ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Vittime di tortura durante il conflitto nella ex Jugoslavia: una storica decisione del Comitato ONU contro la tortura sulla responsabilità dello Stato.
di Calogero Ferrara
Il Comitato dell’ONU contro la Tortura, con la decisione del 2 agosto 2019 (CAT/C/67/D/854/2017), si pronuncia sul contenuto degli obblighi gravanti sugli Stati sottoscrittori, in forza del combinato disposto degli artt. 1 e 14 della Convenzione contro la Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, in un caso avvenuto in Bosnia Erzegovina nel 1993 nel corso del conflitto balcanico divenuto tristemente famoso, tra l’altro, per la orrenda pratica dei c.d. stupri finalizzati alla pulizia etnica (ethnic cleansing).
In un contesto internazionale sempre più orientato alla responsabilità dell’individuo, la decisione costituisce uno storico passo verso l’affermazione della responsabilità sussidiaria dello Stato nel corrispondere alla vittima di atti di tortura (violenza sessuale, nel caso di specie) una riparazione (redress) che includa la più completa riabilitazione possibile, oltre che un risarcimento (compensation) equo ed adeguato, il più ampio possibile e senza limiti di tempo.[1]
Sommario:1. La Convenzione contro la Tortura e i poteri del Comitato ONU. 2. I fatti oggetto del giudizio. 3.L’ammissibilità del ricorso: a) Competenza ratione temporis. B) L’esaurimento dei rimedi nazionali. 4. La violenza sessuale come atto di tortura. 5. Il diritto alla riparazione: evoluzione nei settori del diritto internazionale del right to redress e la decisione del Comitato nel merito: a) La perentorietà del divieto di tortura; b) Il diritto alla riparazione della vittima di crimini internazionali nei Tribunali Internazionali;c) Il diritto alla riparazione nei sistemi di soft law;d) La ratio del right to redress previsto dall’art. 14 della Convenzione contro la Tortura e le conclusioni del Comitato. 6. Conclusioni.
1.La Convenzione contro la Tortura e i poteri del Comitato ONU.
Il sistema di protezione dei diritti umani all’interno del quale si inserisce la Convenzione dell’ONU contro la Tortura ed il ruolo di monitoraggio svolto nel suo ambito dal Comitato prendono le mosse dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, adottata subito dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, che aveva aperto gli occhi sulla necessità di tutelare, anche a livello internazionale, in modo più ampio possibile l’individuo.
Con la successiva adozione da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1966 del Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali e del Patto internazionale sui diritti civili e politici - che insieme alla citata Dichiarazione Universale costituiscono il Codice Internazionale dei diritti umani (International Bill of Human Rights) – l’ONU ha avviato un processo di positivizzazione dei diritti umani, contribuendo a costruire un quadro giuridico internazionale in grado dotare di vincolatività i diritti enunciati in via generale nella Dichiarazione medesima.
In tale contesto, il diritto a non essere sottoposti a tortura costituisce uno dei diritti più importanti che la comunità internazionale intende tutelare, basti pensare che quasi nessuno strumento internazionale sui diritti umani dimentica di annoverare tale divieto[2], poiché la mancata criminalizzazione della tortura negli ordinamenti nazionali e l’assenza di strumenti di tutela della vittima costituirebbero un tipico vulnus alla sfera dei diritti fondamentali dell’uomo.
Parallelamente all'enunciazione dei diritti fondamentali, le Nazioni Unite hanno provveduto a creare un sistema di meccanismi di controllo fondato sull’istituzione di appositi Comitati (cc.dd. treaty bodies)[3]. Tali organismi internazionali sono composti da un numero variabile di esperti indipendenti e vengono istituiti dalle varie convenzioni sui diritti umani adottate nel contesto delle Nazioni Unite con il precipuo compito di verificare l'adempimento degli obblighi convenzionali da parte degli Stati contraenti.
Tra le convenzioni istitutive di un comitato ad hoc rientra, pertanto, la Convenzione contro Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984.
La Convenzione contro la tortura può essere considerata una delle fonti di maggior importanza mai in materia di tortura. La sua vocazione universale, l’obbligatorietà delle sue disposizioni per gli Stati che l’hanno ratificata e la previsione di un incisivo sistema di controllo la rendono uno dei principali pilastri del diritto internazionale nella lotta contro detta condotta criminosa.
Oltre a prevedere il divieto di atti di tortura (art. 1), la Convenzione dedica una particolare attenzione alla tutela della vittima, sancendone il diritto ad ottenere una riparazione ed ad essere equamente risarcita e, come sopra accennato, istituendo il Comitato contro la Tortura, quale organismo di controllo del rispetto degli obblighi da parte degli Stati sanciti dalla Convenzione.
In particolare, la Convenzione assegna al Comitato il compito di esaminare i rapporti periodici degli Stati contraenti sulle misure da loro adottate al fine di dare esecuzione ai loro impegni (art. 19) e di avviare inchieste riservate, qualora il Comitato riceva informazioni circa la sistematica pratica di atti di tortura in uno degli Stati contraenti.
Tra le funzioni più rilevanti attribuite al Comitato vi è quello di esaminare denunce (rectius comunicazioni) che possono provenire tanto dagli stessi Stati (art. 21, cc.cd. ricorsi interstatuali), quanto dagli individui che lamentano di essere vittime di torture o altre pene o trattamenti vietati (art. 22, cc.dd. ricorsi individuali). In tali il casi il CAT oltre ad accertare la violazione convenzionale da parte dello Stato contraente, potrà suggerire – come vedremo è avvenuto nel caso di specie – quali sono gli accorgimenti che lo Stato dovrà adottare per porre fine alla violazione in atto.
La competenza del Comitato a conoscere dei ricorsi (rectius comunicazioni) individuali non è però automatica essendo subordinata, da un lato, ad un’esplicita accettazione da parte degli Stati che hanno ratificato la Convenzione (art. 22) e, dall’altro lato, all’avere il soggetto esaurito ogni rimedio nazionale per la tutela dei propri diritti convenzionalmente riconosciuti.
Congiuntamente al ruolo di monitoraggio della corretta applicazione da parte degli Stati contraenti dei principi convenzionali, il Comitato svolge una funzione di guida nell’interpretazione della portata delle norme convenzionali che si esplica tramite la formulazione di c.d. concluding observations dallo stesso adottate all’esito dell’analisi dei rapporti periodici presentati dagli Stati contraenti, oltre che tramite l’adozione dei cc.dd. General Comments. Questi ultimi, per quanto non convenzionalmente previsti, svolgono il ruolo di vere e proprie linee-guida per gli Stati contraenti e di fonte di interpretazione autentica degli obblighi convenzionali.
2.I fatti oggetto del giudizio
Ciò premesso, con la decisione del 2 agosto 2019 (CAT/C/67/D/854/2017), il Comitato contro la Tortura (da ora in poi CAT), in accoglimento delle doglianze della comunicazione n.854/2017 ha accertato la violazione dell’art.14 della Convenzione da parte della Bosnia Erzegovina per non avere assicurato il godimento del risarcimento, quale forma di riparazione per la violazione dei diritti umani, che era stato in precedenza riconosciuto ad una cittadina bosniaca (Mrs. A)[4], vittima di ripetute violenze sessuali qualificate come crimini di guerra.
In particolare, il 29 giugno 2015, la Corte di Bosnia ed Erzegovina Sezione I per i crimini di guerra aveva condannato Mr. Slavko Savic (membro dell’Esercito Serbo-Bosniaco della Vojska Republike Srpske) a otto anni di reclusione, oltre che al pagamento di 30.000 marchi bosniaci (corrispondenti a circa € 15.340) a titolo di danno non patrimoniale, per le ripetute violenze sessuali, qualificate come crimine di guerra contro civili, perpetrate ai danni di Mrs. A., tra maggio e giugno 1993 nella cittadina di Semizovac[5]. Nella comunicazione indirizzata al Comitato, la donna aveva evidenziato che il suo violentatore l’aveva costretta ad abortire e che a seguito delle violenze subite, nel 2008, le erano stati diagnosticati sintomi da permanente disturbo della personalità e da cronico stress post traumatico, con la conseguenza che la stessa aveva trovato il coraggio di denunciare alle autorità competenti quanto le era accaduto solo nel Novembre 2014.
Dopo essere stata riconosciuta vittima di crimini di guerra con sentenza passata in giudicato e non avendo il condannato ottemperato al pagamento della somma entro il termine prescritto di 90 giorni, Mrs. A. era stata costretta ad intentare apposita azione esecutiva, nelle more della quale, veniva informata dalla Corte di Bosnia ed Erzegovina che il condannato non era titolare di alcun asset, e di conseguenza la donna si era vista costretta a ritirare l’azione originariamente avviata.
Mrs. A. rilevava, inoltre, che quale vittima di crimine di guerra le veniva riconosciuta solo una pensione (social allowance) pari a poco più di 300 euro mensili (circa 600 marchi bosniaci)[6], del tutto insufficienti per fare fronte alle spese mediche che era costretta ad affrontare a seguito dei traumi subiti.
La comunicazione sottolineava, altresì, come l’ordinamento giuridico nazionale bosniaco post-bellico presentava un duplice ordine di ostacoli per l’effettiva corresponsione del right to redress.
In prima istanza, l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno non patrimoniale avverso persone giuridiche soffriva, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale bosniaca, del termine di prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui la parte lesa ha conoscenza del danno e dell’identità dell’autore[7]. In secondo luogo, non era configurabile una responsabilità sussidiaria in capo allo Stato a corrispondere la somma riconosciuta alla vittima, seppure con sentenza passata in giudicato, mancando ogni previsione normativa in tal senso.
Ne derivava pertanto, che il risarcimento che era stato accordato alla vittima era una mera scatola vuota.
3.L’ammissibilità del ricorso.
a) Competenza ratione temporis
Il caso sottoposto al vaglio del Comitato contro la Tortura ha richiesto il preliminare accertamento della sussistenza delle condizioni di ammissibilità della comunicazione e, in particolare, la valutazione della sussistenza della competenza ratione temporis e, in secondo luogo, il rispetto del principio del previo esaurimento di tutti i ricorsi interni.
Per quanto concerne il primo requisito di ammissibilità della comunicazione, il Comitato – aderendo alle argomentazioni della comunicazione ed in assenza di osservazioni contrarie dello Stato Parte – ha affermato la sua competenza ratione temporis ad esaminare la comunicazione, non dando alcun rilievo alla circostanza che la Bosnia ed Erzegovina avesse aderito alla Convenzione solo il 1 ottobre 1993, e dunque in data successiva alle avvenute violenze.
A tal riguardo, il Comitato ha valutato che gli effetti che atti di siffatte violazioni dei diritti umani, come la tortura, producono sulla vittima, non solo sono destinati a durare nel tempo ma anche ad accentuarsi. Nel caso di specie, infatti, la donna, a quasi trent’anni dalla violenza subita, continuava ad essere affetta da diverse patologie, che richiedevano continue cure mediche e psicologiche e sebbene fosse stata dichiarata vittima di un crimine di guerra il sistema giuridico bosniaco non le consentiva di ottenere la corresponsione del risarcimento che le era stato riconosciuto.
In sintesi il CAT ha sottolineato che, venendo in rilievo la violazione dell’obbligo di provvedere alla riparazione della vittima, la sussistenza della competenza ratione temporis doveva accertarsi avendo riguardo al momento in cui l’Ufficio del Procuratore aveva avviato il procedimento penale a carico del torturatore ed a quello in cui la Corte Penale bosniaca aveva emesso la sentenza di condanna con cui aveva riconosciuto la donna vittima di crimini di guerra e non già al momento della commissione del fatto. Trattandosi, infatti, di momenti successivi a quello in cui lo Stato aveva riconosciuto la competenza del Comitato[8] ad esaminare le comunicazioni presentate dai privati ai sensi dell’art. 22, par. 1 della Convenzione, non vi era alcuna applicazione retroattiva degli obblighi convenzionali.
Tale conclusione appare in linea con un precedente caso sottoposto al vaglio del Comitato (Case Gerasimov v. Kazakhstan, Communication No. 433/2010), in cui il CAT era stato chiamato a pronunciarsi sulla violazione da parte del Kazakhstan dell’art. 12 della Convenzione. In quel caso l’autore della comunicazione era stato detenuto ingiustamente e sottoposto ad atti di tortura da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria e pur avendo denunciato ripetute volte i fatti, le autorità competenti avevano rigettato la richiesta di procedere alle dovute indagini. Tali fatti – sia la tortura che la decisione della Procura di archiviare il caso - anche se verificatisi prima dell’adesione dello Stato alla Convenzione, tuttavia continuavano a produrre effetti nel tempo, in considerazione del fatto che lo Stato continuava a non procedere ad una inchiesta imparziale[9].
Siffatta interpretazione, con tutta evidenza, amplia considerevolmente l’ambito applicativo della disciplina proprio in considerazione della primaria rilevanza dei beni oggetto di tutela e della specificità delle condotte suscettibili di censura.
b) Esaurimento dei rimedi nazionali
In relazione al secondo requisito di ammissibilità della comunicazione, che impone a chi agisce davanti al Comitato di avere esaurito tutti i rimedi nazionali disponibili (art. 22, par. 5, lett. b della Convenzione) – peraltro secondo uno schema consolidato nell’ambito della disciplina a tutela dei diritti umani nascente da norme convenzionali, tale principio, frutto del rapporto sussidiario che si instaura tra i meccanismi di tutela internazionali e quelli nazionali, è stato sempre oggetto di una interpretazione molto elastica da parte della giurisprudenza internazionale.
La formulazione dell’art. 22 della Convenzione si contraddistingue nel prevedere una specifica e chiara deroga al principio dell’esaurimento del ricorso interno poiché, come si legge testualmente, detta norma non troverà applicazione nel caso di rimedi eccessivamente prolungati nel tempo ovvero di fatto poco efficaci (“where the application of the remedies is unreasonably prolonged or is unlikely to bring effective relief to the person who is the victim of the violation of this Convention”[10]).
Come anticipato, il dettato della Convenzione recepisce quella prassi giurisprudenziale tracciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e sviluppatasi intorno all’art. 35 CEDU, che ha sempre interpretato detto requisito di ammissibilità in modo flessibile, valorizzando i caratteri di accessibilità ed effettività che devono contraddistinguere i rimedi interni per dirsi esauriti.
In tale ottica, la Corte è stata costante nell’affermare che l’accertamento deve svolgersi avendo riguardo non solo alla legge ma anche alla posizione assunta ed all’interpretazione adottata dai tribunali interni, che – per potere essere considerata preclusiva - deve essere sufficientemente consolidata[11].
A tal riguardo, la Bosnia Erzegovina aveva eccepito che Mrs. A. avrebbe potuto in ogni caso agire tanto in sede cautelare quanto in sede civile per la tutela dei propri interessi creditori.
Il Comitato tuttavia ha osservato che tali rimedi mancavano dei requisiti di effettività ed accessibilità, dando rilievo a due ordini di fattori: da un lato, la circostanza che il condannato era un soggetto nullatenente influiva sulla fruttifera percorribilità di ogni azione, giudiziaria e non, nei suoi confronti; d’altro canto, l’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale bosniaca, che estendeva l’applicazione del termine quinquennale anche alle azioni di risarcimento per i danni non patrimoniali avverso persone giuridiche, di fatto precludeva ogni pretesa risarcitoria e/o riparativa da parte di tutte quelle donne che non avevano denunciato le violenze subite, negli anni immediatamente successivi al conflitto bellico nei Balcani. Di fatto, per quanto non venisse preclusa a priori la percorribilità dell’azione risarcitoria, tuttavia la stessa risultava ridotta al minimo, e veniva esclusa del tutto ogni possibilità di successo. Il tutto risultava aggravato dalla circostanza che anche ove le vittime di violenze sessuale compiute durante il conflitto, avessero ugualmente deciso di intentare l’azione in questione, il rigetto della domanda esecutiva avrebbe comportato il pagamento di una penale.
Il Comitato pertanto applicando alla lettera il dettato convenzionale ha ritenuto che la vittima aveva di fatto esaurito i rimedi interni esperibili, in quanto non sarebbe ragionevole pretendere l’esaurimento di tutti i ricorsi interni quando risulta comprovato che in ogni caso tali rimedi non offrirebbero le medesime chance di successo, anche e soprattutto alla luce del diritto nazionale.
4.La violenza sessuale come atto di tortura
Altro profilo di estremo interesse nella decisione del Comitato è quello inerente la qualificazione della violenza sessuale come atto di tortura.
Invero, il CAT ha evidenziato che i fatti occorsi durante il conflitto nei Balcani e denunciati nella comunicazione, hanno rappresentato una forma di discriminazione etnica oltre che di genere perpetrata da parte di un pubblico ufficiale con intenti punitivi ed intimidatori, che hanno inflitto alla vittima acute sofferenze fisiche e mentali ed i cui effetti ancora continuano ancora oggi a prodursi; sicché tali fatti non possono che essere ricondotti all’interno della nozione di tortura prevista dall’art. 1 della Convenzione[12].
La decisione del CAT, pur riservando sul punto una breve motivazione sul rilievo che la ricostruzione dei fatti appariva già pienamente corroborata dalla sentenza di condanna della Corte bosniaca, sezione crimini di guerra, che riconosceva a Mrs. A. lo status di vittima di crimini di guerra, si inserisce nel solco di quella consolidata giurisprudenza (in particolare dei cc.dd. “Tribunali ad hoc”) per cui la sussunzione di taluni fatti nel novero della nozione di atti di tortura richiede lo svolgimento di un’operazione di contestualizzazione del comportamento dell’autore del crimine, che non deve essere valutato alla stregua del nomen juris del reato, quanto piuttosto del grado delle sofferenze inflitte, della natura e dello scopo dell’atto e della particolare vulnerabilità della vittima.
Invero, il rapporto intercorrente tra atti di violenza sessuale e altri crimini internazionali, quali la tortura e il genocidio, è stato oggetto di numerosi interventi da parte delle Corti internazionali e dei Tribunali penali speciali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda.
Il leading case in materia è costituito dal caso Aydin c. Turchia (1997)[13] in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha qualificato come tortura lo stupro e le altre violenze fisiche e mentali subite da una detenuta ad opera di alcuni funzionari statali che non erano stati identificati. La Corte ha accolto una definizione ampia di tortura secondo cui lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce l'integrità fisica e morale della vittima, risulta in determinante circostanze aggravato in quanto commesso da persona dotata di autorità a danno di un soggetto particolarmente vulnerabile, soprattutto se in stato di detenzione.
Analoghe indicazioni provengono dalla decisione nel caso Prosecutor v. Zejnil Delalij e altri[14], celebrato davanti al Tribunale per i crimini di guerra commessi nella ex Jugoslavia, che nel ritenere l’imputato colpevole di tortura e di crimini di guerra per gli stupri commessi nei confronti di due donne musulmane serbo-bosniache, ha richiamato da un lato i principi della citata sentenza Aydin c. Turchia[15] e, dall’altro, ha accolto la definizione ampia e progressiva di stupro formulata dal Tribunale per il Ruanda nello storico caso Akayesu[16], specificando che, nel reputare la violenza sessuale come un atto di tortura, deve tenersi conto della pervasività delle sofferenze fisiche e psicologiche provocate alla vittima (par. 495) oltre che degli intenti discriminatori, punitivi, coercitivi o intimidatori che soggiacciono a tale specifica forma di violenza, soprattutto se commessa da un pubblico ufficiale o con l’acquiescenza di questi.
5.Il diritto alla riparazione: evoluzione nei settori del diritto internazionale del right to redress e la decisione del Comitato nel merito:a) La perentorietà del divieto di tortura e l’imprescrittibilità dell’azioni di riparazione dei danni derivanti da atti di tortura.
Dopo avere sancito principi che già di per se ampliano la tutela riconosciuta alle vittime di tortura – sia sotto l’aspetto del riconoscimento della giurisdizione sia in relazione all’inquadramento della fattispecie -, il valore storico che la decisione assume riguarda il riconoscimento e la definizione del contenuto degli obblighi di riparazione delle vittime di tortura gravanti sugli Stati Parte previsti dall’art. 14 della Convenzione, a norma della quale “each State Party shall ensure in its legal system that the victim of an act of torture obtains redress and has an enforceable right to fair and adequate compensation, including the means for as full rehabilitation as possible”.
Ad una prima disamina della fattispecie concretamente giudicata dal CAT, gli elementi della accertata nullatenenza del condannato e la previsione del termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio dell’azione di risarcimento dei danni non patrimoniali, unite alla mancanza di una responsabilità sussidiaria dello Stato nella corresponsione del risarcimento dei danni subiti alla vittima, apparivano de facto degli ostacoli insormontabili del sistema nazionale bosniaco per una fruttifera e completa attivazione del right to redress della vittima. Sul punto, la comunicazione aveva evidenziato che un sistema così congegnato non può essere considerato compatibile con la natura di jus cogens che i divieti di violenza sessuale, soprattutto in contesti bellici, e di tortura hanno acquisito all’interno del sistema delle fonti di diritto internazionale.
Come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza internazionale[17], il divieto di tortura infatti non è disposto solo da norme di diritto pattizio, tra cui in particolare la Convenzione dell’ONU contro la Tortura, ma anche da norme di diritto consuetudinario imperativo.
Dalla perentorietà di tale divieto deriva che l’accertamento dei fatti che ne costituiscono la violazione non può essere ostacolato dalla previsione di alcun termine prescrizionale, con la conseguenza che dovranno considerarsi parimenti imprescrittibili le azioni – civili e penali – che la vittima può intentare per ottenere la riparazione dei danni sofferti in conseguenza di atti contrari alle norme di diritto consuetudinario.
Tale considerazione appare condivisibile soprattutto alla luce di quella dottrina che, guardando all’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo, afferma l’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario che riconosce l’obbligo dello Stato autore della violazione di assicurare all’individuo il diritto ad un’adeguata riparazione e ad un rimedio interno effettivo[18].
b)Il diritto alla riparazione della vittima di crimini internazionali nei Tribunali Internazionali
Per lungo tempo la problematica del diritto alla riparazione della vittima di illeciti internazionali, è stata confinata entro la prospettiva dei rapporti interstatali.
Detta prospettiva è radicalmente mutata nell’ultimo quarto di secolo, soprattutto con la introduzione dei c.d. Tribunali Internazionali, prima di quelli ad hoc per specifici crimini e/o commessi in particolari contesti territoriali e storico-sociali e poi con la previsione di una Corte Penale Internazionale, avente una competenza più ampia, pur con i limiti nascenti dagli Stati che non hanno sottoscritto il Trattato di Roma che istituisce detto organo giurisdizionale.
Sul versante del riconoscimento dei diritti della vittima, soprattutto per crimini internazionali o comunque gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, un ruolo determinante lo ha avuto proprio il case-law sviluppatosi in ambito internazionale, pur nella consapevolezza del ruolo maggiormente repressivo svolto da detti Tribunali rispetto a quello di monitoraggio proprio dei treaty bodies dell’ONU[19].
In realtà, inizialmente gli Statuti dei Tribunali speciali per la ex Jugoslavia[20] e per il Ruanda (1993 e 1994) facevano riferimento alle vittime unicamente come testimoni e strumenti imprescindibili per la ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio. A partire dallo Statuto della Corte Penale Internazionale (cd. Statuto di Roma) e della Corte Speciale della Sierra Leone la vittima viene in considerazione quale vero e proprio centro di diritti azionabili in giudizio[21]: l’art. 75 dello Statuto di Roma[22] nel disciplinare il diritto alla riparazione della vittima dei crimini di competenza della Corte Penale Internazionale, riconosce a quest’ultima la possibilità di stabilire i principi che devono caratterizzare la riparazione della vittima, oltre che determinare la portata e l'entità di eventuali danni, perdite e lesioni subiti.
In tale prospettiva, merita di essere sottolineato che il coinvolgimento di altri soggetti (tra cui lo Stato) a garanzia del godimento effettivo e tempestivo del diritto alla riparazione da parte della vittima di crimini internazionali, era già presente nel sistema della Corte Penale Internazionale: in tal senso si richiama il Trust Fund for Victims, il cui regolamento elenca tra le sue fonti di finanziamento proprio i contributi volontari degli Stati[23].
La costruzione di una responsabilità statale per la corresponsione della riparazione non sembra essere una novità neanche per il diritto comunitario. Deve richiamarsi in proposito la Direttiva 2004/80/CE che ha posto a carico dello Stato e di altri enti pubblici la riparazione del danno subito dalla vittima di reati penali violenti e dolosi, qualora il danneggiante risulti insolvente o sconosciuto. Viene in tal modo costruita un’obbligazione compensativa a favore della vittima che, per quanto finalizzata alla tutela della libertà di circolazione, affonda le sue fondamenta nella presa di coscienza che la riparazione della vittima, costituisce un tassello fondamentale per la piena tutela dell’integrità della persona, presupposto imprescindibile per la fruizione della suddetta libertà.
Appare, dunque, evidente la convergenza dei diversi settori del diritto internazionale nell’ingenerare uno spostamento di prospettiva che guarda all’individuo come destinatario di diritti riconosciuti da norme internazionali, e come tale centro di diritti che, se violati, devono potere essere azionati senza che agli stessi possa essere opposto alcun termine prescrizionale.
Dalle suddette considerazioni derivano due corollari.
Se da un lato devono essere considerate imprescrittibili le azioni spettanti alla vittima per ottenere il right to redress per i crimini internazionali subiti, inclusi crimini di guerra e contro l’umanità; dall’altro lato, ove l’autore dei crimini risulti essere insolvente o non sia stato identificato, gli ordinamenti nazionali dovrebbero prevedere delle forme di responsabilità sussidiaria, sì da consentire un pronto ed effettivo ristoro e risarcimento dei danni subiti.
c) Il diritto alla riparazione nei sistemi di soft law
Tale prospettiva trova un riconoscimento nella decisione del CAT ove si sottolinea come, anche nell’ambito del sistema internazionale di c.d. soft law, il diritto alla riparazione della vittima di crimini come la tortura sia stato oggetto di una ricca proliferazione normativa: in tal senso si richiama la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU n. 60/147 che, il 16 dicembre 2005, ha adottato i Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law; sebbene tale documento sia privo di efficacia vincolante esso costituisce una fondamentale manifestazione di prassi internazionale che gli Stati dovrebbero adottare rispetto al tema della riparazione.
A conferma di quanto detto si ricorda che nel caso Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo[24], la stessa Corte Penale Internazionale, chiamata a pronunciarsi, inter alia, ai sensi dell’art. 75 dello Statuto di Roma, ha riconosciuto che i Basic Principles, per quanto non vincolanti e concernenti illeciti di tipo differente rispetto a quelli di competenza della Corte, possono costituire un’adeguata “traccia interpretativa” (“appropriate guidance”) per elaborare i principi di riparazione nel contesto dello Statuto della CPI.
Non appare privo di rilievo, dunque, il richiamo nella decisione del CAT ai Basic Principles - e più precisamente ai Principi XV e XVII - che già, in casi analoghi, invitavano gli Stati ad attivarsi per primi nella corresponsione della riparazione alla vittima di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani, salvo poi la possibilità per lo Stato di rivalersi sull’autore materiale dei crimini[25].
Le linee guida tracciate nei Basic Principles hanno ispirato l’adozione di uno dei pochi General Comments[26] alla Convenzione sulla Tortura e, in particolare, del General Comment No. 3 (2012)42 on the implementation of article 14 by State parties.
Il richiamo al contenuto del suddetto documento ha svolto un ruolo determinante nell’iter motivazionale della decisione del CAT. Sul punto deve rilevarsi che per quanto in dottrina siano sorti alcuni dubbi circa la loro valenza e circa la competenza del Comitato ad adottarli, non può tuttavia porsi in dubbio che i General Comments abbiano acquisito un significativo ruolo di strumento di interpretazione autentica degli obblighi convenzionali e, pur privi di effetti vincolanti, sono destinati ad espletare la loro valenza sul piano degli equilibri di politica internazionale[27].
In particolare, come evidenziato nella decisione in commento, il General Comment No. 3(2012) ha definito la struttura del diritto alla riparazione, ravvisandone una duplice natura, tanto sostanziale quanto procedurale.
Da un punto di vista sostanziale, infatti, il right to redress non può essere limitato al solo risarcimento pecuniario, dovendo includere ben cinque forme di riparazione: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione, il diritto alla verità e le garanzie di non ripetizione. Per quanto attiene gli obblighi procedurali, si evidenzia che gli Stati Parte sono stati invitati ad intervenire con strumenti idonei a riempire di contenuto il diritto di cui all’art. 14 della Convenzione, in particolare tramite la creazione di strumenti di reclamo, compresi organi giudiziari indipendenti, in grado di riconoscere e determinare il diritto alla riparazione spettante alla vittima di tortura o altri crimini di guerra.
Proprio il General Comment, in virtù della duplice natura del diritto alla riparazione ed in considerazione dei caratteri di effettività e di accessibilità che devono contrassegnare la legislazione nazionale sul tema, aveva già ravvisato come la previsione di ogni termine prescrizionale risulterebbe incompatibile con gli obblighi di cui all’art. 14 della Convenzione, costituendo un inaccettabile ostacolo per il pieno godimento del right to redress[28].
In considerazione della rilevanza e della gravità di atti di violazione dei diritti umani ed avendo riguardo alla pervasività degli effetti che atti come la tortura producono sulla vittima, lo Stato non potrà (rectius potrebbe) invocare il minor stato di sviluppo del paese, a discolpa del mancato godimento di tutte le componenti del right to redress.
d) La ratio del right to redress previsto dall’art. 14 della Convenzione contro la Tortura e le conclusioni del Comitato.
Il Comitato, dunque, adottando una lettura teleologicamente orientata dei documenti sopra richiamati, ha evidenziato che la ratio del right to redress deve individuarsi nella necessità di garantire il totale ripristino della dignità della vittima, tramite la partecipazione ad un processo di riparazione che tenga conto delle caratteristiche del caso concreto e di cui lo Stato deve farsi carico.
L’inderogabilità di tale principio è corroborata dalla circostanza che il sopra richiamato General Comment No. 3, nel delineare i contenuti procedurali dell’obbligo di riparazione ha precisato che gli obblighi convenzionali discendenti dall’art. 14 della Convenzione, non possono essere elusi dagli Stati parte invocando un basso livello di sviluppo del paese[29]. Ne deriva che uno Stato parte non potrà considerarsi esente da doveri di tutela della vittima, così come declinati dall’art. 14 della Convenzione, sulla base della semplice circostanza che l’autore del crimine dalla stessa subito sia insolvente o non conosciuto. Diversamente argomentando, infatti, si giungerebbe alla conclusione di condizionare la componente risarcitoria del diritto alla riparazione della vittima alla capacità patrimoniale dell’autore del crimine.
Alla luce di tali indicazioni, le lacune normative dell’ordinamento giuridico bosniaco erano state già oggetto di precise attenzioni da parte tanto del Comitato contro la Tortura quanto del Comitato per i Diritti Umani.
In particolar modo nelle Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina[30], entrambi i citati treaty bodies dell’ONU - rispettivamente il 22 dicembre ed il 17 aprile 2017 - avevano richiamato lo Stato Parte per non avere ancora adottato il progetto di legge sulla protezione delle vittime della tortura e delle vittime civili di guerra ed il programma per i sopravvissuti alla violenza sessuale connessa ai conflitti (al vaglio del parlamento bosniaco già dal 2012). Inoltre, veniva espressamente criticata la pratica giurisprudenziale avviata dalla Corte Costituzionale bosniaca, in quanto considerata contraria agli obblighi convenzionali sul presupposto che il termine di prescrizione limitava “the ability of victims to effectively claim compensation”.
In conclusione il Comitato, oltre a riscontrare le carenze del sistema normativo bosniaco, ha concluso ribadendo l’obbligo per lo Stato parte di adempiere alle indicazioni fornite dalle richiamate Concluding Observation e di adottare una legge quadro che definisca con chiarezza i criteri per ottenere lo status di vittima di crimini di guerra, compresa la violenza sessuale, e che preveda i diritti specifici garantiti alle vittime, in tutto lo Stato.
6.Conclusioni.
Il Comitato contro la Tortura con questa innovativa decisione manifesta la presa di coscienza che una maggiore tutela delle vittime, finalizzata a ripristinare lo status quo ante bellum, è un passo necessario da compiere per adempiere alla missione di controllo del rispetto degli obblighi convenzionali e contribuire alla riconciliazione e ricostruzione delle aree interessate, sulla scia degli esempi offerti dalla giustizia penale internazionale, sempre più orientata verso un’ottica riconciliativa oltre che repressiva[31].
In chiave comparatistica, si può notare che l’attenzione riservata dalle fonti internazionali al tema della tutela della vittima da reato non è la stessa che si riscontra nella normativa processuale italiana, poco incline a riconoscere un ruolo effettivo alla vittima nell’ambito del processo penale. A ben guardare, la vittima come tale non viene neanche definita dall’ordinamento processuale penale italiano mancandone una espressa previsione e disciplina normativa tra i “soggetti” del processo, subordinandone la sua partecipazione solo ad una iniziativa di parte, tramite dichiarazione di costituzione di parte civile. Potrebbe allora scorgersi, anche alla luce dei passaggi argomentativi della decisione in esame, la necessità che il sistema italiano appronti un coinvolgimento maggiore della vittima nelle dinamiche processuali, non solo in una ottica squisitamente probatoria, così come appare necessaria una garanzia che accerti l’equa riparazione dei danni psicologici, morali e materiali subiti come conseguenza diretta del reato.
Ciò detto, deve osservarsi che il rilievo della decisione in esame si apprezza maggiormente se si considerano i numerosi e sistematici atti di violenza sessuale che sono stati compiuti durante il conflitto balcanico e, in particolare ma non esclusivamente, nell’area territoriale della Bosnia Erzegovina, divenuta tristemente famosa per i c.d. “campi di stupro finalizzati alla pulizia etnica”[32]: secondo una stima probabilmente al ribasso, infatti, sarebbero circa 20,000 le donne bosniache che sono state vittime di violenze sessuale e che ancora oggi sono rimaste senza giustizia.
Non può non concludersi tuttavia che, data la non vincolatività delle decisioni del Comitato, l’effettiva implementazione delle misure indicate nella decisione che dovrebbero costituire delle imprescindibili guidelines, viene a dipendere pressoché esclusivamente dalla volontà dello Stato, che, per quanto nel caso di specie abbia quasi interamente accolto le argomentazioni della comunicazione presentata da Mrs. A., si è mostrato particolarmente inefficiente nell’accordare la tutela dovuta alla vittima, nonostante i richiami che allo stesso erano stati rivolti, dallo stesso CAT, già nel 2017.
[1]L’articolo è stato redatto con la collaborazione della Dott.ssa Marta Durante, tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Palermo.
[2]Cfr. Art. 3 CEDU; art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; art. 5 della Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli dell’Organizzazione dell’Unità Africana.
[3]Insieme al Comitato contro la Tortura vi sono altri sette treaty bodies: Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (1976); Comitato per i diritti umani, diritti civili e politici (1976); il Comitato contro la discriminazione razziale (1969); il Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne (1979); il Comitato sui diritti dell’infanzia (2002); il Comitato sui diritti dei lavoratori migranti (2003); il Comitato sui diritti delle persone con disabilità (2008); il Comitato sulle sparizioni forzata (2010).
[4] Alla donna e alla figlia è stato concesso l’anonimato a tutela delle vittime del reato di tortura, assegnando loro rispettivamente gli pseudonimi di Mrs. A. e Mrs. E.
[5] Villaggio che si trova all’interno del Comune di Vogosca – vicino Sarajevo - un’area che all’epoca dei fatti era sotto il controllo delle forze della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska).
[6] Secondo le osservazioni dello Stato, l’ammontare della pensione ammonterebbe a 59494 marchi bosniaci
[7] Art. 376, Law on Civil Obligations.
[8] Il 4 giugno 2003 la Bosnia Ed Erzegovina ha presentato la dichiarazione prevista ai sensi dell’art. 22 CAT riconoscendo la competenza del Comitato a ricevere comunicazioni da soggetti privati.
[9] Cfr. in proposito Comitato contro la Tortura, Case Gerasimov v. Kazakhstan, Communication No. 433/2010, ON Doc. CAT/C/48/D/433/2010, par. 11.2: «The Committee notes that the State party contests the Committee’s competence ratione temporis on grounds that the torture complained of (27 March 2007) and the last procedural decision of 1 February 2008 refusing to open a criminal case occurred before Kazakhstan made the declaration under article 22 of the Convention. The Committee recalls that a State party’s obligations under the Convention apply from the date of its entry into force for that State party. It can examine alleged violations of the Convention which occurred before a State party’s recognition of the Committee's competence under article 22 if the effects of these violations continued after the declaration, and if the effects constitute in themselves a violation of the Convention.»
[10] Si pensi all’art. 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”.
[11] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Ferreira Alves c. Portogallo (n. 6), ric. n.46436/06, par. 28-29.
[12] Ai sensi dell’art.1, par. 1 della Convenzione: «il termine “tortura” designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o si intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad essere inerenti o da esse provocate».
[13] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/1994, aveva osservato che «[w]hile being held in detention the applicant was raped by a person whose identity has still to be determined. Rape of a detainee by an official of the State must be considered to be an especially grave and abhorrent form of ill-treatment given the ease with which the offender can exploit the vulnerability and weakened resistance of his victim. Furthermore, rape leaves deep psychological scars on the victim which do not respond to the passage of time as quickly as other forms of physical and mental violence. The applicant also experienced the acute physical pain of forced penetration, which must have left her feeling debased and violated both physically and emotionally. […]Against this background the Court is satisfied that the accumulation of acts of physical and mental violence inflicted on the applicant and the especially cruel act of rape to which she was subjected amounted to torture in breach of article 3 of the Convention», par. 83-86.
[14]Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, Prosecutor v. Zejnil Delalij e altri, 16 Novembre 1998, IT-96-21-T.
[15] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/1994, aveva osservato che «[w]hile being held in detention the applicant was raped by a person whose identity has still to be determined. Rape of a detainee by an official of the State must be considered to be an especially grave and abhorrent form of ill-treatment given the ease with which the offender can exploit the vulnerability and weakened resistance of his victim. Furthermore, rape leaves deep psychological scars on the victim which do not respond to the passage of time as quickly as other forms of physical and mental violence. The applicant also experienced the acute physical pain of forced penetration, which must have left her feeling debased and violated both physically and emotionally. […]Against this background the Court is satisfied that the accumulation of acts of physical and mental violence inflicted on the applicant and the especially cruel act of rape to which she was subjected amounted to torture in breach of article 3 of the Convention».
[16] La decisione del Tribunale per il Ruanda in Prosecutor v. Akayesu, emessa il 2 settembre 1998, è storicamente riconosciuta la prima sentenza ad avere accertato che atti di violenza sessuale possono essere perseguiti come elementi costitutivi di una campagna di genocidio.
[17] Corte Penale Internazionale, Belgio v. Senegal, Questions relating to the Obligation to Prosecute or Extradite, Decisione, I.C.J. Reports 2012, par. 99 «the prohibition of torture is part of a customary international law and it has become a peremptory norm (jus cogens)». Si vedano altresì, inter alia, Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, Prosecutor v. Anto Furundzija, 10 dicembre 1998, IT-95-17/1-T, par. 144; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Al-Adsani c. the United Kingdom, App. No. 35763/97, sent. 21 novembre 2001, par. 60.
[18] E. Ruozzi, Il risarcimento come forma di riparazione per la violazione di diritti umani tra responsabilità internazionale degli Stati e soggettività internazionale dell’individuo, in federalismi.it, Focus Human Rights n.2/2017, 27 luglio 2017.
[19] Lo stesso Comitato contro la Tortura nel General Comment No. 1: implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22 (Refoulement and Communications), 22 novembre 1997, in A/53/44, allegato IX affermava di non essere «an appellate, a quasi-judicial or an administrative body, but rather a monitoring body created by the states parties themselves with declaratory powers only».
[20] L’unica menzione della vittima nello Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è contenuta all’articolo 22, che si occupa di disciplinare la protezione accordata alle vittime e ai testimoni prima, durante e dopo il dibattimento.
[21] F. Trappella, Dal genocidio al ginocidio. Spunti per una riflessione sulla tutela della vittima secondo I tribunali penali internazionali, in Cassazione Penale, fasc. 11, 1 novembre 2017, pag. 4211B.
[22] Ai sensi dell’art. 75 dello Statuto di Roma la Corte ha il potere di«establish principles relating to reparations to, or in respect of, victims, including restitution, compensation and rehabilitation. On this basis, in its decision the Court may, either upon request or on its own motion in exceptional circumstances, determine the scope and extent of any damage, loss and injury to, or in respect of, victims and will state the principles on which it is acting»
[23] E. Ruozzi, Il risarcimento come forma di riparazione, cit.
[24] Corte Penale Internazionale, Decisione ICC-01/04-01/06-1119, Decision on Victims' Participation, Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, TC I, 18 gennaio 2008 (par. 35 e 92) e Decisione ICC-01/04-01/06-2904, Decision establishing the principles and procedures to be applied to reparations, TC I, 7 agosto 2012 (par. 185).
[25]Il Principio XV dei Basic Principle stabilise che «Adequate, effective and prompt reparation is intended to promote justice by redressing gross violations of international human rights law or serious violations of international humanitarian law. Reparation should be proportional to the gravity of the violations and the harm suffered. In accordance with its domestic laws and international legal obligations, a State shall provide reparation to victims for acts or omissions which can be attributed to the State and constitute gross violations of international human rights law or serious violations of international humanitarian law. In cases where a person, a legal person, or other entity is found liable for reparation to a victim, such party should provide reparation to the victim or compensate the State if the State has already provided reparation to the victim.»; ai sensi del Principio XVII: «States shall, with respect to claims by victims, enforce domestic judgements for reparation against individuals or entities liable for the harm suffered and endeavour to enforce valid foreign legal judgements for reparation in accordance with domestic law and international legal obligations. To that end, States should provide under their domestic laws effective mechanisms for the enforcement of reparation judgements.»
[26] Gli altri due General Comments, risalenti al 2008 e al 2017, hanno riguardato l’art. 2 della Convenzione relativo all’obbligo degli Stati Parte di adottare i provvedimenti necessari ad impedire il compimento di atti di tortura nel territorio sottoposto alla loro giurisdizione (General Comment No. 2, Implementation of article 2 by States parties, UN Doc. CATC/GC/2) e l’art. 3 sul principio di non-refoulement in relazione alla presentazione di comunicazioni individuali davanti al Comitato ai sensi dell’art. 22 della Convenzione (General Comment No.4(2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22, UN Doc. CAT/C/GC/4).
[27] F. Zorzi Giustiniani, Divieto di non-refoulement e tortura. Osservazioni in margine al General Comment n. 4 alla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, in federalismi.it , Focus on Human Rights, 29 ottobre 2018.
[28] Il citato General Comment No. 3(2012) aveva annoverato la prescrizione all’interno di una elencazione esemplificativa (“include but not limited to”) di istituti (come anche l’amnistia e l’indulto) che costituiscono ostacoli inaccettabili per il pieno godimento del right to redress (par. 38).
[29]General Comment No. 3(2012), cit., par. 37 – 40.
[30]Comitato contro la Tortura, Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina, CAT/C/BIH/CO/6, 22 dicembre 2017, par. 18 -19; Comitato per Diritti Umani, Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina, CCPR/C/BIH/CO/3, 13 aprile 2017, par. 17 – 18.
[31] Sul punto si veda G. Fiandaca, (2009), I crimini internazionali tra punizione, riconciliazione e ricostruzione, in G. Fiandaca -C. Visconti, Punire, mediare, riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conflitti individuali, Giappichelli, Torino 2009, pp. 13-22.
[32] Cfr. Tribunale Internazionale Penale per la ex Jugoslava, Caso Procurator v. Kunarac e altri, 22 febbraio 2001, IT-96-23-T& IT-96-23/1-T . I tre imputati, miliziani serbo-bosniaci, sono stati condannati per sistematici atti di stupro, verificatisi tra il 1992 e il 1993, ai danni di due giovani donne musulmane, residenti nel centro di Foca. Il piano era finalizzato ad eliminare la maggioranza islamica residente nella zona.
Diritto dell’Unione europea e doppia pregiudizialità nel dialogo tra le corti (seconda parte)
di Franco De Stefano*
Sommario: 1. La questione della c.d. doppia pregiudizialità sui diritti fondamentali fino al 2017. - 2. Le nuove prospettive aperte dalla Corte costituzionale alla fine del 2017. - 3. Gli scenari aperti agli inizi del 2018: la Corte di cassazione dinanzi agli immediati richiami di Lussemburgo. - 4. Gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Corte costituzionale. - 5. Tra le due teorie contrapposte.
1. La c.d. doppia pregiudizialità: la questione sui diritti fondamentali fino al 2017
La questione dell’obbligo del giudice nazionale di disapplicazione in caso di impossibilità di interpretazione conforme in tema di diritti fondamentali è divenuta di particolare importanza, visto che questi, come codificati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in conformità alle «tradizioni costituzionali comuni», in larga parte finiscono con il coincidere con quelli garantiti anche – ma, forse più correttamente, «già» – da molte delle Costituzioni nazionali, tra cui la nostra: ciò che è reso evidente nella vicenda appena esaminata (Taricco e Taricco-bis)[1], ma che può agevolmente prospettarsi per il futuro, soprattutto per l’ampiezza della nozione di quei diritti, anche in campo procedurale, riconosciuta in base all’elaborazione nazionale e sovranazionale (e, quanto a quest’ultima, soprattutto della Carta europea dei diritti dell’Uomo).
Ora, fino almeno alla fine del 2017, la simultanea presenza di una questione di pregiudizialità costituzionale e di una pregiudizialità eurounitaria, per i sospetti di contrasto della norma nazionale con la Costituzione italiana e con il diritto dell’Unione, avrebbe comportato la necessità della previa verifica di compatibilità della norma nazionale con quest’ultimo – se del caso, dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo per aver conferma dell’esatto ambito di applicazione – e[2]:
- in caso di esito negativo della verifica, alla non applicazione della norma nazionale stessa;
- in caso positivo della verifica, della sottoposizione della sola residua questione di legittimità costituzionale alla Consulta.
2. Le nuove prospettive aperte dalla Corte costituzionale alla fine del 2017.
La recente e significativa innovazione di Corte cost. n. 269 del 2017 sta in ciò che, sia pure in una sentenza di inammissibilità e di rigetto delle questioni di costituzionalità ad essa sottoposte, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
Il delicato rapporto tra questione di costituzionalità e questione di compatibilità eurounitaria è quindi sensibilmente modificato[3].
La prima premessa è che già la Corte di giustizia aveva ancora di recente escluso[4] che il diritto dell’Unione, in particolare l’art. 267 TFUE, ostasse ad una normativa nazionale che imponesse ai giudici ordinari di sollevare incidente di costituzionalità, qualora ritenessero una legge nazionale contraria a disposizioni della CDFUE, purché detti giudici restassero liberi:
- di sottoporre alla Corte di giustizia, «in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria»;
- di «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»;
- di disapplicare quindi, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che avesse superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, ritenuta contraria al diritto dell’Unione.
L’affermazione è stata, con singolare tempism, ribadita sottolineandosi che l’art. 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione[5].
La seconda premessa è la maggiore valenza, anche nel sistema multilivello[6] di tutela dei diritti (fondamentali?) della persona, di una dichiarazione di illegittimità costituzionale, siccome erga omnes e comunque il carattere fondamentale del sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi nell’architettura costituzionale.
Ne consegue che, investita – evidentemente in via prioritaria e quindi per prima – della questione che presenti aspetti di doppia pregiudizialità, la Consulta «giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito». E richiama l’analoga conclusione di altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione, come quella austriaca, con sentenza 14 marzo 2012 (U 466/11-18; U 1836/11-13).
3. Gli scenari aperti agli inizi del 2018. La Corte di Cassazione dinanzi agli immediati richiami di Lussemburgo
Anche questa pronuncia della Corte costituzionale ha suscitato vivissimi dibattiti e la Corte di cassazione italiana ha, almeno in alcune delle prime pronunce applicative, aderito al nuovo principio[7], proponendo in via prioritaria la questione di legittimità costituzionale di una norma sospettata di contrasto anche con il diritto dell’Unione e rimettendo alla Consulta la valutazione dell’opportunità di investire la Corte di giustizia del relativo rinvio pregiudiziale e sollecitandola a chiarire alcuni aspetti non del tutto chiari della precedente sentenza n. 269 del 2017 in ordine agli sviluppi del giudizio, soprattutto per la sopravvivenza anche ad una valutazione di costituzionalità (nazionale) della norma del potere del giudice nazionale di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo[8].
Con una singolare concomitanza, questa ha del resto negli stessi giorni[9] ribadito che «l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa e l’effetto utile dell’articolo 267 TFUE risulterebbe sminuito se, a motivo dell’esistenza di un procedimento di controllo di costituzionalità, al giudice nazionale fosse impedito di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte e di dare immediatamente [enfasi aggiunta] al diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione o alla giurisprudenza della Corte» (§ 23); sicché «l’articolo 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione».
Fino ad ora la Corte di cassazione ha tenuto un atteggiamento non univoco, muovendosi tra il formale ossequio al carattere prioritario delineato da Corte cost. n. 269/17 e la disapplicazione dei principi da questa desunti, con riaffermazione della diretta immediata applicabilità del diritto eurounitario, oppure della diretta immediata formulabilità del rinvio pregiudiziale a Lussemburgo.
Con una prima impostazione[10] si è dato pienamente seguito alle indicazioni fornite nella sentenza n. 269/2017: dinanzi ad un duplice caso di doppia pregiudizialità (concernente due distinte ed autonome disposizioni del decreto legislativo n. 58/1998, il c.d. T.U.F., entrambe sospettate di ledere diverse disposizioni della CDFUE e della Costituzione italiana), è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale[11].
Pochi mesi dopo la stessa Cassazione, con due pronunce pubblicate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra[12], ha tracciato una strada alternativa a quella percorsa dalla Seconda Sezione della Suprema Corte, perché ha ritenuto immediatamente disapplicabile, senza necessità di sollevare l’incidente di costituzionalità, una normativa interna contrastante con il divieto di discriminazione tra uomo e donna; e tanto eludendo il tema posto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/17, sostanzialmente affermando che la relativa pronuncia - oltre che di per sé stessa non vincolante, in quanto espressa con obiter dictum - non era comunque rilevante nella fattispecie sottoposta al suo esame.
In altra occasione, anzi, è stato manifestato un aperto dissenso con Corte cost. n. 269/17: dubitandosi della compatibilità di una norma interna con il divieto di discriminazione per età contenuto nella direttiva 2000/78 e nell’articolo 21 CDFUE, è stato direttamente proposto il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, dando espressamente atto di non ritenere necessario seguire le indicazioni rivolte dalla Corte costituzionale al giudice ordinario nella sentenza n. 269/2017.
Non sono mancate diverse linee interpretative, ora tali da ricondurre la pregiudiziale eurounitaria ad una questione di legittimità costituzionale[13], ora invece, benché in ragione della peculiarità della fattispecie, tali da elidere in radice la stessa configurabilità della doppia pregiudizialità[14].
4. Gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Anche all’esito delle sollecitazioni della Corte di cassazione, la Consulta è tornata sull’argomento a più riprese nel corso del 2019[15].
Già era stato notato[16] come la 269/17 avesse diversificato l’ambito del giudizio di legittimità a seconda che il parametro interposto nella denuncia di violazione dell’art. 117, comma 1, fosse rappresentato da una norma della CDFUE o da altra norma dell’ordinamento eurounitario: nel primo caso poteva porsi un problema di bilanciamento, «cui provvede il giudice costituzionale»; nel secondo, andava apprezzata l’esistenza di un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione e verificata la possibilità di diretta applicazione da parte del giudice comune ovvero il suo interpello interpretativo alla Corte di giustizia, previo se del caso esito negativo del controllo di costituzionalità interno.
Già con la successiva sentenza n. 20/2019[17], la Consulta ha precisato che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte costituzionale e non solo su altri profili, come sembrava presupporre la 269/17.
Restava ancora, tuttavia, una seria perplessità su cosa potesse succedere dopo il rinvio pregiudiziale e l’eventuale dichiarazione di collisione tra norma nazionale e parametro della Carta UE: ci si era domandati se ciò fosse sufficiente per disapplicare la norma interna o avesse imposto di rivolgersi comunque alla Corte costituzionale, così ridimensionando il ruolo della Corte di giustizia; senza tacere il sospetto[18] che fosse stato in ogni caso riaffermato il riaccentramento del sindacato di costituzionalità, perché la Corte costituzionale si era comunque pronunciata nel merito, pur in presenza di violazione di norme eurounitarie di carattere autoapplicativo.
Con la sentenza n. 63 del 2019 la Consulta si è mossa nel senso di una revisione-integrazione della problematica dei rapporti[19]; e, con l’occasione, ha affermato che non le è precluso «l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta»[20].
Si è osservato che in tal modo[21] risultano in parte neutralizzate le conseguenze più temute della sentenza n. 269, perché la facoltà di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia potrebbe portare, in caso di risposta volta alla disapplicazione della norma interna, a escludere un ruolo del giudice costituzionale, salvo che si prospetti una lesione dei cd. «controlimiti».
Ma si è pure prospettato[22] il rischio che il giudice comune, comunque rivolgendosi alla Corte costituzionale, entri in un cortocircuito che lo porti a dover applicare la norma eurounitaria e, contemporaneamente, a sollevare la questione di costituzionalità: argomento al quale si è contrapposta la fiducia nella saggezza del giudice costituzionale, che, in un caso del genere, dovrebbe considerare doverosa l’applicazione della pronuncia della CGUE che avesse come fondamento una violazione della CDFUE che esprime medesimi valori.
Infine, con l’ordinanza n. 117/2019 la Corte costituzionale[23] ha scelto di rivolgersi prioritariamente alla CGUE per chiederle un chiarimento sull’esatta interpretazione della norma e sulla sua validità alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, nonché dell’art. 30 del regolamento (UE) n. 596/14; e lo ha chiesto anche in relazione ai richiami agli ordinamenti nazionali contenuti nella direttiva in materia. La Corte si è chiesta, per l’ipotesi in cui lo Stato possa non sanzionare chi si rifiuti di rispondere, se una eventuale propria declaratoria di incostituzionalità sia in contrasto con il diritto dell’Unione; per l’ipotesi contraria – e cioè di legittimità del mantenimento della sanzione – si interroga sulla compatibilità della sanzione del diritto di non rispondere con gli artt. 47 e 48 della CDFUE, come interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
In apparenza parrebbe adottata una soluzione di segno opposto a quella presa nella sentenza n. 269/2017 e che lascia, cioè, al giudice europeo l’ultima parola e risolve il quesito formativo che è stato posto sulla Carta di Nizza: a chi spetti la prima parola e l’ultima.
5. Tra le due teorie contrapposte
Il dialogo tra le Corti continua quindi intenso e gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Consulta non sono ancora del tutto chiari; è seguita un’eccezionale fioritura di commenti e di interventi, divisi tra i sostenitori della primazia del controllo interno e quelli della primazia del controllo eurounitario, in un vero e proprio scontro che pare riecheggiare quello tra euroscettici ed euroentusiasti: scontro la cui eccezionale ricchezza non può adeguatamente, in questa sede, neppure essere presa in considerazione, risultando piuttosto indispensabile rinviare alle cospicue elaborazioni delle due parti, talvolta in aperta contrapposizione.
Basti solo ricordare che utili argomenti a favore dell’una e dell’altra delle conclusioni estreme possono trarsi sia dalla teoria generale del diritto che, più in particolare, dal diritto costituzionale e da quello eurounitario; ciascuna delle due è ispirata alla rivendicazione, comprensibilmente gelosa, delle rispettive prerogative ed alla difesa della propria identità ed autonomia.
Eppure, già nell’immediatezza della 269 del 2017 si era annotato[24] che la sovrapposizione delle tutele non avrebbe dovuto, per evitare un’impropria e nefasta eterogenesi dei fini, comportarne la limitazione o la compressione; pertanto, neppure un diverso ordine – logico e procedimentale – dei rimedi avrebbe dovuto consentire l’una e l’altra: in sostanza, tutte le Corti, per quanto condivisibilmente a difesa delle rispettive prerogative, dovrebbero concorrere all’effettività della tutela dei diritti fondamentali ed evitare che, per impropri conflitti tra esse, questa ne risulti sminuita o limitata.
Ove non fosse stato possibile fare ricorso a categorie generali dell’interpretazione, come la mera apparenza del conflitto tra norme o perfino il principio di specialità (visto che i diritti fondamentali hanno, in ultima analisi, un significato equivalente nella loro accezione costituzionale e in quella eurounitaria, attesa l’elaborazione dei relativi concetti e la reciproca interazione riconosciuta ad ogni livello), non era parso possibile, effettivamente e se non a prezzo di un conflitto lacerante e potenzialmente letale con l’ordinamento eurounitario, privare il giudice nazionale della potestà di sottoporre sempre e comunque la questione di conformità della norma interna alla Corte di giustizia, quindi anche prima del vaglio di costituzionalità o nonostante perfino il suo previo positivo superamento.
In termini ancora più generali, la compresenza e così la contemporanea vigenza ed operatività dei due ordinamenti e dei relativi livelli di tutela non si era ritenuta idonea ad escludere o perfino precludere la simultanea proposizione dei procedimenti finalizzati a fare valere la contrarietà dell’unica norma ai due paradigmi di riferimento, essendo davvero arduo ipotizzare una subordinazione, anche solamente cronologica, dell’uno all’altro.
E si era pure ipotizzato che, qualora fosse intervenuta la pronuncia della Corte costituzionalità nel senso della sua illegittimità costituzionale, la questione sarebbe venuta meno appunto erga omnes e neppure avrebbe avuto più senso insistervi dinanzi alla Corte di giustizia[25]; ove la Consulta non avesse espunto la norma dal nostro ordinamento, sarebbe rimasta invece pienamente operativa la giurisdizione di Lussemburgo e gli effetti del suo pronunciamento, che eventualmente avessero avuto esiti divergenti rispetto a quelli della Consulta, avrebbero vincolato di certo il giudice a quo, ma pure - con l’efficacia propria dell’interpretazione del diritto eurounitario da parte della Corte di giustizia - gli altri giudici nazionali.
Se, viceversa, fosse intervenuta prima della Consulta la decisione della Corte di giustizia, la prima avrebbe conservato ovviamente i suoi poteri di verifica della conformità alla Costituzione e, in ultima analisi ed a seconda del livello del conflitto che potenzialmente ancora ne residuasse, ai principi fondanti o alle tradizioni costituzionali proprie del nostro ordinamento, onde inferirne conseguenze analoghe a quelle tracciate ad epilogo della vicenda Taricco-bis.
Si tratta, in ultima analisi, della teoria della simultanea proposizione delle due pregiudizialità[26] e quindi dei rimedi: teoria che, a ben vedere, potrebbe costituire la via di uscita dal circolo vizioso, ancor più di quella, suggestiva ma pur sempre ancorata alla possibilità di un’interpretazione conforme favorevole, dell’integrazione delle tutele apprestate dalle fonti a loro volta tra loro integrate, dalla tensione dei diversi orizzonti ordinamentali a convergere affiancandosi senza confliggere né sovrapporsi[27].
In buona sostanza, non si discuterebbe di ordine logico o di priorità dei due ordinamenti, visto che entrambi operano su piani concorrenti, ma niente affatto mutuamente esclusivi, in quanto anzi reciprocamente integrantisi. Proprio la diversità e la contemporanea operatività dei due livelli esclude che la simultanea attivazione dei due controlli, del resto, elida in radice la funzione e neppure l’utilità di quello che fosse, per mere questioni di contingenza, risolto per secondo.
Una volta sperimentata, in applicazione dei criteri ermeneutici propri della tradizione nazionale e di quella comune agli Stati membri, l’impossibilità di un’interpretazione della norma conforme alla disciplina eurounitaria e a quella costituzionale interna di analogo ambito o contenuto, il giudice nazionale comune è infatti contemporaneamente soggetto a due obblighi, entrambi derivanti direttamente dal complessivo assetto ordinamentale in cui è inserito: quello di rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per l’esatta definizione del contenuto della norma eurounitaria e quello di rimettere alla Corte costituzionale italiana la risoluzione della questione, non manifestamente infondata (oltre che rilevante), del contrasto della norma con la Costituzione nazionale.
L’ambito e gli effetti dei due controlli sono differenti: se è vero che l’efficacia di quello della Corte di Giustizia è solo indirettamente equiparabile a quella erga omnes, è altrettanto innegabile che l’estensione paneuropea del relativo arresto non potrebbe che giovare all’elaborazione del diritto eurounitario nel suo complesso e quindi a dare indirettamente maggior contenuto anche alla norma interna e perfino a quella costituzionale; simmetricamente, se è vero che il controllo della Corte costituzionale sarebbe ovviamente limitato ai confini nazionali, la sua elaborazione potrebbe ben concorrere a quella delle nozioni sottese agli istituti da applicarsi dalla Corte di Lussemburgo e quindi da estendersi a tutto il territorio dell’Unione.
Il dato formale non sarebbe di ostacolo, per quanto già notato nell’immediatezza di Corte cost. 269/17: a parte la possibilità di una feconda attività di interlocuzione anche reciproca, come ha dimostrato proprio la nostra Corte costituzionale e proprio con l’ordinanza n. 117/19 oppure con la celebre vicenda Taricco-bis, si potrebbe auspicare il ripensamento delle posizioni di self-restraint in caso di cessazione della rilevanza della questione (ad esempio, proprio in dipendenza della risoluzione del dubbio da parte dell’altra delle due Corti, che giunga per prima ad escludere la legittimità dell’interpretazione o della stessa norma) e l’adozione di autentici obiter dicta a valere quali autentici prospective overruling e comunque in grado di apportare significativi apporti agli sviluppi futuri del dibattito in corso.
Neppure l’ipotesi, per la verità di scuola, di un conflitto autentico tra le due interpretazioni, nel senso cioè di una contrarietà ad uno solo dei due ordinamenti non riconosciuta anche dall’altro, impedirebbe una feconda interazione tra le due Corti: ad esempio, esponendo in prevenzione le conseguenze negative nel tentativo di indurre il coprotagonista del dialogo ad un ripensamento e, in ultima analisi e quale extrema ratio o ultima Thule, non dimenticando comunque che, per l’assetto costituzionale attuale, comunque avrebbero applicazione i controlimiti (per il caso in cui il diritto eurounitario imponesse soluzioni inaccettabili per i principi irrinunciabili dell’ordinamento nazionale), attraverso beninteso la valutazione istituzionalmente riservata alla Corte costituzionale.
* Seconda parte della relazione tenuta sul tema “Rapporti tra diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento italiano nel dialogo tra le Corti” nell'ambito dell'incontro di studi organizzato dalla Struttura per la Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura in Firenze il 29/01/2020 avente ad oggetto “Il ruolo del giudice nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione europea”.
L’autore è consigliere della Corte suprema di cassazione, assegnato dal 2010 alla terza sezione civile e dal 2016 alle sezioni unite civili – componente, dalla sua istituzione a gennaio 2016, del gruppo dei referenti per i protocolli di intesa tra la Corte suprema di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’Uomo e, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[1] F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti, in questa Rivista, in corso di pubblicazione.
[2] Corte di Cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, che al riguardo cita, al suo punto 11.3.6.7, Corte costituzionale, ordinanza del 18 luglio 2013, n. 207, nonché Corte costituzionale, ordinanza del 2 marzo 2017, n. 48, come pure Corte costituzionale, sentenza 12 maggio 2017, n. 111.
[3] L’esordio è significativo: «Una precisazione si impone alla luce delle trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato ed eseguito dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), che, tra l’altro, ha attribuito effetti giuridici vincolanti alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (da ora: CDFUE), equiparandola ai Trattati (art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea)».
[4] Corte di giustizia, sentenza del dì 11 settembre 2014, A c. B e altri, causa C-112/13; Corte di giustizia, Grande Camera, sentenza del 22 giugno 2010, Melki e Abdeli in cause C-188/10 e C-189/10.
[5] Corte di giustizia, sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet, causa C-322/16).
[6] Esplicito il richiamo: «il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)». Ed esplicito anche l’ossequio, almeno formale, al primato del diritto eurounitario: «Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri)».
[7] Corte di Cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, cit..
[8] Questi i passaggi salienti, sul punto, dell’ordinanza interlocutoria.
«Residua, peraltro, una questione, destinata ad acquisire concreta rilevanza nel presente giudizio soltanto nel caso in cui la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale superi il vaglio della Corte costituzionale.
Ci si riferisce alla questione se, alla stregua del principio di effettività della tutela garantita dal diritto dell’Unione europea, il potere del giudice comune di non applicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche, eventualmente, sotto il profilo della conformità alla CDFUE quale norma interposta rispetto agli articoli 11 e 117 Cost.) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui - secondo il giudice comune o secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea dal medesimo adita con il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE - la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE).
Dall’inciso «per altri profili», contenuto nell’affermazione con cui nella sentenza n. 269/2017 si riconosce il potere del giudice comune «di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione» (§ 5.2, penultimo capoverso), parrebbe doversi desumere che, nel sistema delineato dalla sentenza n. 269/2017, dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale il potere del giudice comune di disapplicare la disposizione legislativa nazionale che abbia superato il vaglio di costituzionalità sia limitato alla ipotesi che tale giudice ravvisi - eventualmente all’esito di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE - un contrasto con il diritto dell’Unione per profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale».
[9] Corte di giustizia, sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd,, causa C-322/16. Può ravvisarsi una linea di continuità con le pronunzie più recenti, successive alla richiamata A. c. B. e altri del 2014, che hanno enfatizzato l’obbligo del giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione europea, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contraria, senza doverne attendere la previa soppressione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (Corte di giustizia, sentenza del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe-Ems, causa C-5/14, punti 32 e 39; Corte di giustizia, sentenza del 5 aprile 2016, PFE, causa C-689/13, punti 40 e 41).
[10] Corte di cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, per la quale si rinvia alla lettura datane dall’estensore in: A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza delle Corti italiane, relazione al corso di formazione presso la Scuola superiore della magistratura in Scandicci il 22 novembre 2018; A. Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni e disordine delle idee, in Questione giustizia on line, dal 6 febbraio 2020. Tra i numerosi commenti, L.S. Rossi, Il «triangolo giurisdizionale» e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della Corte costituzionale italiana, in www.federalismi.it, definisce l’ordinanza in esame «atto di sfida, mascherato da atto di obbedienza».
[11] In particolare, la richiamata ordinanza:
- ha evidenziato che, alla stregua della giurisprudenza costituzionale anteriore alla sentenza n. 269/2017, nelle cause rientranti nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione europea, la disposizione interna della quale si accertasse (eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) il contrasto con una norma auto applicativa di diritto UE, anche di contenuto materialmente costituzionale, avrebbe dovuto essere disapplicata (con conseguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale norma con riferimento a parametri interni);
- ha poi ritenuto che, alla luce della sentenza n. 269 del 2017, la segnalata doppia pregiudizialità andasse risolta privilegiando, in prima battuta, l’incidente di costituzionalità;
- ha comunque prospettato, nel sollevare la questione di costituzionalità, per il caso che le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale avessero superato il vaglio della Corte costituzionale, l’eventualità di attivare essa il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove già non attivato dalla Corte costituzionale nel giudizio incidentale), sottolineando il proprio dovere di «dare al diritto dell’UE un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente adottata dalla Corte di Giustizia»;- ha pure, per una tale evenienza, chiesto alla Corte costituzionale di precisare se il potere del giudice comune di disapplicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche sotto il profilo della conformità alla CDFUE) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui (secondo il giudice comune o la Corte di Giustizia UE, dal medesimo adita) la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale).
[12] Corte di Cassazione, sentenza n. 12108 del 17 maggio 2018 e ordinanza n. 13678 del 30 maggio 2018. Ancora, nel gennaio 2019 la stessa sezione lavoro della Corte suprema ha (con l’ordinanza n. 451) parimenti ritenuto di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia in tema di diritto alle ferie, per chiedere se l’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE e l’art. 31 della CDFUE debbano essere interpretati nel senso che ostino a disposizioni o prassi nazionali, in base alle quali vada perso il diritto al pagamento di indennità pecuniaria compensativa delle ferie non godute a causa della cessazione del rapporto di lavoro e dell’impossibilità del lavoratore di goderne prima, determinata da licenziamento illegittimo del datore di lavoro; ed anche in tal caso la Corte si è riferita alla natura di obiter dictum del passaggio critico di Corte cost. n. 269/17 ed ha riaffermato il proprio dovere, evidentemente poziore, di rivolgersi alla Corte europea, ove si sia in tema di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione.
[13] Corte di Cassazione (sezione lavoro), ordinanza del 17 giugno 2019, n. 16163, che ha sollevato incidente di costituzionalità dell’art. 74 dlgs n 151/2001 in relazione agli 3 Cost., 31 Cost. e 117, primo comma, Cost. quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione dell’art. 41 d.lgs. n. 286 del 1998.
[14] È quest’ultimo il caso deciso con sentenza n. 4223 del 21 febbraio 2018, che, in seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia, ha escluso ulteriori spazi per questioni di costituzionalità. Per la detta pronuncia, l’interpretazione del diritto dell’Unione è di competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 T.F.U.E.; tale competenza si estende alla valutazione di legittimità delle eventuali deroghe che alla normativa nazionale è consentito apporre alle regole sovranazionali, in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili ai Trattati.
In particolare, la Corte di cassazione, alla luce dell’art. 267 TFUE e dell’obbligo di collaborazione sancito dall’art. 4 comma terzo TUE in base al quale gli Stati membri adottano ogni misura atta a garantire l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione, nonché dello stesso art. 19 TUE, non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia, non avendo il potere di darne una interpretazione diversa, in quanto il giudizio di rinvio non si configura come una sede nella quale sia possibile contestare od impugnare quanto deciso dalla Corte di giustizia.
È poi esclusa la possibilità di ricorrere nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, per avere quest’ultima esaminato tutti gli aspetti rilevanti in sede sovranazionale della vicenda e ritenuto la disposizione oggetto di censura «appropriata e necessaria»; ed è altresì disattesa pure la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, alla luce dell’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza della previsione di estinzione del rapporto: non vi sono ragioni per ritenere che la Carta costituzionale offra una tutela antidiscriminatoria più incisiva di quella derivante dalle fonti sovranazionali, soprattutto alla luce delle più recenti evenienze legislative, volte a rafforzare le politiche e gli strumenti di contrasto alla discriminazione sul lavoro, facendone un momento prioritario di regolazione da parte dell’Unione, oltre che oggetto di supervisione mediante l’Agenzia per i diritti fondamentali e i periodici Report della Commissione e del Parlamento sul rispetto della Carta dei diritti. E si prospetta che, proprio nel settore del contrasto alla discriminazione deve ritenersi verificata una «fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della Cedu), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione … Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione della questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo dell’irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale».
In due successive occasioni la Corte di cassazione, con sentenze del 6 dicembre 2018, nn. 31632 e 31633, è stata ritenuta possibile l’immediata e diretta applicazione della norma eurounitaria, senza necessità di sollevare questioni di legittimità costituzionale: le due pronunce sottolineano che le caratteristiche della fattispecie consentono di dare diretta attuazione al disposto dell’articolo 50 CDFUE, come interpretato dalla Corte di giustizia in esito al rinvio pregiudiziale, senza alcuna frizione col principio del controllo accentrato di costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost., sul quale si fondano le indicazioni contenute nella sentenza C. cost. n. 269/17.
[15] P. D’Ascola, L’età dei diritti e la tutela giurisdizionale effettiva nel dialogo tra le Corti, in Questione Giustizia, Speciale ottobre 2019, L’eredità di un giudice. Scritti per Carlo Maria Verardi, reperibile (ultimo accesso 03/01/2020) all’URL http://questionegiustizia.it/speciale/pdf/QG-Speciale_2019-2_13.pdf.
[16] E. Scoditti, Giudice costituzionale e giudice comune di fronte alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo la sentenza costituzionale n. 269 del 2017, in Foro it., 2018, fasc. 2, p. 406.
[17] Resa in tema di contrasto tra diritto di accesso ai dati patrimoniali dei dirigenti della pubblica amministrazione e diritto di questi ultimi alla riservatezza.
[18] A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali, riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali, crisi della gerarchia delle fonti, in Rivista di diritti comparati, n. 2/2019 (www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2019/04/Ruggeri-RDC-2-2019.pdf.).
[19] Il caso riguardava la sanzione amministrativa pecuniaria addebitata da CONSOB per abuso di informazioni privilegiate e l’esclusione di un trattamento più mite previsto dal d.lgs. 2015 rispetto all’art. 187 TUF: di qui il sospetto di incostituzionalità per mancata previsione della retroattività delle nuove disposizioni sanzionatorie.
[20] In particolare, la sentenza n. 63/19, dopo aver affermato il potere della Corte costituzionale di sindacare le questioni di c.d. doppia pregiudizialità sia con riferimento ai parametri interni sia in relazione alle norme della CDFUE che tutelano i medesimi diritti (evocate dal giudice rimettente come norme interposte nella questione riferita all’art. 117 Cost.), aggiunge come rimanga fermo, in ogni caso, «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».
Tali affermazioni possono segnare un superamento dei principi enucleabili dalla sentenza n. 269 del 2017, giacché:
- per un verso, affermano (in continuità con C. cost. n. 20 del 2019) che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte Costituzionale (e non solo per «altri profili», come pareva suggerire la sentenza n. 269/17);
- per altro verso, riconoscono espressamente al giudice comune, pur dopo che la Corte costituzionale si sia pronunciata (evidentemente giudicando la questione di costituzionalità infondata, giacché, diversamente, la disposizione interna contrastante con la CDFUE sarebbe stata espunta dall’ordinamento), il potere non soltanto di sollevare il rinvio pregiudiziale, ma anche (all’esito, sembra doversi ritenere, di tale rinvio) di disapplicare la disposizione interna dichiarata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale, ove giudicata dalla Corte di Giustizia in contrasto con la CDFUE, senza necessità di un secondo incidente di costituzionalità;
- per altro verso ancora, dando espressamente atto del potere del giudice comune di procedere al rinvio alla Corte di Giustizia «anche dopo» l’incidente di costituzionalità, sembrano ammettere che il rinvio possa essere sollevato «anche prima» (e, quindi, indipendentemente) da tale incidente; se questa lettura della portata dell’inciso «anche dopo» fosse corretta, risulterebbe del tutto sovvertito il principio espresso nella sentenza n. 269/17 alla cui stregua, nei casi di doppia pregiudizialità, il giudice comune deve investire per prima la Corte costituzionale, onde garantire l’esercizio del controllo accentrato di costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost.
[21] V. Sciarabba, intervista a cura di R.G. Conti, La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage?, in questa Rivista, dal dì 08/05/2019.
[22] A. Ruggeri, intervista a cura di R.G. Conti, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna?, in questa Rivista, dal 10/04/2019.
[23] Investita, in modo diretto, dalla Cassazione con l’ordinanza n. 3831/2018, su cui più ampiamente tra breve, la Consulta doveva pronunciarsi sulla legittimità di una norma che sanziona, per opera di Consob, il soggetto che non cooperi nel corso di un’indagine per abuso di informazioni privilegiate relativa alla società quotata di cui era amministratore. Il confronto tra diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere) e gli obblighi funzionali ai procedimenti amministrativi volti a irrogare sanzioni punitive era stato inquadrato dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa eurounitaria, che parrebbe prevedere il dovere degli Stati membri di sanzionare il silenzio serbato in sede di audizione dall’autore delle operazioni sospette
[24] Sia consentito un richiamo a F. De Stefano, Il rapporto tra le «Carte» dei diritti fondamentali e le tradizioni costituzionali degli Stati membri nel dialogo tra le «Corti»: il quadro attuale e le prospettive, relazione al corso organizzato dalla Struttura di Formazione decentrata della Scuola superiore della Magistratura per la Corte di cassazione in data 7-9 marzo 2018.
[25] Salvo, come oggi si prospetta, a ipotizzare una fattispecie simile a quella della pronuncia nell’interesse della legge, di cui all’art. 363 cod. proc. civ., sub specie di obiter dictum o di esplicito superamento della dottrina della necessaria pregiudizialità della pronuncia di Lussemburgo in relazione ad una controversia tuttora pendente: ma v. oltre nel testo.
[26] Tale teoria è ricondotta da A. Ruggeri, Caro Roberto, provo a risponderti sulla «doppia pregiudizialità» (così mi distraggo un po’ anch’io …), in Consulta on-line fasc. III-2019, p. 683, nota 15, a: F. Sorrentino, È veramente inammissibile il «doppio rinvio»?, in Giur. cost., 2/2002, 781 ss.; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, 18; R.G. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in questa Rivista, 4 marzo 2019, spec. § 4; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, 20 ss.; G. Martinico, L’idea di «concorrenza» fra Corti nel diritto costituzionale europeo, paper in versione provvisoria illustrato all’incontro di studi su Sofferenze e insofferenze della giustizia costituzionale, Torino 17-18 ottobre 2019, spec. § 3.
[27] V. Piccone, Diritto sovranazionale e diritto interno: rimedi interpretativi, in Questione Giustizia on line dal 27/12/2019, § 9. In particolare, dopo un’ampia disamina della situazione indotta dalla qui richiamata Poplawsky, ci si riferisce ad un «rapporto osmotico fra interpretazione e disapplicazione quale extrema ratio», come è stato ravvisato nella sentenza della Corte di Cassazione in sede di rinvio nella nota vicenda Abercrombie e Fitch (Corte di Cassazione, sentenza del 21 febbraio 2018, n. 4223).
Piero Calamandrei, antifascista e toscano D.O.C. *
di Christine Von Borries
Più si leggono gli scritti di Piero Calamandrei (1889-1956) più ci si convince che ancora oggi sarebbe un grande maestro di vita, soprattutto per le nuove generazioni. Laureato in giurisprudenza, insegnò diritto processuale civile in varie università, fino a diventare Rettore dell’università di Firenze fino alla sua morte. Anti-fascista, fu uno dei fondatori del Partito d’azione nel 1942 e uno dei pochi professori a non avere la tessera del partito fascista. Firmò tuttavia la lettera di sottomissione che il Duce impose a tutti i docenti (che solo in 12 rifiutarono di sottoscrivere), perché considerava l’insegnamento “il suo posto di combattimento”, ma quella firma gli costerà “l’animo straziato”. Fu eletto nel 1948 nel Parlamento italiano e fece parte dell’Assemblea Costituente, contribuendo con i suoi interventi appassionati e venati sempre di ironia, alla scrittura della nostra Costituzione. Fondò la rivista Il Ponte, attiva ancora oggi, e la lettura dei suoi scritti, siano essi politici, giuridici o auto-biografici, dà la misura di quanto Calamandrei sia stato un uomo moderno, coraggioso, con una visione libera da ogni pregiudizio e illuminata del mondo che lo circondava, con lo sguardo puntato sempre sul futuro.
Piero Calamandrei osservava spesso con sdegno e disgusto ai suoi contemporanei, non sopportava la mediocrità, la falsità, la piaggeria verso il potere e i potenti. Per ritrovare la speranza, si rifugiava nell’avvenire ed era ottimista sul futuro, infatti si definiva “presbite” perché vedeva meglio le cose lontane che quelle vicine. Quando perdeva fiducia nello Stato e nella Cosa Pubblica vedendo che rimanevano inattuate molte riforme annunciate nella Costituzione - le Regioni, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura - come anche tanti dei suoi principi generali - diritto al lavoro, alla salute, uguaglianza dei cittadini, pari dignità società - scattava in lui, dopo la disperazione cosmica, la molla della volontà del non arrendersi al male che sentiva intorno. E allora pensava al futuro e alle nuove generazioni, che avrebbero dovuto e saputo riprendere l’opera iniziata e poi abbandonata dai padri.
Non fu mai un politico nell’accezione classica del termine, fu troppo istintivo, sincero, con punte anche di ingenuità. Così puro da cambiare idea, quando quelle degli altri lo convincevano. Fu un esempio raro di uomo che si avvicina alla politica spinto da una pura necessità morale, scaturita dalla coscienza di libero cittadino.
Lo sguardo di Calamandrei puntato sull’avvenire, si mostrò nella sua netta presa di posizione a favore del processo di Norimberga, che per la prima volta portò un Tribunale a condannare criminali nazisti, pur nell’assenza di precise leggi scritte. Calamandrei si pronunciò a favore del riconoscere i crimini contro l’umanità, il genocidio e la persecuzioni razziste, mentre tanti altri tentennavano o si schieravano espressamente contro. Ritenne che questo processo, dopo l’immensa tragedia del brutale dominio nazista sull’Europa, costituisse una “catarsi simbolica dell’immensa tragedia umana”, prendendo una netta posizione contro lo scrupolo legalitario di chi avanzava obiezioni a causa dell’assenza di leggi preesistenti che condannassero tali crimini.
Per citare l’esempio che mi è più caro del suo spirito indomito toscano diretto, arguto, ironico e sferzante, voglio ricordare l’unica difesa che Calamandrei sostenne come avvocato in un processo penale, lui che si occupava solo di dritti civili.
Di fronte a un Tribunale di Firenze, difese con successo Danilo Dolci, che è stato paragonato a un Ghandi italiano, giovane triestino con studi in architettura, trasferitosi a Trappeto in Sicilia, per guidare una battaglia pacifista dei pescatori e dei disoccupati che negli anni cinquanta, morivano letteralmente di fame. Danilo Dolci fu arrestato e durante il processo a suo carico, con grande pathos, Calamandrei illustrò alla corte i due misfatti che avevano portato al suo arresto e il motivo per cui andava non solamente assolto ma anche premiato per le sue azioni.
Il primo era stato quello di radunare i pescatori sulla spiaggia e di digiunare con loro per protestare contro i moto-pescherecci che, violando la legge, pescavano nel tratto di mare più vicino alla costa, riservato ai piccoli pescatori, condannandoli così a morire di fame. Questa muta protesta ideata e guidata da Danilo Dolci, dopo che le Autorità avevano per anni ignorato le denunce, portò la polizia non ad arrestare i pescatori di frodo, come penserete voi, ma ad arrestare Danilo Dolci, che con la sua silenziosa protesta aveva disturbato l’ordine pubblico!
Il secondo, visto che a Partinico c’erano centinaia di disoccupati e che la Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere di ogni cittadino, era stato di organizzare con un gruppo di essi secondo voi cosa: invadere le terre dei ricchi, saccheggiare i negozi alimentari, assaltare palazzi, diventare banditi? No. Li fece lavorare gratuitamente, su una trazzera, una strada abbandonata piena di buche e vegetazione, destinata all’uso pubblico, della quale il Comune non aveva curato la manutenzione. Per impedire questo secondo delitto, giunsero i soliti commissari che, invece di ringraziarli, aggredirono gli uomini che lavoravano pacificamente, strappando loro di mano gli strumenti di lavoro, incatenandoli e arrestandoli.
La difesa di Calamandrei è paragonabile a un faro di luce nell’oscurità dell’ingiustizia e quello che oggi ci pare un esito banale e scontato, lui riuscì a ottenerlo solo grazie alla sua immensa passione e fede nella giustizia, all’onestà e al coraggio dello schierarsi contro i potenti, le opacità e le resistenze al cambiamento della società di quegli anni.
Calamandrei nella sua arringa trasformò in entità vive e pulsanti le parole della Costituzione “pari dignità sociale” “Repubblica fondata sul lavoro” “esistenza libera e dignitosa”, ricordando a tutti che nelle più perfette democrazie europee (Inghilterra, Svezia, Danimarca) il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero, perché sa che tutti le osservano e perché non c’è una doppia interpretazione, una per i ricchi e una per i poveri.
Il suo accorato appello rivolto ai giudici affinché difendessero la Costituzione che aspirava a dare a tutti i cittadini del nostro paese pari giustizia e pari dignità, trovò ascolto e Danilo Dolci fu assolto.
Concludo questo breve ritratto di un toscano eccezionale, riportando le parole conclusive tratte dal suo libro Inventario della casa di campagna nelle quali, dalla casa di Montepulciano, descrive in modo ineguagliabile il carattere degli abitanti di questa regione: “Paese dove ogni sorriso sfuma in mestizia ed ogni lacrima, per non dar noia a chi può vedere, cerca di nascondersi in celia; dove le pene e le gioie più disparate, le vicende più grandi e le più umili, lontane di secoli o nate con noi, si trovano livellate e ricomposte in un’armonia casalinga che abolisce le distanze e i tempi e fa sentire che nulla importa o tutto importa nello stesso modo…i nostri lutti, il nostro amore, il passato e l’avvenire, le nostre speranze, la nostra libertà: Toscana, dolce patria nostra”.
*(brano inserito nel libro Toscanità, edito Giunti)
di Raffaella Calò
Sommario: 1. La recente applicazione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy s.r.l. e le problematiche sottese – 2. La scarsa determinatezza del delitto di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603 bis c.p. – 3. La tutela dei riders prevista dal diritto del lavoro – 4. La lettura dell’art. 603 bis c.p. alla luce del principio di sussidiarietà – 5. I limiti applicativi dell’amministrazione giudiziaria del codice antimafia.
1. La recente applicazione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy s.r.l. e le problematiche sottese
Con una decisione immediatamente salita agli onori della cronaca, il 27 maggio 2020 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano ha applicato alla società Uber Italy s.r.l., facente capo alla galassia del colosso Uber, la misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 del codice antimafia sul presupposto della sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa l’agevolazione, da parte della stessa, di condotte penalmente rilevanti di sfruttamento del lavoro poste in essere dai titolari di due imprese aventi sede a Milano che gestivano il servizio di food delivery in alcune città italiane.
Nel decreto in parola si afferma che dall’attività investigativa sarebbe emerso un grave quadro indiziario circa l’esistenza di un regime di sopraffazione e sfruttamento dei riders da parte delle imprese che ne gestivano le consegne – desumibile dalla condizione di richiedenti asilo dei lavoratori, dalle modalità di retribuzione e dal concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro – di gravità tale da integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 603 bis c.p.
A tale comportamento delittuoso, posto in essere dai preposti delle due imprese che gestivano nel complesso l’attività lavorativa di oltre 700 riders nelle principali città italiane, non sarebbe stata estranea la società Uber Italy s.r.l. atteso che alcuni dipendenti della stessa, ad avviso dei giudici meneghini, non solo avrebbero avuto piena consapevolezza delle condizioni di lavoro e retributive dei riders, ma avrebbero financo avallato di fatto tali pratiche delittuose ingerendosi nella gestione dei lavoratori.
Pertanto, essendo ascrivibile alla società Uber Italy s.r.l. una attività agevolatrice in favore dei soggetti indagati del grave delitto di sfruttamento del lavoro, quanto meno sotto un profilo di omesso controllo da parte della società o di grave deficienza organizzativa sul piano della reale autonomia rispetto alla casa madre con sede in Olanda, sussisterebbero i presupposti per l’applicazione nei confronti della stessa della misura dell’amministrazione giudiziaria finalizzata alla verifica, da un lato, dell’esistenza di analoghe forme di sfruttamento dei lavoratori; dall’altro, dell’esistenza e dell’idoneità del modello organizzativo previsto dal d. lgs. 231/2001 atto a prevenire disfunzioni di illegalità aziendale come quelle sopra descritte.
Ebbene, a prescindere dai concreti profili fattuali della vicenda, ancora sub judice, la decisione in parola offre l’occasione per riflettere sui rapporti tra beni di primissimo rilievo costituzionale, quale la libertà di impresa economica e la tutela del lavoro, nonché sull’adeguatezza del sistema repressivo penale in materia di lavoro.
Ed infatti, da un lato, si tratta di comprendere, su un terreno quanto mai scivoloso quale i rapporti di lavoro dei riders, costantemente in bilico sotto il profilo civilistico tra attività autonoma e subordinazione, a quali condizioni lo sfruttamento dell’evidente posizione di debolezza del lavoratore – debolezza nota al legislatore, che è intervenuto più volte per garantire livelli minimi di tutela, da ultimo con il duplice intervento del 2019 – costituisca non già soltanto una violazione contrattuale ma un illecito penale.
Si misura sotto questo profilo l’estrema difficoltà di incasellare negli schemi giuridici la complessa realtà fattuale dell’economia moderna, dovendosi al contempo garantire, in un quadro normativo estremamente complesso e mutevole sotto il profilo giuslavoratistico, la necessaria sussidiarietà dell’intervento penale e, prima ancora, il rispetto dei canoni di tipicità e determinatezza, messi a dura prova da norme incriminatrici che, come l’art. 603 bis c.p., paiono più descrittive del fenomeno sociale che si vuole combattere – segnatamente, lo sfruttamento dei lavoratori – che realmente selettive dei fatti meritevoli di sanzione penale.
Dall’altro, una volta eventualmente accertata la sussistenza di condotte delittuose a danno dei lavoratori, si tratta di stabilire, nei mutevoli e complessi rapporti di forza tra grandi multinazionali ed imprese medio-piccole, in quale misura trovi ragione un intervento di tipo preventivo che, come l’amministrazione giudiziaria, è nato e si è sviluppato sul diverso terreno della lotta alle mafie.
2. La scarsa determinatezza del delitto di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603 bis c.p
Il primo problema che si pone, come accennato sopra, è rappresentato dalla scarsissima determinatezza del nuovo delitto di sfruttamento del lavoro introdotto dal legislatore con legge 29 ottobre 2016 n. 199.
Nel 2016, infatti, il legislatore è intervenuto sull’art. 603 bis c.p. riscrivendo la preesistente fattispecie di intermediazione illecita ed introducendo la nuova fattispecie delittuosa di sfruttamento del lavoro, che punisce chiunque utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione illecita, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Con riferimento al nuovo delitto di sfruttamento del lavoro, sanzionato con pene certo non lievi, specie nelle ipotesi aggravate, la dottrina più accorta ha da subito evidenziato il marcato impoverimento dei contenuti descrittivi delle condotte tipiche e la conseguente frizione con il principio di determinatezza che deve presidiare l’intervento penale.
In assenza degli elementi che tradizionalmente denotano il disvalore penale in ambito lavoristico (la lesione o il concreto pericolo per la salute e la sicurezza dei lavoratori, la violenza e minaccia – qui relegati al ruolo ancillare di circostanze aggravanti –, la natura organizzata dell’attività imprenditoriale) l’intero disvalore riposa infatti sulla genericissima nozione di sfruttamento e sull’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, rendendo difficile l’individuazione dell’oggetto di tutela se non rinvenendolo genericamente nella dignità del lavoratore[1].
Quanto allo sfruttamento, il legislatore, lungi dall’offrire una definizione dello stesso ai fini dell’integrazione del delitto in parola, si è limitato a prevedere alcuni “indici dello sfruttamento” i quali tuttavia, non solo non esauriscono la nozione di sfruttamento, rappresentandone soltanto degli elementi sintomatici, ma non possono neppure ritenersi elementi costitutivi dell’illecito non attingendo al livello della tipicità, come del resto chiarito, ad abundantiam, dalla relazione di accompagnamento[2].
D’altra parte, a prescindere dall’infelice tecnica legislativa ben lontana dai Regelbeispiele di matrice tedesca, il problema che si pone è quello della scarsa significatività degli stessi indici, atteso che le condotte ivi descritte (la reiterata violazione della normativa sulla retribuzione o sull’orario di lavoro, riposo, aspettativa obbligatoria e ferie, la violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti) costituiscono di per sé mere violazioni della normativa lavoristica.
Una compiuta definizione della specifica condotta di sfruttamento rilevante ai fini della configurabilità del reato in parola sarebbe stata invece quanto mai opportuna, se solo si pensa che, da un lato, di per sé la nozione di sfruttamento in materia penale ha naturali tendenze espansive, finendo per abbracciare ogni condotta da cui l’autore ricavi un vantaggio economicamente valutabile, e dall’altro che l’art. 603 bis c.p. si applica ai rapporti di lavoro, naturalmente caratterizzati dalla ricerca di un vantaggio di natura economica da parte dell’imprenditore che a tal fine si accolla il rischio d’impresa[3].
A fronte di tale evanescenza della condotta di sfruttamento, il disvalore dell’illecito sembrerebbe dunque concentrarsi sull’altro elemento costitutivo della fattispecie, e segnatamente l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. Sennonché, come pure evidenziato dalla dottrina, anche tale elemento costitutivo pare privo di reale capacità di selezione delle condotte meritevoli di sanzione penale, atteso che il lavoro è naturalmente diretto alla soddisfazione di bisogni primari della persona, di talché lo stato di bisogno potrebbe ritenersi in re ipsa, tanto più in un mercato caratterizzato dalla evidente distanza tra domanda ed offerta di lavoro. Si dirà che non è lo stato di bisogno in sé ad essere elemento costitutivo del reato, ma “il fatto che il soggetto agente se ne avvantaggi, appuntandosi, così, l’attenzione su una condotta maggiormente riprovevole, piuttosto che su un fatto oggettivamente più dannoso”[4]. E tuttavia, premesso che la posizione di debolezza del prestatore di lavoro nei confronti della parte datoriale è talmente evidente da giustificare l’esistenza stessa del diritto del lavoro come corpus normativo autonomo rispetto al diritto civile comune, la previsione di un disvalore di condotta che assume una colorazione tendenzialmente soggettiva reca con sé il rischio dello slittamento verso la punizione di un autore socialmente nocivo e percepito come odioso più che di un fatto obiettivamente dannoso o pericoloso[5].
Da quanto sopra emerge che l’art. 603 bis c.p., così come novellato nel 2016, si presta alla punizione non già soltanto di fatti intollerabili di sopraffazione di lavoratori particolarmente vulnerabili da cui derivano concreti effetti lesivi della loro persona, bensì anche di condotte che – seppure censurabili, perché in contrasto con le norme extrapenali a tutela della salute e della dignità dei lavoratori – hanno un contenuto di disvalore eterogeneo rispetto alle prime.
Parrebbe dunque che il legislatore, intervenendo sull’art. 603 bis c.p. al meritorio fine di punire severamente sia i c.d. caporali sia gli utilizzatori dei lavoratori sfruttati che beneficiano dell’attività di reclutamento dei primi, non abbia saputo o voluto individuare con la necessaria chiarezza la tipologia criminologica che intendeva reprimere, finendo per attuare un intervento repressivo confuso ed ambiguo, con il rischio di uno smisurato allargamento dell’area della rilevanza penale che rischia di sovrapporsi completamente alla normativa lavoristica, in violazione del fondamentale principio di sussidiarietà.
In questo quadro, la magistratura è stata chiamata ad un intervento chiaramente suppletivo, volto a definire i contorni della nuova fattispecie criminosa evidenziando come, da un lato, la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603 bis c.p.; dall’altro, che lo sfruttamento penalmente rilevante presuppone un eclatante pregiudizio e una rilevante soggezione del lavoratore, che il giudice deve accertare attraverso gli indici di rilevazione previsti dalla norma (Cass., n. 49781/2019).
3. La tutela dei riders prevista dal diritto del lavoro
Ebbene, negli stessi anni in cui in sede penale si apprestava la tutela del lavoro sopra descritta e pensata anzitutto per fronteggiare il caporalato e lo sfruttamento dei lavo
ratori irregolari nel settore agricolo, si consumava nella dottrina lavoristica e nei tribunali la complessa vicenda dei riders, categoria di lavoratori assurta a simbolo della c.d. gig economy, la cui patente debolezza contrattuale è tale da avere spinto il legislatore dapprima con il Jobs Act nel 2015 e successivamente con il duplice intervento del 2019 a prevedere una disciplina peculiare, superando – e dunque in una certa misura scardinando – la tradizionale distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.
Infatti, sin dalla loro comparsa nel mercato del lavoro, la debolezza della posizione contrattuale dei riders – che nella gran parte delle volte sono lavoratori poco qualificati, che sovente non parlano la lingua italiana e versano in evidente condizione di bisogno economico e di isolamento sociale – ha portato molti giuslavoristi ad evidenziare come agli stessi male si attagliasse la definizione – e la conseguente applicazione della normativa – di lavoratori autonomi.
A sostegno della tesi della natura subordinata del rapporto di lavoro dei riders si sottolineava l’esiguità della retribuzione, e dunque la loro dipendenza economica dal gestore, la puntuale eterodeterminazione del lavoro, la sorveglianza di fatto attuata tramite la piattaforma digitale caricata sullo smartphone in uso agli stessi e si evidenziava la profonda ingiustizia dell’assenza di norme a tutela di diritti fondamentali, quale la salute o il diritto al riposo e a ferie retribuite a fronte di prestazioni continuative.
Si tratta, a ben vedere, di elementi molto vicini a quelli, sopra descritti, presi in considerazione dal legislatore penale nel 2016 quali indici di sfruttamento e che invece erano valorizzati da parte della dottrina giuslavorista al più limitato fine di estendere ai riders la tutela prevista dalla legge per i lavoratori subordinati.
Quanto alla giurisprudenza, in assenza di una norma ad hoc, i giudici del lavoro erano chiamati ad analizzare, caso per caso, le concrete modalità con cui si dispiegava di fatto il rapporto di lavoro portato alla loro cognizione, al fine di verificare – anche facendo ricorso ai c.d. indici sintomatici della subordinazione – se nel singolo caso si fosse in presenza di fatto di un rapporto di lavoro subordinato “mascherato” da contratti di collaborazione.
Nel 2015 si assiste ad un radicale mutamento di prospettiva a seguito dell’approvazione del d. lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) che ha previsto la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelle delle piattaforme digitali, considerati “deboli”), estendendo agli stessi le tutele sino a quel momento previste per i soli lavoratori subordinati. Esemplare, in questo senso, è la ricostruzione contenuta nella recente sentenza della Sezione lavoro della Corte di cassazione n. 1663/2020 che, prendendo posizione nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale, ha fatto proprio il pragmatico approccio c.d. rimediale evidenziando la necessità di applicare una tutela “rafforzata” senza la necessità di prendere posizione circa la natura autonoma o subordinata del rapporto. Si tratta infatti, per dirlo con le parole della Cassazione nella sentenza n. 1663/2020 “di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizioni di ‘debolezza’ economica, operanti in una ‘zona grigia’ tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea”.
Come accennato sopra, tale impianto normativo in vigore dal 1° gennaio 2016 è stato poi ampliato dapprima dal decreto-legge 3 settembre 2019, n. 101 e, successivamente, dalla legge di conversione del medesimo (legge 2 novembre 2019, n. 128) che ha introdotto ulteriori significative modifiche, estendendo ulteriormente la tutela dei riders.
La legge 128/2019 introduce infatti nel d. lgs. n. 81/2015 un capo V bis che, da un lato, fa salva la previsione contenuta nell’art. 2, co. 1 e dunque l’estensione alle collaborazioni organizzate dal committente delle tutele previste per i lavoratori subordinati; dall’altro, contiene puntuali disposizioni che costituiscono livelli minimi di tutela dei riders, dal legislatore definiti “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore (…) attraverso piattaforme anche digitali”.
Senza potere in questa sede ripercorrere il vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha accompagnato e spesso preceduto l’entrata in vigore delle disposizioni sopra richiamate, appare significativo che le puntuali previsioni contenute nel nuovo capo V bis del lgs. n. 81/2015, che costituiscono livelli minimi di tutela dei riders, appaiono descrittive di una prassi contrattuale esistente, lesiva dei diritti fondamentali del lavoratore, che il legislatore ha voluto chiaramente far cessare nel 2019.
Così, a fronte della prassi invalsa di non consegnare ai riders – spesso stranieri ed ignari delle norme vigenti in materia – nessun contratto di lavoro, si prevede che i contratti in discorso debbano essere provati per iscritto e che i lavoratori debbano ricevere ogni informazione utile per la tutela dei loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza.
Con riferimento al compenso, tradizionalmente parametrato al numero delle consegne effettuate, il nuovo art. 47-quater prevede che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente. In difetto della stipula di tali contratti collettivi, “i riders non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Ancora, con riferimento al compenso, si prevede che ai riders debba essere garantita un'indennità integrativa non inferiore al dieci per cento determinata dai contratti collettivi o, in difetto, con decreto del Ministro del lavoro per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli.
Il nuovo art. 47-quinquies del d.lgs. n. 81/2015, inoltre, dopo avere stabilito che ai riders si applica la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, prevede espressamente che “l'esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione sono vietate”, al chiaro fine di porre un freno alla prassi invalsa nella realtà lavorativa dei riders per cui la mancata disponibilità degli stessi a connettersi alla piattaforma in determinare fasce orarie o la mancata effettuazione di una o più consegne era sanzionata dal committente con lo scollegamento – momentaneo o definitivo a seconda della gravità della violazione – dalla piattaforma digitale e, con ciò, con l’impossibilità di lavorare.
Infine, a fronte del patente deficit di sicurezza che aveva sino a quel momento caratterizzato la prestazione lavorativa dei riders, il legislatore del 2019 ne ha espressamente previsto la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nonché l’obbligo del committente che utilizza la piattaforma anche digitale al rispetto, a propria cura e spese, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
4. La lettura dell’art. 603 bis c.p. alla luce del principio di sussidiarietà
Ebbene, volendo tirare le fila del discorso sin qui svolto, è palese, ad avviso di chi scrive, che qualunque valutazione effettuata in sede penale delle condotte di sfruttamento in danno dei riders da parte di chi ne gestisce la prestazione lavorativa non può prescindere dall’analisi delle complesse norme extrapenali sopra richiamate che disciplinano, anche nel dettaglio, le modalità con cui deve dispiegarsi il rapporto di lavoro.
In tale complesso quadro normativo che ha visto il legislatore rincorrere la realtà economica e sociale al fine di governarla ed impedire – tanto in sede civile quanto in sede penale – il perpetrarsi di abusi in danno dei lavoratori più vulnerabili, l’interprete è infatti chiamato a trovare la quadra del sistema al fine di individuare quali, tra le molteplici possibili violazioni della normativa lavoristica cui devono conseguire i tipici rimedi civilistici, siano meritevoli anche della sanzione penale e, in ogni caso, evitare che comportamenti civilmente leciti possano essere ritenuti dalla magistratura penale lesivi della dignità del lavoratore e dunque sanzionati con pene che, nelle ipotesi aggravate, possono arrivare a otto anni di reclusione.
Non si tratta soltanto di arginare, con un’operazione ermeneutica, la tendenza legislativa di ricorrere con troppa leggerezza all’intervento repressivo penale a fini soprattutto simbolici, in dispregio del principio di extrema ratio che dovrebbe guidare le scelte di criminalizzazione, ma, prima ancora, di evitare che i giudici penali svolgano un ruolo suppletivo rispetto alle complesse dinamiche sociali che trovano espressione nella contrattazione collettiva, con quanto ne deriva anche in punto di certezza del diritto che costituisce un bene primario per la moderna economia.
Così, poiché ad oggi non sono stati ancora stipulati contratti collettivi che definiscono (con l’efficacia erga omnes che gli è propria) criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione dei riders e dell'organizzazione del committente, la giusta retribuzione dei riders, alla luce della previsione del d.lgs. n. 81/2015 così come novellato nel 2019, deve ritenersi parametrata ai minimi tabellari orari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
Come sanno bene i giudici del lavoro e chiunque si è cimentato in operazioni del genere, si tratta di valutazione certamente non semplice, né meccanica, che implica un difficile raffronto, fatto per approssimazioni successive, tra diversi profili lavorativi, al fine di individuare la paga minima oraria che deve essere corrisposta al lavoratore, al di sotto della quale non si può andare incorrendosi altrimenti nella nullità (parziale) del contratto di lavoro cui consegue l’applicazione del minimo salariale. Pertanto, sia nei casi in cui i riders sono pagati in base alle ore di lavoro svolte sia nei casi, più frequenti, in cui (in violazione delle norme extrapenali anzidette) sono pagati in base al numero delle consegne effettuate, non parrebbe giuridicamente corretto affermare, in maniera semplicistica e senza alcun richiamo ai contratti collettivi che regolano prestazioni simili, che una data retribuzione è troppo bassa, tale da potere integrare – se del caso unitamente ad altri elementi – gli estremi dello sfruttamento del lavoratore penalmente sanzionato.
Analogamente, con riferimento allo scollegamento dalla piattaforma digitale sovente effettuato dal gestore per punire il rider che ha tenuto, a suo avviso, comportamenti sconvenienti o comunque difformi da quelli richiesti, pur trattandosi di un comportamento odioso che, a far data dal 2019, è vietato dal Jobs Act, lo stesso non pare potere di per sé integrare gli estremi dello sfruttamento o financo della violenza o minaccia quali circostanze aggravanti. Invero, il diritto del lavoro conosce da sempre il potere sanzionatorio del datore di lavoro che – ovviamente all’esito di un procedimento disciplinare e nel rispetto del diritto di difesa del lavoratore – può concludersi anche con una multa inflitta al lavoratore, essendo palese che il mancato rispetto delle garanzie previste dalla legge – e in particolare dalla l. n. 300/70, che in parte qua dovrebbe applicarsi anche ai riders – conduce all’annullamento della sanzione inflitta, ma non determina la nullità del rapporto di lavoro né, tanto meno, integra di per sé forme di violenza o minaccia.
Gli esempi sopra fatti mostrano dunque come, essendo evidentemente la sanzione penale accessoria alla normativa lavoristica, la valutazione da parte del giudice penale degli estremi dello sfruttamento non può prescindere dal preliminare inquadramento della fattispecie sotto il profilo civilistico, dovendosi stabilire – con una valutazione necessariamente caso per caso, scevra da ogni presunzione – quando la distanza dal paradigma legale, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, è tale da mostrare l’esistenza di una sopraffazione che, travalicando le normali dinamiche di asimmetria contrattuale, determina un intollerabile pregiudizio della persona del lavoratore.
Si tratta di un’operazione certamente difficile ma non nuova per il giudice penale, se solo si pensa alla giurisprudenza in tema di usura – delitto sotto qualche profilo assimilabile a quello previsto dall’art. 603 bis c.p. – in cui il giudice nel decidere dell’esistenza di un’usura c.d. in concreto (art. 644, co. 3 c.p.), è chiamato a valutare caso per caso se si sia verificata una condizione di sfruttamento delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima attraverso l'induzione della stessa all'accettazione di condizioni contrattuali sproporzionate rispetto a quelle che caratterizzano il libero mercato (Cass., n. 26214/2017).
In caso contrario, laddove la magistratura penale non riuscisse nella complessa opera di interpretazione di norme anche extrapenali cui è chiamata, valorizzando nell’applicazione dell’art. 603 bis c.p. il principio di sussidiarietà dell’intervento penale, il rischio concreto è quello di uno smantellamento – di fatto e in via giudiziale – della complessa opera di creazione dello statuto di tutela dei riders – e più in generale di tutti gli altri lavoratori “deboli” della c.d. nuova economia – avviata dal legislatore nel 2015 e faticosamente raggiunta nel 2019 quale punto di approdo di un difficile bilanciamento tra la protezione dei lavoratori e la salvaguardia della libertà di impresa.
5. I limiti applicativi dell’amministrazione giudiziaria del codice antimafia
La recentissima decisione della sezione autonoma misure di prevenzione del tribunale di Milano offre inoltre lo spunto per una riflessione cursoria sui limiti del ricorso alle misure di prevenzione patrimoniali – come l’amministrazione giudiziaria prevista dal nuovo art. 34 del codice antimafia – nella materia in discorso.
In particolare, prescindendo completamene dai concreti profili fattuali della fattispecie all’esame del tribunale di Milano, le questioni principali, ad avviso di chi scrive, sono rappresentate dall’esatta individuazione dei presupposti applicativi della nuova misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, che sottrae temporaneamente il controllo aziendale al soggetto colpito dalla misura, e dalla possibilità di rinvenire – sotto il profilo astratto della fenomenologia criminosa – tali presupposti nelle complesse relazioni socio-economiche che legano le grandi imprese di food delivery e le aziende che reclutano e gestiscono i riders.
Prendendo le mosse dalla prima questione, è noto che il legislatore nel 2017, riscrivendo la norma sull’amministrazione giudiziaria già prevista dall’art. 34 del codice antimafia, ha previsto una misura di prevenzione patrimoniale che permette all’autorità giudiziaria di intervenire su attività economiche, anche di carattere imprenditoriale, che rivelino situazioni di infiltrazione mafiosa e di contiguità con le consorterie criminali, tali da danneggiare il regolare e libero esercizio dei ruoli imprenditoriali[6].
La norma sconta tuttavia un’irrimediabile ambiguità, essendo la sua applicazione ancorata alla presenza di due presupposti alternativi, l’uno molto diverso dall’altro. Invero, il tribunale può sottoporre un’impresa all’amministrazione giudiziaria sia qualora sussistano indizi sufficienti da rivelare condizioni di intimidazione o assoggettamento di tipo mafioso, sia qualora il libero esercizio dell’attività economica possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione personale o patrimoniale, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso o altri gravi reati, tra cui – per quanto qui interessa – l’art. 603 bis c.p.
Come evidenziato dalla dottrina, è evidente che nel primo caso l’imprenditore riveste una posizione di vittima in ragione dell’assoggettamento o intimidazione di tipo mafioso; nel secondo caso, invece, il legame tra attività economica e criminalità è piuttosto espressivo di una situazione di commistione di interessi che si manifesta nel compimento di una condotta agevolatrice[7].
Ebbene, senza potere in questa sede ripercorrere compiutamente il dibattito dottrinale e i percorsi argomentativi seguiti dalla giurisprudenza, si segnala che uno degli aspetti più discussi della nuova disciplina riguarda proprio l’esatta individuazione del concetto di agevolazione dell’attività illecita. Da un lato, infatti, si palesa l’esigenza di applicare la misura patrimoniale solo in situazioni di obiettiva contiguità rispetto all’attività illecita e di un apporto effettivo dell’impresa all’attività criminosa; dall’altro, la giurisprudenza soprattutto ha evidenziato come la condotta obiettivamente agevolatrice posta in essere dall’impresa a vantaggio del sodalizio mafioso o comunque dell’attività illecita (potendo la misura applicarsi anche in relazione a gravi delitti diversi dal reato di cui all'art. 416 bis c.p.) debba essere comunque espressiva di una negligenza o imperizia e dunque di una rimproverabilità colposa, non potendo la misura patrimoniale in parola attingere attività economiche lecite cui non può muoversi alcun rimprovero sotto il profilo del rispetto delle normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale (trib. Milano, 23.6.2016, Nolostand spa). In ogni caso, la condotta imprenditoriale obiettivamente agevolatrice e contraria alle normali regole di prudenza e diligenza non deve attingere il profilo della piena consapevolezza della relazione di agevolazione del sodalizio mafioso o degli altri reati presupposto, realizzandosi altrimenti i presupposti delle ipotesi concorsuali o, quantomeno, agevolatrici (trib. Milano, 23.6.2016, Nolostand spa).
Sussiste infine un presupposto di ordine per così dire negativo, affermato espressamente dall’art. 34 cit., dato dall’insussistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione all’imprenditore che esercita l’attività economica agevolatrice, dovendo quest’ultimo essere un soggetto necessariamente terzo rispetto all’agevolato, con piena disponibilità della propria attività.
Ebbene, così ricostruito per sommi capi l’ambito applicativo dell’amministrazione giudiziaria ed evidenziata l’estrema scivolosità della nozione di “condotta agevolatrice” che ne costituisce il presupposto richiamando – senza definirlo compiutamente – quel circuito grigio di commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza economica delle cosche sul territorio[8], ci si interroga sulla astratta applicabilità di tale norma alle relazioni solitamente esistenti tra le grandi multinazionali che gestiscono le piattaforme digitali del food delivery e le imprese, spesso medio-piccole, che per conto delle prime selezionano i riders e ne gestiscono l’attività lavorativa.
In particolare, se si ritiene che in determinati contesti – una volta riscontrati tutti gli elementi di cui si è detto sopra – coloro che gestiscono l’attività lavorativa dei riders pongono in essere comportamenti penalmente rilevanti di sfruttamento del lavoro, tale da legittimare l’applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria nei confronti delle imprese che gestiscono la piattaforma e dunque tale sfruttamento agevolano, la questione che si pone è quella del ruolo concretamente svolto dalle grandi multinazionali del food delivery e dai loro preposti in sede locale.
Invero, potendo le prime effettuare, tramite la piattaforma digitale in uso ai riders, un controllo costante e capillare dell’attività svolta da questi ultimi e potendo altresì incidere di fatto, direttamente o indirettamente – in ragione della preponderante forza contrattuale – sulle concrete modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che lega i riders ai c.d. fleet partners, potrebbe risultare difficile affermare l’esistenza di una condotta di agevolazione dello sfruttamento scevra di quella consapevolezza delle conseguenze e che indurrebbe piuttosto a configurare una responsabilità penale – nelle forme del concorso nel reato – delle persone fisiche tramite le quali le stesse operano sul mercato.
Altrimenti detto, se si ritiene che determinate condizioni di lavoro imposte ai riders dai loro datori di lavoro (o, se si vuole, committenti) costituiscono forme di prevaricazione e sopraffazione tali da configurare gli estremi del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. – circostanza questa di per sé estremamente problematica, per tutte le ragioni sopra evidenziate – allora si rende necessario indagare l’effettivo potere di ingerenza e controllo esistente in capo alle persone fisiche tramite cui le multinazionali del food delivery agiscono e nel cui interesse, in ultima analisi, i riders rendono la propria prestazione.
In caso contrario, in presenza di condotte consapevoli che avallano determinate modalità di lavoro in danno della dignità del lavoratore, l’applicazione della sola misura di prevenzione alle società che non solo concretamente gestiscono la piattaforma digitale ma nel cui interesse, in ultima analisi, il lavoratore è sottoposto a sfruttamento, rischia di apparire distonica rispetto al reale assetto dei rapporti sociali ed economici che il diritto è chiamato a governare.
[1] Si vedano sul punto le lucide riflessioni di A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Diritto penale contemporaneo n. 4/17, cui si rimanda anche per i molteplici riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
[2] Sul punto, V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis cp tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia, fasc. 4/2019.
[3] Analog., A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[4] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[5] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[6] In questo senso, L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende: il nuovo volto delle politiche antimafia. I primi provvedimenti applicativi dell’art. 34-bis D.lgs. 159/2011, in Giurisprudenza penale web 9/2018, cui si rinvia per i molteplici riferimenti giurisprudenziali e dottrinali.
[7] L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende, cit.
[8] L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende, cit.
Costo delle mascherine, orari di apertura delle attività commerciali e accesso alla garanzia per i finanziamenti.
Il T.A.R. Lazio non sospende le misure attuative della c.d. Fase 2.
Il T.A.R. del Lazio, con tre recenti provvedimenti cautelari, si è pronunciato su diversi aspetti relativi all’attuazione della c.d. Fase 2 dell’emergenza sanitaria, nell’ambito della quale il Governo e le amministrazioni decentrate, nei limiti delle rispettive competenze, stanno provando a rilanciare il sistema economico-finanziario continuando a tutelare il prevalente interesse pubblico della salute.
La Sezione I-quater (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-quater, ordinanza 27 maggio, 2020, n. 4097) si è pronunciata sulla nota questione del costo calmierato delle mascherine. Con ordinanza del 26 aprile 2020, n. 11, il Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19 ha imposto il prezzo massimo di vendita al consumo delle mascherine facciali “chirurgiche” (standard UNI EN 14683) in misura non superiore a 0,50 Euro per unità al netto dell’IVA. Il Collegio investito della questione non ha ritenuto sussistenti la gravità e l’urgenza necessarie per la concessione della misura cautelare richiesta da parte ricorrente (una società del settore), ritenendo che l’esigenza (della tutela della salute) perseguita attraverso il calmieramento del prezzo dei presidi medici in questione sia da considerarsi prevalente nell’ambito della comparazione tra gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Il tema della preminenza della tutela della salute costituisce il perno attorno al quale ruota anche un’altra ordinanza cautelare del T.A.R. Lazio (TA.R. Lazio, Roma, Sez. II-ter, ordinanza 27 maggio, 2020, n. 4098), relativa al contingentamento degli orari di apertura al pubblico delle attività commerciali. Il Collegio adito, in questo caso, rammentando preliminarmente il potere attribuito da diverse fonti normative agli enti locali di consentire tali limitazioni, ha qualificato come adeguata la restrizione agli orari imposta per gli esercizi commerciali. A tal riguardo viene precisato che il bilanciamento degli interessi coinvolti, effettuato anche tenendo conto della limitata durata temporale del provvedimento impugnato (avente efficacia fino al 21 giugno 2020) e della riferibilità del danno prospettato esclusivamente alla posizione dei ricorrenti (società titolari di esercizi commerciali), deve far ritenere prevalente l’interesse pubblico alla tutela della salute della collettività, che viene posto a fondamento delle contestate limitazioni.
Con altro provvedimento cautelare (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, decreto 28 maggio, 2020, n. 4106), il T.A.R. del Lazio ha poi esaminato la problematica relativa all’accesso ai finanziamenti a beneficio delle imprese per far fonte alla crisi economica. Più precisamente, è stata contestata in giudizio (da un’associazione italiana di consumatori) la possibilità di accedere al prestito garantito ex art. 1, d.l. n. 23/2020 per un’impresa con sede in Italia, ma controllata da un’altra impresa avente sede all’estero. La possibilità di consentire l’accesso al prestito garantito anche a questa categoria di imprese (italiane), secondo parte ricorrente, determinerebbe un duplice effetto negativo: a) i dividendi, distribuiti dall’impresa controllata (italiana) all’impresa controllante (estera), non sarebbero soggetti a tassazione nel nostro Paese, con la conseguenza che né lo Stato italiano né i cittadini italiani beneficerebbero della garanzia prestata dalla SACE s.p.a.; b) gli stessi cittadini italiani potrebbero trovarsi onerati di imposizioni fiscali maggiorate dallo Stato per sopperire alle eventuali uscite non compensate dal sistema dei prestiti garantiti ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 23/2020, al fine di perseguire gli obiettivi di bilancio. La richiesta di concessione di misura cautelare in forma monocratica non è stata accolta, ritenendo insussistente il presupposto della estrema gravità e urgenza necessario per sospendere l’efficacia dei provvedimenti gravati (ai quali, tra l’altro, è stata riconosciuta una valenza essenzialmente normativa e programmatica), rinviando la definitiva pronuncia cautelare alla camera di consiglio in cui la domanda verrà esaminata collegialmente. (R. F.)
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