ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La consegna del cittadino di uno Stato terzo (nota a Cass.pen.n.10371/2010)
Dubbi di legittimità circa l’omessa previsione, in sede di attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, della facoltà del giudice di rifiutare la consegna del cittadino di uno Stato terzo che risieda o dimori in Italia
di Cesare Pinelli
Sommario: 1. Premessa. 2. Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione. 3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni. 4. I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
1. Premessa.
In data 4 febbraio 2020 la VI Sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale questione di legittimità dell’art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lett. b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117, “nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno”.
L’ordinanza merita apprezzamento per la prospettazione dei profili di non manifesta infondatezza, e prima ancora per la dimostrazione dell’impossibilità di interpretare la disciplina impugnata in senso conforme a Costituzione nonché delle buone ragioni della scelta di anteporre al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia la rimessione della questione alla Corte costituzionale.
2.Una presa di posizione sull’interpretazione conforme a Costituzione.
Con un’impegnata motivazione, il giudice remittente esclude che la disciplina in questione possa venire interpretata in senso conforme a Costituzione, contestando l’opposto assunto della Corte d’appello di Genova nella sentenza impugnata.
Anzitutto, essa non avrebbe tenuto conto dell’innovazione apportata sul punto alla l.n. 69 del 2005 dalla l.n. 117 del 2019: nel trasformare le cause ostative ivi contemplate in rifiuto facoltativo della consegna a seguito della addizione operata al testo originario dalla sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale, la legge del 2019 “non ha preso in considerazione la posizione dei cittadini di Stati non membri dell’Unione europea che stabilmente risiedano o dimorino nel territorio nazionale e che, in quanto tali, se destinatari di un mandato di arresto europeo, ben potrebbero rientrare nella sfera di operatività (e conseguentemente beneficiare) dell’applicazione del motivo ostativo in esame”, posto che la decisione quadro consente al giudice di rifiutare l’esecuzione del mandato qualora la persona ricercata sia cittadino o dimori o risieda in uno Stato membro che si impegni a eseguire la pena o la misura di sicurezza, senza distinguere fra l’ipotesi che sia cittadino di uno Stato membro o di uno Stato terzo.
Peraltro il rifiuto di addivenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina impugnata va oltre l’argomento dello ius superveniens. Muovendo dal presupposto che una “non corretta attuazione della decisione quadro” comporta il potere-dovere del giudice comune di sollevare questione di legittimità costituzionale “laddove sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall’ordinamento” (Corte cost., n. 227 del 2010), il giudice remittente osserva che la l.n. 117 del 2019 configura al riguardo “una lacuna talmente evidente” rispetto alla scelta della decisione quadro di equiparare il cittadino dello Stato terzo a quello dello Stato membro ai fini della deliberazione sulla consegna, che un suo riempimento in via interpretativa non porterebbe a una lettura costituzionalmente conforme, ma contra legem del testo normativo.
Seguono significative considerazioni sui limiti dell’interpretazione costituzionalmente conforme, che non potrebbe produrre “una soluzione ermeneutica [……] del tutto incompatibile con il testo normativo oggetto di interpretazione, alla cui formulazione letterale deve pur sempre farsi riferimento in via prioritaria”. Il richiamo ai “cancelli delle parole”, titolo di un noto saggio di Natalino Irti, e soprattutto alla recente giurisprudenza costituzionale, equivale a una netta presa di posizione sul più ampio tema della “creatività” delle interpretazioni giudiziali, oggi notoriamente assai controverso. Presa di posizione netta, ma anche ben ponderata, poiché affermare che nemmeno un’interpretazione conforme a Costituzione può far dire a una legge ciò che la legge non dice significa cose ben diverse a seconda che il giudice si impegni nel dimostrare nella specie l’assunto, come in questo caso fa strenuamente, ovvero si limiti a negare che la lettera del testo normativo resiste a una tale torsione interpretativa. Solo nel primo caso egli potrà presupporre una eventuale insufficienza del criterio testuale, e quindi una sua priorità in senso meramente cronologico. Nell’altro caso la decisione si rivelerà carente nella motivazione, anche per avere il giudice rinunciato a fare la sua parte nella struttura triadica del giudizio incidentale, e con essa alla sua stessa responsabilità.
Lo conferma altresì il richiamo al passo della sentenza n. 36 del 2016 della Corte costituzionale per cui “l’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo”.
L’esclusione di un’interpretazione conforme a Costituzione viene dunque subordinata al suo risultare operazione “del tutto eccentrica e bizzarra” alla luce dei criteri letterale e sistematico. In effetti, nella riportata sentenza n. 49 del 2015 l’obbligo di ricorrere in via prioritaria a tale interpretazione è affermato in vista della composizione di un delicato equilibrio con la Corte di Strasburgo.
3. La doppia pregiudizialità fra Corte costituzionale e giudici comuni.
L’ordinanza si sofferma a questo punto sulla recente giurisprudenza costituzionale sulla doppia pregiudizialità. Pur riaffermando, alla luce dell’ord.n. 117 del 2019 e della sent.n. 63 dello stesso anno, quella perdurante facoltà del giudice comune di optare fra rimessione della questione alla Corte costituzionale e rinvio pregiudiziale che la “precisazione” della sent.n. 269 del 2017 aveva implicitamente escluso enunciando l’obbligo di agire nel primo senso, la VI sezione penale dichiara di optare per l’incidente di costituzionalità. Il che pare nella specie giustificato non solo perché gran parte delle censure si appuntano sulla lesione diretta di parametri costituzionali, ma anche perché la sola riferita agli obblighi ex artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite di una violazione della decisione quadro era rilevabile ictu oculi, senza bisogno di scomodare la Corte di giustizia. E tuttavia è interessante notare incidentalmente come il giudice rimettente finisca di fatto con l’evidenziare i limiti entro cui la “precisazione” del 2017 può mantenere una portata operativa alla luce delle correzioni di tiro nel frattempo intervenute.
La premessa della “precisazione” anche qui richiamata, e consistente nel constatato intreccio dei princìpi e diritti enunciati nella CDFUE con quelli previsti in Costituzione, non è una novità, visto che già venti anni prima la Corte riteneva inevitabile la reciproca integrazione in via interpretativa tra formule enunciative di diritti garantiti in cataloghi diversi, quali nella specie la CEDU e la Costituzione (sent.n. 388 del 1999). Solo che nel 2017 su tale base si candidava, al di là della ribadita collaborazione con la Corte di giustizia, a garante dei diritti fondamentali indipendentemente dal catalogo in cui fossero previsti (Costituzione e CDFUE), col conseguente obbligo del giudice comune di sollevare questione di legittimità della legge asseritamente lesiva di tali diritti. Non a caso il sindacato accentrato veniva posto “a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)” senza distinguere a seconda che la legge confliggesse col diritto dell’Unione direttamente applicabile ovvero con una direttiva o con una decisione quadro.
Più ancora che per l’annoso problema della doppia pregiudizialità, su cui del resto, prima o poi, non avrebbe potuto non influire la sopraggiunta accettazione da parte della stessa Corte della qualifica di giudice ai fini del rinvio pregiudiziale (a partire dall’ord.n. 103 del 2008), la “precisazione” innovava a indirizzi notoriamente consolidati da decenni, con l’avocazione della cognizione di ogni dubbio di lesione di un diritto fondamentale, compresa appunto quella perpetrata da leggi confliggenti col diritto UE direttamente applicabile. Successive correzioni di tiro, segnalate anche dall’ordinanza di rimessione in esame, tenderanno a riassorbirne la portata dirompente. Oltre a ripristinare la facoltà, in luogo dell’obbligo, per il giudice comune di sollevare questione di legittimità in via prioritaria rispetto al rinvio pregiudiziale al giudice del Lussemburgo (sent.n. 20 del 2018), la Corte tornerà a ribadire il potere-dovere dello stesso giudice di non applicare la legge asseritamente lesiva di norme UE direttamente applicabili (sent.n. 63 e ord.n. 117 del 2019), limitando perciò l’ipotesi della quaestio all’ipotesi di norme nazionali dettate in attuazione di fonti del diritto dell’Unione, come la decisione quadro.
4.I dubbi di legittimità costituzionale e i diversi profili di violazione del principio di eguaglianza.
L’ordinanza enuclea quattro profili di non manifesta infondatezza. Il primo è riferito agli artt. 117, primo comma e 11 Cost. per il tramite della decisione quadro del 2002, là dove prevede la facoltà del giudice dell’esecuzione di rifiutare la consegna della persona ricercata alla triplice condizione ivi prevista (“se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno”). Qui il giudice rimettente ha buon gioco nel sottolineare un contrasto testuale della disposizione impugnata per omessa previsione, fra i soggetti ai quali potrebbe riferirsi la mancata consegna, del cittadino del Paese terzo che risieda o dimori in uno Stato membro dell’Unione, tanto più che la decisione quadro non abilita gli Stati membri a conferire ai termini da essa impiegati una portata più estesa di quella risultante dall’interpretazione della Corte di giustizia (§§ 42 e 43 di Koslowski, 17 luglio 2008). Per cui, osserva il giudice a quo, “la volontà di tracciare un modello definitorio comune di elementi lessicali cui il legislatore europeo ha evidentemente attribuito valenza centrale nella costruzione del nuovo regime di consegna delle persone ricercate, ancorandolo al principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e rendendolo applicabile, pertanto, su una base comune di regole generalmente condivise dai diversi Stati membri: i termini «dimori» e «risieda», che delimitano la sfera di applicazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, costituiscono in tal modo l’oggetto di una definizione scolpita sulla base di criteri necessariamente ‘uniformi’, proprio in quanto si riferiscono a nozioni ‘autonome’ del diritto dell’Unione europea”.
Gli altri profili si incentrano sulla violazione diretta di princìpi costituzionali, rispettivamente individuati nell’eguaglianza davanti alla legge, nella funzione rieducativa della pena e nel rispetto del diritto alla vita familiare come sancito fra gli altri dagli artt. 2 Cost. nonché 117, primo comma, per il tramite dell’art. 8 CEDU.
Quanto alla violazione del principio di eguaglianza, il giudice a quo rinviene correttamente il tertium comparationis nella opposta disciplina del mandato processuale, in ordine al quale la condizione del cittadino dello Stato terzo è equiparata a quella degli Stati membri dell’Unione, peraltro col risultato che “il residente gode di una tutela più ampia proprio nell’ipotesi in cui l’allentamento dei vincoli relazionali causato dalla consegna cd. ‘processuale’ potrebbe di contro affievolire le capacità rieducative della pena”. Ma non si limita a rilevare questo esito paradossale, e volge l’attenzione al complesso del diritto derivato europeo onde accertare le conseguenze della disposta esclusione dei cittadini di Stati terzi allorché lo stesso ordinamento dell’Unione riconosca a determinate categorie di costoro uno status particolare, come i “soggiornanti di lungo periodo” alla stregua della direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, oltre ai cittadini di Paesi terzi familiari di cittadini europei, beneficiari del diritto al ricongiungimento. Osserva in particolare la Corte di cassazione che “i cittadini di Paesi terzi, pur se stabilmente residenti in Italia, costituiscono l’unica ‘categoria’ di destinatari di un mandato in executivis esclusa dall’applicazione del motivo di rifiuto di cui all’art. 18-bis, comma 1, lett. c), poiché siffatta causa ostativa dell’esecuzione, di contro, è utilmente invocabile in favore dei cittadini italiani, dei cittadini di un altro Stato membro dell’Unione residenti nello Stato e finanche degli apolidi stabilmente residenti nel territorio dello Stato, per effetto dell’equiparazione ai cittadini ai fini della legge penale prevista dall'art. 4, comma 1, cod. pen.”.
Nell’accomunare i cittadini effettivamente residenti o dimoranti in uno Stato membro ai suoi cittadini per il profilo che interessa, la decisione quadro riflette l’ispirazione della citata direttiva del 2003, frutto più fedele dell’orientamento, sancito dal Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, per cui i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro in un congruo periodo di tempo avrebbero dovuto acquisire una titolarità di diritti “il più possibile simile” a quella dei cittadini europei. Un orientamento che ci appare oggi remoto rispetto agli indirizzi legislativi prevalenti in materia non solo nel nostro ordinamento.
La trattazione di questo profilo comporterebbe per la Corte costituzionale un’esposizione supplementare di cui dubito vorrà farsi carico, essendo già chiamata a una richiesta di additiva, pur prospettata con precisione chirurgica alla luce della precedente sent.n. 227 del 2010. Inoltre il motivo di violazione del principio di eguaglianza muove in questo caso da un’ampia disamina della normativa derivata dell’Unione, a differenza di quello relativo all’esito del tutto irragionevole di una comparazione fra destinatari di un mandato processuale e di un mandato esecutivo, risultante solo dalla disciplina nazionale.
Appunti sulla nuova disciplina delle intercettazioni
di Aniello Nappi
Sommario: 1. Un archivio fondamentale- 2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni- 3. Utilizzabilità nei processi penali- 4. Utilizzabilità extrapenale.
1. Un archivio fondamentale
Se non interverrà un ulteriore rinvio, tra qualche settimana entrerà in vigore la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali prevista dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, cosiddetta riforma Orlando, e dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito nella l. 28 febbraio 2020, n. 7, cosiddetta riforma Bonafede.
Le due leggi di riforma, in parte sovrapposte, sono intervenute su numerosi articoli del codice di procedura penale[1]. Ma può ben dirsi che il cardine della nuova disciplina è nell’archivio istituito a norma dell’art. 269 comma 1 c.p.p. presso l'ufficio dello stesso pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni: un archivio gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica e relativo a tutte le intercettazioni disposte dall’ufficio.
Si tratta dunque di un archivio dell’ufficio non del singolo procedimento. Tuttavia l’istituzione e la disciplina di questo archivio hanno conseguenze determinanti sia nella prospettiva del regime di conoscibilità dei risultati delle intercettazioni sia nella prospettiva della loro utilizzabilità, non solo nel processo penale ma anche in altri giudizi civili e amministrativi. E in mancanza di un’adeguata considerazione per il suo ruolo effettivo si rischia di vanificare i possibili effetti positivi della riforma.
2. Limiti di conoscibilità delle acquisizioni
Secondo quanto precisa l’art. 89 bis comma 2 disp. att., che disciplina l’archivio, «il procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito»; e l’art. 114 comma 2-bis c.p.p. aggiunge che di questi atti è vietata la pubblicazione prima che siano stati selezionati come rilevanti ai fini del procedimento; mentre lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. prevede esplicitamente che «non sono coperti da segreto solo i verbali e le registrazioni delle comunicazioni e conversazioni acquisite al fascicolo di cui all'articolo 373, comma 5, o comunque utilizzati nel corso delle indagini preliminari».
L’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p., e disciplinato dall’art. 89 bis disp. att., è dunque distinto ed esterno al fascicolo del pubblico ministero, di cui all’art. 373 comma 5 c.p.p.; e l’inserimento dei risultati delle intercettazioni nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. non ne comporta l’acquisizione al fascicolo delle indagini preliminari, anche perché sono tutelati da un segreto diverso dal segreto investigativo previsto dall’art. 329 c.p.p.
Questa tutela non è infatti quella prevista per il segreto investigativo, che cade per gli atti di cui l’imputato possa avere conoscenza (art. 329 comma 1 c.p.p.), considerato che lo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. riconosce ai difensori delle parti l'accesso all'archivio e l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate, per consentire loro l'esercizio dei propri diritti e facoltà. Si tratta dunque di una tutela ulteriore, propria dei segreti professionale e di ufficio, prevista in attuazione del divieto di comunicare e divulgare i dati registrati, per finalità diverse da quelle per cui l’intercettazione è ammessa, secondo quanto imposto dalla normativa di garanzia della privacy. E la distinzione di questo ulteriore segreto da quello investigativo giustifica la specifica previsione del divieto di pubblicazione degli atti cui si riferisce l’art. 114 comma 2- bis c.p.p.; un divieto che permane anche dopo che essi non siano più coperti dal segreto investigativo.
Secondo quanto prevede il regolamento della privacy, infatti, i dati personali sono oggetto di trattamento e sono raccolti solo per lo scopo per il quale il trattamento è autorizzato. Non sono ammessi trattamenti incompatibili con le finalità per le quali sono stati autorizzati; e i dati personali non possono essere conservati per un tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti. Esaurito questo tempo, i dati vanno distrutti d'ufficio o su iniziativa degli interessati.
Peraltro, come s’è detto, questa tutela rimarrà solo per le comunicazioni e registrazioni che non risulteranno selezionate ai fini della prova; quelle a tal fine selezionate dalle parti e dal giudice non saranno più coperte dal divieto di pubblicazione imposto dall’art. 114 comma 2-bis c.p.p.
I verbali e le registrazioni contenute nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. potranno dunque essere consultati solo dal giudice dal pubblico ministero e dai difensori delle parti, che non potranno estrarne copia prima della selezione a fini di prova e limitatamente a quelli effettivamente selezionati (art. 268 comma 8 c.p.p.).
3. Utilizzabilità nei processi penali
Prima della selezione, d’altro canto, le comunicazioni e le registrazioni inserite nell’archivio previsto dall’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili, come si desume dallo stesso art. 269 comma 1 c.p.p. e dall’art. 89 bis disp. att., che implicitamente ne vietano l’utilizzazione prima della selezione prevista dagli art. 268, art. 415 bis comma 2-bis, art. 454 comma 2-bis c.p.p.
Secondo quanto prevede l’art. 268 comma 4 c.p.p., infatti, i verbali e le registrazioni, trasmessi al pubblico ministero, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni «sono depositati presso l'archivio di cui all'articolo 269, comma 1, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l'intercettazione». Tuttavia, «se dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari» (art. 268 comma 5 c.p.p.); con la conseguenza che in questo caso vengono a sovrapporsi il termine di deposito dei risultati delle intercettazioni e il termine di deposito ex art. 415 bis comma 2 c.p.p. del fascicolo delle indagini preliminari. Nonostante questa sovrapposizione, però, «la documentazione relativa alle indagini espletate» deve essere «depositata presso la segreteria del pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2 c.p.p.), mentre i verbali e le registrazioni relativi alle intercettazioni rimangono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., così come disposto dall’art. 268 comma 4 c.p.p., che ne impone comunque la conservazione in quell’archivio indipendentemente dal deposito per i difensori.
La distinzione tra il fascicolo del pubblico ministero e l’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. è fondamentale, perché i verbali e le registrazioni inclusi nell’archivio non possono essere trattati come atti delle indagini preliminari prima della selezione, che è necessaria anche per utilizzarli ai fini cautelari, come si vedrà.
Effettuato il deposito, ai difensori delle parti è immediatamente dato avviso che, entro il termine fissato dal pubblico ministero ed eventualmente prorogato dal giudice (art. 268 comma 4 c.p.p.), «per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche» (art. 268 comma 6 c.p.p.), senza però poterne ottenere copia prima della selezione da parte del giudice.
Nel caso in cui al deposito delle intercettazioni non si sia proceduto prima della chiusura delle indagini preliminari (art. 268 comma 5 c.p.p.), l'avviso del deposito ex art. 415 bis comma 2 «contiene inoltre l'avvertimento che l'indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti depositati relativi ad intercettazioni ed ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e che hanno la facoltà di estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal pubblico ministero» (art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.). E analogamente prevede l’art. 454 comma 2-bis c.p.p. per il caso di giudizio immediato richiesto dal pubblico ministero prima del deposito ex art. 268 c.p.p., fermo restando che anche in questo caso i verbali e le registrazioni sono depositati nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1. Il diritto dei difensori alla copia è dunque parzialmente anticipato nel caso in cui il pubblico ministero sia tenuto a depositare l’elenco delle comunicazioni ritenute rilevati; e benché non espressamente menzionato, va riconosciuto anche nel caso previsto dall’art. 454 comma 2-bis c.p.p., in applicazione analogica dell’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p.
Alla scadenza dei termini di deposito è di regola il giudice che decide immediatamente sulle richieste delle parti di acquisire conversazioni o flussi di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 268 comma 6 c.p.p.): senza deposito e senza richiesta delle parti il giudice non potrebbe operare d’ufficio la selezione, sicché i risultati delle intercettazioni rimarrebbero estranei allo stesso fascicolo delle indagini preliminari, essendo incluse solo nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p., nel quale vanno comunque conservate indipendentemente dal deposito per i difensori.
Nei casi in cui il deposito sia avvenuto a norma dell’art. 415 bis comma 2-bis o dell’art. 454 comma 2-bis c.p.p., invece, è il pubblico ministero che, dopo avere indicato le registrazioni rilevanti per l’accusa, decide con decreto motivato sulle richieste dei difensori, che possono depositare l'elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti e di cui chiedono copia; solo se le richieste difensive siano disattese o insorgano comunque contestazioni sulle registrazioni ritenute rilevanti anche dallo stesso pubblico ministero, i difensori possono rivolgersi al giudice perché provveda a norma dell’art. 268 comma 6. Ma in ogni caso, quale che sia il procedimento di selezione, sono inammissibili le richieste generiche di acquisizione di tutte le conversazioni intercettate, perché il procedimento esige indicazioni specifiche, onde impedire che risultino incluse nello stesso fascicolo del pubblico ministero, prima che nel fascicolo per il dibattimento, le conversazioni non effettivamente rilevanti. La stessa istituzione dell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. rimarrebbe vanificata, ove si ammettesse un indiscriminato trasferimento del suo contenuto nel fascicolo delle indagini preliminari.
Anche nei casi previsti dagli art. 415 bis comma 2-bis e 454 comma 2-bis c.p.p., nei quali può essere il pubblico ministero a effettuare la selezione senza intervento del giudice, deve ritenersi che una decisione di acquisizione indiscriminata di tutte le registrazioni, benché condivisa dalle difese, non sarebbe idonea a renderle utilizzabili, sottraendole al regime di inutilizzabilità di quanto conservato nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e non regolarmente selezionato. Questa inutilizzabilità dovrebbe essere rilevata anche d’ufficio dal giudice quando, «anche nel corso delle attività di formazione del fascicolo per il dibattimento ai sensi dell'articolo 431», è chiamato a disporre la trascrizione delle registrazioni (art. 268 comma 7 e 457 comma 1 c.p.p.).
Poiché è prevedibile che il procedimento di selezione più ricorrente sarà quello previsto dall’art. 415 bis comma 2-bis c.p.p., l’effettività della riforma dipenderà dal corretto esercizio di questo potere d’ufficio da parte dei giudici dell’udienza preliminare. Altrimenti nulla cambierebbe: il pubblico ministero richiederebbe e il giudice disporrebbe, con il consenso almeno implicito dei difensori, l'acquisizione e la trascrizione di tutte le registrazioni, senza alcun preventivo vaglio di rilevanza; le trascrizioni verrebbero inserite tutte nel fascicolo per il dibattimento; diverrebbero così conoscibili agevolmente anche quelle conversazioni non rilevanti, che non dovrebbero essere neppure acquisite agli atti, ma si leggerebbero addirittura sui giornali.
In ogni caso, se la selezione viene eseguita correttamente, il giudice provvede a separare in tre parti i verbali e le registrazioni provenienti dall'intercettazione: registrazioni rilevanti; registrazioni inutilizzabili; registrazioni utilizzabili ma non rilevanti.
Le registrazioni e i verbali di cui è vietata l'utilizzazione, salvo che costituiscano corpo del reato, sono distrutti, su ordine del giudice (art. 271 comma 3 c.p.p.) e sotto il suo controllo (art. 269 comma 3 c.p.p.), con decisione assunta in camera di consiglio a norma dell’art. 127 c.p.p. (art. 269 comma 2 c.p.p.).
Le registrazioni e i verbali che non sono inutilizzabili sono con-servate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione (art. 269 comma 2 c.p.p.). Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza.
D'altro canto, durante le indagini preliminari, e segnatamente ai fini delle misure cautelari, i risultati rilevanti delle intercettazioni, purché già conferiti nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. (art. 291 comma 1 c.p.p.), possono essere utilizzati dal pubblico ministero già prima del deposito, della selezione e della trascrizione delle registrazioni ex art. 268 c.p.p., anche perché queste operazioni possono essere differite sino alla chiusura delle indagini (art. 268 comma 5 c.p.p.). Tuttavia anche in questi casi la selezione non è operata unilateralmente dal pubblico ministero. Infatti, secondo quanto prevede l’art. 92 comma 1-bis disp. att., contestualmente all’adozione della misura cautelare «sono restituiti al pubblico ministero, per la conservazione nell'archivio di cui all'articolo 89 bis, gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate ritenute dal giudice non rilevanti o inutilizzabili». La scelta unilaterale del pubblico ministero non è dunque sufficiente per la trasmigrazione dei risultati delle intercettazioni dall’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. al fascicolo delle indagini preliminari.
Le comunicazioni e le conversazioni selezionate dal giudice, anche a fini cautelari, sono peraltro utilizzabili come prova sia nella fase delle indagini preliminari sia in dibattimento.
Secondo la giurisprudenza precedente la riforma «in sede di giudizio abbreviato, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie compiute dalla polizia giudiziaria circa il contenuto di conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione (cosiddetti "brogliacci"), essendo utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che siano stati legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero»[2]. Questa giurisprudenza deve ritenersi ormai superata, perché, come risulta dall’art. 269 comma 1 c.p.p., prima della selezione i cosiddetti brogliacci non vanno acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, ma sono custoditi nell’apposito archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. e sono assolutamente inutilizzabili. Di tanto non tiene conto una relazione del Massimario della Corte di cassazione recentemente pubblicata dalla rivista on line Sistema penale, perché vi si ritiene ancora possibile utilizzare ai fini del giudizio abbreviato i verbali e le registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
4. Utilizzabilità extrapenale
Secondo la giurisprudenza civile i risultati delle intercettazioni eseguite nel procedimento penale sono pienamente utilizzabili sia dal giudice tributario sia dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, senza le limitazioni che l’art. 270 c.p.p. prevede per l’utilizzazione in altri procedimenti penali[3].
Si ritiene in particolare che «le intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., norma quest'ultima riferibile al solo procedimento penale deputato all'accertamento delle responsabilità penali dell'imputato o dell'indagato sicché si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all'acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale»[4]. E quanto al procedimento tributario si sostiene che «non ricorre nei procedimenti diversi da quello penale in seno al quale siano state autorizzate ed espletate le intercettazioni telefoniche, la ratio sottesa al divieto stabilito dall'art. 270 c.p., la quale è volta ad evitare che procedimenti con imputazioni fantasiose possano legittimare il ricorso alle intercettazioni, al fine di propiziarne l'utilizzazione in procedimenti per reati che non avrebbero consentito questo mezzo d'indagine»[5].
Analogamente è orientata la giurisprudenza amministrativa, nel presupposto, ancora più radicale, che «in tema di rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici, gli eventuali errori nella procedura di acquisizione delle prove da par-te dell'autorità giudiziaria che rendano le stesse inutilizzabili nel procedimento penale non ne comportano l'automatica inutilizzabilità in sede amministrativa»[6]; sicché l'inutilizzabilità delle intercettazioni non può spiegare effetti oltre gli ambiti processuali penali[7] e «gli atti e le risultanze tutte del procedimento penale, comunque acquisiti, devono essere valutati autonomamente dall'Amministrazione»[8].
Sicché si riconosce l’utilizzazione a fini extrapenali dei risultati di intercettazioni che non siano stati selezionati come rilevanti in alcun procedimento penale, come se si ammettesse l’intercettazione anche a fini amministrativi, in palese violazione della Costituzione.
Anche questa giurisprudenza deve ritenersi comunque superata dall’attuale disciplina delle intercettazioni, perché i verbali e le registrazioni custoditi nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p. sono assolutamente inutilizzabili; e possono esserne prelevati solo in quanto selezionati ai fini dell’utilizzazione in un processo penale. Nessuno potrebbe estrarre copia di verbali o registrazioni conservate nell’archivio di cui all’art. 269 comma 1 c.p.p.
Sarebbe pertanto necessario che anche la giurisprudenza civile, in particolare delle Sezioni unite della Corte di cassazione, prendesse atto di questa evoluzione normativa.
[1] Per un esame più completo e dettagliato rinvio a www.guidanappi.it
[2] Cass., sez. VI, 24 marzo 2010, Haj, m. 247007, Cass., sez. V, 26 marzo 2013, Nocella, m. 255655, Cass., sez. VI, 3 novembre 2015, Sedira, m. 265730.
[3] A. Nappi, Sull'utilizzazione extrapenale dei risultati delle intercettazioni, in Cass. pen., 2014, p. 386.
[4] Cass., sez. u, 15 gennaio 2020, n. 741, m. 656792, Cass., sez. un., 12 febbraio 2013, n. 3271, m. 625434, Cass., sez. un., 24 giugno 2010, n. 15314, m. 613973, Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292, m. 610804.
[5] Cass., sez. V, 7 febbraio 2013, n. 2916, m. 625254.
[6] Cons. Stato, sez. VI, 10 dicembre 2009, n. 7703.
[7] T.A.R. Roma Lazio sez. III, 19 marzo 2008, n. 2472, T.A.R. Roma Lazio sez. II, 6 giugno 2013, n. 5638.
[8] T.A.R. Lecce Puglia sez. III, 15 ottobre 2010, n. 2079.
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La Redazione di GIUSTIZIA INSIEME .
Il tirocinio dei m.o.t. e l’emergenza covid-19
Intervista di Ernesto Aghina e Luca Marzullo ai m.o.t. Claudia Masucci e Simona Di Maria
La sospensione dell’attività giudiziaria derivata dalla critica situazione sanitaria non riguarda unicamente la risposta alla domanda di giustizia, ma anche il delicato aspetto della formazione dei giovani magistrati.
Giustizia Insieme ha già affrontato il tema dell’adeguamento emergenziale della formazione da parte della Scuola superiore della magistratura nei confronti dei m.o.t. e dei tirocinanti ex art. 73 d.l. n. 69/2013 (vedi: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/974-la-formazione-dei-magistrati-al-tempo-dell-emergenza-da-covid-19 , e ora intende dar voce ai protagonisti del tirocinio.
Due giovani m.o.t.: Claudia Masucci e Simona Di Maria, in tirocinio mirato presso il Tribunale di Napoli e di Perugia, destinate rispettivamente alle funzioni giudicanti penali e civili, rispondono alle principali domande concernenti gli inevitabili riflessi derivati dall’emergenza giudiziaria sulla loro preparazione, l’adattamento al sistema didattico in videconferenza ed esprimono la loro opinione in ordine all’ipotizzata proroga del tirocinio.
1) Come è cambiato il tirocinio dal momento dell’insorgere dell’emergenza pandemica?
Claudia Masucci
Svolgo il tirocinio mirato come giudicante penale: in una situazione normale, i miei colleghi ed io avremmo partecipato alle udienze mediamente tre giorni a settimana, studiando in anticipo i fascicoli, confrontandoci con gli affidatari sulle diverse questioni emerse durante lo studio oppure in udienza, partecipando alle camere di consiglio e redigendo i provvedimenti. Al momento i processi si trattano solo in presenza di particolari condizioni e, di fatto, non abbiamo quasi modo di assistervi, se non a quelli che si celebrano con il rito direttissimo; dunque, la nostra formazione si attua con modalità in parte diverse.
Per la mia esperienza personale e, quindi, con riguardo all’organizzazione nella Corte d’Appello di Napoli e ai magistrati a cui sono affidata, tre sono le principali attività in cui sono impegnata in questo periodo. Innanzitutto, prosegue costantemente il prezioso dialogo con i magistrati affidatari, che mi forniscono provvedimenti da loro redatti e fascicoli di processi pendenti in modo che io possa studiarli. Un paio di volte a settimana, poi, ci “vediamo” su Teams per discutere delle questioni processuali e sostanziali individuate e per risolvere eventuali dubbi.
Inoltre, grazie all’interessamento della Commissione MOT e alla collaborazione di tutti i Tribunali del distretto, ci è stato consentito di assistere via Teams ai processi che si svolgono con il giudizio direttissimo, il che ci permette di acquisire dimestichezza con un rito che presenta notevoli peculiarità e, comunque, di partecipare ad udienze in cui si svolge un’attività effettiva. Ciò è particolarmente proficuo anche perché, dopo l’udienza, il magistrato di turno ci fornisce delle spiegazioni su quanto avvenuto, approfondisce alcune questioni di rilievo e risponde alle nostre domande. Tanto è stato previsto con riguardo alle direttissime che si svolgono in tutto il distretto e non solo presso il capoluogo, in modo da ampliare le possibilità di partecipazione.
Infine, stiamo seguendo le lezioni tenute da numerosi magistrati affidatari, che trattano questioni di diritto processuale e sostanziale con un taglio eminentemente pratico e con particolare attenzione alla giurisprudenza, in modo da offrirci una sorta di “rassegna” delle problematiche che potremmo trovarci ad affrontare una volta prese le funzioni. Anche questi incontri presentano una grande utilità, perché suppliscono, in parte, alla mancanza di esperienza pratica.
A tutto questo si accompagna, chiaramente, lo studio individuale: le varie tematiche che emergono richiedono approfondimenti e riflessioni che la specificità del periodo sicuramente permette.
Quanto alle attività della formazione centrale e della formazione decentrata, almeno per il momento, si svolgeranno con modalità a distanza in base ad un calendario che è già stato definito e che consentirà di mantenere fermo il programma inizialmente stabilito.
Simona Di Maria
Caso ha voluto che l’nsorgernza della criticità insorgesse al momento del passaggio dal generico al mirato. Il passaggio era carico di aspettative: scendere dalla ‘ruota del criceto’ e iniziare un cammino verso una meta precisa, la funzione. Quindi, più che essere cambiato il tirocinio (che doveva cambiare), è stata – inizialmente - frustrata l’aspettativa di iniziare una fase nuova, più funzionale e gratificante quanto all’apprendimento. Le prime settimane di mirato hanno riguardato le esecuzioni immobiliari: ovviamente in questa materia, fatta per lo più di operazioni e atti reattivi ad istanze, nulla si vede se non si procede. Motivo per cui ho approfittato di questo tempo per studiare la procedura ed impratichirmi con la consolle.
Le cose sono decisamente migliorate cambiando materia: contenzioso civile. Ho avvertito un cambio di passo, un rapporto con l’affidatario più stretto e dialettico. Ovviamente le udienze sono ancora pochissime (al momento, una sospensiva su teams), ma in compenso sto lavorando su quello che è stato incamerato e sto imparando a strutturare i provvedimenti. In conclusione, per la materia e per l’affidatario, in questo secondo periodo il tirocinio è assai più fruttuoso.
2) Quali interventi suggeriresti come utili per incrementare la tua preparazione in questa fase di (semi)paralisi dell’attività giudiziaria?
Claudia Masucci
Trovo che nella Corte d’Appello di Napoli siano già state attuate tutte le principali misure in grado di sopperire alla mancanza di “pratica” negli uffici: le attività in cui siamo impegnati in questo periodo sono la migliore alternativa per quella parte di formazione che necessariamente si dovrebbe svolgere in Tribunale e che al momento, per cause di forza maggiore, non è possibile esplicare.
Oltre a quanto stiamo già facendo, potrebbe essere utile provare a organizzare dei processi simulati a scopo didattico, sul modello dei mock trials anglosassoni, con assegnazione dei diversi ruoli ai MOT o, in parte, agli affidatari, anche se mi rendo conto che “inventare” un processo dal nulla è molto più complicato e impegnativo, in termini di tempo, che assistere allo svolgimento di un’udienza reale.
Simona Di Maria
Potenzierei l’apprendimento di alcuni aspetti pratici del lavoro, per acquisire quella strumentazione che consentirà, in futuro, di avere più tempo per i contenuti. Ad esempio: come strutturare i provvedimenti (sarebbe utile prepararsi degli schemi/modelli), come organizzare il proprio ruolo, come decidere sulle spese di lite e come liquidare quelle del CTU (o nelle esecuzioni, del perito e del custode), il gratuito patrocinio, come crearsi un proprio archivio, come utilizzare la consolle, personalizzandola.
Poi, mi piacerebbe partecipare a seminari specifici sulle materie più tecniche e/o seriali che comporranno il mio ruolo, ad esempio: le tematiche principali del contenzioso bancario, la protezione internazionale etc.
3) L’ applicativo TEAMS, utilizzato anche per organizzare gli stage in sede decentrata, può essere un valido strumento anche per il futuro o solo una modalità per fronteggiare l’emergenza?
Claudia Masucci
Al momento in cui scrivo non abbiamo ancora iniziato gli stage (il primo comincerà il 14 aprile), ma abbiamo utilizzato Teams per assistere alle udienze a distanza, per le lezioni collettive e gli incontri virtuali con gli affidatari. Trovo che questo applicativo possa essere prezioso anche per il futuro; consente di svolgere e seguire adeguatamente le lezioni, di condividere documenti e perfino di instaurare un confronto con il relatore tramite gli interventi, anche se non posso dire se lo stesso varrà quando ad assistere saranno cento MOT e non venti o trenta come ora. L’aspetto in cui la partecipazione via Teams potrebbe differire da quella materiale, de visu, è nella creazione di un rapporto e di un dialogo costruttivo con i colleghi di altre Corti, come ad esempio avviene nella divisione in sottogruppi durante la formazione presso la Scuola Superiore, che offre occasioni di crescita e arricchimento che, temo, difficilmente potrebbero essere replicate su una piattaforma telematica.
Simona Di Maria
Dipende dal tipo di stage. Se penso, ad esempio, a quello svolto negli istituti penitenziari ovviamente Teams non si presta a sostituire l’esperienza diretta. Viceversa per quelli che implicano una relazione frontale. Aggiungo, però, che alcuni stages non li avrei inseriti nella fase del generico: aver fatto uno stage di una settimana in ambito minorile (dopo 3 settimane di tirocinio nello stesso ambito) è stato inutile – oppure è stato un di più farci il tirocinio. Così per la sorveglianza (stage + tirocinio), gli istituti di pena e le forze dell’ordine (riserverei queste cose solo al mirato).
Teams potrebbe avere un ruolo “rivoluzionario” sotto un altro aspetto: unire le forze. Intendo dire che si potrebbe creare una piattaforma di seminari a livello nazionale, in cui i formatori (coordinandosi) inseriscono incontri e poi i tirocinanti si iscrivono a quelli di maggior interesse. In modo simile è organizzata la cd. “settimana flessibile” nelle scuole superiori (per chi ne sa qualcosa…). Così se una Corte riesce ad ingaggiare il guru delle misure di prevenzione e un’altra quello del contenzioso agrario (per dire…), ne beneficerebbero tutti e non solo i MOT locali. Una formazione decentrata, ma diffusa, che moltiplicherebbe le possibilità ed i risultati.
4) Quale la tua opinione in ordine ad una possibile sospensione del tirocinio che procrastini l’immissione in servizio nella prima sede di destinazione?
Claudia Masucci
Si tratta di un tema che è stato al centro di un lungo dibattito tra noi MOT e le posizioni che sono emerse sono molto diversificate e, trovo, tutte ugualmente legittime. Personalmente - ma so di non parlare a nome di tutti - credo che, se effettivamente questa situazione si protrarrà, consentendoci alla fine di svolgere presso gli uffici solo meno della metà del tirocinio mirato, potrebbe essere utile, più che una sospensione, che rischierebbe di lasciarci inattivi alcuni mesi, un prolungamento che ci permetta di recuperare il periodo in cui l’attività giudiziaria è rimasta parzialmente paralizzata.
Ritengo che la limitazione della pratica in Tribunale incida innanzitutto sulla capacità di gestire l’udienza, oltre che su quella di risolvere le singole questioni di diritto processuale e sostanziale (banalmente, più situazioni si affrontano, maggiore esperienza si acquisisce). Le attività che stiamo svolgendo al momento ci permettono senz’altro di individuare e di mettere a fuoco in anticipo alcuni dei problemi che ci troveremo ad affrontare e dunque, da un lato, ci forniscono senz’altro delle competenze utili ad affrontare le diverse situazioni e, dall’altro, rendono certamente più rapido l’apprendimento “sul campo”, dal momento che avremo già avuto modo di riflettere su molti quesiti ancor prima di incontrarli per la prima volta nella pratica.
Tuttavia, a mio parere, un conto è affrontare le varie problematiche “a freddo”, in via teorica, anche se con un taglio concreto; altra cosa è imparare a gestire l’udienza, capacità che credo si possa acquisire soltanto con l’esperienza. Senza assolutamente voler ridurre l’attività del magistrato ad un qualcosa di meramente pratico, credo che acquisire maggiore sicurezza potrebbe consentirci di svolgere al meglio un compito così delicato.
Simona Di Maria
La risposta dipende da vari fattori: quanto a lungo durerà la “paralisi”, quanto rarefatta sarà l’attività dopo la ripresa, quanto riuscirò a formarmi in questa fase di sospensione. Intendo dire che, se potessi sfruttare al meglio questo periodo con una formazione adeguata, sebbene ancora teorica (vedi p.to 2), potrei dedicare il periodo successivo solo alle udienze. Allora, forse, 2/3 mesi di udienze intense, sarebbe sufficiente.
Però rilevano anche altre considerazioni: da un lato, mi sentirei più tranquilla sapendo che questo periodo di stasi sarà recuperato con un allungamento del tirocinio (e se poi sarò riuscita a progredire anche durante la stasi, tanto meglio); dall’altro lato, mi rendo conto che gli uffici giudiziari di destinazione avranno più bisogno di prima e, per loro, un ritardo nella nostra presa di funzioni potrebbe essere una difficoltà in più; infine, ci sono i colleghi che andranno a coprire ruoli assai variegati e credo che per loro, anche la perdita di un mese o due, renda necessario il recupero.
di Tiziana Orrù
Sommario: Premesse. 1.Linee guida per l’adozione di protocolli di sicurezza nelle aziende. 2.La sospensione del rapporto di lavoro e le misure a sostegno del reddito. 3.Il divieto di licenziamento. 4.La sospensione dei termini giudiziali e stragiudiziali. 5.Lo Smart Working. 6.Considerazioni finali
Premesse.
La pandemia del coronavirus sta comportando una modifica senza precedenti nelle relazioni di lavoro in Italia e nel mondo.
I rischi della diffusione del virus e la necessità di affrontare la grave emergenza sanitaria hanno portato alla pubblicazione di numerosi provvedimenti normativi di urgenza che autorizzano, tra l'altro, misure di isolamento, quarantena, riduzione dell’attività giudiziaria; chiusura di scuole, musei, teatri, cinema, ristoranti e di tutti gli spazi in cui la riunione di persone potrebbe rappresentare un pericolo di diffusione del virus, come ad esempio i parchi pubblici; serrata degli esercizi commerciali e delle attività produttive in settori non essenziali per la sopravvivenza fisica e per la sanità.
Senza pretesa di esaustività vi offro una breve rassegna dei provvedimenti normativi più incisivi, lasciando spazio e tempo per ulteriori e necessari approfondimenti.
Quale è la situazione dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti di fronte agli effetti della pandemia?
1.Linee guida per l’adozione di protocolli di sicurezza nelle aziende.
Innanzitutto merita menzione il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro non sanitari sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali (CGIL CISL e UIL) il 14 marzo 2020 in attuazione dell’art. 1, co. 1 n. 9 del DPCM 11 Marzo 2020.
Il documento, composto da dodici punti, contiene linee guida per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti contagio e di regolamentazione delle attività negli ambienti di lavoro per favorire il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus. A titolo esemplificativo sono trattati i doveri di informazione del personale, le modalità di ingresso in azienda, l’obbligo di pulizia e sanificazione dell’azienda, l’adozione dei dispositivi di protezione individuale, la predisposizione di un sistema che eviti sistematicamente che i lavoratori possano avvicinarsi a meno di un metro uno dall’altro o dalla clientela.
Il protocollo fa inoltre riferimento alla doverosa adozione di alcuni accorgimenti in materia di trattamento dei dati personali e tratta, infine, il tema della sorveglianza sanitaria.
Stante la espressa raccomandazione che la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano "adeguati livelli di protezione", deve ritenersi che in mancanza degli adeguamenti organizzativi previsti dal Protocollo, anche se non iscritti nell’aggiornamento al Documento di Valutazione dei Rischi, l’attività lavorativa debba essere sospesa.
Il Protocollo siglato il 14 marzo, pur non essendo stato concepito né in una logica vincolante né quale documento universalmente valido può tuttavia costituire un importante punto di riferimento per determinare i livelli minimi di sicurezza sui luoghi di lavoro in analogia con quanto espressamente previsto dall’art. 1, comma 7 lett. d) ed e) e commi 8 e 9 del DPCM 11 Marzo 2020.
A questo proposito deve essere richiamato l’art. 44 d.lgs. 81/08 che prevede espressamente: il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa.
Di conseguenza un eventuale provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti di un lavoratore che rifiuti di prestare la propria attività in luoghi di lavoro ove non siano stati adottati adeguati livelli di protezione sarebbe da considerare sicuramente illegittimo.
La violazione delle disposizioni di protezione giustifica pertanto a mio parere l’astensione dal lavoro con diritto alla retribuzione ai sensi dell’art. 1460 c.c., potendosi ritenere che il rifiuto di prestare l’attività lavorativa costituisca una reazione proporzionata all’inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza, in violazione oltre che dell’art. 2087 c.c., anche di principi di rilievo costituzionale quale è sicuramente il diritto alla salute.
Può inoltre senz’altro ritenersi che il Protocollo possa costituire altresì un valido punto di riferimento per rimodulare l’attività aziendale nel caso di sua continuità secondo i criteri indicati al punto 8, che prevedono la chiusura dei reparti non produttivi, la rimodulazione dei livelli produttivi, la turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione per ridurre al minimo i contatti e l’utilizzo dello smart working per tutte quelle attività che possono essere svolte a distanza.
2.La sospensione del rapporto di lavoro e le misure a sostegno del reddito.
Successivamente il Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, dopo aver previsto la chiusura di numerose attività produttive ritenute non essenziali, ha offerto alcune soluzioni alla vasta gamma di specificità derivanti dalla sospensione del funzionamento delle imprese.
Innanzitutto e come criterio generale è stato previsto l’intervento della Cassa Integrazione Guadagni (anche in deroga) con procedura semplificata o di altre forme di integrazione salariale, della durata di nove settimane, per le sospensioni o riduzioni dell’orario di lavoro per tutti i lavoratori ai quali non è consentito rendere la propria prestazione lavorativa perché l’attività produttiva del datore di lavoro risulta compresa nei settori individuati per disposizioni normative e/o comunque per ordine delle Autorità delegate; con la precisazione importante che la domanda di accesso motivata dalla causale “speciale” COVID-19 esclude la verifica della sussistenza dei requisiti legati alle causali ordinarie contemplate dall’art. 11 del d.lgs. 148/2015 ed il versamento della contribuzione addizionale (cfr. messaggio n. 1287 del 20.3.2020 dell’Inps).
In virtù di quanto previsto al citato punto 8 del Protocollo del 14.3.2020 deve ritenersi che per le imprese ammesse a fruire degli ammortizzatori sociali questi debbano essere utilizzati “in via prioritaria”, e solo nel caso in cui questi non risultino sufficienti si potranno utilizzare i periodi di permesso e ferie arretrati non ancora fruiti, così come i periodi di congedo straordinario.
Diversamente, per le attività escluse da possibili interventi di sostegno al reddito dei lavoratori e per i periodi di obbligata sospensione dal lavoro le parti del rapporto di lavoro potranno utilizzare alcuni strumenti quali ferie arretrate o permessi accantonati negli anni precedenti, congedi ed indennità previsti per i genitori di figli di età non superiore ai 12 anni, permessi ex legge 104/1992, esauriti i quali il lavoratore potrà essere sospeso in aspettativa non retribuita per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Il d.l. 18/2020 ha istituito inoltre uno specifico congedo conseguente alla sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche.
L’art. 23 ha previsto per i genitori (anche affidatari) di bambini fino ai 12 anni il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 15 giorni, cui corrisponde una indennità pari al 50% della retribuzione. Il congedo straordinario spetta alternativamente a entrambi i genitori, entro il limite complessivo di 15 giorni. Il diritto all’indennità si applica senza limite di età in caso di congedo specifico richiesto da lavoratrici o lavoratori con figli minori con disabilità accertata. In alternativa, i dipendenti beneficiari potranno optare per la corresponsione di un bonus per l’acquisto di servizi di baby sitting nel limite massimo complessivo di 600 euro, ovvero potranno usufruire di un congedo non retribuito con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro per tutto il periodo di chiusura delle scuole, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore.
Tra le misure a sostegno del reddito merita menzione anche l’art. 24 che ha previsto l’estensione del numero di giorni di permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, co. 3, L. 104/1992 per ulteriori complessive 12 giornate, usufruibili nei mesi di marzo ed aprile 2020.
Infine devono essere prese in considerazione le ipotesi nelle quali la sospensione dal lavoro derivi da provvedimenti autoritativi di quarantena per i quali sia previsto il divieto di allontanamento dalla propria abitazione. Si tratta a ben vedere di ipotesi di impossibilità sopravvenuta a rendere la prestazione che l’art. 26 del d.l. 18/2020 ha espressamente equiparato alla malattia, con esclusione di ogni rilievo ai fini del computo del periodo comporto. Non trattandosi di periodo di malattia resta ferma la possibilità per il datore di lavoro di organizzare la prestazione del dipendente con modalità da remoto che consentano perciò la prosecuzione dell’attività.
Diversamente nel caso in cui la sospensione della prestazione derivi dalla circostanza dell’aver contratto il virus, è importante segnalare che con la nota del 17 marzo 2020 l’Inail ha disposto la trattazione dei casi di Covid 19 come infortunio sul lavoro per tutto il personale medico e paramedico sia del SSN sia dipendente di strutture sanitarie pubbliche o private. La causa violenta, elemento costitutivo dell’infortunio sul lavoro ex art. 2 D.P.R. 1124/65, è stata ravvisata nella causa virulenta di natura biologica, ciò che consente di ritenere che possano essere ammessi alla tutela dell’Inail tutti quei casi di contrazione di contrazione del virus da parte di lavoratori non addetti al settore sanitario, qualora sia dimostrata l’eziologia professionale della stessa.
3.Il divieto di licenziamento.
Tra le misure a sostegno del lavoro durante l’emergenza sanitaria il governo ha introdotto diverse limitazioni alla possibilità del datore di lavoro di procedere al recesso dal rapporto, in particolare agli articoli 23, comma 6, 46 e 47, comma 2.
L’art. 23 co. 6, come già detto, vieta il licenziamento dei lavoratori che fruiscono dello speciale congedo per il periodo di chiusura delle scuole. La finalità dichiarata di conservazione del posto parrebbe escludere la possibilità di recesso dal rapporto di lavoro per qualsiasi causa.
In altri termini l’art. 47 co. 2 prevede che fino alla data del 30 aprile 2020, l’assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità non può costituire giusta causa di recesso dal contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile, a condizione che sia preventivamente comunicata e motivata l’impossibilità di accudire la persona con disabilità a seguito della sospensione delle attività dei Centri di cui al comma 1.
In quest’ultimo caso, fermo restando quanto previsto dagli articoli 23, 24 e 39 del medesimo decreto il divieto è espressamente riferito alle sole ipotesi di licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c.
Diversamente, l’art. 46 -non ostate la rubrica riferita alla Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti- contiene norme destinate a limitare la facoltà di licenziamento disponendo che: 1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.
La norma si applica a tutti i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori a prescindere dal numero di dipendenti dell’azienda.
Dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020 sono pertanto bloccate le procedure di avvio della riduzione collettiva del personale, nonché i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.
Nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020 ai sensi degli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223.
Deve perciò ritenersi che fino alla scadenza del suddetto termine i datori di lavoro che abbiano iniziato una procedura di licenziamento collettivo, anche se giustificata da motivi diversi dall’emergenza epidemiologica da Covid 19, non possano procedere oltre gli atti già compiuti. Di conseguenza se la lettera di licenziamento non è stata ancora consegnata, quel licenziamento - a prescindere dalla fase procedurale in cui si trovava all’entrata in vigore del decreto - è congelato.
Diversamente per i licenziamenti individuali non è prevista la sospensione della procedura ex art. 7 l. 604/66 (tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi la Commissione Provinciale di Conciliazione presso l'Ispettorato del Lavoro).
La norma, infatti, per i licenziamenti individuali dispone esclusivamente il divieto di recesso dal contratto sino al 16 maggio 2020, con la conseguenza che le procedure di licenziamento già avviate sono poste nel nulla e dovranno essere eventualmente riattivate dopo tale data (salvo proroghe).
Un licenziamento irrogato dopo il 23 febbraio e durante tutto il periodo di blocco si dovrebbe senz’altro configurare come affetto da nullità assoluta, in analogia con altre situazioni contemplate dall'ordinamento, come ad esempio il divieto di licenziamento della lavoratrice madre con diritto alla reintegra piena ex art.. 18, comma 1 L. 330/70 nonché art. 2 co. 1 del d.lgs. n. 23/2015 ove è disposta negli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.
Restano esclusi dalla sospensione: il licenziamento disciplinare (giusta causa e giustificato motivo soggettivo), il licenziamento per superamento del periodo di comporto, i licenziamenti dei dirigenti, i licenziamenti dei lavoratori domestici, la risoluzione del rapporto di apprendistato, i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età, per la fruizione della pensione di vecchiaia.
4.La sospensione dei termini giudiziali e stragiudiziali.
La formulazione dell’art. 83 co. 2 e 8 ha interamente recepito l’interpretazione autentica del previgente art. 1 co. 2 del d.l. n. 11/2020 indicata dallo stesso Governo nella relazione tecnica che ne ha accompagnato il Disegno di Legge n. 1757 di conversione: pertanto la sospensione dei termini è ora prevista in via generale per tutti i procedimenti e processi civili e penali pendenti -anche quando non sia fissata udienza nel periodo interessato.
L’ampia formula utilizzata dal legislatore e la ratio sottesa alla sospensione consentono senz’altro di ritenere che nel concetto di procedimento pendente debbano essere ricondotti anche i procedimenti per i quali è pendente il termine per proporre opposizione (es. decreti ingiuntivi), ovvero più in generale per proporre impugnazione.
Comma 2: Dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo.
L’art. 83 è intervenuto altresì a colmare un’importante lacuna del precedente provvedimento disciplinando i cc.dd. termini a ritroso, prevedendo che quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto.
Il successivo comma 8 dell’art. 83 contiene una rilevante previsione relativa alla sospensione dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti limitatamente ai periodi di efficacia dei provvedimenti di limitazione dell’attività giudiziaria adottati dai capi degli Uffici ai sensi dei commi 5 e 6 del medesimo art. 83.
La materia lavoristica è densa di disposizioni -quali l’art. 6 della legge n. 604/1966, l’art. 32 della legge n. 183/2010, gli artt. 28 e 39 del d.lgs. 81/2015- che impongono rigidi termini di decadenza.
Ebbene, il citato comma prevede la sospensione dei termini di decadenza e di prescrizione dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti adottati dai capi degli uffici ai sensi dei commi 5 e 6.
Ne consegue che non possono essere ricompresi nella sospensione disciplinata dal comma 8 tutti gli atti che devono essere compiuti dalle parti personalmente o attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale, quali ad esempio l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento.
Restano ovviamente salve le diverse disposizioni originariamente previste per le cc.dd. zone rosse dall’art. 10, co. 4, del d.l. n. 9/2020 per il quale il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali è sospeso dal 22 febbraio 2020 fino al 31 marzo 2020 e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.
Il successivo art. 1 del d.l. n. 11/2020, che ha esteso le limitazioni della zona rossa a tutto il territorio nazionale, ha previsto espressamente che resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 10 del decreto legge 2 marzo 2020, n. 9.
Viceversa l’art. 83 del d.l. n. 18/2020 non solo non ha riprodotto la norma ma ha abrogato l’art. 1 anzidetto.
Questo consente senz’altro di ritenere che la previsione della sospensione dei termini stragiudiziali resti limitata alla originaria zona rossa e solo sino al 31 marzo 2020.
5.Lo Smart Working.
In data 1 marzo 2020 è stato approvato il primo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il cui art. 4 ha stabilito che … la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei Ministri 31 gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti. Gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro.
La previsione è stata confermata dal DPCM del 4 marzo 2020.
Il successivo DPCM dell’8 marzo 2020 ha ulteriormente previsto che gli obblighi di informativa in materia di sicurezza sul lavoro (articolo 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81) sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell'Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro.
In data 11 marzo 2020 è stato emanato un ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il cui articolo 1, fra l’altro, raccomanda di massimizzare l’utilizzo dello Smart Working per quelle attività che possono essere svolte dal proprio domicilio o in modalità a distanza, anche se non interessate dalla sospensione, stabilendone la priorità rispetto ad altre misure contrattuali quali la concessione di ferie e permessi.
Si tratta di una disposizione di fondamentale importanza che, unitamente alla possibilità di deroga alla necessità di accordo tra le parti, fonda un vero e proprio diritto potestativo in capo al datore di lavoro ed un conseguente obbligo del lavoratore.
La previsione, che ben si concilia in termini costituzionali con l’art. 41 co. 2 della Costituzione, disciplina tuttavia una fattispecie di lavoro agile difforme dalle disposizioni contenute negli artt. 18-23 l. n. 81/2017.
Per evitare di ingenerare confusione sarebbe perciò preferibile l’utilizzo di una terminologia diversa da quella della legge n. 81.
In assenza di accordo tra le parti ad esempio su orario di lavoro, strumenti aziendali, tutela delle informazioni, diritto alla disconnessione, etc., sembra più opportuno parlare di homeworking o lavoro a distanza la cui regolamentazione, rimessa totalmente al datore di lavoro, dovrà necessariamente essere la medesima del contratto di lavoro per quanto compatibile con la diversa modalità di prestazione dell’attività.
Resta ovviamente salva la possibilità di una diversa regolamentazione tra le parti che definisca gli ambiti di fruibilità dell’istituto e gli aspetti di dettaglio nel periodo di emergenza indicato dalla norma.
Deve, infine essere fatta menzione:
- dell’art. 39 del d.l. n.18/2020 che testualmente prevede: 1.Fino alla data del 30 aprile 2020, i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.104 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile ai sensi dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. 2. Ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile ai sensi degli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81.
- dell’art. 87 del medesimo decreto legge che sancisce il principio che il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in quanto limita la presenza negli uffici dei dipendenti addetti ai soli lavori indifferibili, con la precisazione che nella gestione della suddetta modalità lavorativa si prescinda dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81.
L’art. 87 ha anche previsto che la prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dall’amministrazione. In tali casi l’articolo 18, comma 2, della legge 23 maggio 2017, n. 81 non trova applicazione.
Infine deve ulteriormente essere osservato - a conferma della diversità dell’istituto dello Smart Working “dell’emergenza” rispetto al lavoro agile disciplinato dalla l. n. 81/2017- che il recente d.l. n. 19/2020 all’art. 1, comma 2, lett. ff) ha previsto la predisposizione di modalità di lavoro agile, anche in deroga alla disciplina vigente, da dottarsi con la procedura del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri indicata dal successivo art. 2.
6.Considerazioni finali
L’analisi della disciplina emergenziale fin qui esaminata mette senz’altro in evidenza che di fronte all'epidemia di Coronavirus Covid-19 il governo è in totale solidarietà con le imprese ed i loro dipendenti.
L’auspicio è che nelle relazioni di lavoro così come in quelle sociali la mobilitazione futura continui ad essere improntata all’imperativo del buon senso, cercando di contemperare la necessità di salvaguardare la salute oltre che i posti lavoro.
Allo stato tutto è molto incerto, ma l’auspicio è che da questa emergenza possiamo uscire più rafforzati come società, con il miglioramento dei rapporti di lavoro e il consolidamento dei valori costituzionali che ci sono tanto cari, tra i quali primo fra tutti il dovere di solidarietà, che mai come in questo periodo deve essere urgentemente salvaguardato a livello universale.
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