ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
COVID 19 e la questione fiscale (italiana): note minime per un cambiamento necessario
di Enrico Manzon
Sfuggire alle tasse è l’unica impresa intellettuale che offra ancora un premio
John Maynard Keynes
SOMMARIO: 1. Considerazioni generali; 2. Equità e dialogo procedimentale; 3. Un imperativo: aggredire con –vera- determinazione l’evasione tributaria; 4. Misure di giustizia; 5. Osservazioni finali
1. Considerazioni generali
L’enorme calamità umana e sociale che si è abbattuta prima sulla Cina, poi sull’Italia e quindi sul Mondo intero, è ancora nel suo pieno, drammatico, svolgimento.
Una forte esigenza di benessere psicologico individuale e collettivo, spinge tuttavia a guardare oltre l’attuale emergenza ed a pensare al nostro futuro, di persone, di collettività umane.
In questo orizzonte si stagliano problemi complessi, ma si pone anche la necessità del coraggio nell’innovazione, auspicabilmente senza dimenticare le “lezioni” del passato, prima di tutto quelle dello scorso secolo, le cui tragedie sono ancora vive nella nostra memoria, tanto quanto le grandi rivincite che la civiltà -l’humanitas- si sono prese su di esse.
E’ infatti dalle epidemie, dalle guerre, dai fallimenti dei sistemi economici del secolo breve che possiamo ricavare gli insegnamenti che servono per affrontare e vincere le sfide che abbiamo davanti, anche se è chiaro che gli stessi rimedi -politici, economici e sociali- che per quegli eventi sono stati impiegati devono inevitabilmente essere ri-pensati ed adattati alla modernità della società digitale.
Ma tornando all’emergenza sanitaria ed alle sue conseguenze umane ed economiche, in Italia e nel Mondo appare evidente la grande diversità dei sistemi di sanità dei singoli Paesi ed al termine di questa drammatica emergenza, contabilizzandone i danni umani ed economici, sarà inevitabile che di questi sistemi venga attualizzato il ranking ed, allo stesso tempo, sarà interesse e, speriamo, pretesa di tutti gli abitanti del Pianeta che nei vari livelli decisionali politici vengano tratte coerenti conclusioni e fatte le scelte necessarie per la più ampia tutela del fondamentale diritto umano alla vita ed alla salute.
Bisognerà quindi riflettere in profondità sui “modelli sanitari”, sulla loro configurazione ed implementazione: in termini ancor più chiari si porrà -a livello planetario- la questione del finanziamento delle attività di tutela della salute individuale e collettiva.
E’ ragionevole prevedere che questo diverrà il nuovo focus della discussione, il terreno di scontro privilegiato, tra chi sostiene le ragioni del “privato” e chi quelle del “pubblico”.
Al fondo, si porrà in ogni caso una “questione fiscale” ossia si dovrà decidere sui livelli di tassazione delle ricchezze nazionali per sostenerne -in via ordinaria e di medio-lungo periodo- gli oneri finanziari.
Ovvio che questo policy making, che è prima di tutto un policy thinking, avrà sicuramente profili tutt’affatto diversi nei vari angoli del pianeta, variandone radicalmente le basi teoriche, dai capitalismi di stato (Cina, Russia) alle economie “liberali”, ma anche tra queste.
Nei Paesi anglosassoni (USA, GB) il problema sarà quello del livello della “tassazione formale”, posto che da Reagan e Thatcher in poi la scelta è stata quella di “tassare poco e spendere poco”, peraltro non avendo mai avuto gli Stati Uniti un sistema di sanità pubblica inteso nel senso europeo moderno ed avendo fortemente ridimensionato il Regno Unito il proprio.
In molti Paesi dell’UE, sicuramente in quelli principali, l’eventuale decisione di potenziamento, anche in senso finanziario, del sistema sanitario potrà essere assecondato da un debito pubblico compatibile e da un finanziamento fiscale reso possibile dalle dimensioni del prelievo globale e dalla sua relativa efficienza.
In Italia questa situazione è esattamente rovesciata: il nostro debito pubblico è enorme sia in termini assoluti che di rapporto con il PIL ed il tasso di efficienza della leva fiscale è tradizionalmente insoddisfacente e complessivamente iniquo.
Appare quindi chiaro che, per poter adeguare il nostro sistema di sanità pubblica “universale” alle nuove sfide che la globalizzazione ci impone e più in generale per far ripartire l’economia nazionale dopo i danni ingenti della pandemia in atto, servono risorse che possiamo attingere dal mercato dei capitali in misura affatto limitata, pena un rischio concreto di dèfault, salve misure straordinarie a livello UE (eurobonds), allo stato solo preconizzate, ma ancora lontane e per nulla scontate.
Pertanto la “via italiana” dovrà necessariamente contare, oltre l’emergenza, sul prelievo tributario, alla cui inefficienza dovremo per forza porre rimedio. Bisognerà dunque agire con determinazione sul “livello sostanziale” della tassazione o meglio sullo scarto, impressionante, tra questo livello e quello “formale”.
In altri, ancor più chiari termini, essenzialmente, non potremo più permetterci un’evasione fiscale che, secondo le stime maggiormente prudenziali, ad almeno 100 miliardi di euro ogni anno. Significativamente questo valore economico è appena inferiore a quello della spesa sanitaria nazionale (nel 2019, 115 miliardi di euro).
Occorre perciò pensare “cosa e come fare” per almeno ridurre questo enorme deficit di cultura sociale e di finanza pubblica, così da ottenere, anche per questa via, le risorse per fare quello che serve alla comunità, nella sanità e nell’ economia.
Ovviamente si tratta di una questione complessa causata da radici profonde, anche ed ampiamente “extrafiscali”, che perciò ha molte angolature e risposte, nessuna semplice né semplificatrice ed è con questa, peraltro banale, consapevolezza che cercherò di illustrare qualche idea per ragionarci sopra, mi auguro non, troppo, banalmente.
Preciso peraltro che le mie riflessioni, oltre che necessariamente sommarie, sono in ogni caso limitate ai profili di diritto tributario, escluse pertanto analisi che guardino ai –pur fondamentali- aspetti etici, politici ed economici della questione medesima, rimanendo fuori dal limitato “campo visivo” di questo piccolo contributo in particolare ogni considerazione sul versante del debito e della spesa pubblici, dei loro limiti e della necessità dell’ efficientamento della seconda.
Ciò non solo per ragioni di spazio, ma essenzialmente a causa dell’assenza di una adeguata “competenza”, che mi impedisce di scrivere su ciò che non conosco ad un livello superiore a quello di una persona di media cultura.
2. Equità e dialogo procedimentale
Da sempre riuscire a far pagare le tasse non è né può essere solo “affare di bastone”, ma è comunque -allo stesso tempo e forse prima ancora- “affare di carota”.
In ogni caso, il punto di partenza, anche giuridico costituzionale, di ogni ragionamento sul dovere contributivo è l’equità fiscale.
Concetto che vuol dire più cose: prima di tutto, sicuramente, eguaglianza, principio supremo della Costituzione, che si declina –comunemente- nell’eguale trattamento normativo di situazioni uguali, nel diverso trattamento normativo di situazioni diverse.
Partiamo da qui.
Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ne prendo uno, a mio giudizio, particolarmente significativo: la tassazione dei redditi da lavoro, che è una delle forme più socialmente diffuse e finanziariamente più importanti di imposizione tributaria.
Domanda: è conforme al principio di uguaglianza tassare nella stessa misura il reddito di lavoro dipendente e quello di lavoro autonomo, quello di lavoro dipendente pubblico e quello di lavoro dipendente privato?
Apparentemente sì, posto che, parafrasando il mercante di Venezia, “un euro è un euro”, ma, se si vuole approfondire senza preconcetti “ideologici”, no, perchè si tratta proprio di situazioni tutt’affatto diverse.
Pensiamo alla stabilità delle relative “fonti reddituali”. Alta quella del dipendente pubblico assai inferiore quella del dipendente privato, ancora più bassa quella del lavoratore autonomo. Va subito soggiunto che a ciò è inversamente proporzionale la chance di inadempimento fiscale volontario, essendo limitata quella del dipendente pubblico (solo se fa un altro lavoro), più elevata quella del dipendente privato (c.d. “fuori busta”), ancor più elevata quella del lavoratore autonomo (omessa registrazione di compensi).
Se queste proposizioni sono vere, allora la corretta applicazione del principio di uguaglianza richiede una diversa misura di tassazione di queste fonti reddituali così radicalmente differenziate sul piano “genetico-qualitativo”.
In questo senso le tecniche normative sono più d’una.
Differenziare le aliquote d’imposta porrebbe qualche problema di costituzionalità. Senz’altro meno problematico e più efficace è invece utilizzare la tecnica della detrazione di imposta, peraltro già da tempo risalente impiegata dal legislatore tributario italiano (art. 13, dPR 917/1986-TUIR).
A mio giudizio tuttavia va esattamente ribaltata la logica delle vigenti disposizioni, che è di netto (e costituzionalmente inspiegabile) favore per il lavoro dipendente rispetto a quello autonomo, senza alcuna discriminazione tra pubblico e privato.
La mia idea è che si potrebbe introdurre una detrazione per lavoro autonomo ed una per lavoro dipendente privato, modulate in senso inversamente progressivo ossia decrescenti all’aumentare della base imponibile netta, parametrate secondo modelli attuariali sul rischio di impresa quindi di licenziamento/ammortizzatore sociale per il lavoratore dipendente privato e di cause esogene (malattie) di contrazione reddituale per il lavoratore autonomo.
Questo sarebbe appunto un modo per attuare il principio di “equità fiscale”, disinnescando uno dei temi classici di contrapposizione tra i contribuenti persone fisiche: in particolare, dipendenti pubblici che hanno il reddito sicuro e garantito vs lavoratori autonomi che eguali garanzie non hanno e quindi si “difendono” evadendo le imposte e vs dipendenti privati che non hanno alcuna effettiva garanzia di tutela del posto di lavoro, tanto più con il precariato diffuso del XXI secolo.
Ovviamente la minor tassazione, per applicazione della detrazione, a parità di reddito, andrebbe accordata ai lavoratori autonomi solo qualora abbiano pienamente rispettato gli “indici di affidabilità fiscale”.
Comunque sia, alla base di questo e di analoghi ragionamenti di politica fiscale, sta l’assioma, non credo affatto “illuministico”, che un fisco più equo possa, ragionevolmente, diventare un fisco “più accettato” e che perciò possa ambire ad essere più rispettato.
Altra questione è poi quella di “come si paga” ossia dei rapporti formali/procedimentali tra gli enti impositori ed i contribuenti.
E’ indubitabile che su questo piano negli ultimi anni, a partire dalla legge 212/2000 (statuto dei diritti dei contribuenti), si è fatta molta strada, dall’accertamento con adesione agli interpelli, generale e speciali.
Certamente si può fare di più, soprattutto ed essenzialmente sul piano del contraddittorio procedimentale, trattandosi di uno strumento essenziale di compliance fiscale, che notoriamente ancora non è un principio generale dell’azione amministrativa tributaria italiana. Quindi tale principio deve essere generalizzato anche ai “tributi non armonizzati”, essendolo allo stato solo per quelli “armonizzati” (IVA, tributi doganali, accise).
Peraltro è anche sul terreno dei rapporti fisco/contribuente che si è fatto apprezzare il “modello agenziale” di gestione dei tributi introdotto con la riforma di inizio secolo, rivelandone le potenzialità derivanti da una notevolmente maggiore flessibilità organizzativa rispetto al tradizionale “modello ministeriale”.
Quindi, in conclusione sul punto, chiedere il “giusto” e parlare molto prima di agire: questi dovrebbero essere i principi di base dell’azione amministrativa di attuazione dei tributi.
3. Un imperativo: aggredire con –vera- determinazione l’evasione tributaria
Tuttavia, il problema del “contribuente infedele” non si risolve solo con l’equità e la compliance. E’ perciò inevitabile che lo Stato e gli altri enti impositori debbano mostrare anche il “volto delle armi” ossia far valere la forza della legge, costituzionale e tributaria.
In questa direzione, la prima via è senz’altro quella dell’istruttoria amministrativa ossia dell’azione accertatrice degli enti impositori.
Va detto che per quanto riguarda le c.d. “grandi imposte” statali (IRPEF, IRES, IVA) i margini di miglioramento sono molto ampi. C’è ancora troppo approccio burocratico nell’attività di verifica delle agenzie fiscali e della GdF, troppa dipendenza da statistiche “viziate” dalla prevalenza del credito ’”accertato” sul credito che poi si consolida effettivamente ed ancor più sul credito “riscosso”.
Così si mira a raggiungere risultati sostanzialmente fasulli, che servono ai giornali e non alle casse dello Stato. Ed infatti negli anni le percentuali di effettivo recupero dei tributi evasi si sono mantenute su livelli del tutto insoddisfacenti, molto lontani dai ricorrenti reboanti comunicati sul recupero dell’evasione fiscale.
Si tratta dunque di cambiare radicalmente il sistema dei controlli e degli accertamenti, soprattutto dei loro targets, certamente con l’aiuto dell’informatica, sempre più rilevante, senza però dimenticare che gli applicativi non funzionano da soli e vanno indirizzati con l’intelligenza umana.
Una seconda via è sicuramente quella normativa, i cui steps di partenza generali sono piuttosto chiari: semplificazione e codificazione.
Vi è infatti una pressante necessità di chiarezza dei quadri normativi, dal generale al particolare, dai procedimenti attuativi delle imposte alla strutturazione delle medesime.
Poi però bisogna anche riconfigurare almeno in parte il repertorio dei tributi, ovviamente all’interno dei vincoli di diritto unionale, primario e derivato, quindi, sostanzialmente, quello dei tributi “non armonizzati” ossia essenzialmente quelli diretti.
In questa grande sottocategoria, che poi costituisce, assieme all’IVA, la fonte principale del gettito erariale proprio, appare necessario spostare –sensibilmente- il peso dell’imposizione dal reddito al patrimonio.
Si tratta indubbiamente di un’operazione alquanto delicata, ma altrettanto necessaria, per ragioni allo stesso tempo di equità e di efficienza del prelievo fiscale.
E’ infatti indubbio che il patrimonio è “reddito risparmiato” (da qualcuno) e tendenzialmente già tassato, che perciò rischia di essere tassato due volte.
Non è tuttavia sempre così, poiché è evidente che l’ammontare storico dell’evasione fiscale, piccola o grande che sia stata, da qualche parte sarà pur finito, nelle banche e nelle finanziarie dei paradisi fiscali, nelle campagne o nei palazzi italiani o nel capitale finanziario/di rischio delle imprese, piccole e grandi, italiane.
In ogni caso il (possesso del) patrimonio è un indice sicuro di “capacità contributiva”, molto più attendibile ad esempio, di quello evanescente dell’IRAP, che pure è imposta che il suo gettito, per nulla irrilevante, ormai da quasi 25 anni lo dà.
Dunque è mia opinione che, pensare ad una patrimoniale diffusa, a “bassa intensità”, ma a gettito rilevante per il bilancio dello Stato, come forma di prelievo ordinario, non può essere affatto considerato quasi un’ ”eresia comunista”, quanto piuttosto come un’idea di politica fiscale utile e ben fondata sulla Costituzione.
Del resto, per tornare per un attimo alle premesse sulle prospettive ingenerate dalla pandemia, nell’immediato futuro questo tipo di imposta dovrà essere messa nell’agenda del Governo italiano che dovrà portarci fuori dalla difficile situazione economico finanziaria dei prossimi mesi ed anni (speriamo non troppi).
Sempre sul piano della produzione normativa necessaria per un vero “cambio di passo” del Fisco italiano appare infine indispensabile –anche- una politica più severa nel campo del diritto penale tributario.
Trattandosi di misure della massima offensività per libertà e diritti fondamentali, è del tutto ovvio che bisogna discuterne con molta cautela.
Tuttavia bisogna partire da un assioma chiaro: non adempiere fedelmente ai propri doveri tributari è un fatto comunque grave e che può essere anche molto grave (entità del danno erariale; frodi).
Pensiamo solo all’emergenza sanitaria che viviamo: in questo particolarissimo momento storico risulta ancora più evidente che l’evasore fiscale che si avvale del sistema pubblico sanitario ottiene un servizio che, in misura più o meno rilevante, non ha pagato e che per lui pagano altri.
Allora non si tratta certo di emanare le classiche grida manzoniane, quanto piuttosto di equiparare, una volta per tutte, quoad poenam e relativi effetti penali, le condotte fiscalmente più gravi, in particolare le frodi, ai più gravi delitti contro il patrimonio, come la bancarotta fraudolenta o meglio ancora la rapina e l’estorsione.
Si sa che il deterrente penale ha i suoi limiti, ma fin qui in Italia ne siamo stati fin troppo distanti e bisogna perciò provare davvero a testarli, in un’ottica sanzionatoria che punti davvero all’effettività della pena.
4. Misure di giustizia
In questo quadro, è evidente che la giustizia debba avere un ruolo di maggior presenza e quindi di maggior peso.
Intendo, univocamente, la giustizia ordinaria, sotto due profili complementari.
Il primo, quello della giustizia penale.
Infatti, non basta rimodulare in senso più fermo le sanzioni. Bisogna potenziare l’azione di contrasto delle Procure e migliorare la competenza specialistica dei giudici.
In ordine all’azione di indagine preliminare appare necessario che si adottino le determinazioni organizzative idonee ad avere presso ogni ufficio del pubblico ministero un nucleo di magistrati specializzato nei reati tributari, sì che l’azione di polizia tributaria abbia il necessario impulso e coordinamento direttivo, in modo specificamente adattato alle peculiarità delle modalità di evasione fiscale che si concretizzano nei singoli territori.
Tale forma organizzativa deve essere interfacciata “a specchio” in quella dei tribunali, ma anche delle Procure generali e delle Corti di appello.
Il consolidamento dell’organizzazione degli uffici deve essere accompagnato dall’intensificazione dell’attività formativa della Scuola superiore della magistratura, sia in sede territoriale sia in sede centrale.
Ma il penale non basta affatto. Appare infatti ormai improcastinabile una radicale riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria “civile”.
Come non ci possiamo più permettere 100 miliardi euro all’anno di evasione fiscale, correlativamente nemmeno ci possiamo più permettere una giurisdizione sulle conseguenti liti affidata a giudici non specificamente attrezzati ed addirittura nemmeno impiegati in via esclusiva a “tempo pieno”.
In altri termini, l’indispensabile potenziamento dell’azione amministrativa (e finanche penale) di affermazione concreta dell’obbligo di contribuzione fiscale non può più rimanere nelle mani di un apparato giudiziario privo di un’accettabile solidità ordinamentale e professionale.
Insomma, ad un’azione amministrativa più forte e decisa deve corrispondere un giudice ugualmente forte, quale imprescindibile garanzia e presidio sia dei diritti dei contribuenti sia dell’interesse dello Stato-comunità all’acquisizione delle risorse che gli occorrono.
Dunque, la magistratura ordinaria non può più sottrarsi dal dovere di fare la sua parte anche in questo negletto settore di giustizia, per la semplice ragione che la collettività nazionale ne ha la necessità, da tempo peraltro evidente, ora impellente.
5. Osservazioni finali
“Il contribuente è uno che lavora per lo Stato senza essere un impiegato statale” (Ronald Reagan); “Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti” (Margaret Thatcher).
Mi auguro che il COVID 19 se ne vada via presto dalle nostre vite, ma che non si dimentichi di portare con sé la “filosofia” espressa in queste due frasi e la realtà storica che ne è stata la sciagurata conseguenza, efficacemente espressa in quest’altra: “I ricchi non sono come noi: loro pagano meno tasse” (Peter De Vries).
Se in particolare in Italia si invoca e si sente la necessità di “ripartire tutti assieme” da questo brusco e drammatico stop della nostra vita comunitaria, a mio avviso “assieme” vuol dire solidaristicamente, come è scritto nel principio supremo dell’art. 2 della Costituzione.
“Ripartire” non è peraltro una parola vuota, ma un insieme di comportamenti, privati e pubblici, molti dei quali implicano l’impiego di risorse economiche: per la sanità e per lo sviluppo.
Queste risorse devono venire –in Italia principalmente- dall’assolvimento del dovere di tutti coloro che appartengono alla comunità nazionale di darle in base alla loro capacità contributiva ed in modo uguale, secondo gli altri fondamentali principi dettati dagli artt. 53 e 3 della Costituzione medesima.
Il contribuente non è infatti un “impiegato statale”, bensì di sé stesso, perché è lui che nasce, di norma, in un ospedale pubblico, che poi lo cura durante la sua vita; è lui che, di norma, si istruisce in una scuola pubblica; è lui che viaggia sulle strade pubbliche e che riceve protezione dalle forze di polizia; è lui che ha diritto di chiedere ed ottenere giustizia, anche fiscale, dalle istituzioni giudiziarie.
E non è poi affatto vero che la “torta” diverrà più piccola per tutti con la diminuzione del peso fiscale. Come le esperienze del liberismo dimostrano, diverrà più piccola solo per i meno ricchi, perché avranno meno servizi pubblici, in una parola sola meno welfare, mentre più grande sarà quella a disposizione di chi ha di più.
Ed infatti negli ultimi trent’anni di liberismo imperante le disuguaglianze sono aumentate a dismisura, ben oltre un accettabile limite etico.
Se dunque è all’ordine del giorno delle democrazie liberali una ripresa forte del ruolo dello Stato nell’economia e nella società, se lo deve essere anche in Italia, allora l’Italia deve prendere finalmente sul serio la questione fiscale.
E lo deve fare con equità, ma con giustizia.
La disciplina della formazione del contratto nell’esperienza giuridica italiana e in quella inglese. Brevi spunti di riflessione di Carlo Bruni
sommario: 1. Introduzione. - 2. Principali classificazione dei contratti nel diritto inglese. - 3. Conclusione del contratto. - 4. Termine temporale dell’accettazione. - 5. Controproposta. - 6. Esecuzione prima della risposta dell’accettante. - 7. Proposta irrevocabile. - 8. Morte del proponente o del destinatario. -9. Conoscenza dell’offerta e dell’accettazione. - 10.Offerta al pubblico. -11. Il ruolo della buona fede
1. Introduzione
Il corpus del diritto contrattuale inglese ha fondamento non già in un codice o in un articolato normativo complesso, bensì nelle regole poste dalle decisioni giurisprudenziali[1]. E’, altresì, vero che vi sono leggi che tratteggiano speciali figure di contratto (mi riferisco ai contratti di lavoro, a quelli arbitrali, di trasporto aereo, di trasporto merci per terra e per mare, di prestito al consumo, etc…)[2].
L’ingresso della Gran Bretagna e dell’Irlanda nella Comunità Europea (1973) ha introdotto nel sistema delle fonti del diritto tipico dei paesi di common law una legislazione di produzione comunitaria che ha determinato l’obbligo di adeguamento (che non può essere realizzato per via giurisprudenziale) alle politiche dell’Unione per via legislativa. Tale scelta di politica legislativa ha alterato la tradizionale prospettiva all’interno della quale si ponevano i sistemi di common law imponendo importanti rivisitazioni di modelli concettuali consolidati.
Questa deriva ha interessato ampi settori, dal diritto commerciale a quello del lavoro, dall’amministrativo al processuale, ed ha influenzato sia il rapporto fra formanti giurisprudenziali e legislativi, sia il piano dell’interpretazione; tuttavia, l’esito del voto del referendum favorevole all’uscita dalla UE, c.d. Brexit, potrebbe nuovamente modificare questo scenario[3].
Lart. 1321 del nostro codice definisce il contratto come “l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Secondo questa definizione il contratto stesso si identifica con l’accordo di volontà. La differenza tra questa impostazione concettuale di contratto e quella romana di contractus è netta: contractus per i romani era il vincolo che si costituiva in conseguenza di un accordo e non l’accoro medesimo che andava sotto il nome di conventio, consensus, pactum, pactio, pactum convenctum. Ebbene il concetto di contract inglese è molto più vicino al concetto romano che a quello italiano di contratto.[4]
Il contratto inglese[5] tradizionalmente è definito dalla dottrina anglosassone come un impegno dal quale sorgono diritti e doveri tra le parti; diritti che – se azionati – possono ottenere tutela e protezione in sede giudiziale: “a contract consists of an actionable promise or promises….The parties to a contract make the law for themselves which the law will uphold[6]”.
Il contratto è un accordo (agreement) con il quale si costituisce (o si intende costituire) una obbligazione legale (legal obligation) tra le parti[7].
Il contract è, quindi, essenzialmente una promessa che vale sul piano giuridico.
La legge che regola il contratto è, in sintesi, quella branca del diritto che stabilisce le circostanze nelle quali una promessa è legalmente vincolante.
Riportando le parole di un noto giurista inglese potremmo affermare che “a promise may be defined as a declaration or assurance made to another person stating that a certain state of affairs exist, or that the maker will do, or refrain from, some specified act, and conferring on that other a right to claim the fulfilment of such declaration or assurance. It involves, therefore, two parties at least, one making and the other receiving the declaration with respect to the future, whom we call respectively the promisor and promisee” (ANSON’S Law of Contract 25th Edition, 1973, p. 2)[8].
Il fatto che la maggior parte dei contratti sorgano da un accordo tra le parti ha condotto molti giuristi inglesi a sottolineare la natura soggettiva dell’obbligazione contrattuale rilevando che l’essenza del contratto è l’incontro delle volontà delle parti (teoria soggettiva del contratto; “the essence of a contract was said to be the meeting of the wills of the parties: an agreement was the outcome of free and consenting minds”, cfr ANSON op. cit).
Il fondamento di tale teoria risiede nella filosofia politica del diciottesimo secolo avente ad oggetto il concetto della libertà umana ed espressa negli scritti di Adam Smith la cui influente opera “The Wealth of Nations” pubblicata nel 1776 ha fornito la prima approfondita analisi dell’impresa capitalistica.
In estrema sintesi, secondo Adam Smith nel libero mercato gli individui, pur proponendosi di perseguire soltanto il proprio tornaconto, collaborano inconsapevolmente all'innalzamento del benessere collettivo. È il principio della "mano invisibile", che nel corso della sua opera Smith precisa collegandolo appunto all'operare del mercato.
La libertà contrattuale, nei termini che meglio avvantaggiano l’individuo/contraente, divenne la base teorica su cui si fondò la dottrina del laissez faire.
La teoria soggettiva del contratto – sostiene Anson - costituisce un ideale sociale razionale solo nella misura in cui possa esser garantita l’uguaglianza sostanziale tra le parti contraenti; e sempre che l’interesse della comunità, nella sua interezza, non venga pregiudicato.
Secondo Anson, a fronte della sostanziale disparità di potere contrattuale tra le parti, sono state emanate – tra le altre - le leggi inglesi contro i licenziamenti illegittimi (sia individuali che collettivi), le leggi sulla locazione dei beni immobili, le leggi a tutela del consumatore. Tali previsioni di legge prevalgono su ogni contrario termine contrattuale predisposto dalle parti.
Inoltre, la legge è intervenuta con il Restrictive Trade Practices Act 1976 ed il Fair Trading Act 1973 al fine di promuovere la concorrenza nel mercato e di salvaguardare l’interesse dei consumatori.
L’intervento legislativo è quanto mai necessario, sostiene Anson, allorquando la maggior parte dei contratti posti ordinariamente in essere non sono il frutto di negoziazione individuale. Invero, i “contratti conclusi mediante moduli e formulari” per usare la formula adottata dall’art. 1342 c.c. (standard form contract, in inglese) sono la regola nel diritto inglese e non l’eccezione. Di tal che la libertà contrattuale (nei confronti, ad esempio, delle società di forniture elettriche o di trasporto) appare una illusione in molte transazioni effettuate dai consumatori.
Alla teoria soggettiva del contratto si contrappone, quindi, la teoria oggettiva del contratto che pone la sua enfasi sulla legittima aspettativa che sorge dalla condotta delle parti (when the law enforces a promise, it does so in order that the promisee’s reasonable expectations of performance should not be disappointed. It is therefore immaterial whether or not the promise truly represents the intentions of the promisor”)[9].
In G Percy Trentham Ltd v Archital Luxfer Ltd & Others [1993] è stato affermato che “la legge inglese generalmente adotta la teoria oggettiva della formazione del contratto rilevando che essa generalmente ignora le aspettative soggettive e le riserve mentali inespresse delle parti, allorquando invece il criterio che governa la formazione del contratto è la ragionevole aspettativa dell’uomo onesto”.
Pertanto, il diritto inglese, nell’elaborare la teoria oggettiva del contratto, pone l’accento sul requisito oggettivo della promessa che sta alla base della tutela dell’affidamento ragionevole. In alte parole il contract inglese non si riporta ad un incontro di consensi, a una norma che trovi la sua fonte in un incontro di volontà paritetiche; si riporta invece all’idea di responsabilità.
Anche in Italia, ricorda autorevole dottrina[10], “il tragitto storico fra ottocento e novecento ha segnato il passaggio da una concezione prevalentemente soggettiva a una concezione prevalentemente oggettiva del contratto”.
Il dogma della volontà – che sta alla base della concezione soggettiva – “porta notevoli conseguenze pratiche relative al trattamento dei contratti: perché qualunque fatto problematico, che tocchi la volontà del contraente, mette in discussione il contratto ed i suoi effetti. Se la volontà scaturisce da una sfera fisiopsichica menomata o non matura (ad esempio perchè è volontà di un soggetto incapace di intendere o di volere) il contratto va sempre cancellato. Se la volontà si forma sotto l’influenza di fattori psichici che la disorientano (es. errore del soggetto) il contratto va sempre cancellato…la divergenza fra volontà dichiarata e volontà reale porta sempre alla cancellazione del contratto. E così via. A questi criteri si informa il diritto ottocentesco dei contratti…Ma il dogma della volontà è nemico della certezza delle relazioni: se il contratto può essere cancellato per fattori che appartengono alla sfera psichica delle parti, in ogni contratto la parte soggiace al rischio che i suoi diritti contrattuali vengano azzerati da fattori impalpabili, incontrollabili, inconoscibili; ciascuna parte vive il proprio contratto nella sgradevole e scoraggiante dimensione dell’incertezza. Questo deprime la voglia di intraprendere. Ma una depressione dell’intrapresa è intollerabile per gli sviluppi del capitalismo. Si spiega così la transizione dalle concezioni soggettive – fondate sul dogma della volontà e per questo portatrici di incertezza – a concezioni oggettive del contratto idonee a collocare l’attività e le posizioni dei contraenti in una dimensione di maggiore certezza dei rapporti” [11].
2.Principali classificazione dei contratti nel diritto inglese.
Il diritto inglese distingue i contratti in unilaterali (unilateral) e bilaterali (bilateral). Questa distinzione non riguarda la struttura soggettiva del contract che come rapporto deve necessariamente ed in ogni caso coinvolgere due parti. Nel contratto unilaterale il proponente invece di richiedere che l’oblato con la sua accettazione si impegni ad assumere una obbligazione può benissimo richiedere che tale accettazione si abbia in una con l’esecuzione (o con l’avvio dell’esecuzione) diretta di una determinata prestazione (di dare, fare o non fare).
I contratti unilaterali sono caratterizzati dal loro costituirsi tra un “promettere” e un “adempiere”. L’accettazione dell’offerta da parte dell’oblato è immanente nell’esecuzione (o nell’inizio dell’esecuzione) dell’atto richiesto dallo stesso proponente all’oblato.
Il proponente può sempre revocare la sua offerta e, comunque, non è mai vincolato alla sua promessa finché il destinatario non compia (o quanto meno inizi ad eseguire) la sua prestazione (Carlill v Carbolic Smoke Ball Co [1893]; Errington v Errington [1952]).
La regola di formazione dell'unilateral contract emerge in modo molto netto nel famosissimo caso citato: Carlill v. Carbolic Smoke Ball. La Carbolic Smoke Ball progetta e brevetta un macchinario che, se usato correttamente, impedisce l'insorgere dell'influenza. La Carbolic è talmente sicura dell'efficacia del congegno da promettere una somma consistente di denaro a chi, pur utilizzandolo correttamente, contraesse l'influenza. La signora Carlill compra il congegno, lo usa correttamente e si ammala. Fa dunque causa alla Carbolic per ottenere la somma di denaro promessa.
Il giudice ha stabilito che il fatto di aver acquistato, maneggiato il macchinario e contratto comunque l'influenza integrava un'accettazione nel quadro di una fattispecie riconducibile allo schema dell'unilateral contract, dove alla proposta poteva seguire una condotta che comportava la formazione del rapporto contrattuale e, di conseguenza, produceva effetti obbligatori in capo al proponente.
Pertanto, la Carbolic dovette corrispondere la somma di 1000 sterline alla signora Carlill. Il principio sancito dalla Corte inglese è che l'inizio dell'esecuzione della prestazione fa si che la proposta diventi irrevocabile. Quando il proponente propone, ed il destinatario della proposta inizia ad eseguire la prestazione richiesta, ecco che il proponente non può più recedere.
Nell'unilateral contract – ha statuito il Giudice nella causa Errington v Errington - non è necessario, perché il rapporto contrattuale sorga, che l'oblato esegua interamente la prestazione richiesta: è sufficiente che inizi tale esecuzione.
Ed infatti nel suddetto caso si ritenne irrevocabile l’offerta di un soggetto di donare la propria casa al figlio ed alla nuora, a condizione che costoro contribuissero a pagare le rate del mutuo una volta che era stata iniziata, anche se non conclusa, la loro prestazione.
In un recente giudizio, (Schweppe v Harper [2008] EWCA Civ 442) è stato dichiarato quanto segue “An offer of a unilateral contract is made when one party promises to pay the other a sum of money (or to do some other act, or to forbear from doing something) if the other will do (or forbear from doing) something without making any promise to that effect: for example where A promises to pay B £100 if B will walk from London to York or find and return A's lost dog or give up smoking for a year. The contract in these cases is called "unilateral" because it arises without B's having made any counter-promise to perform the stipulated act or forbearance; it is contrasted with a bilateral contract under which each party undertakes an obligation. The distinction between the two types of contract is not always clear-cut.; but once a promise is classified as an offer of a unilateral contract, a number of rules apply to the acceptance of such an offer. First, the offer can be accepted by fully performing the required act or forbearance. Secondly, there is no need to give advance notice of such acceptance to the offeror. Thirdly, it is probable that the offer can be accepted only by some performance and not by a counter-promise, since such a counter-promise would not be what the promisor had bargained for. And fourthly, the offer can, like all offers, be withdrawn before it is accepted. It is the application of this fourth rule which gives rise to the greatest difficulty, for it raises the question of exactly when acceptance of such an offer can be said to have occurred.”
In altre parole, l’unilateral contract è geneticamente tipizzato dalla circostanza che l’assunzione dell’impegno obbligatorio da parte del preponente è subordinato alla condizione dell’adempimento della prestazione da lui richiesta all’oblato. Ne consegue che l’accettazione da parte di questo non può essere fatta che in una sola maniera, e cioè eseguendo di fatto la prestazione voluta dal proponente (Dahlia v. Four Millbank Nominees [1978]).
Nella suddetta sentenza è stata chiaramente fornita la definizione di contratto unilaterale: “Whilst I think the true view of a unilateral contract must in general be that the offeror is entitled to require full performance of the condition which he has imposed and short of that he is not bound, that must be subject to one important qualification, which stems from the fact that there must be an implied obligation on the part of the offeror not to prevent the condition becoming satisfied, which obligation it seems to me must arise as soon as the offeree starts to perform. Until then the offeror can revoke the whole thing, but once the offeree has embarked on performance it is too late for the offeror to revoke his offer”.
Si ha bilateral contract quando a ciascuna parte fanno capo correlative posizioni di debito e di credito (“each party undertakes an obligation” per usare le parole adottate nella citata sentenza della Corte inglese) per cui, con l’accordo raggiunto, ogni contraente è debitore (promisor) per la prestazione che deve fare e creditore (promisee) per quella che deve ricevere[12].
Gli impegni obbligatori reciprocamente assunti integrano le rispettive considerations[13] (letteralmente, il corrispettivo, la controprestazione rispetto alla promessa formulata; il quid convenuto come oggetto di scambio con la promessa, accanto alla semplice volontà di obbligarsi) essenziali per dare fondamento giuridico alla vincolatività dell’accordo. In sintesi essi contraenti sono entrambi promittenti.
Nel diritto inglese, con riguardo alla comunicazione dell’accettazione, per i contracts bilaterali è regola generale che l’accettazione dell’oblato deve sempre essere comunicata al proponente (Felthouse v. Bindley [1862]).
Gli unilateral contracts si sottraggono a questa regola, in quanto, essendo la loro accettazione incorporata nell’adempimento dell’atto voluto dall’offerente, tale adempimento può essere fatto all’insaputa di quest’ultimo come appunto ricorre nella fattispecie del caso Carlill v. Carbolic Smoke Ball Co in cui l’accettazione dell’oblato è stata individuata nell’avere egli contratto l’influenza nonostante il corretto uso del rimedio così come suggerito dall’offerente.
In Melhuish v. Redbridge Citizens Advice Bureau [2004] la Corte di Appello di Londra ha recentemente accertato quanto segue “a unilateral contract is not one in which there is no mutuality in the end, it is simply one in which, as in Carlill v Carbolic Smoke Ball Co 1893 1 QB 256, one party offers something if, in due course, the other party does something in return and then, by doing that act, the second party is accepting the offer and providing the consideration.
Anche l'ordinamento italiano conosce la figura del contratto unilaterale, ad esempio il contratto con obbligazioni del solo proponente di cui all'art. 1333 cod. civ. Il termine "unilaterale" in Italia è finalizzato a individuare quello schema contrattuale in cui una sola delle parti si assume delle obbligazioni. L'unilateralità dal punto di vista dell'impegno comporta una particolare regola dal punto di vista della formazione.
In Inghilterra, invece, l'unilateral contract non è un contratto in cui uno solo dei soggetti fa una proposta, bensì quel particolare schema contrattuale in cui l'accettazione anziché prendere la forma di un impegno volto a promettere l'esecuzione di una certa prestazione, prende la forma dell'esecuzione della prestazione richiesta dal proponente.
Il contratto “under seal” letteralmente contratto con sigillo (o deed) è un atto subordinato a precisi indici formativi e serve a dare valore giuridico impegnativo a numerosi atti convenzionali quali le donazioni (deeds of gift) o promesse unilaterali (deeds of covenant), le cessoni o le rinuncie di un diritto o le remissioni di un debito (deeds of relaease), i trasferimenti o le costituzioni, modificazioni o estinzioni di diritti reali (deeds of grant), le convenzioni transattive (deeds of composition) etc…
Sono contratti che necessitano di una forma scritta e solenne, quella del deed, che richiede la presenza di testimoni. In questo caso può mancare la consideration, perciò tali atti sono spesso utilizzati per contratti unilaterali e a titolo gratuito, per liberalità o per rinunce di un diritto. Il deed non costituisce semplicemente l’evidenza del contratto, ma “è” il contratto.
Un contratto under seal (specialty contract) è valido anche se privo di consideration, ma in caso di inadempimento il promissario può solo ottenere il risarcimento del danno e non l’adempimento di quanto convenuto (Jefferys v. Jefferys [1841]; Walrond Walrond [1858]; In re Lucan [1890]).
Nel diritto privato italiano non è dato riscontrare una forma analoga nelle sue funzioni a quelle del deed. Tali non lo sono le forme prescritte a pena di nullità.
Ivi, infatti, l’obbligazione o l’attribuzione patrimoniale in genere non deriva dalla forma per sé e quelle forme non servono per sé a rendere giuridicamente sanzionabile qualunque contratto. La causa o il tipo di contratto vi ha sempre influenza.
Una qualche analogia col deed si potrebbe vedere invece nel nostro atto notarile, in quanto parte dello schema formale-causale della donazione[14].
Il simple contract o parol contract, è il contratto ordinario non sottoposto ad alcuna forma specifica, e può essere oral contract (verbale) o written contract, se redatto per iscritto. La classica definizione lessicale di simple contract è, in sintesi, la seguente: “a contract which is not under seal, but is made orally or in writing”.
In estrema sintesi, quanto alla forma dei contratti nel diritto inglese, si può affermare quanto segue: “All contracts are either in writing under seal (“ specialty ” contracts) or otherwise expressed (“ parol ” or “ simple ” contracts) (Rann v. Hughes [1778])[15].
Nel diritto italiano la patrimonialità del rapporto esclude dall’ambito contrattuale il matrimonio ed in genere i rapporti parentali. Analogamente, il matrimonio in Inghilterra non è meramente un contratto[16], ma è l’esecuzione di un contratto “soddisfatto” (satisfied) dalla celebrazione, il quale crea tramite la legge una relazione tra le parti, uno status; relazione e status non sono definiti ed imposti dal contratto, ma dalla legge[17]. Nel caso Simonin v. Mallac [1860] si affermò che “il matrimonio è spesso chiamato contratto per convenienza, poiché si basa su un mutuo consenso, ma deve essere più appropriatamente definito come uno status che dà esecuzione ad un contratto”[18]. Si legge, altresì, testualmente nella sentenza che “marriage is an affair, not of contract, but of status”.
In altre parole, il matrimonio inglese trae - si - origine da un accordo di natura contrattuale, ma sfocia in una serie di relazioni, di diritti e di obblighi reciproci i quali, piuttosto che dalla volontà dei contraenti, derivano la propria esistenza dalla novella posizione giuridica assunta nell’ordinamento dagli sposi: in una parola dal loro status coniugale; inteso, quest’ultimo, quale valore qualificativo del soggetto che ne è titolare, rispetto al gruppo sociale di appartenenza[19].
Nella sentenza Niboyet vs Niboyet [1878] è stato accertato che il matrimonio è un contratto in quanto l’accordo delle parti è essenziale per la valida costituzione del vincolo; ma una volta celebrato il matrimonio crea una relazione personale ed uno status: “Marriage is the fulfilment of a contract satisfied by the solemnization of the marriage, but marriage directly it exists creates by law a relation between the parties and what is called a status of each. The status of an individual, used as a legal term, means the legal position of the individual in or with regard to the rest of a community. That relation between the parties, and that status of each of them with regard to the community, which are constituted upon marriage are not imposed or defined by contract or agreement but by law”.
3.Conclusione del contratto
Nel diritto italiano la proposta e l'accettazione sono delle dichiarazioni di volontà unilaterali recettizie che portano alla formazione del contratto, contribuendo alla realizzazione dell'accordo con il quale le parti costituiscono, modificano o estinguono dei rapporti giuridici patrimoniali.
Secondo alcuni interpreti si tratta di atti negoziali, secondo altri di atti prenegoziali (Corte di Cassazione sentenza n. 75/1993, FI 75, I, 1762).
Ai sensi di quanto disposto dal primo comma dell'articolo 1326 del codice civile, il contratto deve ritenersi concluso quando la parte che ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra.
La proposta può essere definita come la dichiarazione che contiene tutti gli elementi del contratto, emessa manifestando l'intenzione di obbligarsi.
L'accettazione, invece, è la dichiarazione diretta al proponente (ovvero il comportamento concludente, nel caso di accettazione c.d. "tacita"), che contiene l'accoglimento della proposta ed avente carattere recettizio, nel senso che essa deve essere rivolta al proponente o a un suo valido rappresentante, in condizione di riceverla.
Dall'esame sistematico delle norme codicistiche, si ricavano una serie di requisiti indispensabili affinché l'accettazione possa ritenersi valida; tra questi meritano particolare importanza la piena conformità rispetto alla proposta (altrimenti vale solo come controproposta ex art- 1326, 5° comma; C. 94/4274; 81/5261), la tempestività (poiché deve pervenire entro un congruo termine che è fissato dallo stesso proponente ovvero reso necessario dalla natura dell'affari o dagli usi), nonché il rispetto della forma eventualmente richiesta dal proponente per l'accettazione[20].
Il contratto si conclude ove la proposta sia difforme ma l’accettazione conforme a clausole previste da norme imperative (ad esempio sul prezzo o sulla durata) perché comunque opererebbero gli articoli 1339 e 1419 2° comma c.c.
L'accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario secondo la natura dell'affare o secondo gli usi (1326 2° comma) perchè non è lecito vincolarsi (anche ad una proposta revocabile) a tempo indeterminato (cfr Cass. N. 13776/2014 secondo cui “…nel nostro ordinamento non sono ammessi impegni irrevocabili a vendere che abbiano durata indeterminata, poichè essi si risolvono in una limitazione del potere di alienazione e in definitiva in una restrizione del principio di libera circolazione dei beni”).
Il proponente può ritenere efficace l'accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all'altra parte (1326, 3° comma).
Nel diritto inglese offer è l’atto di iniziativa con cui un soggetto propone all’oblato che egli assumerà nei suoi confronti una determinata obbligazione se, in contraccambio, lo stesso oblato accetterà di assumerne un’altra (bilateral contracts) ovvero aderendo alla proposta, compirà quella determinata prestazione (unilateral contracts) indicata nella stessa proposta.
La proposta pone le condizioni del regolamento contrattuale; ha la funzione di determinazione del contenuto del costituendo rapporto sia per quanto riguarda la prestazione per la quale l’offerente intende obbligarsi sia per quanto riguarda la prestazione che l’oblato è invitato ad assumere o ad eseguire.
L’offerta deve esprimere la precisa intenzione del proponente di voler dare luogo ad un rapporto giuridico con l’oblato. Per questa ragione non vanno ricollegati effetti giuridici agli inviti, alle proposte, per intese di collaborazione o assistenza familiare (Balfour v. Balfour [1919]).
Nella citata sentenza Balfour si fa l’esempio di due parti che si accordano per fare una passeggiata insieme o della offerta ed accettazione di ospitalità. Entrambi le fattispecie non realizzano ipotesi di contratto, così come la maggior parte degli accordi tra marito e moglie non costituiscono contratti. Tali accordi, pur contenendo promesse reciproche e pur non essendo privi di consideration, non sono contratti in quanto le parti non hanno inteso attribuirgli conseguenze giuridiche: “agreements such as these are outside the realm of contracts altogether”.
Il caso Balfour è spesso citato insieme a Merritt v Merritt [1970] nel quale marito e moglie quando si vincolarono contrattualmente non erano sposati e quindi l’accordo fu sottoscritto con la espressa intenzione di creare una obbligazione giuridicamente vincolante.
In modo sintetico è stato affermato che “there is no contract if it is to be gathered from the language or acts of the parties, or form the circumstances of the case, that the parties did not intend to create a legal obligationi between them.”[21] Come è stato affermato da Pollok (in “Principles of Contract”, 7th ed. p. 3) un accordo foriero di conseguenze giuridiche è un atto nella legge (act in the law).
Con riguardo alla circostanza che l’offerta deve essere espressione della intenzione dell’offerente di vincolarsi con il destinatario di essa, va anche precisato che la stessa offerta deve essere distinta da un invito a fare offerte o, in generale, da un invito a trattare (invitation to treat) che postula semplicemente la volontà del proponente di venire in contatto col relativo destinatario per l’eventuale conclusione di un contratto (es. l’invio di un catalogo di merci in vendita, con o senza prezzo segnato, ha lo stesso valore dell’esposizione di merci in vetrina o della loro reclamizzazione con qualsiasi mezzo pubblicitario: questi comportamenti costituiscono di regola un invito a fare una offerta (Patrtridge v. Crittenden [1968]; Fisher v. Bell [1961]).
Nell’offerta devono essere indicati tutti i termini e tutte le condizioni destinate a formare il contenuto del rapporto contrattuale secondo quella che è la prospettiva del proponente. Termini vaghi non valgono a costituire una valida offerta (Guthing v. Lynn [1831])[22].
Non può ricorrere nessun accordo se l’oblato non conosce esattamente i termini e le condizioni del rapporto che lo deve vincolare. Ma è essenziale rilevare come, data la particolare natura e funzione dell’offerta, sia preciso onere dell’offerente rendere noto il suo contenuto all’oblato il quale, dopo l’accettazione, potrà ritenersi vincolato alla proposta solo nei termini in cui questa gli è stata presentata.
In ordine a questo principio, relativamente, ad esempio, alla conclusione dei contratti di trasporto con l’amministrazione ferroviaria o con altre amministrazioni di trasporti pubblici - conclusione che importa l’uso di uno speciale documento scritto, il biglietto, in cui le condizioni di trasporto non possono materialmente essere indicate per esteso – il vettore ha il dovere di richiamarle, indicando il modo con cui possa prendersene completa visione e conoscenza. In questo particolare caso le condizioni di cui è parola, in quanto specificamente richiamate, si intendono come notificate all’interessato qualora il modo indicato per venirne a conoscenza sia alla portata di ogni persona di normale diligenza[23] (Thompson v. London, Midland and Scottish Rail C. [1930]).
Tale principio di diritto inglese richiama l’art. 1341, primo comma c.c. secondo cui “Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza.”
La suddetta norma prevede una situazione nella quale le clausole disposte unilateralmente restano “interne” e non vengono a far parte di un contesto contrattuale da accettare espressamente; pertanto essa appare una palese eccezione alla regola dettata dall’art. 1322, primo comma in materia di libertà di fissare il contenuto del contratto[24]. La norma è, evidentemente, opportuna per le esigenze di traffico.
Le condizioni generali costituiscono un vero regolamento contrattuale che una parte può predisporre e che per legge diviene efficace solo perché esiste, anche senza un richiamo, richiesto invece dal diritto inglese (Thompson v. London, Midland and Scottish Rail C. [1930]).
Nel diritto italiano, lo sforzo di diligenza - per espresso dettato legislativo - non è a carico del predisponente il quale non è tenuto a rendere conoscibili le clausole alla controparte.
L’accettazione nel diritto inglese deve essere comunicata; l’accettazione “mentale” o la mera acquiescenza, senza nulla più, non costituiscono accettazione. Una tacita formazione dell’intenzione, ci dice Anson, non è sufficiente. Ma anche a fronte di un atto manifesto o di una espressione verbale che forniscono la evidenza di tale intenzione il diritto inglese stabilisce che, in aggiunta, l’accettazione non sia completa a meno che - e fino a che - non sia comunicata all’offerente. Usando le parole di Lindley L.J. si può affermare quanto segue: “Unquestionably, as a general proposition, when an offer is made, it is necessary in order to make a binding contract, not only that it should be accepted, but that the acceptance should be notified”[25].
In sintesi, l'accettazione deve essere comunicata al proponente: il mero silenzio non vale a presumere alcuna accettazione. La regola trova, altresì, applicazione nel caso Felthouse v. Bindley (1862).
Anche in Italia si discute se il mero silenzio sia sufficiente a configurare dichiarazione tacita: la tesi maggioritaria ritiene necessario che si tratti di silenzio circostanziato, cioè accompagnato da precise circostanze quali, ad esempio, l'onere per la parte di fare una dichiarazione all'assenza della quale la legge o le parti ricollegano la produzione di un preciso un effetto.
La Corte di cassazione (sez. civile III) con la nota sentenza del 14/05/2014 n° 10533, in tema di formazione del contratto, ha accertato che l'accettazione non può essere desunta dal mero silenzio serbato su una proposta, pur quando questa faccia seguito a precedenti trattative intercorse tra le parti, delle quali mostri di aver tenuto conto, assumendo il silenzio valore negoziale soltanto se, in date circostanze, il comune modo di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l'onere o il dovere di parlare, ovvero se, in un dato momento storico e sociale, avuto riguardo alla qualità dei contraenti e alle loro relazioni di affari, il tacere di uno possa intendersi come adesione alla volontà dell'altro. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, si è ritenuto che il silenzio di un istituto di credito, seguito ad una proposta transattiva formulata da un correntista mediante una missiva, non avesse i caratteri di accettazione della proposta, di cui agli artt. 1326, co. 1 e 1335 c.c.).
4. Termine temporale dell’accettazione
L’offerta, se non è revocata o rifiutata, perde la sua efficacia per il decorso del tempo. Può darsi tuttavia che nell’offerta non sia fissato il tempo entro il quale essa possa ritenersi operante.
Per questa ipotesi nel sistema giuridico inglese vige il principio (analogo a quello contenuto nelle norme del codice civile ex art. 1326, 2° comma c.c.) che l’offerta perde la sua efficacia decorso un periodo di tempo ragionevole relativamente alla natura della stessa offerta ed alle circostanze inerenti alla costituzione del rapporto: così, ad esempio, poche ore possono essere un periodo di tempo sufficiente nel caso di una offerta di vendita di azioni (Ramsgate Victoria Hotel Co v. Montefiore [1886]), mentre parecchie settimane o alcuni mesi possono non bastare nel caso di una offerta (di vendita o di acquisto) di un grande complesso immobiliare (Manchester Diocesan Council for Education v. Commercial and General Investments Ltd [1969].
“An offer lapses when a) the person to whom it is made fails to accept it within the time or in the manner prescribed by the offeror, or, if no time or manner is prescribed, within a time or in a manner reasonable under the circumstances[26], b) the offeree communicates his refusal of the offer, or makes a counter-offer[27], c) either party dies[28]”.[29]
5.Controproposta
L’accettazione deve essere conforme alla proposta vigendo anche nel diritto inglese il principio accolto dall’art. 1326, 5° comma c.c. per cui “una accettazione non conforme alla proposta equivale ad una nuova proposta”. L’accettazione deve essere, pertanto, definitiva.
Secondo un orientamento giurisprudenziale dei Giudici italiani un’accettazione non conforme (la c.d. controproposta) non impedirebbe però all’oblato di accettare, in un successivo momento, la proposta originaria (nel senso che questo sarebbe possibile solo qualora si dimostri la perdurante volontà di tenere ferma l’originaria proposta anche dopo il rifiuto dell’accettazione (v. Cass. 19.11.1983 n. 6891).
In particolare, la Corte di Cassazione nella citata sentenza ha statuito che l’accettazione non integralmente conforme alla proposta, equivalendo a rifiuto di accettazione della proposta originaria, oltre a dare luogo a nuova proposta deve ritenersi idonea a rendere inefficace e non più vincolante per il proponente la proposta originaria caducandola, senza necessità o possibilità che la stessa debba o passo essere più revocata; “salvo, ovviamente, che non risulti dimostrata la perdurante volontà del proponente di tenere ferma la sua proposta originaria anche dopo che la sua accettazione è stata rifiutata dal rispettivo destinatario”
Nel diritto inglese trova applicazione solo la regola generale prevista dal codice civile italiano ex art. 1325, 5° comma c.c.; senza che sia possibile – a fronte di una controproposta – ricercare una “perdurante volontà del proponente di tenere ferma la sua proposta originaria”.
In un caso molto famoso (Hyde v. Wrench [1840]), Wrench offre ad Hyde un immobile al prezzo di 1000 sterline. Hyde risponde che accetta, ma al prezzo di 950 sterline. Wrench chiede un po' di tempo per riflettere, poi rifiuta. Ecco allora che Hyde dice di accettare per 1000 sterline. Wrench rifiuta. Nasce una controversia, in cui Hyde sostiene di aver concluso con la sua accettazione per 1000 sterline un contract e di aver diritto di vedersi consegnare l'immobile. Il giudice decide che la controproposta per 950 sterline inizialmente manifestata da Hyde aveva posto nel nulla la proposta iniziale, quindi la successiva accettazione per 1000 sterline non aveva nessun valore, e Wrench non aveva nessun obbligo di consegna dell’immobile.
La Corte inglese ha così deciso: “Under the circumstances in this bill, I think there exists no valid binding contract between the parties for the purchase of the property. The Defendant offered to sell it for £1000, and if that had been at once unconditionally accepted, there would undoubtedly have been a perfect binding contract; instead of that, the Plaintiff made an offer of his own, to purchase the property for £950, and he thereby rejected the offer previously made by the Defendant. I think that it was not afterwards competent for him to revive the proposal of the Defendant, by tendering an acceptance of it; and that, therefore, there exists no obligation of any sort between the parties….”
In buona sostanza, l’accettazione nel diritto inglese è la manifestazione di volontà di colui che riceve la proposta, la quale fondendosi con la proposta dà luogo all'accordo base del rapporto di contract.
Dal punto di vista descrittivo è l'atto di adesione dell'oblato all'offerta. Per essere valida accettazione, e determinare così la conclusione del contract, deve essere una manifestazione di volontà speculare rispetto alla proposta, cioè ad essa esattamente conforme, al di là delle parole o della forma utilizzata. Quindi non vi è accettazione quando la manifestazione di volontà dell'oblato inserisce degli elementi ulteriori rispetto a quelli indicati dalla proposta. Vale in altre parole la mirror image rule, cioè la regola dell'immagine speculare.
Quando la manifestazione di volontà aggiunge elementi ulteriori è una controproposta, che comporta il rifiuto della proposta originaria.
In applicazione dell’art. 1326, 5° comma la giurisprudenza italiana (tra le altre, Cass. civ. sezioni unite n. 1283/1989) ha accertato che un accordo telefonico od uno scambio di lettere non può segnare il perfezionamento del contratto qualora fra le parti sia intervenuta successiva corrispondenza, con una nuova proposta ed una nuova accettazione, sì da evidenziare il loro intento di assegnare ai precedenti contatti il valore di mere trattative preliminari.
In particolare è stato accertato che "qualora le trattative procedano attraverso uno scambio di corrispondenza, per stabilire quando il contratto è concluso deve aversi riguardo all’ultima proposta ed all’ultima accettazione (cfr SU 25.5.1976 n. 1877)…”.
Infine, analogamente a quanto previsto nel diritto italiano, nel sistema giuridico inglese la controproposta non è da confondere con la semplice richiesta di informazioni o chiarimenti, la quale, a differenza della prima, non importa di per sé un rifiuto dell’offerta, che anzi si mantiene ferma nella completezza dei suoi termini (Stevenson v. McLean [1880]).
6.Esecuzione prima della risposta dell’accettante.
Ai sensi dell’art. 1327 c.c. “1. Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell'affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione. 2. L'accettante deve dare prontamente avviso all'altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno.”
Ciò accade, ad esempio, perché il proponente ha urgenza nell'ottenere la prestazione e preferisce non attendere la risposta dell'accettante. L'avviso deve essere dato poiché altrimenti il preponente potrebbe ritenersi non vincolato e, ad esempio, cercare altrove la prestazione.
Si pensi all'appaltatore che, di fatto, inizia a compiere le opere commissionate, assecondando tutte le richieste del committente/proponente.
La norma si discosta dalla regola secondo la quale il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta giunge a conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (v. art. 1326 c.c.). Infatti, nel caso in cui vi sia l’esigenza di prontezza della prestazione, il destinatario della proposta contrattuale può eseguire la prestazione prima di comunicare la sua accettazione al proponente[30].
Secondo Cass. civ. n. 13103/1995, la clausola “pronta consegna” in una proposta contrattuale contiene la richiesta, da parte del proponente, che il destinatario esegua la prestazione immediatamente, senza preventiva risposta. Si pensi al caso in cui Tizio ha interesse a ricevere molto presto un libro per cui ordina al libraio di spedirglielo senza attendere la risposta. In tal caso, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione.
É frequente nella giurisprudenza italiana l'affermazione secondo la quale l'inizio di esecuzione equivale ad un'accettazione tacita, o per comportamento concludente, ovvero ad una manifestazione tacita di consenso o di adesione alla proposta; in altri casi si è inoltre argomentato in termini di conclusione o stipulazione per facta concludentia.
Parimenti, nel diritto anglosassone, con riguardo ai bilateral contracts, il cui ordinario schema di scambio prevede la assunzione reciproca di prestazioni da parte dei contraenti, la accettazione può essere fatta, a scelta dell’oblato, con una dichiarazione espressa o con un comportamento concludente (acceptance by conduct).
A tal proposito in Brodgen v. Metropolitan Ry Co[31] è stato accertato quanto segue: “I have always believed the law to be this, that when an offer is made to another party, and in that offer there is a request express or implied that he must signify his acceptance by doing some particular thing, then as soon as he does that thing, he is bound. If a man sent an offer abroad saying: I wish to know whether you will supply me with goods at such and such a price, and, if you agree to that, you must ship the first cargo as soon as you get this letter, there can be no doubt that as soon as the cargo was shipped the contract would be complete, and if the cargo went to the bottom of the sea, it would go to the bottom of the sea at the risk of the orderer…”.
Pertanto, la corrispondenza all’originaria offerta dell’accettazione può desumersi dal contegno dell’oblato che risulti oggettivamente ed inequivocabilmente incompatibile con una diversa volontà (acceptance by conduct).
“The communication of an offer takes place when it is brought to the knowledge of the person to whom it is made (Taylor v. Laird [1856]) ). An offer may be communicated either by words spoken or written or it may be inferred from the conduct of the parties, or partly by words and partly by conduct (Hart v. Mills [1846])[32]”.
Un'altra modalità per verificare l'effettiva, concorrente volontà delle parti di concludere un contract consiste nell'esame congiunto che la Corte può compiere del documento scritto leggendolo in una prospettiva tendenzialmente conservativa del contract. Il caso Hillas v. Arcos (1932) costituisce un precedente molto seguito (cfr altresì, Trollope & Colls Ltd v. Atomic Power Construction Ltd [1962][33]).
Ne caso Hillas la Corte ha ritenuto di dare applicazione all’antica massima di diritto inglese, che trova sponda nel principio di conservazione del contratto ex art. 1367, 1424 c.c., secondo cui "verba ita sunt intelligenda ut res magis valeat quam pereat"; salvo però precisare che la massima (così tradotta: Where a clause is ambiguous a construction which will make it valid is to be preferred to one which will make it void) non significa che il Giudice si debba sostituire alla volontà delle parti e “costituire” un contratto a beneficio delle stesse, o debba andare oltre le parole usate dai contraenti.
La Corte ha, così, voluto dare applicazione al principio essenziale per cui i negozi giuridici (dealing of men) debbano essere preservati (treated as effective) e la legge non debba considerarsi causa, essa stessa, di inefficacia di contratti (destroyer of bargains).
Secondo altra regola (anch’essa presente nel codice civile italiano, art. 1326 c.c., 4° comma), tuttavia, se il proponente ha specificamente richiesto che la accettazione venga fatta in una forma determinata, il rispetto di questa forma è essenziale per la rilevanza della stessa accettazione (Eliason v. Henshaw [1819]; Holwell Securities Ltd v. Hughes [1974]).
La giurisprudenza inglese ha accertato quanto segue: “If the parties to a contract have agreed that their contract is to be put into a particular form, it is a question of fact in each case whether they intend that no obligation shall arise until the contract is put into such form. The mere fact that the parties have so agreed does not prevent them from being bound, if they intended to be so, and if they are at one as regards the terms of the proposed contract (Chinnock v. The Marchioness of Ely (1865); Rossiter v. Miller (1878); Lloyd V. Nowell [1895])[34]”.
Nel diritto inglese l’offerta, che di solito viene fatta per iscritto o con una dichiarazione orale, può risultare anche da un diverso comportamento concludente, come è il caso di chi organizza la vendita di determinati prodotti con macchine automatiche nelle quali l’inserimento della moneta richiesta costituisce accettazione dell’offerta; o anche quello del gestore di un autoparcheggio che consente l’ingresso di macchine a chi, col pagare un compenso, ritiri un ticket da un distributore automatico[35] (Thornton v. Shoe Lane Parking Ltd [1971]; Mendelssohn v. Normand Ltd [1969][36]).
7.Proposta irrevocabile.
Nel sistema giuridico italiano ai sensi dell’art. 1328 c.c. la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Tuttavia, se l'accettante ne ha intrapreso in buona fede l'esecuzione prima di avere notizia della revoca, il proponente è tenuto a indennizzarlo delle spese e delle perdite subìte per l'iniziata esecuzione del contratto[37]. L'accettazione può essere revocata, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell'accettazione.
Nel diritto inglese la proposta può essere revocata dal suo autore in qualsiasi momento prima che essa sia accettata dal destinatario, come già previsto nel lontano precedente Payne v Cave (1879), giacché si ritiene che fino ad allora non vi sia alcuna obbligazione vincolante, la quale sorgerebbe solo nel caso in cui l’offerente si impegnasse, con un accordo separato munito di consideration, a tenere ferma la propria proposta per un tempo determinato secondo la logica del patto di opzione di cui all’art. 1331 c.c. (Routledge v. Grant [1828])[38].
Perché la proposta possa essere resa irrevocabile occorre ricorrere, quindi, alla cosiddetta option, cioè ad un vero e proprio contract con il quale da un lato il proponente si impegna a mantenere ferma la proposta per un certo periodo di tempo e in cambio riceve una consideration, che normalmente è una somma di denaro.
Se abbiamo l'option, abbiamo la standing offer, ovvero il caso in cui l'offerta è irrevocabile per un certo periodo di tempo.
La possibilità alternativa, in assenza di option, è quella di fare una proposta ed impegnarsi a mantenerla nella veste di deed[39].
“A valid option to purchase” – si legge nella sentenza Mountford v Scott [1975] – constitutes an offer to sell irrevocable during the period stated, and a purported withdrawal of the offer is ineffective. When therefore the offer is accepted by the exercise of the option, a contract for sale and purchase is thereupon constituted, just as if there were then constituted a perfectly ordinary contract for sale and purchase without a prior option agreement”.
Nel diritto italiano la revocabilità della proposta fino alla conclusione del contratto talora nella pratica si dimostra dannosa nell’interesse della chiarezza dei rapporti, intralciando lo sviluppo degli affari. Perciò la legge italiana riconosce la proposta irrevocabile, impegnativa, che avrà maggior valore e sarà presa in maggiore considerazione della proposta libera.
Essa può risultare da un impegno unilaterale o da un contratto. L’impegno unilaterale è la proposta ferma (art. 1329 c.c.). E’ previsto anche un contratto – il patto di opzione – in cui le parti convengono che l’una di esse rimane vincolata alla propria dichiarazione e l’altra ha la facoltà di accettarla o meno (art. 1331 c.c.).
Irrevocabile è per legge la proposta di ogni contratto che importi obbligazioni a carico del solo proponente; essa è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata ai sensi dell’art. 1333, 1° comma c.c.
Chiara è la differenza circa la perfezione del contratto con obblighi di una sola parte e l’inizio di efficacia dell’atto unilaterale[40]: quest’ultimo (che naturalmente non richiede accettazione) diventa efficace nel momento in cui la dichiarazione perviene a conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c.).
Nel diritto inglese, perché la revoca sia efficace, occorre che essa sia conosciuta dal destinatario, anche se non sia stata effettivamente comunicata. Questa regola emerge nel caso Dickinson v. Dodds del 1876. Dodds aveva offerto a Dickinson un suo appartamento, dandogli tempo per accettare la proposta di vendita fino ad una certa data. Il giorno prima della scadenza del termine per l'accettazione un tizio di nome Berry informa Dickinson che Dodds aveva venduto l'immobile ad un terzo di nome Allan. Dickinson si precipita ad accettare l'offerta, poi pretende da Dodds la consegna dell'appartamento. Dodds ovviamente non può consegnare. Nasce una causa, il giudice rigetta la domanda risarcitoria di Dickinson argomentando che Dodds era libero di revocare in quanto non aveva assunto alcuna option. Il fatto che Dodds avesse venduto ad Allan comportava una revoca implicita (non era necessaria comunicazione al destinatario della proposta). Il fatto che Dickinson fosse venuto a conoscenza tramite un terzo della revoca implicitamente operata dal proponente era sufficiente per far perdere alla proposta ogni efficacia.
8.Morte del proponente o del destinatario
Nel caso di morte del proponente o del destinatario dell’offerta, due sicure regole di diritto inglese stabiliscono che sia la morte dell’offerente[41] conosciuta dall’oblato prima della sua accettazione, sia la morte del destinatario[42] dell’offerta intervenuta sempre prima della sua accettazione tolgono ogni efficacia alla proposta (Coulthart v. Clementson [1879]); Reynolds v. Atherton [1921][43]).
Manca, invece, una precisa regola per il caso che l’oblato accetti l’offerta a lui fatta dopo la morte del proponente, ma prima che egli abbia notizia di essa[44].
La dottrina è orientata verso una duplice soluzione, ritenendo decisiva la particolare natura dell’offerta: se questa riguarda la costituzione di un rapporto in cui è essenziale la personalità dell’offerente non vi è dubbio che la sua morte, conosciuta o sconosciuta dall’oblato, fa cadere completamente la proposta; se invece l’offerta riguarda la costituzione di un contratto non strettamente vincolato alle qualità personali dell’offerente, essa mantiene la sua efficacia ed il contratto può ritenersi formato con l’accettazione dell’oblato all’oscuro della morte del proponente[45].
9.Conoscenza dell’offerta e dell’accettazione
Nel caso di contratto concluso inter absentes, il momento di formazione del consenso costituisce un esempio delle divergenze storiche tra l’ordinamento inglese di common law e quelli italiano di civil law: nel primo la regola che ancora oggi risulta attuale è che il contratto è concluso nel momento della spedizione dell’accettazione – mail-box rule: “acceptance of an offer is effective upon dispatch by the offeree”.
Il nostro ordinamento adotta il principio della “cognizione” (effettiva o presunta), ovvero il principio della “ricezione”, in virtù del quale il contratto si conclude quando l’accettazione perviene all’indirizzo del proponente.
Più nello specifico si osserva che di regola nel diritto inglese l’efficacia dell’offerta ha inizio dal momento in cui il destinatario ha di essa effettiva conoscenza. “The general rule is that an acceptance has no legal effect until it is communicated to the offeror” (Chitty on Contracts, 29th edn, para 2-034). Tuttavia se l’offerta è inviata per posta, essa acquista efficacia per il proponente al momento della spedizione (Taylor v. Jones [1875]) e per il destinatario al momento della ricezione. Fa norma a questo proposito il precedente Adams v. Lindsell [1818].
L'offerta è efficace a partire dal momento in cui il proponente consegna al vettore postale il plico, anche se la busta impiega un po’ di tempo o non arriva al destinatario.
The postal rule established in Adams v Lindsell (1818) 1 B & Ald 681, as confirmed in Entores v Miles [1955] 2 QB 327 (CA), “that an acceptance by post is complete as soon as the letter is put into the post-box”[46]
Lindsell invia ad Adams una proposta di vendita di lana, con richiesta di inviare l'accettazione a stretto giro di posta. L'offerta viene inviata ad un indirizzo errato, quindi arriva con un certo ritardo. L'oblato appena ricevuta la missiva si precipita a rispondere positivamente.
Il proponente aveva aspettato un po’ di tempo, poi visto che dalla controparte non arrivava alcuna notizia aveva deciso di rivolgersi ad un altro compratore, quindi aveva venduto la lana ad un'altra persona.
L'accettazione di Adams arriva il giorno dopo la vendita. Nasce una causa. La corte chiamata a decidere ritiene che il venditore sia responsabile di inadempimento contrattuale, in quanto la proposta era divenuta efficace non al momento del raggiungimento, bensì nel momento in cui il mittente aveva consegnato la busta al vettore postale. Pertanto il contract si era concluso, il venditore doveva consegnare la lana e pertanto era inadempiente.
La Corte inglese ha così motivato “if the defendants were not bound by their offer when accepted by the plaintiffs till the answer was received, then the plaintiffs ought not to be bound till after they had received the notification that the defendants had received their answer and assented to it. And so it might go on ad infinitum. The defendants must be considered in law as making, during every instant of the time their letter was travelling, the same identical offer to the plaintiffs; and then the contract is completed by the acceptance of it by the latter. Then as to the delay in notifying the acceptance, that arises entirely from the mistake of the defendants, and it therefore must be taken as against them, that the plaintiffs' answer was received in course of post.”
Nel nostro ordinamento vige una regola diversa per cui il contratto si considera concluso quando l’accettazione perviene a conoscenza del preponente (art. 1326, 1° comma c.c.), salva la presunzione di conoscenza collegata alla recezione (art. 1335 c.c.).
Ai sensi dell’art. 1335 c.c. “La proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia.” Trattasi di presunzione relativa.
Questa regola si pone in contrasto con quella dettata dagli articoli 1326, 1° comma e 1334. La conoscenza si presume iuris tantum e la prova contraria deve essere data dal destinatario e deve prescindere dalla sua colpa (cfr Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 4310 del 26 marzo 2002, secondo cui “la presunzione di conoscenza, ai sensi dell'art. 1335 c.c., di un atto recettizio in forma scritta opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo di questo all'indirizzo del destinatario, in quanto non è necessario che il mittente ne provi la ricezione da parte del medesimo o di persona autorizzata a riceverlo ai sensi dell'art. 37 del regolamento di esecuzione del codice postale. Peraltro, la trasmissione e la consegna di un atto unilaterale recettizio al destinatario può essere dimostrata anche mediante elementi presuntivi, mentre è a carico del destinatario la prova di non averne avuto tempestiva notizia senza sua colpa (fattispecie concernente la diffida ad adempiere un contratto preliminare di vendita).
La norma pone una presunzione di conoscibilità dell'atto, necessaria per porre un punto fermo nella problematica dell'effettivo momento di conoscenza di un atto da parte del suo destinatario. In tal modo essa favorisce l'autore dell'atto che è esonerato dalla prova, potenzialmente molto difficile, che il destinatario abbia effettivamente conosciuto l'atto.
10.Offerta al pubblico.
L’offerta nel diritto inglese può essere fatta ad una specifica persona, ad una classe di persone o alla generalità; es. soci di un club o abitanti di un quartiere: l’accettazione può provenire da ciascuna di queste persone.
Nell’offerta al pubblico non vi sono limiti nella individuazione del destinatario: chiunque venga a trovarsi o a porsi nelle condizioni stabilite nell’offerta può accettarla.
Quest’ultimo tipo di offerta è di solito usato per la conclusione di contratti unilaterali: quando cioè l’offerente intende vincolare sé stesso (assumendo una obbligazione di dare, fare o non fare) solo se ed in quanto taluno del pubblico compia un determinato atto, come il fornire una informazione o il ritrovare una cosa, oppure venga a trovarsi in una determinata situazione (Carlill v. Carbolic Smoke Ball Co [1893]).
Nel diritto inglese, con riguardo al fatto che l’offerta deve essere espressione della intenzione dell’offerente di vincolarsi con il destinatario di essa, va anche precisato che la stessa offerta deve essere ben distinta da un invito a fare offerte o, in generale, da un invito a trattare (invitation to treat), che postula semplicemente la volontà del proponente di venire in contatto col relativo destinatario per l’eventuale conclusione di un contratto.
Gli inglesi considerano invito ad offrire l'invio di un catalogo (anche qualora le merci abbiano indicato il prezzo), l'esposizione di un prodotto in vetrina, l'annuncio pubblicitario, l'annuncio di un'asta (Partridge v. Crittenden [1968]; Fisher v. Bell [1961]; Harris v. Nickerson [1873]). L’eventuale indicazione del prezzo dell’articolo serve a dare all’interessato l’esatta idea circa la somma che egli deve offrire in pagamento per la conclusione dell’affare.
La soluzione vale anche per le merci esposte in self-service: è il consumatore che, prendendo la merce dai banchi di esposizione e presentandola alla cassa, fa offerta di comprarla al prezzo segnato; il negoziante accetta l’offerta ricevendo il prezzo dell’acquisto (Pharmaceutycal Society of Great Britain v. Boots Cash Chemist, Ltd [1953])[47].
Inoltre, la stessa presentazione della merce da parte del banditore, nel corso della vendita, non è una offerta, ma un invito ad offrire (Payne v. Cave [1789]).
Diverso è invece il caso delle macchinette per la distribuzione automatica: trattasi di una vera e propria offerta che si realizza quando il proprietario della macchina distributrice la rende idonea a ricevere i soldi; l’accettazione ha luogo quando l’acquirente inserisce i soldi nella macchina. I termini dell’offerta sono contenuti nell’informativa che indica cosa si fornice in cambio dei soldi (Re Charge Card Services [1989] 417, 512; Thornton v. Shoe Lane Parking Ltd [1971]; Chapelton v. Barry UDC [1940]).
Nel diritto italiano, ai sensi dell’art. 1336 c.c. “1. l'offerta al pubblico, quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi. 2. La revoca dell'offerta, se è fatta nella stessa forma dell'offerta o in forma equipollente, è efficace anche in confronto di chi non ne ha avuto notizia.”
E’ proposta l’offerta al pubblico che si configura, ad esempio, nel caso di merce in vendita esposta nella vetrina di un negozio con l’indicazione del prezzo (artt. 13 ss D.Leg. 05/206).
Se mancano questi elementi, non si ha proposta, ma invito a fare delle proposte (invitatio ad offerendum) che non costituisce un elemento concreto dell’accordo contrattuale. Esempio di offerta al pubblico: “vendo il fondo Corneliano per un milione”; esempio di invitatio ad offerendum: “vendo il fondo Corneliano al migliore offerente".
L’offerta al pubblico non va confusa con la promessa al pubblico (ex art. 1989 c.c.) con la quale ha in comune solo l’indeterminatezza del destinatario.
Il criterio discretivo riguarda il contenuto ed il momento della nascita del vincolo.
Nel caso di offerta, a differenza della promessa, si ha riguardo a comportamenti negoziabili, cioè a dire a prestazioni in senso tecnico; inoltre il vincolo consegue solo ad un successivo atto di accettazione, mentre nel caso di promessa si è in presenza di un negozio unilaterale cosicché l’obbligazione nasce a prescindere dalla comunicazione di avveramento della situazione (1989, 2° comma).
Promessa al pubblico è promessa di una prestazione unilaterale che si farà in una determinata circostanza, senza che sia necessaria la formazione di un contratto; offerta al pubblico è invece la proposta in incertam personam a concludere un contratto[48].
L’offerta ha valore indefinito nel tempo ed è sempre revocabile (1336) la promessa conserva efficacia vincolante per un anno e prima della scadenza non può essere revocata senza una giusta causa (si veda anche l’art. 1991 c.c. sulla cooperazione di più persone).
11. Il ruolo della buona fede.
Nel sistema giuridico italiano, il principio di buona fede riveste un’importanza significativa nella regolamentazione degli accordi negoziali, di talché i soggetti contraenti devono valutare attentamente le condotte da mantenere prima, durante e dopo la formazione del sinallagma nonché nella fase interpretativa della volontà negoziale.
La buona fede oggettiva, intesa quale regola di comportamento, viene difatti invocata in numerose disposizioni del codice civile tra le quali si ricordano a titolo esemplificativo gli articoli 1175, 1337, 1338, 1366 e 1375 c.c.
Nel diritto inglese non si rinviene un generale principio di buona fede oggettivo.
In particolare, sebbene nell’ordinamento inglese la legge imponga espressamente il rispetto della buona fede in particolari contesti contrattuali (quali ad esempio i contratti di lavoro subordinato, di agenzia e quelli conclusi con i consumatori), certamente non si può sostenere che la good faith rappresenti un principio generalmente riconosciuto nel sistema giuridico del Regno Unito.
Nel diritto inglese dei contratti, a differenza di quanto accade in Italia con l’art. 1337 c.c., non sussiste un principio generale di buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
The general view among commentators appears to be that in English contract law there is no legal principle of good faith of general application (Chitty on Contract Law (31st Ed), Vol 1, para 1-039).
I princìpi di “fairness and reasonableness” vengono applicati in particolari contesti non sussistendo un obbligo generale di “correttezza” o di “ragionevolezza” nella formazione e nella esecuzione del contratto.
In Interfoto Picture Library Ltd v Stiletto Visual Programmes Ltd (1989), Lord Justice Bingham ha dichiarato quanto segue: “In many civil law systems, and perhaps in most legal systems outside the common law world, the law of obligations recognises and enforces an overriding principle that in making and carrying out contracts parties should act in good faith. This does not simply mean that they should not deceive each other, a principle which any legal system must recognise; its effect is perhaps most aptly conveyed by such metaphorical colloquialisms as "playing fair", "coming clean" or "putting one's cards face upwards on the table". It is in essence a principle of fair and open dealing….English law has, characteristically, committed itself to no such overriding principle but has developed piecemeal solutions in response to demonstrated problems of unfairness. Many examples could be given. Thus equity has intervened to strike down unconscionable bargains. Parliament has stepped in to regulate the imposition of exemption clauses and the form of certain hire purchase agreements. The common law also has made its contribution, by holding that certain classes of contract require the utmost good faith, by treating as irrecoverable what purport to be agreed estimates of damage but are in truth a disguised penalty for breach, and in many other ways.”
In buona sostanza nella citata sentenza è stato accertato che la legge inglese fa uso di diversi principi (particular doctrines) al fine di dare riposte a problemi che, in altri ordinamenti, verrebbero risolti facendo applicazione del principio di buona fede.
La sentenza Interfoto è importante perché sottolinea l’assenza di un principio generale di buona fede nel diritto inglese, nonché l’esistenza di specifiche doctrines e specifici obblighi che suppliscono all’assenza di un principio onnicomprensivo.
I Giudici inglesi hanno statuito non solo che non sussiste un obbligo implicito (implied duty) di negoziare in buona fede, ma che un formale accordo (express agreement) contenente l’impegno di osservare l’obbligo di buona fede manca dei requisiti della specificità e della certezza (Walford v. Miles [1992][49], 138; Courtney & Fairbairn Ltd v. Tolaini Brothers (Hotels) Ltd [1975]).
Come segnalato da Bingham LJ nel caso Interfoto, il principio generale di buona fede di derivazione romanistica è entrato, però, a far parte della legislazione inglese attraverso la normativa europea.
Per esempio, nel Consumer Rights Act 2015 (con cui è stata data applicazione ad una direttiva europea) il legislatore inglese usa il concetto di buona fede allorquando viene definito il significato di clausola contrattuale abusiva.
Inoltre, nella nota sentenza Yam Seng PTE Ltd v International Trade Corporation Ltd [2013], è stato affermato che il dovere di buona fede è implicito nella legge inglese che disciplina alcuni contratti quali quelli di lavoro o i contratti che si fondano su vincoli fiduciari (i cosiddetti relational contracts tra cui si annoverano gli accordi di joint-venture, distribuzione, franchising, etc) ma non in quelli commerciali[50].
Nella sentenza è stata poi rigettata l’argomentazione secondo cui il dovere di esecuzione del contratto in buona fede apparirebbe troppo incerto.
Dall’altro lato, alcuni principi enucleati nella pronuncia sopra menzionata sono stati disattesi da successivi orientamenti giurisprudenziali.
Si consideri, a tal proposito, la sentenza “Mid Essex Hospital Services NHS Trust v Compass Group UK and Ireland Ltd” avente ad oggetto l’interpretazione di un complesso meccanismo di valutazione nell’ambito di un contratto di catering.
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J. Jackson in “The Law relating the formation and annulment of marriage”, 1951.
Digest of English civil law, Editor: Edward Jenks, 1921.
[1] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001, p. 5
[2] Es. Companies Act 2006, Consumer Credit Act 1974, Consumer Protection Act 2015, Employment Rights Act 1996, Insurance Act 2015, Law of Property Act 1925, Law Reform (Enforcement of Contracts) Act 1954, Sale of Goods Act 1893, Human Rights Act 2005, Constitutional Reform Act 2005, Constitutional Reform And Governance Act 2010 etc...
[3] Diritto Comparato Lezioni e Materiali AJANI Gianmaria; FRANCAVILLA Domenico; PASA Barbar, Editore: Giappichelli, 2018 p. 87
[4] In tal senso letteralmente Giovanni Criscuoli in “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001, p. 51
[5] Nella presente breve trattazione non verranno analizzati i provvedimenti che raccolgono la normativa a tutela del consumatore nei confronti del professionista, né i contratti del commercio on line.
[6] ANSON’S Law of Contract 25th Edition, p. 1, 2,22. Secondo Frederick Pollock “every agreement and promise enforceable at law is a contract”; secondo John Salmond “a contract is an agreement creating and defining obligation between two or more persons by which rights are acquired by one or more to acts or forbearance on the part of others”.
[7] “A contract is an agreement which creates, or is intended to create, a legal obligation betweeen the parties to it” Digest of English civil law, Editor: Edward Jenks, 1921.
[8] In the case of a specialty contract, the promise is termed a covenant,” and the promisor and promisee are termed “ covenantor” and covenantee ” respectively. In the case of a bond, the corresponding terms are “obligor” and “ obligee.” (Jenks, Edward et al., A Digest of English Civil Law, London, Sydney, Calcutta, Winnipeg, Wellington 1921, paragraph 202).
[9] Anson’s Law of Contract, 25th Edition p. 5
[10] Vincenzo Roppo, “Il Contratto”, Seconda Edizione Giuffrè Editore p. 38-41
[11] Vincenzo Roppo, “Il Contratto”, Seconda Edizione Giuffrè Editore p. 38-41
[12] Ad esempio, nel contratto di compravendita di una casa da costruire il primo contraente è insieme debitore (per la costruzione della casa) e creditore (per il prezzo) così come il secondo è contemporaneamente in relazione allo stesso contract debitore per la somma e creditore per la casa.
[13] La consideration consiste in un diritto, interesse vantaggio o beneficio ricevuto da una parte ovvero in una tolleranza, in un sacrificio o in una perdita concessa, subita o sopportata dall’altra. Nel caso Currie v. Misa [1875] consideration è stata definita come “some right, interest, profit, or benefit accruing to one party, or some forbearance, detriment, loss, or responsibility given, suffered or undertaken by the other" which includes mutual promises (Chitty on Contracts at 4-008).
[14] Il contratto : problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico. Gino Gorla. Milano : A. Giuffrè, 1954, v. 1 p. 447.
[15] Jenks, Edward et al., A Digest of English Civil Law, London, Sydney, Calcutta, Winnipeg, Wellington 1921.
[16] The existence of a blood or marriage relationship between the parties is often described as ‘‘good consideration.” But this kind of consideration, though of importance in other branches of the law, is not recognized by the Law of Contract, which demands “ valuable consideration” (Jenks, Edward et al., A Digest of English Civil Law, London, Sydney, Calcutta, Winnipeg, Wellington 1921, paragraph 204.
[17] J. Jackson in “The Law relating the formation and annulment of marriage” 1951 p. 114, che raccoglie la definizione di Brett L.J.
[18] Concezione Dalia “L’invalidità del matrimonio in Italia e in Inghilterra” 1999. Università degli Studi di Salerno. Quaderni del Dipartimento diretti da Pasquale Stanzione. P. 20
[19] “Il matrimonio nel diritto inglese”. Giuseppe Giaimo, CEDAM 2007, p. 1.
[20] Francesco Gazzoni, Obbligazioni e contratti, Edizioni Scientifiche Italiane 2018.
[21] Digest of English civil law, Editor: Edward Jenks, 1921. cap. 186
[22] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001, p. 77
[23] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001, p. 78
[24] Compendio di Diritto civile (Istituzioni di diritto privato). Anna Costagliola, Lucia Nacciarone, 2014 Maggioli Editore, p. 473
[25] Carlill v. Carbolic Smoke Ball Co [1893]
[26] Baily’s case 1868
[27] Hyde v. Wrench 1840
[28] Dickinson v. Dodds (1876) at p. 475 (death of offeror); Duff’s Exors’ case (1886) (death of offeree)
[29] Jenks, Edward et al., A Digest of English Civil Law, London, Sydney, Calcutta, Winnipeg, Wellington 1921, paragraph 193.
[30] Francesco Gazzoni, Obbligazioni e contratti, Edizioni Scientifiche Italiane 2018.
[31] I fatti sono i seguenti: tra due imprenditori, in rapporti contrattuali da tempo, uno invia all'altro una proposta contrattuale atta a disciplinare una fornitura di carbone. Questa proposta conteneva, fra le altre clausole, una serie di regole in ordine alle modalità di pagamento delle varie forniture. Il proponente non riceve alcuna accettazione, ma il destinatario accetta i pagamenti secondo le scadenze previste dalla proposta contrattuale. Il giudice - nel risolvere una controversia in ordine alla qualità del carbone - applica le regole previste dalla proposta contrattuale, dicendo che anche in assenza di accettazione espressa l'oblato, ricevuta la proposta ed accettati i pagamenti come la proposta prevedeva, aveva posto in essere una condotta che manifestava una volontà di accettazione.
[32] Digest of English civil law, Editor: Edward Jenks, 1921, par. 191.
[33] La Corte ha stabilito in Trollope che le clausole contrattuali, in virtù del principio di conservazione del contratto definito come “business efficacy of the contract”, debbano esere applicate restrospettivamente (“there is no principle of English law which provides that a contract cannot in any circumstances have retrspective effect”).
[34] Digest of English civil law, Editor: Edward Jenks, 1921, par. 200.
[35] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001
[36] The customer pays his money and gets a ticket. He cannot refuse it. He cannot get his money back. He may protest to the machine, even swear at it. But it will remain unmoved. He is committed beyond recall. He was committed at the very moment when he put his money into the machine. The contract was concluded at that time. It can be translated into offer and acceptance in this way: the offer is made when the proprietor of the machine holds it out as being ready to receive the money. The acceptance takes place when the customer puts his money into the slot. The terms of the offer are contained in the notice placed on or near the machine stating what is offered for the money. The customer is bound by those terms as long as they are sufficiently brought to his notice before-hand, but not otherwise. He is not bound by the terms printed on the ticket if they differ from the notice, because the ticket comes too late. The contract has already been made: see Olley v. Maryborough Court (1949 1 K.B. 532). The ticket is no more than a voucher or receipt for the money that has been paid (as in the deckchair case, Chapelton v. Barry U.D.C. ...1940 1 K.B. 532), on terms which have been offered and accepted before the ticket is issued.
[37] I danni si sono limitati ai c.d. interessi negativi (spese e perdite subite per l'iniziata esecuzione). Si tratta, come noto, di responsabilità da atto lecito.
[38] La revoca acquista efficacia quando giunge a conoscenza del destinatario (cfr Byrne & Co v. Leon Van Tienhoven &Co [1880]): non verificandosi l’effettiva conoscenza della revoca dell’offerta da parte dell’oblato che abbia nel frattempo accettato la proposta, il contract deve ritenersi validamente concluso.
[39] Beesly v. Hallwood Estates Ltd 1961
[40] L’atto è unilaterale quando si tratta di dichiarazioni di volontà provenienti da una parte sola, cioè da un unico centro di interessi, come avviene per l’accettazione di eredità, la rinuncia, la ratifica, la disdetta, la procura. Si ritiene che la norma contenuta nell’art. 1334 c.c. debba essere riferita, quanto meno in via analogica, anche ad atti non negoziali (notificazioni, offerte, opposizioni, intimazioni, denunzie, avvisi, diffide).
[41] “The death of the offeror determines an offer only if the offer on its true construction so provides” (Beale, H. G.; Chitty, Joseph et al., Chitty on Contracts, Vol. 1, London 2004; 2-098)
[42] “Two cases have some bearing on the effect of the death of the offeree. In Reynolds v Atherton an offer to sell shares was made in 1911 to "the directors" of a company”…. "The offer having been made to a living person who ceases to be a living person before the offer is accepted, there is no longer an offer at all. The offer is not intended to be made to a dead person or to his executors, and the offer ceases to be an offer capable of acceptance. … In Kennedy v Thomassen acceptance by solicitors of the offeree in ignorance of her death was held ineffective on the grounds that their authority to act on her behalf had been revoked by her death and that they had acted under a mistake. Neither case supports the view that an offer can never be accepted after the death of the offeree. It is submitted that, where an offer related to a contract which was not "personal," it might, on its true construction, be held to have been made to the offeree or to his executors, and that such an offer could be accepted after the death of the original offeree”. (Beale, H. G.; Chitty, Joseph et al., Chitty on Contracts, Vol. 1, London 2004; 2-099)
[43] “The offer having been made to a living person who ceases to be a living person before the offer is accepted, there is no longer an offer at all. The offer is not intended to be made to a dead person or to his executors, and the offer ceases to be an offer capable of acceptance’.
[44] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001 p.89.
[45] Cheshire and Fiffots' Law of Contract Paperback 1992, by Burrows, Finn, Todd citato in Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001. P. 89.
[46] Korbetis v Transgrain Shipping BV, English High Court (Queen’s Bench Division): Toulson J: [2005] EWHC 1345 (QB): 17 June 2005.
[47] Giovanni Criscuoli “Il contratto nel Diritto inglese” CEDAM 2001
[48] Si ritiene che il bando di concorso per l’assunzione di lavoratori sia offerta e non già promessa (Cass. n. 13922/2001 e 15336/2001), ma se chi bandisce si riserva insindacabilmente l’assunzione c’è invito (Cass. n. 9899/1992).
[49] “The concept of a duty to carry on negotiations in good faith is inherently repugnant to the adversarial position of the parties when involved in negotiations….A duty to negotiate in good faith is as unworkable in practice as it is inherently inconsistent with the position of a negotiating party. It is here that the uncertainty lies”
[50] “Under English law a duty of good faith is implied by law as an incident of certain categories of contract, for example contracts of employment and contracts between partners or others whose relationship is characterised as a fiduciary one. I doubt that English law has reached the stage, however, where it is ready to recognise a requirement of good faith as a duty implied by law, even as a default rule, into all commercial contracts. Nevertheless, there seems to me to be no difficulty, following the established methodology of English law for the implication of terms in fact, in implying such a duty in any ordinary commercial contract based on the presumed intention of the parties”
Pandemia COVID-19 ed equilibrio di bilancio: alcune considerazioni di diritto tributario eurounitario.
di Roberto Succio
La prima esecuzione dell'Inno alla Gioia di Ludwig van Beethoven ebbe luogo a Vienna al 'Kärntnertor Theater' il 7 Maggio 1824 […]L'orchestra era teoricamente diretta da Beethoven stesso, ma in realtà il vero direttore era il maestro di cappella Michael Umlauf. L'esecuzione fu perfetta e l'emozione che suscitò sul pubblico enorme. Beethoven, dopo l'ultima nota della prima esecuzione della Nona Sinfonia, rimase per parecchi secondi assorto nella sua sordità, seduto vicino al direttore con le spalle rivolte al pubblico che applaudiva furiosamente. La cantante Caroline Unger, che appena ventenne aveva preso parte come solista all'esecuzione, ruppe il protocollo per costringerlo a voltarsi affinché vedesse l'esultanza della folla e capisse quale grande successo aveva riscosso, lasciò il suo posto e si avvicinò a Beethoven, ancora chino sul leggio e rivolto verso gli orchestrali, gli toccò il braccio mentre egli le diede un'occhiata severa, ma Caroline insistette e lo voltò verso la folla che acclamava entusiasta sventolando un mare di fazzoletti bianchi. In una 'standing ovation', prima una persona, poi tutto il pubblico si alzarono.
Chi gli era vicino racconta che una singola, piccola lacrima di gioia luccicò sulla gota del compositore.
SOMMARIO: 1. Premesse; 2. Il forte incremento del debito pubblico come scelta vincolata e consentita dal diritto dell’Unione; 3.Le misure del d.l. “cura Italia”; 4. Le indicazioni della Commissione UE in tema di aiuti di Stato ed interventi di contrasto alla pandemia; 5. Considerazioni conclusive
1. Premesse
La diffusione, ormai mondiale, del contagio da Covid-19 pone tra l’altro nuovi e delicati problemi economici alla nazione.
L’Italia, la terza maggiore economia del blocco dei paesi, è da tempo su una linea di “spaccatura”, una faglia dell’eurozona. E, come ha scritto il fisico Per Bak, quando una faglia si apre, altre vacillano, causando una reazione a catena di terremoti.
L'impatto sull'economia avviene attraverso diversi canali; sopravviene uno shock dell'offerta dovuto alla perturbazione delle catene di approvvigionamento; segue un ulteriore shock della domanda determinato da una minore domanda da parte dei consumatori; ne deriva l'effetto negativo dell'incertezza sui piani di investimento e l'impatto dei problemi di liquidità per le imprese.
Grande interesse, in questo contesto, ha suscitato l’intervento recente e autorevole di Mario Draghi sul Financial Times[1]; l’ex Presidente della BCE è tra le poche voci sin qui levatesi non solo ad annunciare recessione e sventura, ma a indicare con argomenti convincenti e chiarezza espositiva i comportamenti che governi, istituzioni e contribuenti dovranno seguire per reagire alla crisi più grave nella quale l’Europa e il mondo intero si trovano dal secondo conflitto mondiale.
L’eccezionalità della situazione richiede alle istituzioni - e anche ai giuristi – la formulazione di ragionamenti eccezionali, sia pur nel rispetto dei principi costituzionali e della logica giuridica; sommessamente ritengo che i formalismi e le raffinate interpretazioni debbano cedere di fronte alla “ratio” delle previsioni e dei trattati unionali, dei quali a mio avviso non può adottarsi una visione né segmentata né avulsa dal contesto - sostanzialmente bellico, come riconosce anche il titolo dell’articolo di Draghi - nel quale ci troviamo.
L’art. 3 del TUE, nel delineare gli obiettivi dell’Unione, contiene un’espressione apparentemente contraddittoria. Secondo questa disposizione, la costruzione del mercato interno è basata su una crescita economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e «su una economia sociale di mercato fortemente competitiva»; essa è intesa come un soddisfacente ordine di libertà e di uguaglianza. Nel programma di Ludwig Erhard, il ministro dell’economia e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, colui che maggiormente contribuì in sede politica alla traduzione dei principi ordoliberali in politiche conformi con la teoria dell’ordine di mercato concorrenziale, l’economia sociale è lo scopo che si consegue tramite il mercato, che opera in qualità di mezzo: il mercato è sempre un mezzo, mai un fine. La concezione di Erhard, ma prima di lui di Eucken, di Röepke, di Grossman-Dörth, di Böm, di Rustov e dello stesso Adenauer, di un’economia sociale di mercato si struttura su questi tre punti: 1. impedire al potere politico di essere sorgente arbitraria del potere; 2. sopprimere ogni struttura monopolistica; 3. fare prevalere in ogni caso la libertà e la concorrenza. E’ interessante notare come la sequenza ed il senso di tale programma incontrino le condizioni di un ordinato sistema politico ed economico raccomandato da Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus[2].
L’operazione concettuale che risulta opportuno compiere consiste, per i giuristi nella valorizzazione della forma rispetto alla sostanza: ciò risulta forse più agevole per gli studiosi di diritto tributario, i quali hanno una certa abitudine a non trascurare la sostanza economica dei problemi giuridici che si pongono, dato che i bilanci degli stati e i servizi pubblici necessitano di risorse, non solo di istituti giuridici minuziosamente funzionanti e dato, nondimeno, che i contribuenti possono esser gravati dei tributi solo quanto la capacità contributiva che costoro manifestano è non solo personale ed attuale, ma anche effettiva.
Nessun incremento di imposte, presente o futuro, potrebbe dar risultati, quindi, in una situazione di decrescita economica; anzi, sarebbe fatale.
Tornando alle sagge indicazioni dell’ex presidente della BCE “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare le perdite – deve alla fine essere riassorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”.
Quindi, “proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. È essenziale per tutte le imprese coprire le proprie spese di gestione durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancor più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto opportune misure per fornire liquidità alle imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo”. In particolare “le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo diventano un veicolo di trasmissione delle politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli scoperti di conto o prestiti aggiuntivi. Né regolamentazioni né norme sulle garanzie bancarie dovrebbero ostacolare la creazione nei bilanci delle banche di tutto lo spazio necessario a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere pari a zero, indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”.
E ancora ”se l’epidemia e il blocco delle attività dovessero perdurare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito acceso per mantenere al lavoro i dipendenti in quel periodo fosse alla fine cancellato”.
Soprattutto, “la velocità del deterioramento dei bilanci privati - causata da un blocco dell’attività economica che è sia inevitabile quanto opportuno – deve essere affrontata da una uguale velocità nell’impegnare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune”.
2. Il forte incremento del debito pubblico come scelta vincolata e consentita dal diritto dell’Unione
E’ necessario quindi un notevole aumento del debito pubblico: il suo ammontare però non può esser indefinito, poiché va rispettato in primo luogo l’art. 81 Cost.
È stata la riscrittura di tale articolo, operata con la legge costituzionale n 1. del 2012 a dare attuazione al Fiscal Compact: la novellazione della disposizione in esame ha costituzionalizzato il principio dell’equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio. Si è parlato di “pareggio di bilancio”, tuttavia la norma è più elastica: più che un vero e proprio “pareggio” essa impone un più generico “equilibrio[3]”, introducendo così un “principio di sostenibilità del debito” che deve essere adottato da tutte le amministrazioni. Per conseguire questo risultato, da un lato si è abrogato il divieto di stabilire con la legge di bilancio nuovi tributi e nuove spese, dall’altro si è legata la definizione del bilancio all’andamento dei cicli economici “tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli al ciclo economico”.
In questo modo non si esclude completamente il ricorso all’indebitamento, certo però questo deve essere collegato a questi effetti del ciclo economico e deve essere autorizzato dalle Camere con un voto a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti (nonché poi sottoposto al vaglio della Commissione Europea secondo la procedura stabilita sempre dal trattato).
Le presenti circostanze – una pandemia dichiarata come tale dall’OMS - senza dubbio legittimano il forte indebitamente di cui si è detto.
Anche le disposizioni eurounitarie in termini, d’altro canto, contenute nel Reg.to Ce 1467 del 1997, prevedono - sia pur in casi ristretti - deroghe ai vincoli di bilancio in situazioni predeterminate.
L’ art. 2 premette che il superamento del valore di riferimento per il disavanzo pubblico è considerato eccezionale, ai sensi dell'art. 126, paragrafo 2, lettera a), secondo trattino, TFUE qualora sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato ed abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure nel caso sia determinato da una grave recessione economica. Nel prosieguo, si precisa che “il superamento del valore di riferimento è considerato temporaneo se le proiezioni di bilancio elaborate dalla Commissione indicano che il disavanzo diminuirà al di sotto del valore di riferimento dopo che siano cessati l'evento inconsueto o la grave recessione economica”.
Poco di seguito, l’art. 5 comma 2, nel disciplinare l’intimazione che il Consiglio Europeo può indirizzare allo Stato “non virtuoso” perché riduca il debito eccessivo, prevede espressamente che “se è stato dato seguito effettivo all'intimazione di cui all'articolo 126, paragrafo 9, TFUE e si verificano eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative per le finanze pubbliche dopo l'adozione di tale intimazione, il Consiglio può decidere, su raccomandazione della Commissione, di adottare un'intimazione rivista a norma dell'art. 126, paragrafo 9, TFUE. L'intimazione rivista, prendendo in considerazione i fattori significativi di cui all'art. 2, paragrafo 3 del presente regolamento, può in particolare prorogare di un anno, di norma, il termine per la correzione del disavanzo eccessivo.
Il Consiglio valuta se, rispetto alle previsioni economiche contenute nell'intimazione, si siano verificati eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative per le finanze pubbliche. E infine qui si precisa in ultimo che “anche in caso di grave recessione economica della zona euro o dell'intera Unione il Consiglio può decidere, su raccomandazione della Commissione, di adottare un'intimazione rivista ai sensi dell'articolo 126, paragrafo 9, TFUE, a condizione che la sostenibilità di bilancio a medio termine non ne risulti compromessa”.
La sola condizione giuridica ultima, in concreto, posta all’incremento eccezionale dell’indebitamento che sarà necessario si trova nella stabilità di bilancio nel medio termine.
Dal punto di vista quantitativo, a quanto potrebbe ammontare l’indebitamento da pandemia COVID-19?
L’economista Ashoka Mody, già vicedirettore dell’FMI, stima che l’Italia abbia necessità di una cifra tra 500 e 700 miliardi di euro di salvataggio precauzionale per contribuire a rassicurare i mercati finanziari sul fatto che il governo italiano e le banche riusciranno a soddisfare i pagamenti dei debiti[4].
Fatte queste premesse, possono essere esaminati in questa sede sia i primi interventi operati dal Governo italiano con il c.d. decreto “cura Italia”, sia le prime indicazioni fornite dalle Istituzioni europee; all’esito potrà formularsi una prima considerazione in ordine sia alla direzione nella quale il nostro esecutivo e quello eurounitario stanno muovendosi, sia in ordine all’adeguatezza di tali misure.
3.Le misure del d.l. “cura Italia”
Il D.l. n. 18 del 17 marzo del 2020 (c.d. decreto Cura Italia) si fonda sostanzialmente su quattro elementi: sanità, lavoro, sostegno della liquidità di famiglie e imprese, fisco.
Quanto al finanziamento del sistema sanitario nazionale, il Governo ha mobilitato tutte le risorse necessarie, ritenute pari a circa 3,2 miliardi di euro, per garantire la dotazione di personale, strumenti e mezzi al sistema sanitario, alla protezione civile e alle forze dell’ordine per assistere le persone colpite dalla malattia e per la prevenzione, la mitigazione e il contenimento dell’epidemia.
Riguardo alla tutela dei lavoratori, con uno stanziamento di 10,2 miliardi di euro viene garantita la tenuta dell’occupazione e dei redditi, potenziando l’intero impianto degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e fondo di integrazione salariale) per l’intero territorio nazionale e per tutti i settori produttivi, incluse le attività con meno di 5 dipendenti.
Poiché, come si è detto, tanto le famiglie quanto le imprese rischiano di vedere significativamente erose le proprie entrate: ciò pregiudica la loro capacità di far fronte ad impegni finanziari pregressi e potrebbe rendere anche difficoltoso l’accesso al credito. Il Governo intende scongiurare con forza questa eventualità e ha destinato 5 miliardi, con un effetto volano per circa 350 miliardi, per assicurare la necessaria liquidità alle famiglie e alle imprese.
In ultimo, con il decreto-legge appena approvato il Governo ha introdotto una serie di norme che prevedono uno stanziamento complessivo di 2,4 miliardi di euro, con l’effetto di sospendere tributi e contributi per complessivi 10,7 miliardi di euro. Viene stabilito il differimento delle scadenze e la sospensione dei versamenti fiscali e contributivi (per tutte le imprese di piccola dimensione e senza limiti di fatturato per le imprese operanti nei settori più colpiti); della riscossione e invio delle cartelle esattoriali; degli atti di accertamento e dei pagamenti dovuti per i diversi provvedimenti di sanatoria fiscale. Inoltre, il decreto prevede un credito di imposta per il proprietario di locali commerciali che rinuncia a parte dell’affitto del mese di marzo.
Sempre in ambito fiscale è stato incentivato, mediante l’estensione delle detrazioni e delle deduzioni, il contributo del settore privato al finanziamento del contrasto dell’epidemia e delle cure sanitarie.
Il d. L. n. 18 del 17 marzo 2020 contiene quindi, secondo le stime della Banca d’Italia “misure che determinano un aumento dell’indebitamento netto di circa 20 miliardi nel 2020 (pari all’1,1 per cento del PIL) quasi interamente dovuto a maggiori spese. Nei due anni successivi gli effetti complessivi sul disavanzo sono sostanzialmente nulli[5]”.
4. Le indicazioni della Commissione UE in tema di aiuti di Stato ed interventi di contrasto alla pandemia
L’atto di riferimento è ad ora la comunicazione della Commissione rubricata “quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del COVID-19”, datata 19 marzo 2020.
In essa la commissione precisa subito che gli aiuti di cui alla presente comunicazione concessi dagli Stati membri alle imprese a norma dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE, erogati attraverso le banche che agiscono come intermediari finanziari, vanno a diretto beneficio delle imprese. Tali aiuti non hanno l'obiettivo di preservare o ripristinare la redditività, la liquidità o la solvibilità delle banche. Analogamente, gli aiuti concessi dagli Stati membri alle banche a norma dell'art. 107, paragrafo 2, lettera b), del TFUE per compensare i danni diretti subiti a causa dell'epidemia di COVID-19 non hanno l'obiettivo di preservare o ripristinare la redditività, la liquidità o la solvibilità di un ente o di un soggetto. Pertanto tali aiuti non si configurerebbero come un sostegno finanziario pubblico straordinario a favore di tali soggetti ai sensi della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio né del regolamento 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e non sarebbero valutati ai sensi delle norme sugli aiuti di Stato applicabili nel settore bancario.
Non solo; al punto 13 si prevede che “tra queste figurano misure applicabili a tutte le imprese, come le integrazioni salariali e la sospensione del pagamento delle imposte sulle società, dell'IVA o dei contributi previdenziali, o il sostegno finanziario concesso direttamente ai consumatori per i servizi cancellati o i biglietti non rimborsati dagli operatori interessati”.
Inoltre, ex art. 107, paragrafo 3, lettera c), del TFUE e come ulteriormente specificato negli orientamenti sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione, gli Stati membri possono notificare alla Commissione regimi di aiuti per far fronte alle necessità acute di liquidità e sostenere le imprese in difficoltà finanziarie, anche dovute o aggravate dall'epidemia di COVID-19.
Particolare importanza assume quanto affermato al punto n. 18: “considerando che la pandemia interessa tutti gli Stati membri e che le misure di contenimento adottate dagli Stati membri hanno un impatto sulle imprese, la Commissione ritiene che un aiuto di Stato sia giustificato e possa essere dichiarato compatibile con il mercato interno ai sensi dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE, per un periodo limitato, per ovviare alla carenza di liquidità delle imprese e garantire che le perturbazioni causate dall'epidemia di COVID-19 non ne compromettano la redditività, in particolare per quanto riguarda le PMI”.
E’ quindi del tutto escluso che il supporto finanziario, concesso in qualsiasi forma sia come finanziamento sia come agevolazione tributaria, in esame, possa costituire aiuto di Stato.
A fronte di tal previsione generale, però, il seguente par. 3 punto n. 22 prevede una forte limitazione, nel concreto, al riconoscimento delle misure di cui si è detto quanto alla loro compatibilità con il diritto dell’Unione. Si stabilisce infatti che l'aiuto non possa superare l’importo di 800.000 euro per impresa sotto forma di sovvenzioni dirette, anticipi rimborsabili, agevolazioni fiscali o di pagamenti; tutti i valori utilizzati sono al lordo di qualsiasi imposta o altro onere; che l'aiuto venga concesso sulla base di un regime con budget previsionale e sia concesso a imprese che non erano in difficoltà al 31 dicembre 2019; può essere concesso a imprese che non erano in difficoltà al 31 dicembre 2019 e/o che hanno incontrato difficoltà o si sono trovate in una situazione di difficoltà successivamente, a seguito dell'epidemia di COVID-19; l'aiuto va comunque concesso entro e non oltre il 31 dicembre 202016.
Un regime speciale è previsto poi per le imprese operanti in particolari settori (es.: la pesca).
Nel prosieguo, si trattano gli ulteriori strumenti utilizzabili per trasferire risorse ai beneficiari, quali le garanzie pubbliche sui prestiti per un periodo e un importo del prestito.
Al punto n. 25 si prevede, anche qui espressamente, che la Commissione considererà tali aiuti di Stato, concessi sotto forma di nuove garanzie pubbliche sui prestiti, compatibili con il mercato interno ai sensi dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE unicamente ad alcune condizioni dettagliatamente indicate, anche con riguardo ai limiti quantitativi (punto 3.2) riferiti all’ammontare del prestito garantito dallo Stato ed ai tassi di interesse agevolati (punto 3.3).
5. Considerazioni conclusive
Le indicazioni della Commissione UE sono state prontamente recepite ed adottate dalla Francia[6], che per prima sta introducendo misure di sostegno alla propria economia in conformità a quanto stabilito dalla Commissione. Secondo il commissario Margrethe Vestager, "our decision approves three measures taken by the French government to help its economy manage the impact of the Coronavirus outbreak. These are expected to mobilise €300 billion of liquidity support for companies affected by this unprecedented situation. Today, we have approved these schemes under the new State aid Temporary Framework - less than 48 hours from its adoption. We are working around the clock with Member States to enable them to take swift, effective and targeted action to support the European economy at this difficult time, while preserving the Single Market. Because we need the Single Market to weather this crisis and bounce back strongly afterwards."
Dal punto di vista del contenuto giuridico, non economico, le stesse sono in linea con la comunicazione sopra citata.
Se quindi il quadro giuridico appare saldo e non suscettibile di intimorire quanto a rischio di contrarietà al diritto unionale delle misure adottate, non così può dirsi, ad ora, riguardo al profilo quantitativo delle risorse finanziarie così mobilitate.
E’ infatti assai probabile, per non dire certo, che l’ammontare delle risorse stanziate sin qui non risulti sufficiente a scongiurare il pericolo in atto.
Saranno probabilmente necessari ulteriori cospicui interventi; a fronte di ciò si renderà nondimeno necessario non tanto verificare la compatibilità di più allentati vincoli di bilancio con i trattati e i regolamenti comunitari (per le ragioni di cui al par. 2 di questo scritto), ma piuttosto ridefinire o meglio chiarire la portata e l’impatto di tali misure rispetto al concetto di aiuto di Stato.
Sarebbe ragionevole, ritengo, escluderne in concreto la rilevanza stante il difetto di selettività delle misure stesse, al di là di ogni profilo quantitativo che pure non dovrebbe in alcun modo assumere più rilevanza anche se per un periodo determinato indicato nell’arco temporale tra oggi e la conclusione della pandemia. Naturalmente, il legislatore interno dovrà diligentemente costruirne la disciplina in modo da rivolgerle a una pluralità di soggetti adeguatamente ampia, per non dire omnicomprensiva.
Infatti, una misura si considera aiuto incompatibile con il mercato interno quando determina (i) un vantaggio sotto forma di alleggerimento di costi, anche sub specie di agevolazione tributaria lato sensu (ii) concesso dallo Stato o comunque finanziato con risorse statali (iii) in maniera specifica e selettiva, che (iv) incide sulla concorrenza e sugli scambi tra gli Stati membri.
Quanto all’ultimo requisito, la c.d. selettività, essa sussiste quando qualora le misure di sostegno siano circoscritte o in senso soggettivo ovvero sul piano oggettivo o settoriale ovvero ancora con riguardo all’elemento territoriale in favore di talune imprese o altri beneficiari ed è da escludere qualora la misura di sostegno sia rivolta alla generalità delle imprese o produzioni su una base di parità di accesso.
Appare ormai evidente come non sia praticabile altra strada: ci troviamo – bene lo ha detto il past president della BCE – in un contesto di guerra al virus, e come soleva ripetere Alessandro Magno “dove non arriva un esercito in armi, arriva un asino carico d’oro”.
Forse ingenuamente, mi sento – istintivamente – di escludere la sussistenza, in futuro, di atteggiamenti restrittivi all’indebitamento necessario da parte degli Stati dell’Unione: mai come ora l’Europa dovrà fondarsi su principi di solidarietà, respingendo le rigide ortodossie contabili e le raffinate, spesso anche riduttive, interpretazioni dei Trattati.
E’ di questi giorni la notizia dell’arrivo in Italia di un gruppo di medici militari russi che lavoreranno fianco a fianco con i colleghi italiani nell’ospedale da campo di Bergamo realizzato dagli alpini quasi ottant’anni dopo la campagna di Russia che vide le due nazioni sanguinosamente contrapposte.
Necessita altro per far comprendere agli Stati dell’Unione come – ora e subito – sia necessario un miglioramento subitaneo di certe relazioni, quantomeno nel comune interesse?[7]
[1] Lo si veda online: https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b.
[2] Centesimus Annus, vedila in www.vatican.vs; paragrafi 19 e 42.
[3] Sia consentito il rimando al mio Il Principio dell’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 Cost. e la Corte costituzionale: un primo (complesso) approccio, in Dir. Dell’Economia, n. 3 2015, pp. 715-764.
[4] Si legga l’intervento su https://vocidallestero.it/2020/03/02/ashoka-mody-italia-la-crisi-che-potrebbe-diventare-virale/
[5] La si veda sul sito istituzionale: https://www.bancaditalia.it/media/notizia/memoria-sulla-conversione-in-legge-del-decreto-cura-italia/
[6] Se ne dà atto in apposito comunicato della Commissione stessa, disponibile online all’indirizzo https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_20_503
[7] Certo, non è di buon auspicio la notizia (del 27 marzo 2020, all’atto della chiusura del presente contributo) di un rinvio da parte del Consiglio Europeo di ogni decisione di due settimane.
La Corte costituzionale aperta alla società civile
Intervista a Valerio Onida e Vladimiro Zagrebelsky
di Roberto Conti
Giustizia Insieme ha pensato di propiziare la riflessione di due personalità del mondo giuridico italiano sulle recenti modifiche introdotte nel gennaio 2020 al giudizio costituzionale, salutate a volte con autentico entusiasmo, altre con nemmeno celata preoccupazione.
L'esperienza maturata all'interno della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo da Valerio Onida e Vladimiro Zagrebelsky fa da collante ai quesiti che intendono non soltanto approfondire in chiave divulgativa e informativa la conoscenza sulle nuove norme integrative, ma altresì favorire un approccio comparativo rispetto ad istituti già in parte in uso presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, anche al fine di misurare la concreta possibilità ed utilità di sviluppi ulteriori rispetto alle ricordate modifiche, fino a giungere alle questioni che ruotano sul ruolo della Corte costituzionale nell'attuale assetto dei poteri.
1.Le recenti integrazioni delle Norme integrative che regolano il processo costituzionale introdotte a pochi giorni di distanza dalla nomina della Professoressa Cartabia a Presidente della Corte costituzionale sono state salutate con favore di una parte consistente degli operatori giudiziari. Qual è il suo avviso in proposito? Ritiene che i vantaggi di un processo costituzionale aperto possano essere oscurati dal pericolo di offrire all’opinione pubblica una visione politicizzata della Corte costituzionale, a detrimento della sua giurisdizionalità?
Valerio Onida
Le novità più significative introdotte nelle Norme Integrative con la delibera dell’8 gennaio 2010 sono la previsione degli “amici curiae” (nuovo art. 4-ter), cioè la possibilità per “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare “un’opinione scritta” (non più lunga di 25.000 caratteri, spazi inclusi), e la previsione degli “esperti” (nuovo art. 14-bis), cioè della possibilità per la Corte, “ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline” di ascoltare in camera di consiglio “esperti di chiara fama”, cui anche le parti possono, in camera di consiglio, formulare domande.
A queste due principali novità si aggiunge la “razionalizzazione” della disciplina degli interventi di terzi (nuovo art. 4-bis), con la previsione di una decisione separata e preventiva della Corte sulla ammissibilità degli interventi e della possibilità per gli intervenienti di accedere agli atti processuali.
La nuova ”apertura” della Corte alla società civile si manifesta nelle due novità principali, soprattutto nella prima.
La disciplina degli interventi di terzi, per quanto riguarda i limiti della loro ammissibilità, resta sostanzialmente invariata, come la giurisprudenza finora l’ha intesa, in modo tendenzialmente rigoroso (così per esempio da escludere l’intervento di parti di altro giudizio nel quale si ponga la stessa questione). Il nuovo comma 7 dell’art. 4 delle N.I. in sostanza riprende quella giurisprudenza quando stabilisce che “nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”, non dunque semplicemente inerente alla questione di costituzionalità proposta.
E’ interessante osservare come tale giurisprudenza sia stata riaffermata anche dopo l’introduzione delle nuove norme: l’ordinanza n. 37 del 2020 la richiama espressamente, anche se poi, nel caso specifico (intervento del Consiglio Nazionale dell’Ordine di giornalisti in un giudizio inerente alla disciplina penale applicabile a tali professionisti), dopo avere escluso sotto altri profili il ricorso di ragioni che rendessero ammissibile l’intervento, questo viene poi ammesso invocando una specifica circostanza della specie (il nesso fra responsabilità penale dei giornalisti e competenza disciplinare del Consiglio dell’Ordine). La qualità dell’interveniente in quel caso, fra l’altro, rifletteva proprio una delle ipotesi in cui le nuove norme integrative ammettono l’iniziativa di amici curiae (soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi attinenti alla questione).
La nuova figura degli amici curiae introduce invece una effettiva possibilità di allargamento del contraddittorio, che mi pare molto positiva, tenendo conto del fatto che la Corte si occupa di questioni che per definizione riguardano non solo singoli interessati, ma tutti i destinatari della legge di cui si discute, quindi questioni di interesse generale. La presenza di amici curiae può ampliare e arricchire l’orizzonte delle ragioni e delle motivazioni sulle questioni esaminate, specie tenendo conto che il giudice a quo non ha alcuna possibilità, una volta emessa l’ordinanza di rimessione, di interloquire con le parti e con l’Avvocatura erariale, che di norma “difende” le disposizioni oggetto del dubbio di costituzionalità; e che le parti private del giudizio a quo non sempre hanno la disponibilità e magari talora i mezzi adeguati per intervenire efficacemente nel contraddittorio davanti alla Corte.
L’intervento degli amici curiae può da questo punto di vista davvero costituire un potenziamento degli strumenti di controllo e di rimedio alle violazioni costituzionali emergenti nella legislazione o nella sua applicazione. Specialmente in un ordinamento come il nostro, in cui l’accesso alla Corte è riservato in linea di principio ai giudici nel corso di un giudizio (con tutti i rischi anche di insufficiente prospettazione delle questioni); in cui gli unici soggetti che possono invece ricorrere direttamente alla Corte nei confronti delle leggi statali sono le Regioni, ma solo per far valere violazioni delle loro competenze o almeno “ridondanti” sulle loro competenze; in cui è esclusa qualsiasi ipotesi di actio popularis (qual era prevista nel progetto di Costituzione), nonché di ricorso diretto individuale alla Corte costituzionale per violazione di diritti fondamentali (come quelli previsti in altri Paesi vicini): in un ordinamento cosiffatto, dunque, riconoscere a soggetti collettivi senza scopo di lucro e a soggetti rappresentativi di interessi collettivi o diffusi la possibilità non già di instaurare nuovi giudizi, ma di interloquire nei giudizi di costituzionalità delle leggi già instaurati, può rivelarsi un utile strumento di arricchimento degli istituti di giustizia costituzionale.
E’ interessante che l’intervento degli amici curiae possa avvenire anche nei giudizi diversi da quelli incidentali, cioè nei giudizi principali e in quelli per conflitto di attribuzione, come si ricava dal richiamo all’art. 14-ter introdotto negli artt. 23 (giudizi in via principale), 24 (conflitti di attribuzione fra poteri) e 25 (conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni), dunque lungo tutto l’arco delle funzioni della Corte (eccettuata ovviamente quella penale residua). La novità mi sembra dunque assolutamente positiva, e lo strumento merita di esser utilizzato con larghezza dai soggetti abilitati.
Quanto alla previsione della audizione di “esperti”, essa in realtà appare, più che una “apertura” alla società civile, uno strumento inteso a facilitare e ad arricchire l’uso dei poteri istruttori di cui la Corte già ampiamente disponeva, consentendole di udire dal vivo il parere (non consacrato in documenti già acquisibili dalla Corte) di persone qualificate (“di chiara fama”) su argomenti tecnico-scientifici che in qualunque modo si intreccino alle questioni di costituzionalità discusse davanti alla Corte. L’art. 13 della legge n. 87 del 1953, come è noto, prevede che “La Corte può disporre l’audizione di testimoni e, anche in deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o documenti”; e l’art. 12 delle norme integrative – non modificato – prevede che “La Corte dispone con ordinanza i mezzi di prova che ritiene opportuni e stabilisce i termini e i modi da osservarsi per la loro assunzione”. Dunque la Corte poteva già “acquisire informazioni”: nella nuova norma si precisa il riferimento al fatto che si tratti di informazioni attinenti a “specifiche discipline”, e quindi si allude esplicitamente alla circostanza che talora la risposta ai problemi prospettati può dipendere anche da dati tecnico-scientifici o dalla loro interpretazione.
Significativa è soprattutto la possibilità prevista per le parti di partecipare alla camera di consiglio all’uopo convocata, e in quella sede, con l’autorizzazione del Presidente, di “formulare domande agli esperti”. Assoluta novità, questa, se si eccettua la prassi introdotta nei giudizi sull’ammissibilità dei referendum abrogativi, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, di consentire ai promotori e al Governo di illustrare in camera di consiglio le rispettive memorie depositate ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 352 del 1970, prassi successivamente estesa, a partire dalla sentenza n. 31 del 2000, ad altri soggetti, senza peraltro che essi assumano la posizione di parti intervenienti.
Non si dice se, convocando gli esperti, la Corte deve indicare in qualche modo (come è plausibile che faccia) l’oggetto specifico dell’audizione, al di là dell’oggetto del giudizio costituzionale, e se deve formulare precisi quesiti sui quali udirli; né se, oltre alle eventuali domande poste dalle parti, anche i Giudici potranno porre domande agli esperti.
Il primo caso pratico si è verificato con l’ordinanza depositata in cancelleria, non pubblicata ma del cui contenuto è dato conto in un comunicato stampa del 28 febbraio 2020, emessa nell’ambito di un giudizio incidentale relativo alla disciplina di posizioni dirigenziali nelle Agenzie fiscali, con la convocazione di due esperti allo scopo di acquisire informazioni “in relazione alle esigenze organizzative delle Agenzie fiscali, alle mansioni assegnate al personale e alle modalità di selezione dello stesso”. L’ordinanza offre già una prima risposta ad alcuni degli interrogativi accennati: la Corte ha detto, sia pure in modo generico, su che cosa intende sentire gli esperti, e ha disposto che la Presidente, il Giudice relatore ma anche gli altri Giudici costituzionali potranno rivolgere agli esperti “domande per valutare presupposti e ricadute organizzative dell’introduzione” nelle Agenzie fiscali delle c.d. posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER). Per la verità in questo caso la Corte sembrerebbe voler acquisire non tanto dati e valutazioni tecnico-scientifiche “attinenti a specifiche discipline”, quanto acquisire informazioni e valutazioni di “tecnici” sulle concrete esperienze, sui problemi e le prassi in atto nelle Agenzie fiscali, e le loro ragioni giustificatrici, in tema di selezione e utilizzo del personale dirigenziale.
Certamente la convocazione e la presenza di esperti con i quali sia i Giudici che le parti interloquiscono possono favorire un parziale “disvelamento”, in una camera di consiglio aperta alle parti che precede quella decisoria, degli “itinerari” su cui la Corte si avvia per adottare la propria decisione.
La questione forse più delicata che si porrà anche in futuro è quella dei criteri di selezione degli “esperti di chiara fama”. Chi e come li indicherà? E le parti avranno voce in capitolo su questa scelta? Potranno a loro volta indicare degli esperti da sentire? Si potrà addirittura dar vita ad un dibattito fra gli esperti, se le rispettive opinioni non coincidessero? Infatti non è impossibile né improbabile che su temi tecnico-scientifici che si intrecciano ai problemi di costituzionalità, anche fra gli esperti possano manifestarsi indicazioni e opinioni diverse: e dunque non potrà non garantirsi un contraddittorio anche su di esse.
A tutti questi interrogativi sarà la prassi applicativa a dare delle risposte, e dunque allo stato una valutazione ragionata e approfondita sul funzionamento pratico di questo nuovo istituto non può che essere rinviata alla concreta applicazione che se ne farà: anche tenendo conto che finora la Corte ha fatto un uso assai parco dei poteri istruttori che pure la legge (art. 13 della legge n. 87 del 1953) le affida con grande larghezza, inclusa la facoltà di disporre l’audizione di testimoni, eventualità questa finora mai verificatasi, e che potrebbe in certo senso trovare concretizzazione ora nella audizione degli “esperti”.
Vladimiro Zagrebelsky
Poco prima della recente modifica dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la Corte ha pronunciato l’ordinanza del 22 ottobre 2019 relativa alla procedura conclusasi con la sentenza 253/19. In linea con la precedente giurisprudenza, ha ricordato che l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato dalla norma oggetto di censura. Successivamente è intervenuta la integrazione dell’art. 4/7 della quale, con l’ordinanza n. 37/20, la Corte ha dichiarato che “recepisce la costante giurisprudenza di questa Corte in merito all’ammissibilità dell’intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del giudizio a quo”. Il nuovo art. 4/7 infatti dispone che “Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”.
Nessuna novità dunque se non la trasformazione del diritto giurisprudenziale in diritto scritto. Non mi pare che da ciò discenda un processo costituzionale più aperto di quanto già non fosse e ancor meno mi sembra giustificato ipotizzare rischi per possibili conseguenze sulla natura del giudizio della Corte.
Altra cosa è l’ammissione della figura dell’amicus curiae introdotta dal nuovo art. 4 ter. Ove fosse stata già in vigore tale norma avrebbe ad esempio portato la Corte ad ammettere il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale a svolgere un tale ruolo nel già ricordato processo conclusosi con la sentenza n. 253/19. Infatti, con la nuova norma, le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta. Tali opinioni sono ammesse se offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità. I soggetti le cui opinioni sono state ammesse non assumono qualità di parte nel giudizio costituzionale, non possono ottenere copia degli atti e non partecipano all’udienza.
La nuova figura che viene riconosciuta nel processo davanti alla Corte ha un valore di formale riconoscimento di ciò che nella società si svolge, come fonte di argomenti potenzialmente utili ad arricchire il quadro dei motivi che possono indurre la Corte a adottare l’una o l’altra soluzione. Tuttavia, non mi sembra che nella sostanza l’innovazione sia di grande portata. Quelle opinioni verranno allegate agli atti esaminati dai giudici, senza imporre alla Corte di rispondere agli argomenti che vi sono addotti. Così avviene per analoghi scritti, variamente pubblicati, che la Corte raccoglie nei fascicoli preparati dall’Ufficio Studi o dagli assistenti dei giudici in vista della decisione della causa. Come ogni giudice, anche i giudici costituzionali, leggono anche altro, oltre a ciò che viene prodotto nei fascicoli processuali. Da tempo (e anche recentemente) l’Università di Ferrara organizza e pubblica studi sotto il titolo di “Seminari preventivi”, prima dunque, invece che dopo la sentenza della Corte, nella fiducia che nella preparazione delle sue decisioni la Corte ne prenda conoscenza.
Conclusivamente l’introduzione dell’amicus curiae, con la rigorosa disciplina che l’accompagna, merita apprezzamento per la legittimazione che ricevono le espressioni della società civile, ma non muta certo il carattere del processo davanti alla Corte.
2. L’esigenza di aprire il giudizio costituzionale alle voci di esperti ha quasi naturalmente orientato lo sguardo verso esperienze simili maturate in contesti diversi e, per quel che qui importa, all’art.36 CEDU. Pensa che la comparazione fra le misure previste nella CEDU e quelle di recente fattura adottate dalla Corte costituzionale possa essere proficua e se sì, in che misura?
Valerio Onida
La nuova regolamentazione dell’intervento di amici curiae davanti alla Corte costituzionale induce naturalmente al confronto fra questo e analoghi istituti, da tempo sperimentati, previsti in altri ordinamenti, e in particolare presso la Corte EDU (art. 36, par. 2, della Convenzione). Un compiuto confronto potrà farsi solo sulla base dell’esperienza applicativa. A prima vista si può osservare che il nuovo istituto italiano, pur molto simile, appare prevedere qualche maggiore limite quanto alla qualità degli intervenienti, rispetto alla prassi della CEDU. Infatti la nostra norma identifica le categorie di soggetti (formazioni sociali senza scopo di lucro e soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità), mentre la CEDU prevede l’intervento (oltre che degli Stati diversi da quello chiamato in causa), genericamente di “ogni persona interessata diversa dal ricorrente”, e la prassi ha visto l’intervento ad esempio anche di imprese o di gruppi di avvocati. Inoltre la CEDU prevede la possibilità di ammettere gli amici curiae a presentare osservazioni scritte ovvero a partecipare alle udienze, mentre la nostra Corte esclude che gli amici curiae assumano la qualità di parti del giudizio e possano partecipare all’udienza, e prevede altresì che l’opinione scritta abbia una estensione massima prefissata. L’ammissione è disposta in entrambi i casi dal Presidente, da noi “sentito il giudice relatore”, ed è previsto dalle nostre norme che siano ammesse “le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità”.
Può essere significativo il riferimento al caso concreto (ovviamente attinente essenzialmente ai procedimenti incidentali, oltre che eventualmente ai conflitti di attribuzione) come indice di una positiva tendenza della Corte (peraltro da sempre rilevabile, anche se forse non sempre allo stesso modo) a tener conto, nel valutare la questione di costituzionalità della legge, dei caratteri del caso concreto da cui la questione nasce: aspetto che distingue il controllo c.d. “concreto” sulla legge dal controllo “astratto”, e che invero consente non di rado di cogliere eventuali profili di violazione della Costituzione più nelle conseguenze applicative concrete che nel tenore astratto delle disposizioni legislative .
Vladimiro Zagrebelsky
Tra le riforme delle Norme integrative recentemente introdotte, si presenta incisiva ed anche fortemente significativa la nuova disposizione dell’art. 14 bis, che consente alla Corte di acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline. A tale scopo la Corte può disporre che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite. La nuova norma si segnala per la serietà rivelata da giudici che dichiarano di aver necessità di conoscere ciò che naturalmente non conoscono. Essa attiene alla natura del mestiere di giudice. Intendo con ciò riferirmi a ciò che dovrebbe essere ovvio, che cioè nessun giudice dovrebbe sentenziare senza conoscere e senza tener conto della realtà su cui la sua decisione va ad incidere e sulle conseguenze che ne derivano. Le audizioni degli esperti in discipline come l’economia, la sociologia/antropologia, la bioetica e forse anche certe branche del diritto, saranno utili alla Corte. Analogamente utili sono o potrebbero essere le audizioni cui procede il Parlamento nei lavori preparatori delle leggi. E le audizioni disposte dalla Corte saranno svolte con la partecipazione delle parti, così da introdurne formalmente l’esito nel quadro degli elementi da considerare nel giudizio.
Un simile strumento conoscitivo potrebbe giovare anche alla Corte europea dei diritti umani. Eccezionalmente essa richiede parere alla Commissione di Venezia, organo del Consiglio d’Europa. Gli interventi di parti terze di cui agli artt. 36 Conv. e 44 Regolamento della Corte, sono invece in qualche misura assimilabili alla nuova figura dell’amicus curiae di cui sopra. È spesso utile alla Corte ricevere le osservazioni di soggetti diversi dal ricorrente e dal governo contro cui il ricorso è volto. Un certo ruolo svolge talora il c.d. giudice nazionale. Ma vi è un’importante caratteristica dell’istituto nel processo davanti alla Corte europea, poiché la o le parti terze il cui intervento è ammesso possono essere gli Stati che sono parte del sistema della Convenzione e che non sono convenuti in giudizio. Notevole è l’importanza degli interventi degli Stati che, per un motivo o per l’altro ritengono che la decisione della questione in discussione implichi conseguenze nel proprio ordinamento interno o sull’intero sistema. Essa deriva dagli effetti della c.d. “cosa interpretata” che dichiara il contenuto attuale degli obblighi degli Stati (art. 1 Conv.), come definiti dalla giurisprudenza della Corte (art. 32 Conv.).
3.Una parte della dottrina costituzionale ha di recente parlato di suprematismo del giudice costituzionale, stigmatizzando talune recenti scelte della Corte costituzionale che finirebbero col modificarne la natura voluta dalla Costituzione. Qual è il Suo avviso in proposito?
Valerio Onida
Che cosa significa “suprematismo del giudice costituzionale”? Se si vuole alludere ad una presunta tendenza della Corte a superare i confini della sua funzione, ad assumere poteri che non le spettano, direi che non mi sembra affatto vero. Sono noti taluni antichi rilievi mossi nei confronti della Corte perché essa non si è limitata, nella sua prassi, a pronunciare sentenze di “accoglimento secco” sulle questioni a lei sottoposte, ma si è dotata di un armamentario vario, come le sentenze “interpretative” (quelle di rigetto, perché in una sentenza di accoglimento l’eventuale interpretazione data dalla Corte alla norma legislativa si “cristallizza” in un dispositivo “manipolativo”), le sentenze di accoglimento parziale o “manipolativo” (“nella parte in cui” si prevede alcunchè), “additive” (“nella parte in cui” non si prevede alcunché), o “additive di principio”. Queste soluzioni sono necessarie, dal momento che talora la semplice dichiarazione di incostituzionalità di una intera disposizione potrebbe produrre effetti di maggiore incostituzionalità o lacune intollerabili nell’ordinamento, specie se si tiene presente che il legislatore di solito non dà seguito ai “moniti” che la Corte talora formula nelle proprie pronunce per segnalare la necessità costituzionale che una certa disciplina venga modificata.
Il compito della Corte, cui essa non può venir meno, è quello di “depurare” l’ordinamento dalle norme che si pongono in contrasto, anche solo per una parte o con riguardo a certi casi concreti, con la Costituzione, cioè di impedire che una disciplina incostituzionale venga applicata, o una soluzione incostituzionale di una controversia concreta sia adottata anche in un solo caso: posto che i giudici comuni non sono abilitati a “disapplicare” le norme di legge, essendo questo potere riservato alla Corte, ma hanno il potere-dovere (oltre che di interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione) di sollevare davanti alla Corte i dubbi di costituzionalità non manifestamente infondati.
A mio giudizio la Corte non adempie invece fino in fondo al suo compito quando rifiuta di dichiarare una incostituzionalità che pur rileva nella norma ad essa sottoposta, sol perché per rimediarvi potrebbero esservi diverse soluzioni alternative, tra le quali il legislatore resta libero di scegliere (cosiddette inammissibilità per “pluralità di soluzioni”). Infatti, restando fermo che il legislatore può scegliere la soluzione che ritiene migliore, nell’ambito della sua discrezionalità, per adeguare la legge alla Costituzione, la Corte, se investita della questione, non può rifiutarsi di accertare il contrasto con la Costituzione, sol perché vi sarebbero diverse soluzioni, costringendo così il giudice ad applicare in concreto, per risolvere la controversia davanti a lui pendente, una norma non conforme alla Costituzione (e quindi a dare una soluzione incostituzionale alla causa davanti a lui pendente). Diverso è il caso in cui la pronuncia di inammissibilità consegua a difetti dell’ordinanza di rimessione, che ovviamente potrebbero in seguito essere corretti, non essendo preclusa la riproposizione, anche da parte dello stesso giudice, di una questione giudicata inammissibile per queste ragioni.
Nel caso della cosiddetta “pluralità di soluzioni” la Corte dovrà invece volta per volta adottare una pronuncia di accoglimento scegliendo la soluzione minima necessaria per evitare la conservazione in vita della norma incostituzionale, e così quella più conforme al sistema, o anche limitarsi ad una pronuncia che disponga il principio da rispettare (c.d. “additiva di principio”), lasciando poi che la specifica disciplina sostitutiva di quella incostituzionale sia scelta dal legislatore o, in mancanza del suo intervento, dal giudice del caso concreto.
Tutto questo non significa affatto che la Corte esca dai propri confini o si sostituisca al legislatore. Essa fa ciò che le spetta, e cioè garantire i soggetti dell’ordinamento contro il rischio di applicazione di una disciplina che contrasti con la legge fondamentale.
Vladimiro Zagrebelsky
Dopo anni e anni in cui il Parlamento lasciava cadere ogni segnalazione (inutilmente chiamata “monito”) che giungeva dalla Corte sulla necessità di intervenire legislativamente per correggere norme incompatibili con la Costituzione o riempire “vuoti” incostituzionali. Si è arrivati al punto che le due Camere, con conflitto di attribuzione nei confronti della magistratura ordinaria (nella vicenda Englaro), hanno rivendicato la loro esclusiva competenza a intervenire legislativamente, per poi omettere per anni di provvedere. Il conflitto è poi stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. È lungo l’elenco di decisioni della Corte costituzionale (accompagnate da “moniti”) nel senso dell’inammissibilità di eccezioni di costituzionalità per questioni che richiedevano scelte rientranti nella competenza del Parlamento. Ciò fino a quando il problema -che cresceva in gravità- si è posto alla Corte in termini che non consentivano più di lasciarlo aperto. Mi riferisco alla vicenda che prende il nome da Marco Cappato e la innovativa soluzione procedurale adottata dalla Corte. Avendo il Parlamento omesso di provvedere, la Corte ha dovuto decidere essa stessa. E ciò dopo avere, nella ordinanza che ha preceduto la sentenza n. 242/19, riconosciuto che la sede propria delle scelte implicate dal tema era quella parlamentare. Non era la prima volta che si apriva la possibilità di adottare lo schema -non privo di contraddizione- del monito al Parlamento, seguito dalla sua inerzia e poi dall’intervento della Corte in sostanziale sostituzione. La vicenda che si è conclusa con la sentenza n. 113/11 ne è esempio. Ma nel caso Cappato, la Corte si era trovata nelle condizioni di non poter usare ancora lo schema della (1) dichiarazione di inammissibilità con monito, (2) attesa (inutile) e poi, solo poi, (3) sentenza. Nel frattempo, infatti, avrebbe trovato applicazione l’art. 580 C.p., che la Corte riteneva incostituzionale proprio in casi come quello della vicenda giudicata dal giudice a quo. Questo il contesto concreto che spiega l’adozione della soluzione procedurale e poi la sentenza della Corte: l’incapacità o non volontà del Parlamento di adempiere ad un preciso dovere costituzionale, come è quello di rimuovere leggi incostituzionali. Non quindi ambizioni suprematiste, ma ricerca di soluzioni che non rendano vana la posizione preminente della Corte tra i poteri dello Stato cui è rimessa la difesa della Costituzione.
Del non funzionamento del Parlamento ci si dovrebbe innanzitutto preoccupare nel discutere la situazione che è venuta progressivamente a crearsi. Ciò non significa chiudere gli occhi rispetto ai problemi che pone l’intervento della Corte, a partire dal quesito riguardante la forza della sentenza nei confronti del Parlamento, se e quando esso legifererà. Sul merito della sentenza n. 242/19, insieme ad altri commentatori, ho in altra sede svolto motivi di critica e soprattutto posto quesiti che rimangono senza risposta (mi permetto di rinviare al mio Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in Suicidio assistito: le prospettive di fondo e la giurisprudenza costituzionale, in Legislazione penale, 15 marzo 2020). Ma per le questioni che pone in evidenza il modo di procedere della Corte costituzionale, direi di assegnare il massimo di peso alla disfunzione del sistema che deriva dagli inadempimenti del Parlamento. Da essi, a cascata, derivano distorsioni che colpiscono tutti gli altri protagonisti nel disegno dei rapporti tra i Poteri dello Stato.
4.Intravede nell’introduzione delle novellate Norme integrative una conferma o una smentita al fatto che il diritto, nel suo momento attuativo, si mostra sempre più poroso rispetto alle influenze esterne alla sfera pubblica, trovando alimento oltreché dai casi concreti posti al vaglio del giudice – comune e costituzionale – ora anche dalla società civile?
Valerio Onida
Il diritto legislativo non solo può, ma deve essere “poroso” rispetto alle esigenze della società, da valutare in sede politica, ma comunque conformandosi ai principi costituzionali. La “sfera pubblica” – se questo vuol dire gli organi politici, amministrativi e giudiziari – non è un “mondo separato” dalla società, ma ha il compito di soddisfare le domande di “giustizia” (nel senso più ampio) che la società esprime in ogni tempo, scegliendo, certo, ciò che viene ritenuto “giusto” in base a criteri politici (in senso alto), ma comunque assicurando la garanzia di rispetto dei principi che la Costituzione stabilisce (rispetto dei diritti fondamentali dei singoli e delle formazioni sociali, equità e ragionevolezza delle discipline stabilite, equilibrio fra i poteri).
Poiché la Corte costituzionale non è chiamata ad amministrare giustizia nei casi concreti (salvo che nei conflitti di attribuzione), ma a controllare le leggi in vista della loro applicazione, vigilando che esse non contrastino con i principi costituzionali, è naturale che il suo sguardo si estenda al di là del caso concreto e degli interessi specifici in esso coinvolti, per adottare pronunce sulle leggi che siano le più adeguate a garantire il rispetto della Costituzione. Le questioni di costituzionalità normalmente coinvolgono interessi più ampi di quelli dei soli soggetti della controversia concreta nell’ambito della quale esse vengono sollevate: nulla di più naturale dunque che la Corte ascolti anche voci esterne rispetto al caso che ha dato occasione alla questione, ma che esprimono interessi e valutazioni comunque inerenti all’ipotizzato contrasto fra legge e Costituzione. Infatti le decisioni della Corte, quando sono di accoglimento, hanno valore erga omnes ed hanno effetto per tutto l’ordinamento.
Vladimiro Zagrebelsky
Non c’era bisogno di queste norme integrative per scoprirlo. Il diritto interpretato e applicato dai giudici e tanto più dai giudici costituzionali, raramente è automatico, insensibile all’esterno. E il criterio del giusto/sbagliato è raramente applicabile. Le opinioni separate allegate alle sentenze della Corte europea dei diritti umani lo mettono in evidenza (invece di nasconderlo).
5. La dissenting opinion nella giurisprudenza della Corte edu costituisce una misura ben conosciuta dagli operatori del diritto. Sulla base della Sua esperienza, essa potrebbe giovare anche nel processo costituzionale?
Valerio Onida
Il tema della dissenting opinion è da molto tempo all’attenzione della dottrina giuridica e anche della Corte, che talvolta ha discusso al suo interno sulla possibilità di introdurla (con legge o anche con normativa interna).
L’argomento fondamentale a favore della sua introduzione sta nel fatto che la giurisprudenza della Corte investe per sua natura questioni di interesse generale (che non riguardano solo gli interessi delle parti di una controversia concreta), e, sempre per sua natura, è destinata a svilupparsi nel tempo in maniera tendenzialmente coerente. Il valore del precedente è per la Corte particolarmente significativo, perché essa non giudica di casi concreti (riguardo ai quali l’ordinamento può meglio tollerare l’eventuale succedersi di pronunce concrete diverse e non concordanti fra di loro), ma di questioni di interesse generale; e perché assume importanza non solo la decisione specifica, ma anche il percorso motivazionale seguito dalla Corte. La dissenting opinion (o anche la concurring opinion, cioè una motivazione parzialmente dissenziente che però conduca alla stessa conclusione della maggioranza) mostra un altro possibile percorso motivazionale, che la maggioranza della Corte non ha inteso seguire, ma che può offrire importanti elementi di confronto e di valutazione, insieme alla motivazione della pronuncia adottata, per i casi futuri.
Può verificarsi infatti che una motivazione dissenziente proposta in un caso, in uno successivo venga accolta e seguita dalla maggioranza, così contribuendo all’evoluzione della giurisprudenza. Del resto accade che la Corte ritorni in altra occasione su un tema già trattato e adotti una posizione in tutto o in parte divergente da quella precedente: il cosiddetto overruling. Talvolta la Corte lo fa espressamente, motivando il cambiamento di giurisprudenza, talaltra lo fa più tacitamente. La conoscenza non solo delle motivazioni della Corte, ma anche delle eventuali opinioni dissenzienti può dunque arricchire il dibattito e contribuire allo sviluppo della giurisprudenza.
In ogni caso le opinioni dissenzienti valgono, e servono, non tanto a rendere noto il livello di consenso raggiunto nell’ambito del collegio (nella prassi della nostra Corte il dissenso viene di fatto reso noto quando il giudice relatore di una causa rifiuta di scrivere la decisione che non condivide, e viene sostituito da un diverso giudice “redattore” designato dal Presidente), quanto a rendere espliciti i diversi percorsi motivazionali che conducono alle diverse soluzioni (o talora alla stessa soluzione ma con un diverso percorso: la c.d. concurring opinion). E’ la motivazione, più che la soluzione in sé, che può contribuire allo sviluppo successivo della giurisprudenza.
La possibilità di formulazione e di pubblicazione di opinioni dissenzienti potrebbe anche contribuire a rendere talora più complete e convincenti le motivazioni delle decisioni, inducendo a non eludere nodi argomentativi importanti che emergono dal dissenso.
Le obiezioni più forti alla introduzione della opinione dissenziente nella Corte costituzionale sono quelle che si riferiscono al rischio di disincentivare la ricerca di soluzioni ampiamente condivise, e al pericolo di una aumentata esposizione dei singoli giudici al rischio di essere “etichettati” come sostenitori di una parte politica e perciò, da un lato, di ridurre la percezione nel pubblico di una unità nelle risposte date dalla Corte ai quesiti posti, e quindi la “persuasività” delle decisioni (ma già oggi non è infrequente la diffusione di indiscrezioni circa l’entità del dissenso su singole decisioni di maggiore interesse per l’opinione pubblica); dall’altro lato di esporre i giudici ad una “pressione” delle forze politiche considerate a loro vicine perché manifestino il loro dissenso. Tuttavia penso che la Corte italiana abbia da tempo guadagnato una “immagine” di indipendenza abbastanza forte per contenere questi rischi, e che dunque nel complesso siano più forti le ragioni che potrebbero indurre a prevedere l’introduzione di questo istituto.
Vladimiro Zagrebelsky
Le opinioni separate (concordanti o dissenzienti) nel sistema della Convenzione europea sono una possibilità che hanno i giudici che non hanno condiviso il tenore della sentenza, per gli argomenti soltanto o anche per il dispositivo. Quella che negli artt. 45 Conv. e 74 Regolamento della Corte è una possibilità, nella prassi è divenuta una regola. La prima conseguenza è che la posizione di ciascuno dei giudici viene rivelata: quella di chi redige un’opinione separata e, per conseguenza, quella di chi ha partecipato a formare la maggioranza. La Corte indica sempre se la sentenza è resa alla unanimità oppure a maggioranza e in questo caso con quanti voti.
In proposito si può ricordare che nel sistema italiano l’art. 685 C.p. punisce la pubblicazione dei nomi e voti dati nella deliberazione nel processo penale. Ma la Corte costituzionale (sentenza n.18/89) ha affermato che nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e la segretezza vista come mezzo per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione, né impone il segreto sull'esistenza di opinioni dissenzienti all'interno del collegio. D’altra parte, è prevista la figura di giudici monocratici (art. 106, comma secondo), le cui decisioni non possono essere impersonali.
Nelle opinioni separate i motivi svolti dai giudici che, per i motivi o per il dispositivo, si separano dalla maggioranza sono spesso molto forti. Essi di regola si fondano sulla stessa base normativa su cui ha lavorato la maggioranza: la Convenzione e soprattutto il vasto campo della giurisprudenza già sviluppata dalla Corte (art. 32 Conv.) e cui la Corte dichiara di attenersi. La sentenza, quando non è unanime, mette dunque in chiaro che sono possibili diverse ricostruzioni del diritto applicabile. Ciò avviene attraverso l’identificazione del senso della giurisprudenza relativa alla materia cui si riferisce il ricorso da decidere, l’esercizio del distinguishing e l’applicazione al caso concreto. L’esito o gli esiti di tale esercizio rendono inadeguato il criterio del giusto/sbagliato nell’aderire all’una invece che all’altra soluzione. Le soluzioni e gli argomenti che le sostengono si confrontano sul piano della ragionevolezza e della loro idoneità a risolvere il caso.
Sono quindi evitati i difetti del sistema italiano, che è grave soprattutto per quanto attiene alle sentenze della Corte costituzionale. Poiché esso unisce la finzione della unanimità (che suggerisce anche l’inevitabilità della soluzione affermata da giudici null’altro che bouches de la loi) alla sistematica fuga di notizie sulle maggioranze (a riprova che altre soluzioni sarebbe state possibili). Aggiungerei anche che la mancanza di indicazioni sulle maggioranze e minoranze, con le loro motivazioni, esprime un atteggiamento autoritario, che impone una sentenza e rifiuta di ammettere che essa è sì legittima, ma non indiscutibile. Una indiscutibilità tra l’altro che male convive con l’evoluzione e ancor più con i contrasti giurisprudenziali e che talora costringe i giudici a contorsioni argomentative per mostrare che le loro nuove affermazioni sono in linea con i precedenti. Aggiungerei anche che il sistema italiano per cui il dispositivo delle sentenze penali è letto in udienza privo della motivazione, che arriverà successivamente e spesso dopo molto tempo, rende anche più evidente la mancata cura di rendere aperto alla discussione l’atto di autorità di cui la sentenza è strumento.
Nel sistema della Corte europea i motivi svolti nell’opinione separata, concordante o dissenziente, riflettono quelli che l’autore dell’opinione ha svolto nella camera di consiglio e che la maggioranza non ha condiviso. In questo senso, in qualche modo a contrario, gli argomenti sviluppati nelle opinioni separate fanno parte, arricchiscono la motivazione adottata dalla maggioranza. Capita che l’opinione separata redatta per essere allegata alla sentenza sia più approfondita, almeno nelle citazioni giurisprudenziali di supporto, di quanto il giudice ha proposto ai colleghi nella discussione collegiale. Ma sono anomale le opinioni separate che riportano argomenti ulteriori rispetto a ciò che il collegio ha udito e discusso. Esse si apparentano alle note a sentenza.
Nel delicato ruolo del presidente del collegio giudicante (7 giudici nelle Camere e 17 nella Grande Camera) di cercare, se non l’unanimità, almeno la maggioranza più vasta possibile, le opinioni separate giocano un ruolo importante. Ciò avviene soprattutto per le sentenze della Grande Camera, per la procedura della deliberazione, che passa attraverso un primo voto provvisorio, che orienta il comitato di redazione della sentenza, e, in un secondo momento, il voto definitivo, che segue alla revisione collegiale della motivazione. In quest’ultima fase soprattutto, la ricerca di una vasta maggioranza passa attraverso il tentativo di inglobare nella motivazione quante più possibili proposte dei singoli giudici. Il rischio è di produrre motivazioni in cui non è chiara la ratio decidendi (quella che poi vincola sia la Corte per i casi successivi, sia gli Stati aderenti al sistema della Convenzione). La via di uscita dalla discussione di posizioni non componibili è la presa d’atto delle divergenze, che le opinioni separate metteranno in luce lasciando indenne la motivazione della maggioranza nella sua coerenza. La sentenza andrà a formare la giurisprudenza della Corte. Le opinioni separate indicheranno che un altro diritto giurisprudenziale era possibile (e forse finirà per l’affermarsi).
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Roberto Conti
Poco o nulla è o necessario aggiungere alle risposte dei due interlocutori che hanno dimostrato quanto sia fecondo il dialogo alimentato sulla base di conoscenze ed esperienze di alto profilo maturate in contesti giudiziari differenti e distanti, territorialmente e culturalmente, ma in realtà vicini nelle prospettive e nelle finalità, pur ciascuno nell'ambito dei rispettivi ordinamenti.
Viene dunque spontaneo pensare come proprio il confronto e la condivisione di ideali comuni alle due Corti possa rappresentare una delle possibili ricette capaci di curare le ferite che i sistemi sovranazionali in cui sono "uniti" molti Paesi dell'Europa mostrano in questo periodo, funestato da vicende che hanno visto appannare l'idea di Europa, a partire dalla Brexit fino all'emersione da più parti di spinte nazionaliste e antagoniste rispetto ad un'idea, quella dell’unità dei popoli fondata su un ceppo di valori comuni e tuttavia avvertita come incapace di attuare gli ideali sui quali era stato edificato l'edificio europeo.
Il messaggio che esce, forte, dalle parole di Onida e Zagrebelsky è quello che identifica la Corte costituzionale – ma, forse sarebbe meglio dire entrambe le Corti – come un elemento indispensabile per mantenere unita l'Europa e gli europei, pur nelle loro diversità. Una Corte che si umanizza, soprattutto quando non ha timore di mostrare la sua “non inniscenza”, al punto di giustificare un “confronto” con gli esperti, sulle modalità operative del quale occorre attendere l’esperienza in vivo.
Un'idea ancora una volta fondata sulla centralità della funzione di garanzia, avvertita come insostituibile presidio di legalità anche nelle sue declinazioni estreme, originate a volte da scelte attendiste provenienti dagli altri poteri dello Stato.
Il che, in definitiva, spazza via, nell’opinione dei due Giudici, l’idea di un suprematismo giudiziario della Corte costituzionale- di recente confezionata da una parte della dottrina (A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica, in Quaderni costituzionali, a. XXXIX, n. 2, giugno 2019, 251 ss.) nel quale nemmeno possono inserirsi le novità di cui si è detto, anch’esse frutto di un processo di razionalizzazione di orientamenti della stessa Consulta già consolidati o, per altro verso, commendevolmente rivolti ad implementare i mezzi istruttori già riconosciuti in precedenza alla Corte per affinare e calibrare meglio il giudizio in relazione al caso.
Particolarmente interessante è risultata la reciproca consapevolezza degli intervistati sul fatto che il confronto fra gli strumenti di nuova fattura introdotti per rendere il giudizio costituzionale ancora più attento alle conoscenze tecniche possa essere di auspicio per eventuali omologhe aperture nell'ambito del giudizio della Corte edu, come si sa, peraltro, molto parco nel consentire l’intervento di soggetti terzi, al punto da indurre la Corte costituzionale italiana a sollecitare una maggiore apertura sul punto(v.Corte cost.n.123/2017).
Questo mutuo scambio di esperienze concrete dei rispettivi giudizi è continuato a proposito della c.d. dissenting opinion. Questa volte, è stato Zagrebelsky a mettere al servizio della Corte costituzionale l'esperienza maturata sulle c.d. dissenting opinion, sul ruolo che essa assume rispetto al singolo procedimento e, soprattutto alle vicende che approdano alla grande Camera.
Onida e Zagrebelsky non sembrano condividere le preoccupazioni pure rappresentate dalla dottrina – per tutti, A. Ruggeri, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi – circa i rischi di strumentalizzazione politica o di condizionamento delle decisioni della Consulta per effetto dell’apertura agli strumenti partecipativi di nuova fattura.
Assai delicata risulta, de iure condendo, la questione relativa alla possibilità di introdurre la dissenting opinion nel giudizio costituzionale.
Il parametro di riferimento rappresentato dall’esperienza maturata innanzi alla Corte edu sulla quale si è soffermato Zagrebelsky, tratteggiandone i pregi almeno rispetto all’uso fisiologico che di tale strumento può farsi, a volere seguire l’impronta comparatistica qui accarezzata andrebbe completato con quanto accade innanzi alla Corte di Giustizia, ove non vi è spazio alle opinioni dei giudici dissenzienti, rispecchiando la tradizione giuridica del nostro Paese e di altri.
Certo, non può sfuggire che in quest’ultima esperienza vi è già un fattore propulsivo rispetto agli orientamenti della Corte di giustizia, rappresentato dalla presenza di Avvocati generali i quali, attraverso le Conclusioni depositate, possono non soltanto offrire un’ulteriore garanzia circa la piena efficacia del ruolo svolto dalla Corte di Giustizia, ma anche rappresentare la base dell’evoluzione futura della giurisprudenza della Corte attraverso le pronunzie della Grande Camera. Meccanismo che, al contrario, non esiste all’interno della Corte costituzionale.
Né vanno sottovalutati i rischi paventati dalla dottrina a proposito delle ricadute in termini di effettiva indipendenza dei giudici costituzionali e di politicizzazione(Ruggeri, ib.,). Le provocazioni lanciate in qualcuna delle domande non sembrano avere attirato Onida e Zagrebelsky.
In conclusione, si ha la sensazione che anche in un momento critico qual è l'attuale, l'esigenza di guardare a modelli decisori diversi costituisca per le Corti un dato indispensabile, arricchendosi vicendevolmente di esperienze e conoscenze che non fanno di certo venire meno la necessità di evitare automatiche riproduzioni di meccanismi dell'una Corte sull'altra, ma rendono indispensabile una visione quanto più possibile comune anche nelle modalità di svolgimento dei diversi giudizi.
Onida e Zagrebelsky non nutrono dunque preoccupazioni sull'attuale ruolo della Corte e non nascondono, nemmeno, la loro condivisione sull'opportunità di ulteriori passi rispetto a quelli mossi nel gennaio 2020. Passi che la Presidente Cartabia, alla quale Giustizia Insieme è particolarmente vicina in questi momenti, nella sua recente intervista - La Corte costituzionale non si ferma davanti all'emergenza, questo è il tempo della collaborazione tra istituzioni- non sembra avere escluso ma, anzi auspicato.
«Se pure c’era di questi untori».
Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari
di Luigi Cavallaro
Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende.
Leonardo Sciascia, La strega e il capitano, 1986.
In tempi di pandemia, conviene tornare ai classici. Alla Storia della colonna infame, precisamente, e più ancora a quel magnifico prologo che ne sono il XXXI e il XXXII capitolo dei Promessi Sposi. Perché se aveva ragione Sciascia, quasi cinquant’anni fa, a dolersi che la Storia manzoniana fosse rimasto «un piccolo grande libro tra i meno conosciuti della letteratura italiana»[1], è possibile (e diremmo anche probabile) che questo misconoscimento, che non abbiamo motivo di dubitare perduri, non sia casuale.
La Storia, senz’altro questo si saprà, narra del processo che fu intentato a Milano, durante la tremenda pestilenza del 1630, nei confronti di due presunti “untori”, accusati di aver diffuso la peste «con venefizi e malefizi» e, per ciò, incredibilmente condannati a morte atroce. La credenza che la diffusione delle epidemie si dovesse a malfattori che le spargevano ad arte tra le popolazioni è in effetti antica, ma si prolunga alla nostra modernità: lo stesso Sciascia, chiosando la Storia manzoniana, la attesta almeno fino alla pandemia di “spagnola”, che funestò particolarmente l’Europa alla fine del primo conflitto mondiale, e ne ascrive il periodico, virulento risorgere alla tendenza dei «cattivi governi» di far ricorso al «nemico esterno» quando si trovano ad affrontare situazioni che non sanno o non possono risolvere[2].
Ma più vicini che all’illuminista Sciascia noi ci sentiamo oggi al cattolico Manzoni: e Sciascia non ce ne vorrà se, per dirlo, abbiamo deliberatamente parafrasato parole sue[3]. Ché non lo facciamo certo per sottrarre i giudici che quell’orrenda condanna pronunciarono alla loro individuale responsabilità, ma piuttosto per porre in risalto, con Manzoni appunto, che già allora «da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia»[4]; e che dunque non di cattivi governi e cattive istituzioni si trattava soltanto, ma della «perversa e dolorosa circolarità» dell’ideologia: e chiediamo scusa all’illuminista se, anche stavolta, virgolettiamo parole sue[5] per introdurre ad un concetto dei più impronunciabili dell’innominabile, più che innominato, Marx, ma crediamo che d’ideologia appunto si tratti, allora come oggi, quando al tempo della pandemia da «Covid-19» (acronimo che sa d’algoritmo: perché ormai sono loro a nominarci e non viceversa) la figura dell’untore sta conoscendo una nuova e inaspettata apoteosi.
Salvo intendersi su chi oggi sia propriamente “untore”: e di cosa, e come.
Non diremo qui della risibile invettiva da più parti scagliata contro i runner, che pure ha trovato sanzione legale al punto 17 dell’ordinanza del Presidente della Regione Lombardia n. 514 del 21 marzo 2020, con la quale si sono «vietati lo sport e le attività motorie svolte all’aperto, anche singolarmente, se non nei pressi delle proprie abitazioni»: ordinanza risibile anch’essa, in verità, e non solo perché si limitava a supplici «raccomandazioni» (punti 10, 12, 13, 14) per le fabbriche e le altre attività produttive che, restando aperte e funzionanti, costringevano a muoversi e inevitabilmente a radunarsi negli spazi ristretti dei capannoni e degli uffici all’incirca il quaranta per cento della popolazione lombarda (e diciamo apposta “radunarsi”, beninteso: perché almeno noi si possa rispettare il divieto di «assembramenti di più di due persone», che con sprezzo del ridicolo era ribadito al punto 2 dell’ordinanza citata); ma soprattutto perché rivelatrice, in quell’«anche singolarmente», della penosa mistificazione cui è costretta una classe dirigente che si trova d’improvviso a dover ammettere ciò che fino a un mese prima, invitando la popolazione a non rinunciare all’aperitivo, aveva recisamente negato: e dunque, per dirla anche stavolta col Manzoni, «miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto»[6]: dei lavoratori nelle fabbriche, aggiungiamo noi, e non certo per tramite di chi, runner o promeneur, «singolarmente» andasse per conto suo.
Ma non di questo, appunto, qui vorremmo dire. Per intendere chi oggi sia additato a responsabile di ongere le muraglie, come i due infelici protagonisti della Storia manzoniana, converrà piuttosto muovere dall’accorata denuncia che un filosofo molto considerato (ma confessiamo qui di non capire il perché di codesta considerazione) ha pubblicato poco più d’un mese fa su un quotidiano soi-disant «comunista», di fronte alle prime misure di emergenza per fronteggiare quella che ancora era chiamata epidemia.
«Il decreto-legge subito approvato dal governo “per ragioni di igiene e sicurezza pubblica”», esordisce il molto considerato filosofo, «manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo»: l’insieme delle misure adottate si risolve infatti «in una vera e propria militarizzazione» dei territori e in «gravi limitazioni della libertà», affatto sproporzionate rispetto ad «una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti»; donde il terribile sospetto che, «esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite», di talché, «in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi» verrebbe «accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo»[7].
Insomma, a dire del filosofo, la pandemia nient’altro sarebbe, manzonianamente parlando, che «manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento»[8]. E nemmeno i deliri potendo ormai sottrarsi alla pervasiva cogenza del principio della parità di genere, la denuncia del filosofo è stata subito ripresa, sulle stesse pagine, da una filosofa, molto considerata anch’essa, che retoricamente ha aggiunto: «Sarà un caso che il panico sia esploso soprattutto in quelle regioni governate dai leghisti, dove da tempo si istiga all’odio, si indica nell’immigrato il nemico pubblico, portatore di ogni morbo?». No che non è un caso, ça va sans dire: è proprio da costoro, anzi, che «la pulsione securitaria è fomentata». E proprio per ciò, ha filosofato ancora la filosofa, «il sovranismo» non dovrebbe esser scambiato per «una riedizione del vecchio nazionalismo»: ché sarebbe piuttosto «un fenomeno nuovo», che «fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della precarietà, la voglia di essere immuni»; al punto che «lo Stato di sicurezza si rivela uno Stato medico-pastorale che garantisce l’immunizzazione al cittadino-paziente, pronto dal canto suo, a seguire – tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata – ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro»[9].
Et voilà, l’untore: il sempre risorgente «sovranismo», che s’inventerebbe «stati d’eccezione» onde indurre nei sudditi quel bisogno di «immunizzarsi» dal contagio che solo può giustificare l’altrimenti intollerabile compressione delle loro libertà e dei loro diritti!
Né si creda appannaggio dei filosofi il dubbio se l’odierna pandemia sia «sostanza» o «accidente», per dirla con quell’altro filosofo che è don Ferrante: una pensosa riflessione sulla necessità che le misure geometricamente sempre più drastiche via via adottate dal governo siano pur sempre «proporzionate» e «non eccedenti» rispetto alle «concrete circostanze» che hanno dato luogo all’emergenza è venuta anche dalla comunità dei giuristi[10], alcuni dei quali si sono spinti a raccomandare che l’odierno «stato d’eccezione» (da intendersi «in senso debole», per carità: e cioè attributivo di poteri pur sempre sindacabili secondo le ordinarie categorie del giure)[11] venga notificato nientemeno che al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, in adempimento dell’art. 15 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: ché sarebbe stato già spiegato che, senza notificazione, non c’è deroga ai diritti garantiti dalla Convenzione che possa reputarsi giustificata e chi s’arrischiasse ugualmente a manometterne il godimento ne pagherebbe i danni[12].
Or non si vuol certo qui prender partito per il «sovranismo»; e specialmente dopo che un «Grande Giornalista» nostro contemporaneo non ha mancato di marchiare a fuoco i pubblici burocrati per l’ulteriore offesa d’aver messo dentro al «Testo coordinato delle ordinanze di protezione civile» del 24 marzo scorso ben 123.103 parole[13]. Ma si vorrebbe provare a far uso del diritto, «che è ragione», come amava dire Sciascia, e anzi propriamente ratio: cioè misura, proporzione, d’un insopprimibile conflitto. E nel gettar luce su questo conflitto, o almeno nel provarci, si vorrebbe tentare operazione di verità: ché se le ideologie, come le manzoniane passioni, «non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come false istituzioni», si può nondimeno renderle «meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti»[14].
Se qualcosa, invero, c’insegna la cronistoria degli eventi di queste settimane (ne ha ragionato una Luca Ricolfi, sul Messaggero: e vogliamo darla per buona, ancorché parziale, per oggetto, e reticente, sulla ragione e la natura degli eventi, e ancor più sulla loro efficienza reciproca)[15] è che, di fronte alla minaccia del virus, le autorità pubbliche si sono mosse allo stesso modo mirabilmente descritto dal Manzoni: «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto»[16]. E crediamo di non errare se individuiamo la ragione di codesto procedere nel timore diffuso che l’adozione di misure sanitarie restrittive potesse avere per il buon funzionamento della macchina produttiva e commerciale: timore della classe imprenditoriale di ritrovarsi con aziende ferme, incassi nulli e mutui da pagare; della classe lavoratrice, di veder asciugare il già magro salario in un ancor più magro sussidio, immutate restando le uscite per vitto e alloggio; ma anche della classe politica, di veder discendere il prodotto interno lordo e ascendere pro tanto (e anzi di più: per via dell’immane spesa pubblica aggiuntiva necessaria a ricoverare e curare un paese malato e in recessione) il rapporto che con esso intrattengono il nostro deficit e il nostro debito: sui quali rapporti, notoriamente, è occhiuta l’attenzione della Commissione Europea e torvo lo sguardo dei mercati finanziari all over the world.
Né possiamo dire che si trattasse di timori irragionevoli, se il 12 marzo scorso, a poco più d’un mese dalla dichiarazione dello stato di emergenza «relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili» (delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020) e all’indomani della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del d.P.C.M. 9 marzo 2020, recante estensione «all’intero territorio nazionale» delle misure restrittive già previste per la Lombardia, la governatrice della Banca Centrale Europea ha annunciato al colto e all’inclita il disimpegno dell’istituto di emissione dall’obiettivo di «chiudere gli spread», altri essendo gli «strumenti» e gli «attori» a ciò deputati[17]: un’affermazione del genere, tradotta in volgare, equivaleva a dire ai Paesi con più alto debito pubblico, come il nostro, d’indebitarsi, per fronteggiare l’emergenza, coi mercati finanziari, se gli fosse riuscito, e ai tassi che questi gli chiedevano, se avessero potuto pagarli; ché in alternativa gli «strumenti» e gli «attori» sarebbero state le forche caudine del Meccanismo Europeo di Stabilità: alle quali forche giust’appunto alludeva il torrenziale decretale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 16 giugno 2015 (C-62/14, Gauweiler), che nel far salvo il programma di Outright Monetary Transactions varato dalla Banca Centrale Europea il 5-6 settembre 2012 (dopo un pur celebratissimo «Whatever it takes») ne aveva enfatizzato, tra l’altro, la sua «condizionalità rigorosa ed efficace» al rispetto dei programmi di aggiustamento macroeconomico che fossero stati varati in concomitanza dal MES[18].
Timori non infondati, dunque. Rispetto ai quali vana promessa veniva dalla presidente della Commissione Europea, che il debito aggiuntivo contratto per fronteggiare l’emergenza non avrebbe procurato a nostro carico alcuna procedura d’infrazione per aver debordato dall’obbligo di evitare disavanzi pubblici eccessivi: la domanda che agitava i nostri governanti è se la Repubblica potesse trovare davvero chi le imprestasse i denari necessari per vettovagliare e mantenere quella gran parte della popolazione a cui fosse mancato il lavoro; e se potesse trovarli senza strozzarsi con gli usurai che ne fanno offerta sui mercati finanziari o senza alienare ad altri «attori» quel po’ di autonomia che le residua nella politica fiscale: autonomia che significa poter spendere il pubblico denaro sulla base di una gerarchia di priorità sociali da essa stessa individuate, per tramite delle procedure democratiche che trasformano i bisogni in diritti, e non già per ordine di terzi commissari liquidatori. E che meriterebbe d’esser difesa perfino ammettendo che in passato s’è speso male e anzi malissimo, ché le colpe dei padri ricadono sui figli solo nelle faide mafiose: che saranno pure ordinamenti giuridici, come ci hanno magistralmente spiegato Santi Romano e Antonio Pigliaru[19], ma crediamo non civili né desiderabili.
Questa essendo la situazione, è puro vaniloquio dargli all’untore del «sovranismo» e dello «stato d’eccezione»: ché se un insegnamento abbiamo da trarre dal famoso incipit della Teologia politica schmittiana[20] è che la nostra Repubblica «sovrana» non è, non potendo spendere in deficit se non in grazia di prestiti che le provengano dal mercato finanziario né potendo sospendere la decisione che codesta dipendenza ha creato: la quale, notoriamente, si trova scolpita nel Titolo VIII, Capo I, artt. 119-138, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, e nella «costituzione della moneta» che per tramite d’essi è stata creata[21].
Si potrebbe in effetti discutere della legittimità dell’ossequio che a tale decisione ci siamo vincolati a prestare, l’art. 11 Cost. consentendo limitazioni di sovranità solo «in condizioni di parità con gli altri Stati» e il nostro Paese non potendo per definizione essere “pari” a quegli altri che, all’epoca della firma dei Trattati, avevano la metà o un terzo del nostro debito pubblico e non sarebbero stati dunque impegnati a manovrare disperatamente, quanto vanamente, la finanza pubblica, onde rientrare nei parametri fissati nel mai troppo famigerato «Annesso» al Trattato di Maastricht[22]; ma è discussione ch’è stata già fatta, a suo tempo e purtroppo inutilmente, da Giuseppe Guarino, al quale non abbiamo che da rimandare l’interessato lettore[23].
Si deve piuttosto riconoscere, per cominciare a tirar le fila di questo nostro ormai troppo lungo discorrere, che ciò che adesso vien proposto coll’indovinato nome di «paradigma immunitario»[24], e che mai come in questi giorni di trepidazione sembra costituire il punto d’annodamento delle semantiche del diritto come della politica, della tecnologia come della medicina, altro non è che il vestimento ideologico di questo alienarsi della sovranità politica nel mercato concorrenziale: il quale ultimo, potendo concepire il legame sociale soltanto nella forma di una «mutua e generale dipendenza di individui reciprocamente indifferenti»[25], deve preventivamente sciogliere costoro da tutti i «variopinti vincoli» che possono altrimenti avvincerli gli uni agli altri e non lasciarne altri che «il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”»[26]. Non ci vien forse ricordato che «immunitas» è vocabolo privativo, che designa colui che risulta muneribus vacuus, sine muneribus, e dunque sgravato, esonerato, dispensato dal pensum di tributi o prestazioni nei confronti di altri? E non ci si è da lungo tempo spiegato che codesta «immunità» viene principalmente rivendicata nei confronti del pubblico potere, costituendo il fondamento logico e giuridico del contrattualismo di ispirazione liberale? E donde altrimenti verrebbe l’odierna fascinazione per i «diritti fondamentali», di cui s’ammanta la retorica del nuovo costituzionalismo[27], se non da quella medesima ideologia, che vede nel «diritto soggettivo» un che di trascendente rispetto agli ordinamenti positivi? E dove poggia codesta ideologia se non sulla pretesa, a suo tempo denunciata da Kelsen[28], di proteggere in ultima analisi quel fondamentalissimo diritto che è la proprietà privata capitalistica da qualsiasi attentato che possa venirle da un qualunque ordinamento giuridico positivo, e in specie da quelli in cui la produzione normativa avvenga su basi democratiche, e dunque anche da parte di non proprietari?
Che poi codeste raffinatissime e seducenti costruzioni ammutoliscano di fronte ad una pandemia, non c’è menarne meraviglia: ché la necessaria contropartita dell’individuo sine muneribus è l’assenza di adeguati munera publici, che di quanto necessariamente eccede il suo particulare (come una pandemia, appunto) possano convenientemente assumere il carico. E di questa assenza, a saperle leggere, raccontano propriamente le terribili cronache delle «scelte tragiche»[29] cui sono stati chiamati i medici del nostro scassatissimo (et pour cause) Servizio Sanitario Nazionale; e il fatto che in mezzo ad una tragedia epocale si sia costretti a invocare una disciplina derogatoria, che ripari i sanitari dalle prevedibili cause risarcitorie che gli saranno intentate dai congiunti dei morti per insufficienza di posti di terapia intensiva[30], la dice assai lunga su quanto forte, nel recente passato, si sia spinto sul pedale sulla leva risarcitoria: quasi che la responsabilità civile fosse l’unico modo socialmente immaginabile per tutelare il diritto alla salute e non invece il penoso sottoprodotto dell’ingiunzione «eurounitaria», come adesso usa dire, di destinare ai rentier gli avanzi primari del bilancio pubblico degli ultimi tre decenni.
Ecco, crediamo di non sbagliare se individuiamo in questa «ideologia immunitaria» la base su cui poggia l’attuale fragilissima costruzione europea: e tanto diciamo, sia chiaro, non per dargli anche noi all’untore e men che meno per contrapporre ad essa il ridicolo «sovranismo» di cui si straparla fra una comparsata in tv e un ammiccamento via twitter. Ma piuttosto per indicare la via per una nuova, e possente, lotta per il diritto: per fargli imboccare una nuova e diversa strada, che alla sottomissione dei pubblici poteri al mercato finanziario, consacrata nei Trattati vigenti, sostituisca quella del mercato alla politica pubblica; consapevoli che gli interessi di migliaia d’individui (e di non pochi Stati) si sono annodati al diritto esistente in un modo tale che porre la questione dell’attuale ordinamento dell’Unione Europea significa dichiarar loro guerra; e che l’esito di questa guerra si deciderà, come in ogni lotta, sulla base dei rapporti di forza in contesa.
Chi ha memoria del primo capitolo del celeberrimo libello di Jhering, riconoscerà in quanto appena detto poco più che una parafrasi delle sue parole[31]: e convinti come siamo, anche noi, che non si possa più scrivere, ma soltanto riscrivere[32], non ce ne spiace. Piuttosto, e ancora riscrivendo, vorremmo suggerire di guardare alle prime, timide richieste di socializzare il debito sovrano degli Stati membri dell’Unione, e alla potenza di fuoco che gli si oppone, come ad una tappa, e delle più decisive, della lotta fra il diritto dell’Europa del passato e quello dell’Europa avvenire: ché solo in grazia della sua socializzazione il negativo del «debito» potrebbe mutar di segno e ricongiungersi con quel munus commune cui rimanda il significato originario del termine «communitas»[33].
E chissà che non sia meglio richiamarla «Comunità Europea».
[1] L. Sciascia, «Storia della colonna infame» [1973], già in Id., Cruciverba [1983], e ora in Id., Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012-2019, II, t. ii, p. 592.
[2] Ibid., p. 592-594.
[3] Ibid., loc. ult. cit.
[4] I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni [1842], ora in A. Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, Torino, Einaudi, 2015, p. 555.
[5] Cfr. L. Sciascia, La strega e il capitano [1986], ora in Id., Opere, cit., II, t. i, p. 815.
[6] I promessi sposi, cit., p. 531.
[7] G. Agamben, Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, in «il manifesto», 26 febbraio 2020.
[8] I promessi sposi, cit., p. 529.
[9] D. Di Cesare, Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomerang, in «il manifesto», 1° marzo 2020.
[10] Si vedano almeno I. M. Pinto, La tremendissima lezione del Covid-19 (anche) ai giuristi, in «Questione Giustizia.it», 18 marzo 2020; A. Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in «Diritti Regionali.it», 21 marzo 2020; O. Pollicino, F. Resta, Data tracing, no deleghe in bianco all’algoritmo, in «Corrierecomunicazioni.it», 24 marzo 2020; G. Azzariti, I limiti costituzionali della situazione d’emergenza provocata dal Covid-19, in «Questione Giustizia.it», 27 marzo 2020; F. Filice, G. M. Locati, Lo stato democratico di diritto alla prova del contagio, ivi, 27 marzo 2020; C. Caprioglio, E. Rigo, Le restrizioni alla libertà di movimento ai tempi del Covid-19, ivi, 30 marzo 2020; F. De Stefano, La pandemia aggredisce anche il diritto?, intervista a C. Caruso, G. Lattanzi, G. Luccioli e M. Luciani, in «Giustizia Insieme.it», 2 aprile 2020.
[11] Così T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, in «Giustizia Insieme.it», 30 marzo 2020.
[12] Così G. O. Cesaro, La tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’emergenza COVID-19, in «Diritto 24.it», 25 marzo 2020. Più sfumate le valutazioni al riguardo di E. Sommario, Misure di contrasto all’epidemia e diritti umani, fra limitazioni ordinarie e deroghe, in «SIDIBlog.org», 27 marzo 2020, e di L. Acconciamessa, COVID-19 e diritti umani: le misure di contenimento alla luce della CEDU, in «iusinitinere.it», 28 marzo 2020. Di opinione recisamente contraria G. L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, in «Sistema Penale.it», 2 aprile 2020.
[13] G. A. Stella, Coronavirus e un decreto da 123 mila parole. Ossia: 13 volte la Costituzione, in «Corriere della sera», 26 marzo 2020; e lo chiamiamo «Grande Giornalista» per rendere omaggio, tramite suo, ad una insuperata caratterizzazione sciasciana, alla quale rinviamo il lettore (L. Sciascia, Il cavaliere e la morte. Sotie [1987], ora in Id., Opere, cit., I, p. 1169).
[14] A. Manzoni, Storia della colonna infame [1842], in Id., I promessi sposi. Storia della colonna infame, cit., p. 674.
[15] L. Ricolfi, Caso tamponi, la storia di un errore annunciato, in «Il Messaggero», 29 marzo 2020.
[16] I promessi sposi, cit., p. 538.
[17] Si veda la cronaca dell’allocuzione (e particolarmente dei retroscena, che dicono più dell’allocuzione stessa) in F. Fubini, Il discorso di Lagarde e quelle parole suggerite da una collega tedesca, in «Corriere della sera», 13 marzo 2020.
[18] Rinviamo sul punto alla limpida analisi di O. Chessa, La costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Napoli, Jovene, 2016, p. 352 ss.; e a L. Lionello, La BCE nella tempesta della crisi sanitaria, in «SIDIBlog.it», 28 marzo 2020, per una ragionata argomentazione di come dall’annunciata adozione, a frittata fatta, del Pandemic Emergency Purchase Programme, che pure non mancherà di provocare tensioni analoghe a quelle che hanno portato la Corte di Giustizia a doversi pronunciare sul programma OMT, non possano attendersi effetti decisivi né sul piano della stabilità economica dell’area euro né, men che meno, su quello dell’effettiva protezione dei redditi delle famiglie e in generale dell’economia reale.
[19] Si leggano (o si rileggano: ché non fa mai male) S. Romano, L’ordinamento giuridico [1918], Firenze, Sansoni, 1946; A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, Giuffrè, 1959.
[20] «Sovrano è chi decide dello stato di eccezione» (C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità [1934], in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 33).
[21] Rinviamo ancora a O. Chessa, La costituzione della moneta, cit., dove il lettore troverà accuratamente misurata la distanza che separa codesta «costituzione della moneta» dalla Costituzione della Repubblica Italiana, antinomicamente «fondata sul lavoro».
[22] Sull’impossibilità di ridurre il debito pubblico mediante tagli alle spese si espresse numerose volte Keynes: e basti qui rinviare al lettore all’incipit del sedicesimo capitolo della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), dove le conseguenze paradossali della parsimonia sono spiegate con un linguaggio così letterariamente godibile quale mai più si sarebbe apprezzato in un testo di economia. Sulla insensatezza dei parametri fissati nell’«Annesso» al Trattato di Maastricht (e diciamo “insensatezza” per carità di patria; e patria europea, beninteso), il riferimento obbligato è invece L. L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% deficit/gdp Maastricht “parameter”, in «Cambridge Journal of Economics», n. 22 (1998), p. 103 ss.
[23] G. Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione e istituzioni comunitarie, in «Quaderni costituzionali», 1992, n. 1, p. 42 ss.
[24] Il riferimento s’intenda per tutti a R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002.
[25] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-58], Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. 1, p. 97.
[26] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], Torino, Einaudi, 1989, p. 103. Innominato e innominabile Marx, s’è detto: ma, come si vede, non per noi.
[27] Per una affilata critica della quale rinviamo a R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Milano, Franco Angeli, 2018.
[28] Si veda H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto [1934], Torino, Einaudi, 2000, spec. p. 80-81.
[29] R. Conti, Scelte tragiche e Covid-19, intervista a L. Ferrajoli, A. Ruggeri, L. Eusebi e G. Trizzino, in «Giustizia Insieme.it», 24 marzo 2020.
[30] Si veda sul punto C. Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in «Sistema Penale.it», 30 marzo 2020.
[31] Lo si rilegga in R. von Jhering, La lotta per il diritto [1891], in Id., La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Milano, Giuffrè, 1989, spec. p. 89-90.
[32] «Non è più possibile scrivere: si riscrive», rispondeva Sciascia a Claude Ambroise (14 domande a Leonardo Sciascia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2004, p. xvi).
[33] Siamo debitori della suggestione etimologica a R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013, p. 227-228.
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