemica richiede, forse, una norma atta ad ampliare l'area di esonero da responsabilità, che tenga conto delle criticità scientifiche, organizzative, cliniche, assistenziali, del rispetto di linee guida o di istruzioni contradditorie o comunque non univoche e soprattutto delle particolari condizioni personali del medico e dell’altissimo stress emotivo conseguito.
Lo sforzo di voler mettere in discussione taluni principi cardine del diritto, lungi dall’avere intenti sovversivi, parrebbe, invece, coerente con la situazione attuale. Non bisogna, infatti, confondere lo stato di emergenza, che è vicenda tutto sommato ordinaria nella vita di qualsiasi ente (fisico o giuridico che sia), da quello, invece, di “eccezione”. Eccezione non in senso proprio (che vorrebbe dire né più né meno, autonegazione del diritto stesso), bensì in senso “debole”, da intendersi come assoluta straordinarietà e che vede compromettersi la vita dell’ordinamento per la morte (purtroppo fisica e poi sociale, comunque non figurativa) dei consociati stessi. Ragionare in via ordinaria, applicare gli strumenti ordinari, sarebbe operazione, prima ancora che inefficace, assolutamente priva di senso. Da qui la necessità di una normativa d’eccezione che consenta “eccezionalmente” l’adozione di strumenti giuridici non ordinari (non solo tendenzialmente sfavorevoli, ma anche favorevoli, come ad esempio lo scudo penale sanitario di cui sopra), ma comunque in senso debole, poiché non sottratta all’ordinario controllo amministrativo, giudiziario e, da ultimo, costituzionale[44].
D’altra parte, si tratta di considerazioni già svolte precedentemente, seppur in un contesto diverso, in una fondamentale pronuncia della Consulta in materia di legislazione emergenziale per disastro ambientale[45]; in quella sede si ammise, infatti, la possibilità di configurare una “tutela rafforzata” per taluni consociati in ragione dell’assoluta eccezionalità delle conseguenze che l’emergenza ambientale aveva recato; così facendo, di fatto lo stato d’eccezione giustificava e motivava una sorta di “differenziazione penale” e la deroga alla normalità del diritto esistente[46].
D’altra parte, e paradossalmente, ne va della tenuta stessa dell’Ordinamento; non ammettere, infatti, l’abisso che separa l’attuale situazione da qualsiasi altra emergenza (soprattutto in l’Italia, paese ciclicamente funestato da emergenze naturali, sociali o economiche che siano), vuol dire lastricare la strada a future situazioni di più o meno (e diluita) eccezione/emergenza, con tutto ciò che ne consegue in punto di Stato di diritto.
Conclusivamente, il diritto penale, “diritto della e sulla persona” per eccellenza, è ora chiamato ad un nuovo bilanciamento delle prerogative costituzionali su cui esso stesso si fonda, in primis quelle di cui all’art. 27 Cost., dovendo, quindi, non limitarsi a sanzionare responsabilità individuali qualora l’evento lesivo derivi, in realtà, da fattori biologici imponderabili o da carenze strutturali ed organizzative insormontabili; in questo senso si ritiene opportuno che la riforma – eccezionale – della responsabilità penale medica passi attraverso un rivalutazione del principi generali.
[1] Il D.L.13 settembre 2012, n. 158 (c.d. Decreto Balduzzi) e la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli – Bianco).
[2] Cass. pen., sez. IV, sent. n. 4675/2007, Pt. IV, sez. III, Cap. III, Punto c, intitolato «La natura della colpa», p. 272 ss. che di responsabilità può parlarsi solo in termini di contrarietà della condotta a norme di comportamento di cui sono espressione le regole cautelari dirette a prevenire determinati eventi e nell’inosservanza del livello di diligenza oggettivamente dovuta ed esigibile. Non è, cioè, che non si è ritenuto più sostenibile limitare la colpa al solo ambito della colpevolezza, dovendosi, invece, guardare direttamente, specialmente nelle fattispecie di reato c.d. “causalmente orientate” (in particolare omicidio e lesioni colpose) “caratterizzate dal fatto che il legislatore prende in considerazione esclusivamente l’evento senza che venga descritta la condotta – nelle quali la tipicità è descritta sostanzialmente dalle regole cautelari violate.
[3] Cass. pen. Sez. Unite, n. 30328/2002.
[4] ROIATI, La colpa medica dopo la legge “Gelli-Bianco”: contraddizioni irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, 2018.
[5] M.J. FIELD – K.N. LOHR, Guidelines for clinical practice: from development to use, Washington, Institute of Medicine, National Academy Press, 1992.
[6] BARNI, Evidence Based Medicine e medicina legale, in Riv. it. med. leg., 1998.
[7] CAMINITI, La rilevanza delle linee guida e il loro utilizzo nell’ottica della c.d. medicina difensiva, in AA.VV., La medicina difensiva. Questioni giuridiche, assicurative, medico-legali, Santarcangelo di Romagna, 2011.
[8] Cass., sez. IV, 1febbraio 2012, n. 4391; Cass., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 34402.
[9] Cass., sez. V, 28 giugno 2011, n. 33136; Cass., sez. IV, 25gennaio 2002, n. 2865.
[10] Cass., sez. IV, 12 luglio 2011, n. 34729; Cass., sez. IV, 9 giugno 2011, n. 28783.
[11] Cass., sez. IV, 12 giugno 2012, n. 23146; Cass., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 12468.
[12] Cass., SS.UU., sent. 22 febbraio 2018, n. 8770.
[13] Esse sono altresì consultabili presso il sito web dell’ISS https://snlg.iss.it/?p=2706.
[14] Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017, pp. 276 ss.
[15] Trib. Parma sent. 1584/2018.
[16] Capozzi, La responsabilità sanitaria nella diffusione della Covid-19 in aboutpharma.com.
[17] Cupelli, Emergenza covid-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in Sistema Penale.
[18] Emendamento n. 13.2 a firma senn. Mallegni – Sicari.
[19] Emendamento 1.0.4., primo firmatario sen. Marcucci.
[20]Losappio, Responsabilità penale del medico, epidemia da “Covid19” e “scelte tragiche” (nel prisma degli emendamenti alla legge di conversione del d.l. c.d. “Cura Italia”), in Giurisprudenza Penale.
[21] Cupelli, Emergenza covid-19 cit.
[22] Zampaolo, Scudo penale e responsabilità medica durante l’emergenza Covid-19 in Filodiritto.it.: si pensi ai casi di “A, che per salvare l’alpinista B, potrebbe far precipitare C, che si trova fuori pericolo su una cengia vicina. Il medico A potrebbe staccare il respiratore del ferito gravissimo B, per potervi attaccare il ferito C, che ha qualche chance disalvezza in più (ampia esemplificazione è in Comm. Romano, I, 574). O, per ricordare il caso relativo al naufragio della fregata da guerra britannica Mignonette, i marinai A e B potrebbero uccidere C, per berne il sangue e salvare se stessi, quando altre possibilità di salvezza non si profilino all’orizzonte (due vite contro una) (il caso è stato ripresentato da Balestrieri, Monticelli, Caso in tema di stato di necessità e cannibalismo, in IP, 1998, 519; recentemente su esso Simpson, Cannibalism and the Common Law, London, 1994) (Codice Penale Commentato online, articolo 54 c.p., di Pluris, Wolter Kluvers.
[23] Bellagramba, Ai confini dello stato di necessità, in Cass. pen., 2000, p. 1860.
[24] Losappio, Responsabilità penale del medico cit.pag. 13.
[25] Losappio, Responsabilità penale del medico cit.pag. 13 che cita MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, X ed., Wolters Kluwer, p. 266.
[26] LOSAPPIO, Responsabilità penale del medico cit. che cita MEZZETTI, voce Stato di necessità, in Dig. disc. pen., 1997.
[27] MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, Giuffrè, pag.195 che richiama JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, § 55, 1, 2, b e G. FREUND, Strafrecht, § 5, 29 e ROXIN, Strafrecht, § 24, 50 per i quali il modello di agente deve essere costruito a partire da un punto di vista di carattere oggettivo, tuttavia si ammette da sempre che le particolari abilità e conoscenze dell'autore del reato possano venire valorizzate per innalzare lo standard di diligenza cui il soggetto è tenuto.
[28] M. GALLO, Appunti di diritto penale, Giappichielli, Torino, pag. 152.
[29] Grotto, PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA, RIMPROVERABILITÀ SOGGETTIVA E COLPA SPECIFICA, Giappichelli, Torino, 2012 pag. 65 e ss.
[30] LOSAPPIO, Responsabilità penale del medico cit che cita CANEPA, L’imputazione soggettiva della colpa nella dottrina e giurisprudenza di lingua tedesca, pag. 662 e ss., il quale vede quelle soggettive non come interposte tra Unrecht (illecito) e Schuld (colpevolezza), bensì completamente nell’Unrecht.
[31]ATTILI, L’agente - modello “nell’era della complessità”: tramonto, eclissi o trasfigurazione? in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1240.
[32] MANNA, Corso di diritto penale. Parte generale, Milano, 3ª ed., 2015, pag. 263 ss
[33] Grotto, PRINCIPIO cit. Pag. 194 e ss.
[34] DI GIOVINE, Ombretta, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, Giappichelli, 2003, pag. 434 e ss.
[35] Grotto, PRINCIPIO cit. pag. 199.
[36] Commissione per la riforma del codice penale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso - D.M. del 1° ottobre 1998.
[37] FIANDACA, Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, Utet, 1988, pag. 111 e ss.
[38] ANGIONI, Norme definitorie e progetto di legge delega per un nuovo Codice penale, in CANESTRARI, Stefano (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio. Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola (Bologna, 18-20 maggio 1995), Torino, Giappichelli, 1998. Pag. 195 e ss.
[39] Grotto, PRINCIPIO, cit. pag. 354 e ss.
[40] Grotto, PRINCIPIO, cit. che a pag. 160 cita PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, Giappichelli, 2006 pag. 472 e ss.
[41] Non si dimentichi: l’accettazione della proliferazione di iper-specializzazioni è avvenuta di pari passo con l’accettazione della proliferazione di regole cautelari altrettanto iper-specialistiche, del tutto incompatibili con settori diversi rispetto a quelli per i quali se ne è richiesta la formulazione. Quindi, come poter chiedere ad un medico di famiglia, ad un neo specializzando in fisiatria, ad un medico di pronto soccorso di conoscere istantaneamente tutto il compendio cautelare proprio del miglior medico virologo?
[42] Grotto, PRINCIPIO cit. che a pag. 160 cita PALAZZO cit. Pag. 472 che ritiene tale modello ““espediente” escogitato dall’ordinamento, poiché in realtà l’agente modello non ha un’afferrabilità concettuale netta e precisa. Con la conseguenza che questo “modello” viene alla fine dei conti individuato dal giudice, anche se indubbiamente sulla base dell’osservazione criticamente consapevole della realtà sociale”.
[43] Grotto, PRINCIPIO cit. pag. 161.
[44] Epidendio, Diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus in Giustiziainsieme.it
[45] Corte Cost. sent. n. 83/2010.
[46] Forzati, Irrilevanza penale del disastro ambientale, Regime derogatorio dei diritti e legislazione emergenziale: I casi Eternit, Ilva ed emergenza rifiuti in Campania. Lo stato d’eccezione oltre lo stato di diritto, pag. 25 che cita DONINI, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. Pen., 2006 p.910 e ss.
Il Consiglio di Stato nega l’efficacia di accertamento e l’ultrattività del principio di diritto affermato dalle sezioni unite in caso di sopravvenuta estinzione del processo.
Irrogata da un Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ad un proprio iscritto la sanzione disciplinare della radiazione e confermata la sanzione dal Consiglio Nazionale Forense, la decisione di quest’ultimo viene impugnata innanzi alle Sezioni Unite che accolgono il ricorso ritenendo che la sanzione della radiazione sia fondata su una ricostruzione parziale e incompleta dei fatti e annullano la decisione con rinvio al CNF.
Il giudizio innanzi al CNF non viene però riassunto né dal ricorrente, né dal COA in quanto, a seguito della sentenza della Cassazione, l’avvocato viene reiscritto all’Albo in accoglimento d’istanza dal medesimo presentata.
L’iscritto promuove a questo punto azione risarcitoria innanzi al GA per il danno patito a causa della illegittima radiazione, che viene respinta nel presupposto che l’accertamento operato dalle Sezioni Unite sull’illegittimità della radiazione non sia sufficiente per esercitare l’azione risarcitoria perché “nel caso di specie non v’è stata una sentenza di annullamento passata in giudicato”.
Secondo la sentenza della Sezione Terza del Consiglio di Stato, l’accertamento alla base della pronuncia rescindente della Cassazione, che ritiene la sanzione fondata su un accertamento incompleto dei fatti, non sarebbe utilmente invocabile a fini risarcitori, anche perché avrebbe perso efficacia a causa della mancata riassunzione del giudizio innanzi al CNF. La mancata riassunzione avrebbe infatti comportato l’estinzione del solo giudizio svolto in forma processuale e la contestuale reviviscenza dell’originario provvedimento puramente amministrativo.
La sentenza esclude l’applicabilità dell’art. 393 c.p.c. a norma del quale il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione sopravviverebbe all'eventuale estinzione del giudizio e ripropone la tesi della pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia. Sembra pertanto che, sotto il profilo della pregiudizialità, i termini della questione vengano riproposti così come lo erano anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla pronuncia resa da Cass. S.U. 23 12 2008 n. 30254 che, enunciando il principio di diritto nell’interesse della legge, era esplicitamente finalizzata a confermare l’orientamento già espresso nelle ordinanze n. 13659, n. 13660 e n. 13911 del 2006 (le ordinanze con le quali le Sezioni Unite avevano affermato che “ Tutela risarcitoria autonoma significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovvero la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione”).
La didattica di Franco Cordero
di Arturo Capone
La didattica di Cordero era caratterizzata dalla fascinazione verso un percorso di apprendimento impegnativo e irto di ostacoli, che apriva le porte a un livello superiore di conoscenza.
Franco Cordero incuteva soggezione. Erano tempi diversi da oggi, nei quali il professore si sforza di venire incontro agli studenti e, se ci riesce, persino di risultare simpatico. Decisamente non aveva questa preoccupazione. In aula entrava senza dire buongiorno o fare un sorriso di circostanza e incominciava direttamente a spiegare, con uno stile non troppo diverso da quello che si trovava sul manuale, deliberatamente preordinato più a disorientare che a semplificare. Lui stesso però non attribuiva grande importanza alle lezioni: la cosa importante – diceva – è studiare il manuale.
Il manuale – la Procedura penale – aveva un impatto enorme sugli studenti. Anche chi poi si è dedicato ad altro nella vita spesso lo ricorda ancora, a distanza di decenni, come un testo perturbante, che bisognava studiare mettendo in campo risorse nuove, non richieste in nessuna delle altre materie fino a quel momento incontrate nel corso di laurea in giurisprudenza.
Si trattava in effetti di un testo affascinante e difficile. Le sue peculiarità si sono via via intensificate nelle edizioni che si sono susseguite dal 1966 al 2012. Nelle ultime, non solo l’intero processo, nelle prime sfavillanti cento pagine, ma ogni singolo tema era preceduto da un’introduzione, che per semplicità si potrebbe chiamare “storica”, ma che in effetti era composta da una sorta di montaggio di riferimenti letterari, precedenti normativi, atti di processi antichi, discussioni dottrinali, ritratti di personaggi, fonti romanistiche, etc. Queste parti, di primo acchito, suscitavano nello studente l’impressione di un’oscura divagazione; distrarsi però era esiziale, perché il nucleo interpretativo della disciplina, quello che l’introduzione serviva a mettere piano piano a fuoco, era poi esposto, talvolta all’improvviso, in poche fulminanti parole.
A dispetto della molteplicità dei materiali che entravano a far parte del manuale, infatti, la sintesi era un tratto costitutivo del suo stile. Questa sintesi senza dubbio era una risorsa: consentiva di fornire una quantità smisurata di informazioni. La Procedura in realtà era un trattato ridotto a mille pagine. «C’è tutto!» - ci dicevamo ammirati ma anche un po' impressionati, quando ancora anni dopo, studiando qualche piccola questioncina su cui speravamo di poter scrivere qualcosa di nuovo, riguardando il manuale ne trovavamo menzione. Tre parole, ma c’era.
E queste brevi, icastiche espressioni, con cui Cordero sintetizzava problemi, sfondi, dibattito e soluzioni, avevano perciò una carica semantica enorme. Ogni volta che le rileggevamo, magari via via che si affinava la conoscenza della materia, riconoscevamo sempre nuove implicazioni, prima non colte.
La sintesi però era indubbiamente anche un divertissement letterario. Raggiungeva la sua acme in quel vero e proprio virtuosismo costituito dai brevi abstract che nel manuale erano anteposti ad ogni paragrafo: un terzo di pagina o poco più, in carattere più piccolo, che secondo Cordero avrebbero dovuto facilitare la memorizzazione del testo. Ma anche dopo lo studio approfondito del paragrafo, quell’abstract era talmente condensato da restare obiettivamente criptico.
L’apprendimento del manuale in genere aveva un decorso anomalo. Di solito, per quanto riguarda le discipline di base del corso di laurea in giurisprudenza, l’esposizione della materia, curata appunto in modo da risultare chiara, non comporta soverchie difficoltà di comprensione; bisogna però rileggere il testo più volte, magari anche ripeterlo a voce alta, per arrivare a una sua memorizzazione, sufficiente per affrontare l’esame. Con la Procedura penale le cose andavano diversamente. Bisognava leggere e rileggere più volte per comprendere il testo, o, meglio, il senso dei suoi riferimenti, la sua logica, le sue implicazioni, le sue soluzioni. Ma poi, una volta raggiunta tale comprensione, non era più necessaria alcuna rilettura o ripetizione; concetti e immagini si incistavano irreversibilmente nella memoria.
Aver studiato con Cordero, perciò, si rivelava a volte nella forma angosciante di una sorta di colonizzazione linguistica e del pensiero. Tutti coloro che hanno poi continuato a occuparsi di procedura penale hanno dovuto affrontare a lungo questa specie di condanna, per cui, al momento di scrivere, tornavano in mente, anche a tradimento, le frasi con cui Cordero scolpiva i concetti – come non si potesse nemmeno pensare la procedura con parole diverse. Quindi dopo, rileggendo, bisognava disincrostare il testo di tutto ciò che in effetti non ci apparteneva, e purtroppo, spesso, il meglio andava via.
Continuare a studiare all’ombra di Cordero non era facile. Anche per ragioni strettamente accademiche: non amava avere allievi, cerchie, clientes; solo rapporti, eventualmente, di stima, e ciascuno doveva badare a sé stesso. Ma, soprattutto, maturare il proprio punto di vista era particolarmente impegnativo. Bisognava confrontarsi con un interlocutore radicatissimo nelle sue opinioni e poco disposto a tollerare dissensi. Si trattava senza dubbio di una rigidità, non condivisibile, fondata però sulla obiettiva consapevolezza che il suo punto di vista era maturato all’esito di studi di ampiezza e spessore difficilmente eguagliabili. Ricordo la prima volta che gli chiesi di leggere un testo, che ambiva ad essere la mia prima nota a sentenza. La tesi centrale dello scritto stava nell’idea, allora negata dalle Sezioni unite, della possibilità di considerare alcuni vizi della motivazione alla stregua di errores in procedendo. Cordero non condivideva questa idea – lo sapevo già – ma speravo di convincerlo con le mie argomentazioni. Mi disse che, sì, nel complesso il lavoro non era male, tranne il fatto che sostenevo quella tesi, che a suo giudizio andava espunta dal novero delle opinioni giuridicamente predicabili. Poi aggiunse: «D’altra parte, guardi un po’ chi cita!», e, pronunciando il nome dell’autore che avevo usato per argomentarla, scoppiò in una risata che a me parve demoniaca. E che avesse qualcosa di oltremondano, ma ambivalente, a tratti mi capitava di pensarlo, quando scherzavo ad accostare il suo cognome – ‘agnello’, il simbolo sacrificale – al suo incedere leggermente claudicante. Naturalmente non bisognava arrendersi, ma studiare ancora a lungo, riverificare la sostenibilità delle proprie idee, argomentarle molto meglio. E così il suo essere straordinariamente esigente con gli altri, imponeva agli altri di essere straordinariamente esigenti con sé stessi.
Nel merito, ciò che caratterizza la didattica di Cordero potrebbe essere descritto, sia pure un po’ approssimativamente, come un invito a studiare il processo penale come parte della storia della cultura.
Come si accennava all’inizio, si tratta di una scelta non originaria; i due piani del discorso si sono a poco a poco intrecciati, come se, in termini di produzione scientifica, i materiali di Riti e sapienza del diritto, la monumentale opera del 1981, siano infine confluiti nella Procedura penale. Ecco perché studiarla risultava difficile e affascinante. Perché, per spiegare ogni frammento normativo, venivano chiamati a raccolta l’antropologia, la storia, la teoria del linguaggio, la sociologia, il pensiero giuridico, la politica, etc.; naturalmente, per via della necessaria sintesi, non esposti in una sequenza ordinata, ma messi in scena in una sorta di teatro dell’immaginario.
Ancora oggi che nell’insegnare uso un metodo agli antipodi, cercando cioè, per quanto riesco, di essere semplice e accessibile, vengo a tratti colto da alcuni dubbi radicali. Mi domando cioè se questo metodo non favorisca piuttosto – come direbbe Cordero – la pigrizia mentale; forse, invece di adattare la materia al livello di comprensione dello studente, bisognerebbe piuttosto saperlo attrarre, magari affascinandolo con una scrittura luccicante, verso un livello superiore. Personalmente sedo i miei dubbi con la consapevolezza che tanto non ci riuscirei.
I testi giuridici – si sa – invecchiano presto. Il pensiero che la Procedura possa smettere di essere un riferimento per le nuove generazioni di studiosi mi inquieta. Credo però che essa, anche una volta sorpassato il testo normativo di cui parla, possa conservare non solo un valore retrospettivo, ma una sua perdurante efficacia didattica. Cordero, in un certo senso, grazie alle sue molteplici peregrinazioni intellettuali ha portato tutto il mondo dentro la procedura. Spesso noi studiosi, quando vogliamo sapere qualcosa del mondo che sta oltre la procedura, in effetti ci accontentiamo di leggere Cordero. Il manuale ci invita piuttosto a intraprendere il percorso all’inverso; a usarlo come una porta, che dalla procedura consente di avventurarsi in quel mondo.
Franco Cordero Il lascito formativo di un grande Maestro
di Giuseppe Santalucia
Sommario. 1. Il senso di questo ricordo. – 2. La centralità scientifica del Manuale. – 4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo. – 5. Il volto politico del processo. – 6. L’intellettuale impegnato. – 7. Una lezione di vita sul Potere.
1. Il senso di questo ricordo.
L’8 maggio è scomparso Franco Cordero, uno dei grandi Maestri della Procedura penale.
Non posso condividere con i lettori della Rivista ricordi personali dello studioso, per il semplice fatto che non ho avuto la fortuna di frequentarlo o anche soltanto di farne la personale conoscenza.
Ho solo memoria di un incontro a margine di un convegno veneziano di circa dieci anni fa sull’abuso del processo, in cui mi sorpresi a pensare come la gracilità del fisico minuto potesse sostenere – e accompagnarsi a – una tale possanza del pensiero.
Non ho neanche la pretesa di tratteggiarne la figura di intellettuale, troppo elevata e poliedrica – storico, filosofo, romanziere, opinionista politico, oltre che giurista – perché io possa misurarmi con un impegno all’evidenza al di fuori della mia portata.
Coltivo piuttosto, con queste poche righe, un proposito modesto: testimoniare che un’ampia platea di studenti e poi operatori del diritto – categoria vasta se si considerano i molti anni di influenza dell’insegnamento di Franco Cordero nell’Università italiana e in cui posso annoverarmi, uno fra i tanti – ha trovato nei suoi scritti, soprattutto nel poderoso Manuale, le chiavi per una lettura critica e consapevole di una materia che, per mezzo del suo insegnamento, ha saputo affascinare.
Allievi di Franco Cordero, in un senso ampio, sono stati molti di più di quelli che hanno avuto la fortuna di giovarsi del suo insegnamento diretto o, ancor più, di essere guidati e sostenuti nel percorso di studi post-universitari. In ciò risiede la grandezza dello studioso e del maestro, che attraverso i libri e gli scritti ha saputo contribuire alla formazione giuridica di un numero vastissimo di studenti e giuristi.
2. La centralità scientifica del Manuale.
Ne parlo come di un fenomeno raro, perché tale è.
In un periodo di copiosa, quasi alluvionale, produzione di volumi giuridici, anche nel settore del diritto processuale penale, sono poche, pochissime, le opere che si stagliano nella moltitudine dei testi e si pongono come punti fermi, guide sicure a cui attingere con mai inutili riletture che fanno scoprire e riscoprire aspetti prima non colti, non consapevolmente acquisiti in tutto il loro significato.
Molti hanno detto, e giustamente, che è riduttivo definire manuale un’opera che, in una pluralità di edizioni, ha accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo codice nelle sue molteplici e progressive novelle.
Un testo complesso, di impegnativa lettura per profondità concettuale e ricchezza di riferimenti storici, che si avvale di una scrittura asciutta, essenziale e densa, che non consente distrazioni, allentamenti di attenzione.
Con una molteplicità di livelli di approccio sa essere fruibile dallo studente e dallo studioso maturo, sa parlare a chi muove i primi passi nell’apprendimento della materia – seppure a condizione di una particolare ma adeguatamente contraccambiata determinazione ad apprendere – e a chi ne è invece cultore esperto, dando al primo il senso compiuto della struttura processuale col disvelamento del significato politico in uno alla spiegazione dei meccanismi di funzionamento, e offrendo al secondo spunti interpretativi prima rimasti in ombra, connessioni feconde di nuove sistemazioni e ricostruzioni.
3. Le ragioni del successo del Manuale.
Il Manuale sa mantenere vivo negli anni il dialogo con il lettore, evita che si esaurisca perché dischiude sempre nuovi orizzonti, fa sperimentare nuovi percorsi e stimola nuove riflessioni.
Da dove, ci si chiede allora, tanta ricchezza?
Anzitutto, penso di poter dire, dalla straordinaria capacità di storicizzazione degli istituti, dalla sapiente collocazione nella storia del pensiero e degli assetti culturali della società, che rendono viva la Procedura e danno immediata comprensione anche al meno attrezzato tra i lettori di come essa sia, come lo stesso Cordero ha ricordato, il prodotto e lo specchio del grado di civiltà di una comunità. Dalla dimensione storica, dalla individuazione delle radici di alcuni tra i più importanti istituti si è agevolati nel cogliere le ragioni del presente, a penetrare con maggior consapevolezza nel cuore del meccanismo processuale.
Il Manuale tratteggia la dimensione autenticamente politica del processo, luogo di esercizio di un potere terribile quale è quello dell’uomo che può disporre della libertà dell’altro. Il processo penale ha da sempre rappresentato una delle principali forme della relazione tra il Potere e la vita e i modi in cui questa relazione si è nel tempo declinata sono il precipitato della cultura politica che ne è stato e ne è contesto.
Questo postulato della dottrina processualistica è l’architrave democratica su cui prende corpo l’intero insegnamento del Manuale, condotto con eccezionale nitore logico nella spiegazione degli istituti e caratterizzato dalla semplicità delle soluzioni critiche
Qui si coglie, ritengo, l’altro grande carattere dell’opera che ne fa impareggiabile strumento di studio.
Si tratta dall’uso sapiente di un metodo improntato a rigore scientifico, che fa apparire, appunto, semplice quel che altrimenti, senza quella guida ricostruttiva, sarebbe risultato oltremodo ostico e complesso.
4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo.
È lo stesso robusto pensiero critico che si ritrova in quell’altra importante opera, un classico della letteratura processuale, costituita dai Tre studi sulle prove penali, con cui Cordero definì, nei lontani anni sessanta del secolo passato, una sistemazione dommatica del procedimento probatorio e delle patologie della prova ancora attuale, e che ha favorito con largo anticipo la riforma della disciplina codicistica del 1988.
Sono scritti che, come più volte e da più parti è stato sottolineato, hanno contribuito alla strutturazione della procedura penale in settore scientifico autonomo dal Diritto penale, facendo cessare quel periodo di ancillare marginalità che, almeno fino agli anni trenta del secolo scorso, aveva segnato il rapporto tra la pratica processuale, roba da cerusici-flebotomi-barbieri del diritto, e il Diritto penale. Anche se, avverte Cordero, non era stato sempre così, perché nei secoli ancora precedenti la Procedura aveva avuto ben altre fortune, quando nel primo basso Medioevo italiano la letteratura penalistica originava come procedura.
In questa direzione, che lo individua come uno dei Padri del diritto processuale penale appunto perché tra gli artefici dell’autonomizzazione dommatica e quindi fautore della dignità scientifica della disciplina, va richiamato un lavoro monografico precedente, Le situazioni soggettive nel processo penale, del 1956.
Un’opera che innovò rispetto alle tradizionali teorizzazioni del processo incentrate sulla nozione di rapporto giuridico e dei presupposti processuali di impronta manziniana, e pose attenzione al fenomeno processuale in termini di combinazione e di convergenza dei comportamenti degli attori, parti e giudice, riguardati nella loro relazione con una norma attributiva di una situazione definibile in termini di potere, facoltà, onere e dovere; e quindi esaminati nella loro rilevanza secondo le previsioni di fattispecie normativamente qualificate.
Come osserva Cordero, l’adesione alla categoria del rapporto giuridico per spiegare il fenomeno processuale aveva prodotto non pochi guasti nella giurisprudenza che, utilizzando quella metafora, era giunta a negare la qualità di imputato al non comparso davanti al giudice istruttore che aveva emesso un mandato. Anche se – è lo stesso Cordero a evidenziarlo –, proprio lavorando intorno alla nozione di rapporto giuridico, la Corte di cassazione, notoriamente aliena da mosse libertarie, era riuscita a contenere i dannosi effetti della riforma autoritaria degli anni trenta del secolo scorso con cui erano state relativizzate tutte le nullità; per i casi – ad esempio – di nullità, precocemente sanate, del decreto di citazione e quindi di dibattimenti svolti in assenza dell’imputato non citato oppure in assenza del difensore, del pari non avvisato, la giurisprudenza aveva risposto dando vita, in ragione del mai costituito rapporto processuale e quindi dell’assenza dell’imputato e/o del difensore, ad una forma patologica atipica, l’inesistenza, rendendo così rilevabile anche d’ufficio e senza alcun termine il vizio dell’atto compiuto in assoluto spregio delle garanzie difensive.
5. Il volto politico del processo.
Riguardato dal punto di vista delle situazioni giuridiche soggettive il fenomeno processuale è colto nella configurazione dinamica, nella sua struttura progressiva, e assai meglio si adatta al modello accusatorio per atteggiarsi a spettacolo dialettico, tensione agonistica, partita aperta, duello, secondo regole e forme che plasmano il conflitto, e in cui più che l’esito contano, appunto, le regole del gioco: perché la caccia val più della preda e cioè il modo in cui si agisce val più del risultato.
Da qui la necessaria attenzione alle forme, perché il processo è prassi ragionata, e l’implicito monito a non farsi suggestionare da progetti di de-formalizzazione del rito in nome di risultati più facilmente o più speditamente raggiungibili; indiscusso che le forme non devono imbrlgliare l’azione, ma regolarla e che quindi la considerazione di esse non può risolversi in vuoto formalismo.
Ma l’in-sé del processo sta nel rispetto della dignità dell’uomo, nella tutela dei suoi diritti fondamentali, condizione essenziale per rendere tollerabili gli errori che sono a volte inevitabili nell’accertamento della verità.
Non può dunque ipotizzarsi un processo senza contraddittorio, metodo epistemologicamente imposto per la formazione delle prove e regola moralmente necessaria.
Il processo è prassi ragionata, non ammette idee precostituite che non siano soggette alle verifiche di un ragionamento rigoroso, condotto secondo lo stretto principio di conseguenzialità logica, anche inesorabile, che tiene fuori dal suo raggio di azione considerazioni di risultato e accomodamenti di convenienza.
6. L’intellettuale impegnato.
La fedeltà al pensiero critico, conformato a una rigorosa geometria – come è stato di recente detto da R. Bonsignori, La geometria nel pensiero di Franco Cordero, in giurisprudenzapenale.com, 16 maggio 2020 – oltre che metodo scientifico, è principio etico.
Lo si ritrova negli anni della serrata polemica con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presso cui era titolare della cattedra di diritto processuale penale, quando il suo volume Gli osservanti. Fenomenologia della norma, pubblicato nel 1969, fu ritenuto un testo eterodosso, la cui lettura avrebbe potuto far perdere immediatamente la fede ai malcapitati; e determinò le autorità ecclesiastiche a revocare il nulla osta necessario a entrare a far parte del corpo docente (e a permanervi) dell’Università.
Non vi fu ostinazione o rigidità ideologica, non vi fu carenza di flessibilità – così, invece, F. D’Agostino, in Avvenire.it, 10 maggio 2020 – nella scelta di non chiedere il trasferimento ad altra sede; e, invece, di insistere in un contenzioso che infine approdò dinnanzi alla Corte costituzionale per la valutazione della legittimità della disposizione concordataria secondo cui la nomina dei professori di quella Università doveva essere preceduta dal nulla osta della Santa sede.
In quel comportamento si individua piuttosto il rifiuto etico del dogma, quale che ne sia la natura o la provenienza, ostacolo allo sviluppo del pensiero critico, che risponde e deve rispondere soltanto alle sue regole e non può recedere in vista di accomodamenti, magari utili anche in una prospettiva di utilità personale.
Lo stesso atteggiamento di intransigenza si apprezza nel più recente periodo in cui Cordero si è dedicato all’osservazione della vita e del costume politico. In quegli anni ha prodotto numerosi articoli di opinione per La Repubblica, e ha pubblicato vari volumi – Le strane regole del signor B., Nere lune d’Italia, Morbo italico –, con cui ha condotto una serrata analisi della decadenza della vita pubblica, cogliendo con lucida visione le forme, a volte sguaiate e spesso grottesche, del Potere.
7. Una lezione di vita sul Potere.
La distanza dal Potere, nelle sue manifestazioni deteriori, a tratti percorse da prevaricazione, può essere eletta a carattere distintivo delle plurime espressioni del pensiero di Cordero.
Un intellettuale che ha vissuto l’impegno universitario tenendosi lontano dalla gestione del potere accademico, che si esprime anche nell’assegnazione delle cattedre e dei posti. Non ha dato vita ad una Scuola – ed è questo il rammarico che oggi può avvertirsi –, non ha cresciuto allievi da sistemare in quella o in quell’altra Università.
È rimasto estraneo agli affari faticosi di chi assume la responsabilità del futuro professionale di altri in un mondo che ha ipocritamente dismesso i meccanismi di una lecita, trasparente e responsabilizzante cooptazione, per affidarsi a un sistema di concorsi che, oltre a mortificare a volte (spesso?) i meriti scientifici dei concorrenti, si è rivelato inadeguato ad assicurare la legittimità, o quanto meno l’immagine di essa, nelle procedure di promozione.
E su questo terreno la figura di Franco Cordero è di monito non solo all’Accademia; lo è, in misura non minore, alla Magistratura che, al pari dell’Università, si avvale degli strumenti dell’autogoverno nella gestione del potere, delle promozioni e degli avanzamenti per così dire di carriera.
Occorrerebbe accostarsi a quegli affari, a cui è pur necessario attendere, con il rigore e l’intransigenza dell’intellettuale che non devia verso i compromessi.
È un dover essere molto impegnativo, con cui le grandi figure riescono a misurarsi assai più agevolmente di quanto capita ai molti altri.
Traguardo che sembra irraggiungibile, che tollera umane défaillance e passi falsi ma che deve orientare – per quel che ora interessa – i giuristi, accademici e non.
È questo un lascito non meno rilevante dell’insegnamento di Franco Cordero. Il rigore dello scienziato che diviene fondamento etico dell’impegno pubblico.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.