ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Deduzione naturale e illogicità manifesta nelle argomentazioni giudiziarie
Angelo Costanzo
Sommario : 1.Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria. - 2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità. - 3. La scelta delle premesse e la logica produttiva. - 4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee.- 4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva. - 4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste. - 4.3. Illogicità manifesta e abduzione. - 4.4. L’erroneità epistemologica manifesta - 5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica.- 6. L’illogicità dialettica manifesta
1. Deduzione naturale e argomentazione giudiziaria
Lo studio della deduzione naturale consente di scomporre i passaggi del ragionamento così da analizzarne l’andamento. Fornisce un metodo per mostrare che una conclusione deriva da certe premesse, ma è un sistema deduttivo senza assiomi (qualunque proposizione può essere introdotta a qualsiasi stadio del ragionamento), basato su una serie di regole di inferenza il cui numero dipende dai connettivi logici che si ritengono accettabili. Nella sua formulazione moderna (a albero) è stata proposta, nel 1935, da Gerhard Gentzen, che per primo introdusse un formalismo logico il più vicino possibile al linguaggio naturale e all’effettivo procedere dei ragionamenti, caratterizzato da regole di introduzione e regole di eliminazione di premesse per giungere, infine, a una conclusione costituita dalla composizione degli enunciati non eliminati[2].
2. Fatti e fattoidi. La tensione verso l’imparzialità
Le ricerche della psicologia sperimentale mostrano che:
a) il ragionamento spontaneo non usa tutte le regole della logica e alcune inferenze gli sono difficoltose (per esempio il modus tollendo tollens e il ragionamento controfattuale);
b) le inferenze sono influenzate dai contenuti e dal contesto delle premesse e si ragiona in modo diverso su problemi formalmente simili ma con premesse dal contenuto diverso;
c) ordinariamente le persone non applicano regole formali per connettere le premesse ma ragionano mediante rappresentazioni mentali (modelli) costruite, decostruite e ricostruite sulla base del contenuto delle premesse e delle conoscenze.
La peculiarità del ragionamento giuridico - che si caratterizza per la sua necessità di guardare ai fatti non nella loro complessità ma come a possibili fattispecie concrete di fattispecie normative astratte - accentua il rischio di ancorarsi fallacemente a degli stereotipi. Questa è una delle ragioni per le quali un eccesso di esperienza in un dato settore può persino diminuire la qualità della attività professionale.
Il pensiero non esiste propriamente se non quando è anche riflessione su se stesso (meta-cognizione) e vigilanza psicologica sulla sua tendenza a fallare. La soluzione di problemi richiede consapevolezza della formazione dei concetti usati e dello svolgersi dei connessi processi di categorizzazione, della natura e dei limiti del tipo di inferenze utilizzate, dell’articolarsi dei giudizi di somiglianza e delle analogie, degli esatti termini di un ragionamento probabilistico o di una ipotesi di spiegazione causale, della importanza della flessibilità nel passare dalla struttura superficiale a quella profonda di un problema e della capacità di adottare percorsi di ragionamento che non inibiscano la loro successiva rivisitazione critica. Particolare difficoltà sorge quando la incertezza impone al decisore di tenere compresenti più soluzioni.
La stessa persona muta lo stile dei suoi giudizi secondo l’oggetto della decisione e i propri stati psicologici, anche tendendo a utilizzare informazioni non contenute nelle premesse per decidere se una conclusione segue da quelle premesse (c.d. effetto di congruenza con le credenze).
Le condizioni psicofisiche possono distorcere il percorso della decisione, rendendo difficoltoso reggere il dubbio (cioè mantenere come compossibili ipotesi fra loro discordanti) e resistere alle suggestioni fuorvianti. Lo stato d’animo prevalente di un soggetto può focalizzarne l’attenzione su alcuni aspetti e orientare il recupero dalla memoria di dati consoni a quello stato rendendoli disponibili più di altri. La vigilanza psicologia sui propri ragionamenti e sulle proprie propensioni emozionali ha un costo psichico ma l’impegno a pensare al problema prima di provare attiva la volontà di non costruire tesi parziali.
L’arte di ragionare si sviluppa con la capacità di pensare il contrario dell’ipotesi di partenza. Gli errori più comuni derivano dall’adagiarsi sul già valutato, non accorgendosi di controragionamenti a volte persino ovvi. Invece, l’affinarsi dei ragionamenti deriva dalla dialettica fra gli schemi già utilizzati e i nuovi dati che richiedono un riequilibrio delle conoscenze. Si conosce tramite i confronti fra posizioni contrarie (la misura dell’equilibrio fra i contrari porta alla precisione dei particolari: lucem demonstrat umbra), soprattutto tramite la consapevolezza della differenza fra quello che ci si aspettava e quello che si è trovato. Allora, dietro ogni soluzione prescelta può intuirsi la moltitudine delle soluzioni rifiutate.
Sappiamo che l’attività razionale della mente costituisce una minima porzione delle sue dinamiche. Le componenti emotive e affettive dominano sul ragionamento e possono condurre a cercare conferme a intuizioni fallaci. Negli itinerari mentali si intrecciano percorsi euristici e percorsi analitici e spesso i secondi vengono adoperati per coprire le fallacie dei primi, per razionalizzare intuizioni e precomprensioni. A volte, prevale la propensione verificazionista (corroborazionista) che enfatizza gli elementi confermativi della responsabilità dell’imputato, assecondando la naturale propensione della mente a ricercare la conferma di un’idea acquisendo nuove informazioni coerenti con la stessa e a espungere i dati contrari. I suoi rischi non devono eclissare quelli della opposta inclinazione negazionista: esiste la tendenza a negare o a ridimensionare alcuni generi di fatti illeciti (ad esempio: i reati più disturbanti o le condotte colpose più macroscopicamente negligenti o imprudenti) per meccanismi psicologici che possono instaurarsi nei testimoni e persino nelle vittime (per espungere dalla mente cosciente stati d’animo penosi), estendersi a un intero contesto sociale e penetrare nelle smagliature dell’attenzione degli attori professionali del processo e dei loro consulenti.
3.La scelta delle premesse e la logica produttiva
La natura oggettiva della logica non comporta che essa debba occuparsi solo del giudizio sulle conoscenze già acquisite. Infatti, sue varie articolazioni sono strutturalmente idonee a ampliare la conoscenza: non esiste solo una logica del controllo e della giustificazione delle conoscenze ma anche una logica della scoperta[3]. Basta un minimo di immaginazione logica per prefigurarsi una ipotesi contraddittoria o semplicemente contraria rispetto a quella adottata, per configurare un antimodello delle relazioni fra i dati sul quale si sta lavorando, per ragionare in termini di controfattuali, per costruire un esperimento mentale falsificante la ricostruzione degli eventi che è delineata.
Il metodo analitico di Aristotele nasce dall’esigenza di connettere premesse e conclusioni. a sillogistica ha privilegiato la via che va dalle premesse alle conclusioni (“quale conclusione nasce da premesse date?”), ma per Aristotele era altrettanto interessante trovare le premesse necessarie per dimostrare una data conclusione (“quali premesse per una conclusione data”?), perché lo scopo principale della logica è trovare un metodo che permetta di costruire per ogni problema un discorso che ne prospetti una soluzione [Aristotele: Topica, A1, 100° 18-20; Analytica Priora, A27, 43 a 20-24, B3 90 a 35]. La scoperta non si risolve nel concepire una idea (magari vaga) nuova ma include i metodi di controllo che consentono di precisarne e a volte di modificarne il contenuto: il contesto della giustificazione non è scindibile da quello della scoperta.
Il cosiddetto paradosso dell’inferenza considera che le inferenze non possono essere nello stesso tempo ampliative e corrette. Ma questo vale solo per quelle meramente deduttive, mentre ordinariamente la argomentazione è per sua natura ampliativa perché deve rivelare “per mezzo di alcune proposizioni ritenute vere, una conclusione non evidente [Sesto Empirico, Pyrrohonianum Hypotyposeon].
A tale scopo servono: l’analisi (scomposizione di un ragionamento nelle sue parti o riduzione di un problema a un altro) l’astrazione (estrazione di dati oppure spostamento dell’attenzione da certi aspetti a altri), l’abduzione (l’indizio che conduce all’ipotesi esplicativa), la esplicitazione dei presupposti e la precisazione delle conseguenze di una tesi, l’analogia (che si fonda sulla logica della somiglianza) e l’induzione (che valorizza il reiterarsi di dati analoghi). Queste operazioni intellettuali sono tutte fonti di nuove possibili premesse da introdurre nel ramificarsi dei ragionamenti.
4. L’illogicità manifesta come criterio di eliminazione di tesi erronee
La depurazione di un ragionamento da premesse viziate da fallacie è condizione necessaria - anche se non sufficiente - affinché risulti accettabile.
Il codice di procedura penale italiano considera due categorie (di invenzione legislativa): le illogicità manifeste (che viziano le decisioni e producono la loro nullità) e le illogicità non manifeste (che non producono nullità). La seconda categoria non è rilevante per il giudizio di legittimità, ma lo è per valutare la logicità della ricostruzione dei fatti compiuta nei cosiddetti giudizi di merito e, quindi, comunque, la loro plausibilità.
La “illogicità” è considerata rilevante solo se “manifesta”, come se gli errori logici meno manifesti (quelli più sottili, quelli che a prima vista non sembrano errori) non determinassero egualmente un vizio del ragionamento, spesso rilevante (magari perché più insidioso) e non necessariamente incidente soltanto su aspetti secondari del percorso della argomentazione: un anello della catena inferenziale che non tiene, la smaglia anche se piccolo[4].
In realtà, come è stato è stato osservato, nei ragionamenti giuridici “le esemplificazioni di manifesta illogicità non sono molte, fatta eccezione per qualche patente contraddizione o qualche generalizzazione induttiva troppo affrettata. Forse è più facile incontrare delle manifeste violazioni del senso comune; le quali, tuttavia, non possono identificarsi con le illogicità manifeste, perché in molti casi la logica rilascia verdetti contrari all’intuizione e in altrettanti il senso comune conduce a ragionamenti manifestamene erronei”[5].
La evidenza della illogicità non può essere intesa in senso meramente psicologico (come se potesse dipendere solo dalla attenzione di chi la valuta), ma deve avere una valenza oggettiva, connessa alle basi elementari della logica, valide per tutti e, in parte, anche intuitive.
Il rispetto dei principi fondamentali della logica formale è il livello minimo al di sotto del quale non è ammissibile scendere (il che non esclude che una più evoluta cultura giudiziaria possa aspirare a livelli di maggiore rigore logico). Una premessa che sia manifestamente illogica non deve essere inserita nella argomentazione e, comunque, se scoperta, è un ramo dell’albero del ragionamento che va eliminato (o, ma solo nelle inferenze abdu-induttive, accantonato (per un possibile reinnesto). .
La riduzione della fiducia nella forza della logica che caratterizza molte manifestazioni del pensiero contemporaneo è stata operazione frettolosa e incauta. Tanto più se si valuta che lo sviluppo dello studio della psicologia del pensiero e della linguistica consentono oggi un uso meno ingenuo e fideistico dello strumentario della logica. Allora, sostituire ai limiti (ormai ben conosciuti) delle forme logiche quelli sterminati, vaghi e variamente interpretabili dell’inafferrabile senso comune non sembra operazione fruttuosa.
La tipologia delle illogicità manifeste è strettamente connessa alla struttura del ragionamento che esse viziano.
4.1. Illogicità manifesta e logica deduttiva
4.1.1. La prima forma di illogicità manifesta nella logica deduttiva (ma non soltanto in questa) è la violazione del principio di determinazione. Nel ragionamento, il significato dei termini (delle nozioni, dei concetti e delle idee) deve mantenersi costante. Questo non impedisce che molti termini siano intrinsecamente indeterminati o che il loro significato abbia un nucleo centrale ben definito e frange periferiche più o meno indeterminate: ma quando (come è spesso inevitabile) nei ragionamenti si introducono premesse veicolanti termini indeterminati è importante esserne consapevoli per non cadere nelle varie fallacie dell’equivocazione e non scivolare nella fallacia quaternio terminorum (o del medio ambiguo) che inficia ogni sillogismo (usando lo stesso elemento del discorso, ma con un significato diverso di volta in volta, si crea un quarto termine, pur utilizzando in apparenza solo tre termini distinti, e questo inficia la deduzione).
In secondo luogo, anche se la gran parte dei ragionamenti può svolgersi senza utilizzare il principio di contraddizione, certamente la contraddizione rende insignificante (se non trincerata entro ambiti circoscritti, come suggeriscono le logiche paraconsistenti) ogni discorso riducendolo - per il principio ex contradictione quodilibet sequitur - a un’insalata di parole.
Inoltre, nei ragionamenti ispirati da esigenze pratiche per la regolazione della vita sociale non sono accettabili più di due valori di verità: per il principio del terzo escluso una conclusione o è vero o è falsa: tertium non datur. Si dimostra A, dimostrando che il suo opposto (non-A) è contraddittorio. Sono di questo tipo tutte le dimostrazioni per assurdo e le confutazioni dialettiche, delle quali - però - sono rare le condizioni di possibilità perché le tesi con cui ordinariamente si opera sono fra loro meramente contrarie ma non anche contraddittorie, perciò la eliminazione di una non prova l'altra, rimanendo possibili altre tesi incompatibili con entrambe (tertium datur) e, non autorizza a concludere il discorso.
4.1.2. Senza la posizione di condizioni antecedenti iniziali (postulati, massime di esperienza, endoxa, ipotesi), alle quali collegare le conseguenti, il ragionamento né si avvia né procede. I modi fondamentali del ragionamento condizionale sono: il modus ponendo ponens [(se P allora Q); sussiste P, allora sussiste Q] e il modus tollendo tollens [(se P allora Q); non sussiste Q, allora non sussiste P]. Sono canoni di regole di inferenza dominabili intuitivamente, eppure è facile cadere nelle correlate fallacie: la fallacia della affermazione dell’antecedente [(se P allora Q); sussiste Q allora P] e la fallacia della negazione del conseguente [(se P allora Q); non sussiste P, allora non sussiste Q].
E’ interessante considerare che gli studi sulla psicologia del ragionamento mostrano che le persone, non hanno difficoltà a utilizzare il modus ponendo ponens, ma hanno difficoltà a utilizzare il modus tollendo tollens e, comunque, facilmente incorrono nelle due fallacie del condizionale (affermazione della conseguente e negazione dell’antecedente). Conclusioni affette da queste fallacie vanno eliminar dall’albero del ragionamento deduttivo.
4.2. L’induzione e alcune sue illogicità manifeste
A differenza di quella deduttiva, la logica induttiva mira a ampliare le conoscenze e perciò deve convivere con le cosiddette fallacie del condizionale (in particolare quella della affermazione dell’antecedente), che sono tali nella logica deduttiva, ma che, invece, impregnano necessariamente la logica induttiva, in cui le conclusioni veicolano informazioni (che potrebbe rivelarsi false) maggiori di quelle offerte dalle premesse.
Comunque, anche nella utilizzazione delle variegate espressioni della logica induttiva possono presentarsi della illogicità manifeste prodotte da macroscopiche fallacie: la generalizzazione indebita (o secundum quid, o generalizzazione affrettata) presenta quel è vero in alcuni casi come se fosse vero per ogni caso oppure una conclusione riguardante un'intera classe di oggetti partendo da premesse riguardanti uno solo o su alcuni dei suoi componenti e consiste nel derivare una regola generale a partire da dati insufficienti o inadeguata, o perché relativi a casi speciali o perché il campione considerato non è rappresentativo; la generalizzazione statistica - che si basa su una campionatura ma pretende di avere una conclusione generale; la falsa causa - che fa apparire per causa di un evento qualcosa che non lo è oppure attribuisce arbitrariamente una certa causa a un evento senza aver considerato le concause o le possibili cause alternative.
4.3. Illogicità manifesta e abduzione
Tradotta nel linguaggio giudiziario corrente, l’abduzione si risolve nel ricorso alle massime di (comune) esperienza, ossia a generalizzazioni di senso comune che costituiscono il tramite tra i fatti conosciuti e i fatti da dimostrare ponendosi come premesse maggiori di un ragionamento in cui l'indizio è una premessa minore. Il criterio che regge la massima non può trarsi da un evento singolo quale è quello oggetto di indagine perché, in questo caso, non potrebbe costituire una massima di (precedente) esperienza.
Il ricorso alle massime di esperienza comporta il rischio della fallace confusione fra generalità e generalizzazione insito nella tendenza a attribuire carattere di generalità a quelle che potrebbero rivelarsi mere indebite generalizzazioni, tanto più se si considera che esse si formano secondo vie non vigilate dal rigore del metodo scientifico.
La valutazione atomistica degli indizi è fallace perché trascura che l’indizio - per sua costituzione - è un dato la cui ambiguità va emendata collegandolo a altri. Rifuggire da questa operazione significa accantonare indebitamente elementi di valutazione rilevanti.
All’opposto, l’indebita proliferazione degli indizi (praesumptio de praesumpto) è fallace perché diluisce la valenza sintomatica di un indizio: il giudice, che ben può partire da un fatto noto (indizio) per risalire a uno ignoto, non può porre il fatto (originariamente) ignoto come fonte di una ulteriore presunzione perché la doppia presunzione contrasta con il requisito della sua precisione, richiesto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen..
4.4. L’erroneità epistemologica manifesta
L’utilizzo della conoscenza scientifica nei processi non apporta massime di esperienza ma leggi scientifiche (proposizioni di contenuto generale) da applicare a eventi singoli, con le specifiche problematiche epistemologiche derivanti dalle difformità fra la logica delle asserzioni singolari (che guida la ricostruzione degli eventi singoli) e la logica delle asserzioni generali (che tesse le leggi scientifiche): la confusione fra le due forme di logica può condurre a forme di erroneità epistemologica manifesta. Le tesi che applicano agli eventi singoli leggi scientifiche accettate sic et simpliciter vanno eliminate dall’albero del ragionamento e, eventualmente, accantonate in attesa di una loro opportuna concretizzazione.
5. La composizione dei dati acquisiti: dalla logica all’estetica
5.1. Per risultare logicamente accettabile la argomentazione che organizza i dati raccolti deve risultare consistente (priva di interne incompatibilità). Ma solo una argomentazione coesa (retta da una tesi ricostruttiva) può risultare persuasiva. Spesso l’insieme dei dati acquisiti con una apposita ricerca non è più importante di quello già disponibile con una istruttoria ordinaria e, in molti casi, la conclusione non si raggiunge tanto sviluppando inferenze esplicite da premesse esplicite, ma estraendo dalla serie disordinata di informazioni di sfondo le premesse adatte a renderle coese. Chi argomenta o esamina le altrui argomentazioni solitamente concentra la sua attenzione sulla presenza di incompatibilità nel discorso e si cura di sviluppare ulteriori argomentazioni per sanarle - se mira a confermare il discorso - o per rimarcarle - se mira a confutarlo. Questo atteggiamento è incoraggiato dal fatto che, dopo essere state riscontrate, le incompatibilità pongono problemi ineludibili, mentre le questioni relative alla coesione fra i dati e gli argomenti non emergono con la stessa facilità, né sempre sono immediatamente rilevanti perché affinano il discorso compattandolo, ma non pongono problemi ineludibili.
Il giudizio di coesione costituisce connessioni ragionevoli fra i dati[6]: non appartiene esclusivamente al ragionamento analitico e al mero controllo formale delle enunciazioni, perché comporta la decisione di fare emergere le consonanze tra i vari elementi in ragione del loro collegamento a una certa precomprensione.
La coesione è una qualità graduabile e, più che singoli elementi, concerne porzioni significative del discorso, la concatenazione dei dati e la completezza delle risposte alle questioni che il caso pone.
Inoltre, è instabile perché può mutare secondo l'ampiezza del contesto individuato: può perdersi se il contesto viene ampliato con altri dati (si rischia di sconnettere una argomentazione estendendola oltre misura).
Per la sua maggiore compattezza e per la interna concatenazione fra le sue componenti, una ricostruzione più coesa può risultare preferibile, a altra dalla trama più lasca; a volte la coesione si impianta persino nonostante la presenza di qualche divergenza fra i dati.
Ma la ricostruzione degli eventi può anche essere scartata a causa dei nessi che non riesce a fornire o che fornisce ma non spiega[7]. In altri termini, il giudizio su una certa ricostruzione degli eventi può dipendere dalla sua compatibilità/connessione con i dati acquisiti come anche dalla sua interna composizione: le inadeguatezze non sono così facilmente censurabili come gli errori propriamente logici.
La completezza di una ricostruzione dei fatti è una qualità riassuntiva e unificante della validità delle argomentazioni utilizzate a suo sostegno. Soltanto la incompletezza grave della motivazione può qualificarsi come una modalità attraverso la quale si rende manifesta la sua illogicità, risolvendosi, in definitiva, nel vizio di mancanza di argomentazione. Al di là di questo confine, le disarmonie nella composizione delle argomentazioni, il disordine della esposizione, le ridondanze che ingenerano confusione, non costituiscono illogicità ma inadeguatezze retoriche, che, semmai, possono allertare il lettore perché indici di possibili illogicità (più o meno rilevanti, certamente non manifeste).
In ogni caso, in presenza di premesse fra loro incompatibili, l’interprete deve approdare a una composizione dei dati esente da incompatibilità e questo comporta un impegno mentale che si conclude quando emerge uno spunto per risolvere il problema ricomponendo i dati, rivedendone l’insieme in modo nuovo (la ristrutturazione che, secondo i gestaltisti, prelude allo insight). L’emergere di nuove premesse per un discorso si ha “combinando le idee” e selezionando alcune fra tutte le combinazioni possibili. La produzione di tutte le combinazioni possibili non può essere realizzata soltanto dall’io-conscio (che può produrre un insieme limitato di combinazioni) ma avviene tramite l’io-inconscio che, con la sua libertà e potenza produttiva, può in poco tempo formare una amplissima gamma di combinazioni delle quali soltanto alcune emergono. L’interesse di una combinazione può derivare da un giudizio estetico (in termini di armonia, semplicità, chiarezza economia espositiva) o da una valutazione degli scopi perseguiti. Il risultato può apparire come una posizione apodittica o una intuizione improvvisa (insight), ma ritenerlo veramente tale sarebbe fallace come scambiare il proscenio per la realtà.
5.2. Comprendere equivale a rendersi conto che si ha che fare con qualcosa che può essere espresso dal discorso che si è sviluppato e esposto con “queste parole, in queste posizioni”. La comprensione si raggiunge all’interno del sistema di premesse che si è adottato e “non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto l’elemento vitale della argomentazione”. Essa si traduce in certezza quando è collegata a tutte le domande e a tutte le risposte emerse nel ragionamento che la precede. A questo approdo concorre una convalida estetica della forma discorsiva che espone le giustificazioni delle conclusioni raggiunte[8].
All’inizio si comprende solo ciò che ci si aspetta, ma una riflessione successiva può permettere di rendersi conto di un errore e condurre a una rivisitazione delle premesse del ragionamento.
6. L’illogicità dialettica manifesta
Tuttavia, la chiarificazione del contenuto di una tesi che conduce alla sua accettazione non autorizza ancora la conclusione del ragionamento.
La conclusione (provvisoria) raggiunta va esposta al vaglio dialettico della confutazione: se non le resiste deve essere modificata o sostituita. In sintesi: una base induttiva di dati empirici viene resa coesa da una o più ipotesi ricostruttive e il risultato va sottoposto alle critiche. Vale la formula (induzione & coesione) & assenza di refutazione = prova.
Anche una argomentazione esente da illogicità al suo interno può risultare viziata se omette di confrontarsi con le argomentazioni di segno contrario. La logica della dialettica confutativa si pone su un piano ulteriore rispetto a quella delle affermazioni meramente assertive e il termine “contraddizione” ha avuto origine, appunto, nella prassi dialogica volta a contrastare il pensiero dell’avversario nell’agone giudiziario.
Collaudare un ragionamento esponendolo al confronto con altre tesi richiede operazioni intellettuali che fuoriescono dal discorso sviluppato e vanno oltre il mero controllo della sua logicità. Comportano una attività di metacognizione che non permane senza una vigilanza psicologica che richiede disponibilità di energie mentali e capacità di riflettere sui propri pensieri, individuandone le limitazioni e aprendosi al fluido confronto con altri ragionamenti.
A questa attività la psicologia può fornire utili schemi di comportamento intellettuale per ridurre il rischio di giudicare senza possedere informazioni sufficienti[9] .
Una prima mossa sta nell’individuare i pregiudizi impliciti dubitando della oggettività dei propri credenze e esaminando come queste si sono formate.
Una seconda mossa sta nel generare (o ascoltare) tesi alternative a quella sostenuta, fino a considerare imparzialmente ogni altra ipotesi e non solo l’opposta[10].
Una terza mossa sta nel mantenersi consapevoli che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di induzioni e di loro conferme e che, quindi, la conclusione raggiunta potrebbe essere erronea perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto ritenuto [11].
*Relazione al Convegno svoltosi a Roma il 6/11/2019 presso il Consiglio Nazionale Forense sul tema “Gli errori giudiziari e la loro riduzione: le linee-guida psicoforensi”
[1]Secondo la figura del cosiddetto ‘sorite cinese’: Ch.Perelman -L.OlbrechtsTyteca Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique, Presses Universitaires de France, 1958 (trad.it.di C.Schick, M.Mayer, E.Barassi, Trattato dell'argomentazione.La nuova retorica, Torino, 1966, 242ss (ed.it.1976).
[2] Gli schemi della ‘deduzione naturale’ sono stati evidenziati da Gerahard Gentzen in: Untersunchungen über das logische Schliessen in “Mathematische Zeitschrift”, 39 (1934), 176-210, 430-431 (trad.it. parziale in: D.Cagnoni (ed.), Teoria della dimostrazione, Milano Feltrinelli, 1981, 77-116). O anche: Investigation into logical deduction, in G.Gentzen, Collected Papers, a cura di M.E.Szabo, North-Holland Amsterdam, 1969, p.80.
[3] Sulla questione: C.Cellucci, Le ragioni della logica, Bari, Laterza, 1998, 7ss.; P.Engel, Philosophie et psychologie, Paris, Gallimard, 1996. Trad.it. di. E.Paganini, Filosofia e psicologia, Torino, Einaudi, 2000, 19-21. 23, 46-51, 88-94.
[4] L’indeterminatezza del contenuto di una nozione indubbiamente fondamentale quale è quella di “manifesta illogicità” produce una mancanza di regole al centro del sistema delle regole e rende incerta la separazione fra vizio di legittimità e vizio merito dei provvedimenti giudiziari (A. Costanzo, Anomia della illogicità manifesta, in Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326. All’ampiezza di tale indeterminazione sono connesse alcune delle ambiguità che conducono non infrequentemente il giudizio di cassazione a risolversi in una terza istanza, condizione che è concausa del lievitare del numero dei ricorsi e anche di alcuni limiti della nomofilachia.
[5] M. Benzi, Le fallacie logiche, in “Per uno statuto della Logica nel processo penale. Secondo incontro di studio: “Illogicità manifesta, Fallacia Occulta”, Roma, Sabato 28 Aprile 2012. Scuola Nazionale di Alta Formazione dell’Avvocato Penalista.
[6] A.Cerri (ed.), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico nella sfera giuridica, Atti del Convegno di studi, 2-4/10/2006, Aracne, Roma,2007; F.Modugno, Ragione e ragionevolezza, ESI, Napoli, 2009.
[7] Su questi temi: G.Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Giuffrè, Milano, 2015.
[8] Le due citazioni corrispondono alla Proposizione I.531 e alle Proposizioni, 102-102 di L.Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (I:1945; II: 1947-1949), a cura G.E.M. Ascombe e R.Rhees, Blackwell, Oxford, 1953, [trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1968]. Una sintetica esposizione del rapporto fra giudizio logico e giudizio estetico è sviluppata da Giuseppe Di Giacomo (Dalla logica all’estetica, Parma, Pratiche, 1989).
[9] Sulle questioni che seguono, estesamente e con puntuale bibliografia: G.Gulotta, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati. Commento alle Linee guida psicoforensi per un processo sempre più giusto, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 356-376.
[10] A.Costanzo, L’errore giudiziario come difetto di imparzialità, in: A.Incampo e A.Scalfati (a cura di) , Giudizio penale e ragionevole dubbio, Bari, Cacucci, 2017, pagg. 35-48.
[11] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale. Roma, Laterza, 1990.
«L’EPIDEMIA ESIGE UNA SVOLTA» INTERVISTA AL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA
Flick: «Superare il carcere. Detenuti costretti alla promiscuità nonostante il coronavirus: d’ora in poi si pensi a forme di pena diverse, in cella solo i violenti» *
Intervista di ERRICO NOVI
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L’emergenza potrebbe dunque aiutarci a riscrivere la funzione del carcere nel nostro sistema. A pronunciare un “basta” che non è ispirato a utopie, ma a un profondissimo umanesimo. Trattenuto nella terra dalle radici della concretezza «come l’umanesimo integrale di Jacques Maritain insegna», chiarisce il presidente emerito della Corte costituzionale.
Presidente Flick, di fronte all’incubo di un coronavirus che dilaga in carcere ci rifugiamo nella negazione: non accadrà, sono più al sicuro lì dentro. È il riflesso di una cultura che trasforma ogni condannato in
nemico del popolo?
Abbiamo trasformato l’eccezione in regola, innanzitutto, rendendo normale la deroga. È l’eccezione delle leggi speciali, ad esempio, a essere diventata normalità. Si spiega con una nostra storica vocazione a trascurare le sorti del diverso. La Costituzione prima di tutto, e la nostra Corte costituzionale, si battono in una contesa impari per contrastare una simile indole. I successi sono pochi: l’ordinamento penitenziario del 1975, la definizione delle misure alternative al carcere introdotta undici anni dopo. Poi però la nostra Corte compie un doveroso e opportuno viaggio nelle carceri, per testimoniare a chi è recluso la realtà del mondo di fuori e aprire nello stesso tempo la realtà esterna al carcere, alla comprensione dei detenuti. Solo che mentre la Corte entra dalla porta, la Costituzione esce dalla finestra. Anziché assicurare gli spazi residui di libertà a chi è condannato, la politica criminale travisa le pene alternative in meri strumenti di deflazione.
Senza risolvere davvero il sovraffollamento.
E il sovraffollamento rende impossibile assicurare di fatto dignità ai reclusi. Abbiamo sprecato l’occasione della riforma elaborata dagli Stati generali dell’esecuzione penale: ora è roba buona solo per le librerie. Ma l’emergenza coronavirus ci offre, seppur nella sua tragedia, un’ulteriore occasione.
Anche rispetto all’umanità della pena? E perché mai?
Il sovraffollamento è una delle contraddizioni messe a nudo dall’epidemia, al pari del contrasto fra eroismi e inefficienze del
sistema sanitario.
Presidente, neppure l’incubo di un’epidemia dietro le sbarre riesce a scalfire il riflesso vendicativo che percuote la maggioranza dei cittadini rispetto alla detenzione?
C’è analogia fra la dignità che si nega al detenuto e altre forme di discriminazione: dall’odio immotivato e razziale verso gli ebrei alla violenza contro la donna, che si arriva a uccidere se solo sfugge; dal migrante che è liquidato solo in base a logiche di sicurezza fino al dramma delle ultime ore, ossia l’anziano positivo al coronavirus dirottato nelle case di riposo, trasformate in lazzaretto.
Perché c’è analogia fra l’anziano lasciato morire di Covid e il detenuto?
Si ritiene che una graduale attenuazione del distanziamento sociale imporrà un trattamento differenziato per gli anziani. Poi però usiamo le case di riposo per anziani come deposito per persone contagiate dal virus: paradossale, no? Ecco, è un paradosso del tutto simmetrico a quello per cui prima si pensa di limitare il contagio con lo spauracchio dell’arresto di chi infrange i divieti e poi, proprio in carcere, si tengono le persone esposte al contagio, lì favorito innanzitutto dalla promiscuità. Ecco, qui arriviamo al punto essenziale della riflessione: l’emergenza coronavirus svela impietosamente diverse contraddizioni nel nostro modo di vivere.
Si riferisce alla negazione del diverso, con l’anziano e il detenuto trattati allo stesso modo di chi cinquant’anni fa era abbandonato nei manicomi?
La risposta è sì. Ma una simile crudeltà merita una spiegazione. E il senso ultimo delle discriminazioni è in un modo di vita in cui il profitto ha conquistato la precedenza rispetto alla persona, anche se alla fine delle fini ciascuno muore solo e non si porta niente dietro. Una idea disumanizzante, che però la tragedia dell’epidemia mette a nudo al punto da offrire l’occasione per liberarsene. Il virus viaggia veloce proprio come la globalizzazione, nuova religione del profitto. In un attimo si dematerializza e si sposta tutto, ogni ricchezza, ma in un attimo anche il coronavirus si propaga. Siamo costretti a cambiare, evidentemente.
Impareremo che la globalizzazione può nascondere un retroscena da incubo. Ma perché dovremmo imparare che la pena in carcere è di per sé disumana?
Dinanzi allo spettro di un contagio in carcere, credo sia impossibile non accorgersi che la detenzione inframuraria nega quei residui di libertà personale difesi strenuamente dalla Consulta. Credo sia impossibile non accorgersi che la seconda parte dell’articolo 27, secondo cui la pena non può consistere in trattamenti inumani e deve tendere alla rieducazione, è inattuabile dietro le mura di un penitenziario. L’ergastolo è illegittimo nella sua proclamazione ma legittimo nel suo esercizio, tranne che per i casi ostativi: seppur dopo molti anni prevede una almeno parziale restituzione della libertà. Però ora dobbiamo compiere un ulteriore passaggio dialettico, e comprendere che in realtà la pena inframuraria in sé può essere sì legittima nella sua proclamazione ma è evidentemente illegittima nella sua esecuzione di fatto. Lo si può dire con parole diverse: la privazione assoluta della libertà personale, attraverso la convivenza coatta imposta dal carcere, è di fatto contraria ai principi di tutela della dignità personale scolpiti ai primi articoli della nostra Costituzione.
Se ora a intervistarla ci fosse qualcuno dei rigoristi le chiederebbe come si concilia la sua affermazione con il principio per cui la pena deve essere certa.
Semplice: la Costituzione parla di “pene”, non prevede affatto che il carcere sia l’unica pena. Bisogna fare i conti con una realtà e con modi di pensare diversi, certo. Ma l’emergenza coronavirus potrebbe anche costringerci a fare i conti con una sottovalutazione dell’emergenza carcere analoga ad alcuni errori commessi nella fase iniziale dell’epidemia. Prima i ritardi rispetto alla valutazione di pericolosità del virus in generale; ora si assiste al conflitto fra istituzioni sulla responsabilità della mancata dichiarazione dello stato di emergenza per alcune città lombarde … Vogliamo almeno evitarci il rischio di un terzo, tragico errore proprio sul carcere?
Anche perché non si capisce dove isoleremo i detenuti contagiati.
Incognita che polverizza la tesi di chi considera i detenuti più al sicuro dentro che fuori. Appunto: dove isoleremo i contagiati? Mi perdoni il paragone, ma non possiamo mica ripetere la farsa del Ventennio, quando si spostavano i capi di bestiame in modo da portarli nelle campagne visitate da Mussolini mezz’ora prima che quest’ultimo arrivasse? Spostare non cambia i numeri.
E non c’è il rischio che il panico nelle carceri renda ancora più difficile gestirle?
Se n’è già avuta dimostrazione con le rivolte di inizio marzo. Seppure con diverse variabili, a innescarle sono state soprattutto la paura di perdere i contatti con i familiari, la generale ansia dei reclusi e dello stesso personale di custodia, l’oggettivo carattere di porosità degli istituti di pena. Nei penitenziari c’è un continuo andirivieni di persone che entrano ed escono per lavoro, nonostante la loro pretesa impermeabilità.
Tutti potenziali vettori di contagio.
Contagio esponenzialmente amplificato dall’impossibilità di far rispettare il cosiddetto distanziamento. E non me la sento di condividere le argomentazioni tecniche di chi sostiene che il metro di distanza valga solo per i luoghi pubblici. Mi pare che la contraddizione con quanto previsto per chi è libero sia enorme, tanto è vero che quasi tutti hanno comunque sentito il bisogno di esprimersi rispetto a un simile paradosso.
Ma non tutti pensano che la risposta sia eliminare il sovraffollamento.
C’è chi infatti è convinto che il carcere sia un posto più sicuro di ogni altro ambiente esterno, in tempo di epidemia. Chi, agli antipodi, chiede un’amnistia o un indulto, che però non troverebbero mai una pubblica opinione disponibile ad accettarli, e che sono impedite dall’attuale norma costituzionale. E poi ci sono posizioni mediane: una in apparenza pragmatica che ritiene prioritario, rispetto al carcere, l’allarme nelle case di riposo o nei conventi, e un’altra, molto ma molto condivisibile, che coincide di fatto con il documento inviato alcuni giorni fa dal procuratore generale Giovanni Salvi ai pg di tutte le Corti d’appello, in cui si prefigura una riduzione sia della carcerazione preventiva sia dell’esecuzione penale in carcere pur senza nuovi strumenti giuridici. E ciò vuol dire che tanta gente sta in carcere anche se potrebbe non starci, se i magistrati usassero in senso positivo quella discrezionalità interpretativa che spesso usano in un senso contrario.
È la via maestra?
È al momento la via migliore nel senso che davvero un’interpretazione analogica delle norme in vigore consentirebbe di ridurre le misure e le pene inframurarie. Si tratta della via d’uscita, non a caso condivisa dal procuratore di Milano Francesco Greco, anche se ovviamente non è vincolante; ma implica inevitabili discriminazioni legate alle diversità di interpretazione tra i magistrati. Differenze che potrebbero generare comunque tensioni.
E come se ne esce, è il caso di chiedersi?
Forse ne usciremo solo con la “fase tre”, quando usciremo a rivedere le stelle ma a condizione di accettare un diverso modo di vivere e relazionarsi con gli altri. A quel punto dovremo comprendere che è impossibile scaricare l’emergenza del sovraffollamento in carcere sull’ennesima azione di supplenza compiuta dai magistrati.
Senza lasciarci intrappolare da un braccialetto elettronico.
Non c’erano neppure quando ero ministro della Giustizia, e non è che il tempo da allora sia trascorso utilmente. Premesso che lascio ai colleghi più giovani l’analisi tecnica delle misure, mi limito a osservare che il braccialetto non impedisce l’evasione dai domiciliari, al massimo ci avverte che l’evasione è avvenuta. Alla precedente domanda, come se ne esce, posso offrire una risposta in apparenza provocatoria.
Perché provocatoria?
Tutti dicono che dovremo cambiare modo di vivere. Io dico che dovremmo anche scegliere altre forme di pena diverse dalla privazione della libertà personale. A quelle inframurarie bisognerebbe far ricorso solo quando giustificate dalla violenza e dall’aggressività della persona. Ad esempio per i reati inclusi nel cosiddetto codice rosso.
Riecco il rigorista che subentra e le ribatte: ne verrebbe un messaggio devastante, in termini di mancata deterrenza.
Diffondiamo messaggi sbagliati, che incoraggiano la violazione delle norme, di continuo. Il modo di formulare certe leggi è quasi un invito a violarle. Ripeto: la detenzione in carcere dovrà essere l’estrema ratio.
Forse ora ce la faremo, ma la questione si riproporrà dopo l’emergenza.
Sì, forse è come dice lei. Ora la sfanghiamo, grazie alla supplenza svolta dai magistrati. Ci dovremo pensare dopo, quando non si tratterà solo di rinunciare ai concerti negli stadi. Dovremo pensare anche alla sorte dei detenuti. E anche se farlo comporterà dei rischi. Ma c’è un rischio in qualsiasi cosa.
Il suo è un messaggio in fondo di ottimismo.
Ma sa, dei segnali ci sono. Penso a un accordo firmato di recente da Regione Lazio, Tribunale di Roma, Ufficio esecuzione penale esterna e Università La Sapienza che valorizza i non molti strumenti resi disponibili dal legislatore per agevolare il recupero dei condannati, anche con l’assegnazione di un domicilio a chi non ne ha uno e che solo per questo finisce per scontare la pena in cella.
Sì, presidente: si può essere profondamente in sintonia con la sua fiduciosa previsione. Ma come la mettiamo con quella irriducibile paura del diverso che avvolge i detenuti?
Non a caso ho citato ebrei, donne, migranti, anziani: possiamo farcela a superare tutte le discriminazioni inclusa la paura e il rifiuto di comprendere la condizione del recluso. Possiamo farcela con la cultura. Con l’umanesimo integrale di Maritain. Con la Costituzione che mette in simbiosi l’uguaglianza e la diversità grazie al rispetto della dignità di ciascuno, alla tutela memoria del passato e al progetto del futuro. Possiamo farcela grazie alla consapevolezza che l’umanesimo parziale del profitto e della globalizzazione ci sradica. Nega la solidarietà. E il senso di solidarietà, invece, è la chiave di tutto.
(*) già pubblicata da “Il dubbio”, 8 aprile 2020
Golden Power, emergenza Covid-19 e spirito del tempo
di Michele Perrino
Sommario: 1. Premessa. – 2. Dalla Golden Share al Golden Power: evoluzione della normativa. – 3. L’art. 15 e l’estensione degli obblighi di notifica al Governo. – 4. L’art. 16: attivabilità dei poteri speciali anche in assenza di notifica e ampliamento delle fonti e dei poteri di indagine. – 5. L’art. 17 e l’ampliamento degli obblighi di notifica e di “dichiarazione di intenzioni” nell’art. 120 TUF. – 6. Considerazioni d’insieme. Golden Power e spirito del tempo
1. Premessa.
Nell’incessante produzione normativa legata all’emergenza Covid-19, il tema del c.d. Golden Power occupa una posizione a dir poco singolare.
Un po’ perché si tratta di un tema di non certo immediata comprensione, per non dire pressoché esoterico per la generalità dei cittadini, rispetto a misure come il lockdown delle attività personali ed economiche, il rinvio dei termini processuali o dei pagamenti, o le misure di sostegno finanziario; e un po’ perché anche per gli operatori giuridici si tratta di un tema di non facile approccio, dai contorni sfuggenti, e soprattutto di cui non immediato, o quantomeno non univoco né esaustivo appare il nesso con la pandemia in atto.
Perché, viene da chiedersi, includere una nuova e rafforzativa disciplina dei cd. “poteri speciali” o Golden Power (proveremo a ricordare, fra un attimo, di cosa si tratta) negli artt. da 15 a 17 del decreto dell’8 aprile 2020 n. 23 (al Capo III, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di esercizio di poteri speciali nei settori di rilevanza strategica”), prioritariamente destinato a soccorrere il Paese in preda al contagio del Coronavirus – insieme letale per le persone e per l’economia, paralizzata dalle dovute misure di contenimento – con robuste iniezioni di liquidità e di sollievo finanziario (dal che il nome abbreviato corrente, d.l. “Liquidità”), ed emanato sull’indiscutibile, dichiarata premessa della “straordinaria necessità e urgenza di contenere gli effetti negativi che l'emergenza epidemiologica COVID-19 sta producendo sul tessuto socio-economico nazionale, prevedendo misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di copertura di rischi di mercato particolarmente significativi”, e sulla pure affermata, ma forse un po’ meno prima facie percepibile, “straordinaria necessità ed urgenza di prevedere misure in materia […] di poteri speciali nei settori di rilevanza strategica”?
La ragione che da più parti si adduce è pur sempre quella della protezione, cifra dell’intera legislazione anti-epidemia, qui sotto forma di tutela urgente delle aziende strategiche nazionali: uno scudo, dunque.
Ma si tratta di comprendere meglio da cosa, e da chi.
2. Dalla Golden Share al Golden Power: evoluzione della normativa.
Prima di tentare un pur sintetico esame delle disposizioni in oggetto, converrà un ancor più sommario richiamo ai tratti salienti del tema generale e della sua evoluzione normativa (per una più dettagliata analisi cfr. ad esempio I poteri speciali dello Stato sulle società operanti in settori strategici. Circolare Assonime n. 21/2014, in Riv.soc., 2014, p. 888 ss.); con rapidi cenni che il lettore più informato potrà saltare a piè pari, passando al paragrafo successivo.
Nel parlare anzitutto di “poteri speciali” dello Stato relativamente a società o imprese che gestiscano attività economiche rilevanti per l’interesse pubblico, un primo gruppo di prerogative a venire in rilievo sono quelle che la legge attribuisce(va) o consente(iva) di attribuire allo Stato, mediante facoltà di nominare componenti degli organi di gestione o di controllo o riconoscimento di altri diritti amministrativi, in virtù di apposita disposizione di statuto, relativamente a: a) società per azioni cui partecipi o in cui detenga strumenti finanziari partecipativi, ai sensi del previgente art. 2458 c.c. e (dopo la riforma ex d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) dell’attuale art. 2449 c.c.; b) e perfino in mancanza di partecipazione azionaria, in virtù dei previgenti artt. 2459 (ante riforma 2003) e 2450 c.c., quest’ultimo definitivamente abrogato dall'art. 3, comma 1, d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, conv. in l. 6 aprile 2007, n. 46, tenuto conto della procedura d’infrazione n. 2006/2014 al riguardo avviata dalla UE per violazione degli artt. 56 e 43 Trattato CE.
Si tratta però di poteri – nella porzione residua del solo superstite art. 2449 c.c. – non specificamente funzionalizzati, tantomeno alla protezione da pericoli per l’interesse nazionale, e comunque abbastanza limitati; in ogni caso, per lo più inidonei, di per sé, a porre direttamente veti o preclusioni al compimento di atti, deliberazioni o acquisizioni concernenti asset strategici per l’interesse nazionale, sì da apparire tutto sommato distanti dal fenomeno dei poteri speciali ora in esame.
Più in tema, ed anzi in qualche modo progenitore dell’odierna disciplina è il d.l. 31 maggio 1994, n. 332, recante “Norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni”, che nel quadro dell’ormai (anche culturalmente) remoto processo di privatizzazione, svoltosi negli anni ’90 dello scorso secolo, introduceva all’art. 2, rubricato appunto “Poteri speciali”, la possibilità che in alcune società, appositamente individuate con d.p.c.m. “tra le società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi”, prima di ogni atto idoneo a determinare la perdita del controllo statale potesse essere introdotta, con deliberazione dell'assemblea straordinaria, una clausola attributiva al Ministro dell'economia e delle finanze della titolarità di uno o più dei poteri speciali di cui appresso, da esercitare di intesa con il Ministro delle attività produttive.
Di tali poteri si fornirà di seguito un sintetico elenco, secondo la formulazione nel tempo assunta dalle relative previsioni, che solo a partire dal 2003 (segnatamente, a seguito dell’art. 4, commi 227 e 228, l. 24 dicembre 2003, n. 350) si preoccupano di dare evidenza dell’imprescindibile necessità di giustificare, con espressa motivazione, l’esercizio degli stessi poteri con richiamo ad interessi pubblici superiori ed irrinunciabili (inclusi “sopravvenuti motivi imperiosi di interesse pubblico”, recita il comma 228):
- l’opposizione all’assunzione da parte di un soggetto di partecipazioni rilevanti, come ivi definite al comma 1, lett. a), “qualora il Ministro ritenga che l'operazione rechi pregiudizio agli interessi vitali dello Stato”, con effetto di sospensione del diritto di voto e di obbligo di alienazione entro un anno, giudizialmente coercibile (art. 2, comma 1, lett. a);
- l’opposizione alla conclusione di patti parasociali, di cui all’art. 122 T.U.F., che includano percentuali significative del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto, anche qui da motivarsi “in relazione al concreto pregiudizio arrecato dai suddetti accordi o patti agli interessi vitali dello Stato”, con conseguente inefficacia delle stesse convenzioni (art. 2, comma 1, lett. b);
- il veto “all'adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell'azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all'estero, di cambiamento dell'oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri” suddetti, veto anch’esso debitamente motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato” (art. 2, comma 1, lett. c);
- oltre che la poco significativa “nomina di un amministratore senza diritto di voto” (art. 2, comma 1, lett. d).
È, quello ora succintamente richiamato, il noto e discusso istituto della Golden Share, alla cui formulazione a così larghe maglie si contestava ben presto, per la sua stessa imprecisione e genericità, la violazione di libertà fondamentali sancite dai trattati europei – libera circolazione dei capitali e libertà di stabilimento –, cui neppure il successivo d.p.c.m. 10 giugno 2004, intitolato alla “Definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali, di cui all'art. 2 del D.L. 31 maggio 1994, n. 332”, valeva a porre rimedio, con il sancire che i poteri in questione dovessero essere “esercitati esclusivamente ove ricorrano rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale, in particolare con riferimento all'ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi, anche mediante l'eventuale previsione di opportuni limiti temporali, fermo restando il rispetto dei princìpi dell'ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione”.
Così, su ricorso della Commissione europea, con sentenza del 23 maggio 2000 n. 58/99, la Corte di Giustizia statuiva che “la Repubblica italiana, adottando gli artt. 1, n. 5, e 2 del testo coordinato del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 1994, n. 474, recante norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni, nonché i decreti relativi ai "poteri speciali" nel caso delle privatizzazioni dell'ENI SpA e di Telecom Italia SpA, è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza degli artt. 52, 59 del Trattato CE (divenuti, in seguito a modifica, artt. 43 CE e 49 CE) e 73 B del Trattato CE (divenuto art. 56 CE); e con successiva sentenza del 26.3.2009, n. 326, ancora la C.Giust. statuiva che “La Repubblica italiana, avendo adottato le disposizioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 giugno 2004, recante definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali, di cui all’art. 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modifiche, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 43 CE e 56 CE”.
Poco più tardi, nel novembre 2009, la Commissione europea apriva una procedura d'infrazione (n. 2009/2255) in ordine alla disciplina generale italiana dei poteri speciali attribuiti allo Stato nell'ambito delle società privatizzate, ritenuta lesiva della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali garantite dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, deferendo l’Italia alla Corte di giustizia dell'Unione europea con ricorso ex art. 258 TFUE.
Di qui la “ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di modificare la disciplina normativa in materia di poteri speciali attribuiti allo Stato nell'ambito delle società privatizzate”, posta a premessa del successivo d.l. 15 marzo 2012 n. 21, conv. in l. 11 maggio 2012 n. 56 (v. per un primo commento E.Freni, Golden share: raggiunta la compatibilità con l’ordinamento comunitario?, in Giornale dir.amm., 2013, p. 25 ss.), con il quale da un regime di Golden Share si realizzava il passaggio ad un sistema ribattezzato Golden Power:
- non più limitato a società privatizzate, ma esteso a tutte le società che svolgono attività di rilievo strategico;
- sganciato dalla titolarità da parte dello Stato di partecipazioni nelle imprese strategiche in questione;
- specificamente giustificato, sul piano finalistico, dalla tutela contro minacce di grave pregiudizio agli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1), nonché agli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti (art. 2).
Il nuovo testo prefigura peraltro un successivo sistema di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con altri Ministri ivi precisati, per la individuazione puntuale delle attività, delle reti e degli impianti, dei beni e dei rapporti di rilevanza strategica nei settori come sopra individuati, nei quali esercitare i poteri speciali di cui meglio si dirà più avanti; decreti alla cui progressiva entrata in vigore si prevede cesseranno di pari passo di avere efficacia i poteri speciali di cui all’art. 2 del precedente d.l. n. 333/1994, fino alla sua definitiva abrogazione (solo) con l’entrata in vigore dell’ultimo decreto a completamento dei settori in questione (cfr. art. 3, comma 2, d.l. n. 21/2012).
In questo quadro, un primo flusso di norme regolamentari prende forma nel 2014:
- il d.p.r. 19 febbraio 2014, n. 35 e il d.P.R. 25 marzo 2014, n. 86, individuano le procedure per l’attivazione dei poteri speciali, rispettivamente, nei settori della difesa e della sicurezza nazionale e dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni;
- con il d.p.r. 25 marzo 2014, n. 85 sono stati indicati gli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni;
- il d.p.c.m. 6 giugno 2014, n. 108, specifica le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale;
- il d.p.c.m. 6 agosto 2014: istituisce presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un Gruppo di coordinamento interministeriale, all’interno del quale siedono rappresentanti della Presidenza stessa e componenti designati dai Ministeri interessati; individua il Dipartimento per il coordinamento amministrativo quale ufficio responsabile delle attività di coordinamento, delle attività propedeutiche all’esercizio dei poteri speciali e delle attività istruttorie; attribuisce al Presidente del Consiglio un ruolo di coordinamento delle attività propedeutiche all’esercizio dei poteri speciali.
Questi ultimi poteri, da esercitare secondo criteri oggettivi e di non discriminazione (cfr. art. 2, comma 7, d.l. n. 21/2012), si riconducono essenzialmente a tre specie:
- imposizione di specifiche condizioni e/o prescrizioni rispetto al compimento di atti, contratti, altri accordi, deliberazioni, acquisto di partecipazioni o di beni strategici, anche mediante imposizione all’acquirente di impegni diretti a garantire la tutela degli interessi nazionali in gioco;
- veto all’adozione di delibere, atti od operazioni dell’assemblea o degli organi di amministrazione di un’impresa;
- opposizione all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in un’impresa, idonee a compromettere o mettere a repentaglio gli interessi strategici di volta in volta contemplati dalla disciplina applicata.
Con il successivo art. 14, d.l. 16.10.2017, n. 148, conv. in l. 4 dicembre 2017, n. 172, l’art. 2 d.l. n. 21/2012 viene accresciuto di un comma 1-ter, in forza del quale le aree destinate a formare oggetto dei decreti regolamentari di attuazione e specificazione di cui sopra, ai fini della verifica in ordine alla sussistenza di un pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico, vengono estese ai “settori ad altra densità tecnologica”, quali: a) le infrastrutture critiche o sensibili, tra cui immagazzinamento e gestione dati, infrastrutture finanziarie (per il significato di quest’ultima nozione cfr. S. Alvaro, M. Lamandini, A. Police, I. Tarola, La nuova via della seta e gli investimenti esteri diretti in settori ad alta intensità tecnologica. Il golden power dello Stato italiano e le infrastrutture finanziarie, in Quaderni giuridici Consob, n. 20-gennaio 2019, p. 44 ss., ove la condivisibile lettura per cui, considerato anche l’anzidetto collegamento con i “settori ad alta densità tecnologica”, “nei mercati finanziari (mobiliari) le infrastrutture finanziarie sono rappresentate da quelle reti o piattaforme elettroniche (sistemi multilaterali) che forniscono servizi di negoziazione, compensazione, regolamento e comunicazione in relazione a titoli e operazioni su strumenti finanziari”, cfr. ivi p. 45); b) tecnologie critiche, compresa l'intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, le tecnologie con potenziali applicazioni a doppio uso, la sicurezza in rete, la tecnologia spaziale o nucleare; c) sicurezza dell'approvvigionamento di input critici; d) accesso a informazioni sensibili o capacità di controllare le informazioni sensibili.
Ancora più tardi, il d.l. 25 marzo 2019, n. 22 (conv. in l. n. 41 del 20 maggio 2019), introduce nel decreto-legge n. 21/2012 l’articolo 1-bis, che disciplina l’esercizio di poteri speciali – nel senso del potere di veto o dell’imposizione di specifiche prescrizioni e condizioni – inerenti le reti di telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G, con riferimento in particolare a contratti o accordi, stipulati a qualsiasi titolo, con soggetti esterni all’Unione europea, aventi ad oggetto l’acquisizione di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti relative ai servizi di comunicazione elettronica basati sulla tecnologia 5G; o all’acquisizione, mediante operazioni a qualsiasi titolo, di componenti ad alta intensità tecnologica funzionali alla predetta realizzazione o gestione, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea.
Alcuni mesi più tardi, il d.l. 21 settembre 2019, n. 105 (conv. in l. n. 133 del 18 novembre 2019 ) estende ancor più l’ambito operativo delle norme in tema di poteri speciali esercitabili dal Governo nei settori strategici, avendo speciale riguardo alla comunicazione elettronica ed alla sicurezza nazionale cibernetica, coordinandolo al contempo con l’attuazione del frattanto approvato Regolamento 19 marzo 2019, n. 2019/452/UE, in materia di controllo degli investimenti esteri diretti nell'Unione europea (che diverrà definitivamente applicabile dall’11 ottobre 2020, cfr. art. 17 Reg.).
E si viene così all’ulteriore rafforzamento recente, nel pieno dell’emergenza COVID-19.
3. L’art. 15 e l’estensione degli obblighi di notifica al Governo.
Ancora una volta, serve qui un sommario dei punti essenziali, in cui si snoda l’ampliamento dei poteri speciali del Governo in materia di aziende strategiche, previsto dalle disposizioni appena introdotte dal d.l. n. 23/2020 mediante tre articoli, dal 15 al 17 (per una prima sintesi cfr. I.Pollastro, La tutela delle imprese italiane: tra misure adottate (golden power) e misure suggerite (voto maggiorato), in Il diritto dell'emergenza: profili societari, concorsuali, bancari e contrattuali, a cura di M.Irrera, Torino, Regolazione, Etica e Società - Centro Studi D’impresa, p. 80 ss.); articoli densi di richiami incrociati, invero di ardua decifrazione, se non per l’interprete munito di idonee banche dati giuridiche, e intesi a novellare incisivamente testi normativi – specie i richiamati d.l. n. 21/2012 e d.l. n. 105/2019 – già costellati nel tempo da modifiche e perciò irti di numerali latini, negli articoli e nei loro stessi commi (bis, ter, quater….).
Con l’art. 15, anzitutto, gli obblighi di notifica alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, già previsti dal d.l. n. 21/2012 e dai correlati regolamenti attuativi al fine dell’eventuale esercizio da parte del Governo dei “poteri speciali” ivi previsti per motivi di sicurezza e ordine pubblico, vengono ora ampliati, e ciò in larga parte:
- nel senso di una anticipazione, in chiave di immediatezza di intervento, rispetto a disposizioni che avrebbero dovuto essere comunque in seguito adottate con appositi d.p.c.m., a integrazione del suddetto d.l. n. 21/2012, per quanto previsto dal d.l. 105/2019, anche in considerazione della disciplina europea frattanto introdotta in materia dal citato Reg. UE 19 marzo 2019, n. 452;
- nonché nel senso di una integrazione della disciplina transitoria che lo stesso d.l. n. 105/2019 aveva già introdotto, nell’attesa del completamento dei predetti d.p.c.m. attuativi.
In particolare, e per questa parte della novella, l’ampliamento degli obblighi di notifica al Governo è ora disposto:
- quanto ai beni e rapporti di rilevanza strategica protetti (i c.d. attivi strategici), a tutti i settori contemplati dall’art. 4, comma 1, lettere da a) ad e), del Reg. UE n. 452/2019, e cioè:
- quanto alle operazioni oggetto di notifica, con disposizione transitoria vigente fino al 31.12.2020 (attendendosi frattanto l’avvento dei d.p.c.m. di cui sopra) ed al qui espresso “fine di contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi”:
Il previsto ampliamento peraltro va ora ben al di là della stessa disciplina europea soprarichiamata e della sua anticipata attuazione in via d’urgenza.
Mentre infatti il citato Reg. UE n. 452/2019 ha espressamente ad oggetto l’istituzione di “un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell'Unione da parte degli Stati membri per motivi di sicurezza o di ordine pubblico”, riguardando cioè i soli investimenti in attivi strategici da parte di un investitore estero, definito quale “una persona fisica di un paese terzo o un'impresa di un paese terzo che intende realizzare o ha realizzato un investimento estero diretto” (cfr. art. 2, n. 2), l’odierna disciplina italiana estende gli obblighi di notifica, ai fini dei controlli da Golden Power, benché anche qui con previsione temporalmente limitata fino al 31.12.2020:
- “agli acquisti a qualsiasi titolo di partecipazioni, da parte di soggetti esteri, anche appartenenti all'Unione europea”, ove la partecipazione assuma l’anzidetta rilevanza di insediamento stabile;
- agli “acquisti di partecipazioni, da parte di soggetti esteri non appartenenti all'Unione europea, che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento, tenuto conto delle azioni o quote già direttamente o indirettamente possedute, e il valore complessivo dell'investimento sia pari o superiore a un milione di euro”, quindi al di sotto di, o a prescindere dalla assunzione di quote definibili come di controllo; nonché alle acquisizioni da parte degli stessi soggetti “che determinano il superamento delle soglie del 15 per cento, 20 per cento, 25 per cento e 50 per cento”.
V’è di più.
Ai sensi dell’art. 2, comma 6, d.l. n. 21/2012, nel testo finora vigente, il Governo può attivare i propri poteri di controllo qualora l’acquisto di partecipazioni rilevanti, nel senso di partecipazioni idonee alla creazione di un insediamento stabile, “comporti una minaccia di grave pregiudizio agli interessi essenziali dello Stato di cui al comma 3 ovvero un pericolo per la sicurezza o per l'ordine pubblico”; prendendo a tal fine in considerazione, in base alla successiva lett. a), il fatto “che l'acquirente sia direttamente o indirettamente controllato dall'amministrazione pubblica, compresi organismi statali o forze armate, di un Paese non appartenente all'Unione europea, anche attraverso l'assetto proprietario o finanziamenti consistenti”.
Orbene, con disposizione anch’essa transitoria vigente fino al 31.12.2020, l’art. 15 in esame, aggiungendo una lett. c) al nuovo art. 4-bis, comma 3-bis, d.l. n. 109/2015 (ecco gli eloquenti numerali latini!), dispone che la stessa valutazione di rischio ex art. 12, comma 6, lett. a), d.l. n. 21/2012, “si applica anche quando il controllo ivi previsto sia esercitato da un'amministrazione pubblica di uno Stato membro dell'Unione europea”.
In definitiva, gli obblighi di notifica al Governo sono estesi qui grandemente, riguardo sia al novero degli attivi considerati strategici, sia agli atti ed alle operazioni ritenuti idonei a incidervi ponendo a repentaglio gli interessi nazionali; con un’ulteriore blindatura, che dal perimetro europeo verso i Paesi terzi accresce ora la fortificazione delle stesse mura nazionali nell’area (forse, sempre meno) comune endoeuropea, rispetto agli operatori degli altri Paesi membri.
4. L’art. 16: attivabilità dei poteri speciali anche in assenza di notifica e ampliamento delle fonti e dei poteri di indagine.
Appena un po’ più agevole è la lettura dei successivi due articoli.
L’art. 16 modifica gli artt. da 1 a 2-bis del d.l. n. 21/2012, nel senso anzitutto di abilitare il Governo ad attivarsi per l’eventuale esercizio dei c.d. poteri speciali anche nel caso di violazione degli obblighi di preventiva notifica degli atti e operazioni che vi sono soggetti, con correlativo slittamento dei termini procedimentali per l’esercizio degli stessi poteri, a decorrere dall’accertamento dell’inottemperanza agli obblighi di notifica; ferma restando l’applicazione delle sanzioni previste dallo stesso d.l. n. 21/2012 per i casi di inosservanza degli stessi obblighi di notifica, che vanno dalle sanzioni amministrative pecuniarie fino alla nullità di atti, delibere ed operazioni eventualmente poste in essere.
Inoltre, con riguardo ai poteri speciali inerenti gli specifici attivi strategici, costituiti dalle reti di telecomunicazione elettronica con tecnologia 5G, di cui all’art. 1-bis, d.l. n. 21/2012, la valutazione demandata al Governo di rilevanza delle acquisizioni di tali attivi, dal punto di vista della tutela del sistema di difesa e sicurezza nazionale, include ora, fra “gli elementi indicanti la presenza di fattori di vulnerabilità che potrebbero compromettere l'integrità e la sicurezza delle reti e dei dati che vi transitano”, anche “quelli individuati sulla base dei principi e delle linee guida elaborate a livello internazionale e dall'Unione europea“ (parole aggiunte all'articolo 1-bis, comma 2, ultimo periodo, d.l. n. 21/2012); così da ampliare l’area informativa, a supporto motivazionale per l’eventuale irrogazione di “una tutela rafforzata rispetto ad una tecnologia potenzialmente fondamentale in situazioni critiche e costituente una risorsa vitale per gli interessi pubblici in caso di emergenze nazionali, ivi incluse quelle sanitarie” (così la relazione illustrativa al d.l. n. 23/2020, p. 16).
Sempre nell’ottica di arricchimento del patrimonio informativo e valutativo, in vista di un più consapevole esercizio dei c.d. poteri speciali, viene integrato l’art. 2-bis, d.l. n. 21/2012, già rubricato “Collaborazione con autorità amministrative di settore”, prevedendo che il Gruppo di coordinamento interministeriale (come già detto) istituito – ex D.P.C.M. 6 agosto 2014 – presso la Presidenza del Consiglio dei ministri possa anche, al fine di raccogliere elementi utili all’applicazione della disciplina del Golden Power, “richiedere a pubbliche amministrazioni, enti pubblici o privati, imprese o altri soggetti terzi che ne siano in possesso, di fornire informazioni e di esibire documenti”; e che agli stessi fini “la Presidenza del Consiglio può stipulare convenzioni o protocolli di intesa con istituti o enti di ricerca”.
Il Golden Power al tempo della pandemia si affranca così dall’impulso della notifica delle parti e si arricchisce di ulteriori elementi istruttori e poteri di indagine, a beneficio di ampiezza e tempestività di azione, ma anche di giustificazione e motivazione delle decisioni di intervento.
5. L’art. 17 e l’ampliamento degli obblighi di notifica e di “dichiarazione di intenzioni” nell’art. 120 TUF.
Infine, l’art. 17 si distingue dagli altri due articoli, per il fatto di non avere direttamente ad oggetto i poteri speciali del Governo nei settori strategici, bensì di attribuire poteri aggiuntivi alla Consob in materia di trasparenza e obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti, previsti dall’art. 120, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.).
In particolare, un prima modifica è apportata al comma 2-bis dell’art. 120, a suo tempo inserito dall'art. 7, comma 3-quinquies, lett. a), d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, conv. in l. 9 aprile 2009, n. 33, con l’originario testo per cui “La CONSOB può, con provvedimento motivato da esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, prevedere, per un limitato periodo di tempo, soglie inferiori a quella indicata nel comma 2 per società ad elevato valore corrente di mercato e ad azionariato particolarmente diffuso”: previsione emanata in piena crisi finanziaria 2007-2009, allorché la grave recessione dell’epoca era apparsa giustificare l’attribuzione alla Consob del potere di abbassare temporaneamente le soglie di comunicazione di partecipazioni rilevanti in società emittenti azioni quotate, onde anticipare l’allerta contro possibili scalate ostili, realizzate profittando di corsi azionari particolarmente depressi, proprio in ragione della profonda crisi di quegli anni.
Analogamente, le accese turbolenze di mercato dei tempi del Coronavirus giustificano ora l’espunzione dal succitato testo del riferimento a società ad elevato valore corrente di mercato, in un momento nel quale la volatilità è tale da impedire l’individuazione stessa di un “valore corrente”, prima ancora che la sua connotazione come “elevato”; lasciando così che la Consob disponga del potere di abbassare le soglie di rilevanza per l’obbligatoria comunicazione delle partecipazioni rispetto a tutte le società “ad azionariato particolarmente diffuso”, così tendenzialmente allargando l’area di trasparenza alle società PMI.
La seconda modifica concerne il comma 4-bis dello stesso art. 120 TUF, originariamente introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 1), d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in l. 4 dicembre 2017, n. 172, che con una disciplina usualmente nota come “antiscorrerie”, prevede la c.d. “dichiarazione di intenzione” da parte del soggetto che acquisti “una partecipazione in emittenti quotati pari o superiore alle soglie del 10 per cento, 20 per cento e 25 per cento del relativo capitale”: imponendo in particolare a tale soggetto, in occasione delle succitate comunicazioni ex art. 120, commi 2 e (ora) 2-bis T.U.F., di “dichiarare gli obiettivi che ha intenzione di perseguire nel corso dei sei mesi successivi”, con indicazione – trasmessa non solo alla Consob, ma anche alla società partecipata ed altresì al pubblico, secondo le previsioni del c.d. Reg. Emittenti, n. 11971/1999 – una serie di dati circa: i modi di finanziamento dell’operazione; se agisce solo o in concerto; le sue intenzioni circa la stabilità e l’evoluzione del suo possesso azionario e l’eventuale volontà di ingerenza nella governance della partecipata.
Con la novella in commento, a tale disciplina si aggiunge ora la previsione che “la CONSOB può, con provvedimento motivato da esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, prevedere, per un limitato periodo di tempo, in aggiunta alle soglie indicate nel primo periodo del presente comma una soglia del 5 per cento per società ad azionariato particolarmente diffuso”: ciò con il chiaro intento di accrescere ulteriormente il livello di trasparenza in fasi storiche, come quella attuale, in cui la volatilità estrema dei mercati possono rendere significativa, in ordine agli intenti come sopra oggetto di obbligo di dichiarazione, anche l’acquisizione di partecipazioni di entità tali, da non essere in altri tempi altrettanto significative.
6. Considerazioni d’insieme. Golden Power e spirito del tempo.
Così pur sommariamente delineato – ché ben altro livello di analisi occorrerebbe, rispetto ad una disciplina tanto densa ed articolata – il quadro delle recenti novità normative in tema di Golden Power e tornando agli interrogativi iniziali, non sembra potersi dubitare anzitutto che l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sia di per sé ragione storica sufficiente per un energico intervento in materia, atto ad armare il Governo di poteri speciali azionabili in settori strategici in difesa dai rischi della pandemia nell’interesse nazionale, sì da costruire un “Golden Power ai tempi del Coronavirus”.
Basti pensare, per un verso, ai pericoli di sabotaggio, accaparramento, intrusione in infrastrutture, apparati, filiere produttive del settore sanitario e più ampiamente della cura della salute e della sicurezza, in un momento epocale di corsa delle Nazioni colpite dal contagio a procurarsi mezzi e presidi sanitari adeguati (la mente va ai recenti ostacoli all’esportazione di mascherine protettive da parte di alcuni Paesi specie extra-UE; ma non si tratta solo del settore sanitario: si pensi alle valutazioni di questi giorni sul programmato massiccio utilizzo del plexiglass nei mesi a venire, come sistema di distanziamento fra le persone), anche a scapito degli altri Paesi.
Per altro verso, pure incombente è la minaccia che, complice l’indomabile volatilità dei mercati, l’inattendibilità del sistema dei prezzi, lo scadimento a valori vili di beni e attività in altri tempi ben diversamente valutabili, il tutto per effetto del cappio all’economia imposto, onde frenare la diffusione del virus, dal fermo delle attività economiche, possano tentarsi e condursi ad effetto “scalate ostili” da parte di riders spregiudicati ed esperti, inclini a profittare del tragico momento per far propri a condizioni predatorie attivi strategici del sistema economico italiano, strettamente correlati a gangli fondamentali dell’interesse nazionale.
Da questo punto di vista, non è allora fuor di luogo riconoscere il nesso fra la disciplina in commento e l’emergenza COVID-19, parlando della prima in termini di “protezione”, di “scudo” contro i rischi propri della pandemia, e perfino di “vaccino contro il virus delle scalate ostili” (come lo avrebbe definito, secondo notizie di stampa, Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio).
Del resto, è la stessa Commissione europea, con la Comunicazione del 25.3.2020 (Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti da paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell'applicazione del regolamento UE 2019/452-regolamento sul controllo degli investimenti esteri diretti, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020XC0326(03)&from=EN; v. https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-dell-emergenza-covid-19/1012-l-unione-europea-contro-la-pandemia-di-covid-19-tra-solidarieta-per-gestire-l-emergenza-sanitaria-e-adattamento-degli-strumenti-esistenti-alla-ricerca-di-un-piano-comune-di-rilancio) pubblicata nel pieno dell’epidemia, ad aver segnalato come lo shock economico da Coronavirus rappresenti un accresciuto rischio potenziale per le industrie strategiche, non solo per quelle connesse al sistema sanitario, ad esempio quelle di produzione di medicinali e di dispostivi medici o protettivi o ancora di vaccini, ma anche per le altre industrie strategiche, in considerazione della volatilità e sottovalutazione dei mercati azionari, considerata la minaccia di intrusione di investimenti stranieri in danno sia dei sistemi economici nazionali che di quello regionale europeo. Con il citato documento la stessa Commissione ha perciò invitato i Paesi membri a fare pieno utilizzo dei loro meccanismi di controllo degli investimenti stranieri diretti, ove occorra dotandosi di idonei meccanismi siffatti (p. 1-2), vigilando affinché l’attuale crisi sanitaria non si risolva in una svendita delle attività commerciali e industriali europee, incluse le piccole e medie imprese (p. 1 Annex).
Sennonché tale Comunicazione della Commissione si correla strettamente al già ricordato Regolamento (UE) 2019/452, e come questo prende in considerazione, quale minaccia da combattere nei settori strategici mediante sistemi di poteri speciali di contrasto, sia a livello nazionale che europeo, gli investimenti esteri diretti, quelli cioè – come già ricordato – provenienti da paesi terzi (lo segnala anche T.Serrani, Golden Power all’epoca del Covid-19, in https://comparativecovidlaw.com/). Ciò non senza rammentare che “l'articolo 63 TFUE dispone la libera circolazione dei capitali non solo all'interno dell'UE, ma anche con i paesi terzi”; e che “le eventuali restrizioni devono essere adeguate, necessarie e proporzionate al conseguimento dei legittimi obiettivi di ordine pubblico”. Ma al contempo anche segnalando ai Paesi membri come, “nel caso di ‘acquisti predatori’ di attività strategiche da parte di investitori esteri”, idonee eccezioni alla libertà di movimento dei capitali possano trarsi dall’art. 65 TFUE, per ragioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, o di sanità pubblica, o “di difficoltà o di grave minaccia di difficoltà per il funzionamento dell'Unione economica e monetaria (articolo 66 TFUE) e per la bilancia dei pagamenti degli Stati membri non appartenenti alla zona euro (articoli 143 e 144 TFUE)”. Nel che sembra leggersi un mutato atteggiamento della Commissione, almeno con riguardo al momento presente della pandemia, rispetto a valutazioni in passato inclini ad un severo e ben meno duttile scrutinio (e cfr., anche per una analisi della giurisprudenza UE, L.Scipione, La «golden share» nella giurisprudenza comunitaria: criticità e contraddizioni di una roccaforte inespugnabile, in Le società, 2010, p. 855 ss.; nonché Circolare Assonime n. 21/2014, cit., p. 895 ss.).
Ma il vero è pure che – è la stessa Commissione nel citato documento a ricordarlo – non soltanto meccanismi nazionali di controllo di investimenti diretti stranieri in settori strategici sono già in vigore in 14 Stati membri (cfr. http://trade.ec. europa.eu/doclib/html/157946.htm), con la Francia quale apripista (cfr., per un quadro comparatistico di qualche anno addietro, G.Scarchillo, Dalla Golden Share al Golden Power: la storia infinita di uno strumento societario. Profili di diritto europeo e comparato, in Contr.impr.Eur., 2015, p. 619 ss.); ma, più ampiamente, in tutto il mondo “si registra la tendenza al sempre più diffuso e penetrante scrutinio degli investimenti esteri da parte dei governi nazionali”, anche quale “risultato della sempre più evidente ‘guerra fredda’, economica e tecnologica, in atto tra Stati Uniti e Cina” (G.Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, in Giorn.amm., 2019, p. 550).
Del tema del Golden Power e della sua ascesa si discute del resto da tempo, ben prima della recente emergenza epidemiologica. Ed “il contrasto in materia tra l’Unione Europea ed i suoi Stati Membri tende ad estendersi, anziché a restringersi” (cfr. L.Scipione, op.cit., p. 856).
Anzi, “il paradosso è che uno strumento normativo nato per adattarsi alle regole europee individua, dal punto di vista geopolitico, alcuni nodi conflittuali interni all’Unione Europea. Questi nodi, invece di ridursi, aumentano” (parole attribuite a A.Aresu, nell’intervista a cura di A.Muratore-I.Giovi, Non solo Eni, il ruolo del golden power. L’analisi di Aresu, in https://www.startmag.it/energia/sistema-paese-aresu/).
Se è così, in uno scenario di crisi delle istituzioni europee, di acute spinte sovraniste e di fortificazione progressiva (e non da adesso) delle trincee economiche nazionali, il rafforzamento del Golden Power nella recentissima legislazione italiana, con l’ampliamento dei settori considerati strategici e la sua prevista estensione anche nei confronti degli investimenti di soggetti appartenenti alla UE, sia pure in via transitoria fino al 31.12.2010, oltre che iscriversi nell’armamentario giuridico del c.d. diritto (della pandemia o) dei tempi del Coronavirus, è forse da leggersi come espressione di un più generale e meno transeunte (rispetto a quanto si spera sia l’emergenza COVID-19) spirito del tempo, quale strumento di collocazione e proiezione geopolitica del Paese nell’agone intra- ed extraeuropeo, nel quale si gioca una partita rischiosa di competizione globale.
Una partita delicata, nella quale, se da un lato “una più decisa tutela degli asset nazionali permette di sedersi al tavolo delle contrattazioni europee con una posizione più forte” (parole attribuite alla senatrice Maria Mantovani, relatrice dell’ultimo d.l. sui “poteri speciali”, nell’intervista a cura di F.Bechis, Proteggere, non bloccare. Il Golden Power spiegato da Mantovani, in https://formiche.net/2020/04/mantovani-golden-power/; e, si badi, non si tratta solo delle contrattazioni sugli aiuti finanziari al tempo del Coronavirus, se nella stessa intervista, nel giustificare perché il focus del nuovo Golden Power sia anche sulle operazioni infra-Ue, si adduce il seguente esempio: “L’Italia ha annunciato di partecipare assieme a Francia e Germania al progetto Gaia X per il cloud europeo. Per farlo bisogna necessariamente mettere degli asset in comune. Se questi asset non sono di proprietà italiana, qualcuno potrebbe chiederci: voi cosa state portando?”), nel che appunto la conferma di una valenza geopolitica della disciplina in esame, consona allo spirito del tempo; dall’altro lato, v’è il rischio che “valutazioni geopolitiche assunte in solitudine” espongano i singoli Stati a “diventare pedine spesso inconsapevoli della guerra fredda in atto tra Stati Uniti e Cina” (cfr. G.Napolitano, op.cit., 551), nel più vasto gioco planetario, ingombro dei colossi dell’era attuale.
Europa e diritti: che fare in attesa del vaccino anti Covid-19?
Intervista all'Avvocato generale della Corte di giustizia Giovanni Pitruzzella
di Roberto Conti
Giustizia Insieme inaugura un ciclo di interviste animate da personalità del mondo accademico, politico e giudiziario intese a stimolare una riflessione critica sul senso che oggi assumono l'Europa, i diritti fondamentali delle persone e le Corti nazionali e sovranazionali per i popoli che animano tale continente, colpiti dall'emergenza epidemiologica globale da Covid-19.
Giovanni Pitruzzella, professore di diritto costituzionale ed in atto Avvocato generale della Corte di giustizia, offre la sua visione bifocale dei problemi, con una lente attenta alle costituzioni nazionali e al ruolo dei diritti fondamentali, individuando dei segnali positivi provenienti dall'Europa politica rispetto al tema della pesante depressione economica che coinvolge in maniera marcata alcuni Paesi europei ma con l'attenzione altresì rivolta al ruolo di garanzia delle Corti sovranazionali e nazionali
Il circuito dell’Europa politica e le difficoltà che sta attraversando possono a Tuo giudizio contaminare l’immagine della Corte di giustizia dell’Unione europea nell’opinione della comunità sociale?
L’Unione europea sta vivendo una fase assai complessa, come è inevitabile di fronte a una crisi sanitaria di “dimensione biblica” (per usare le parole di Mario Draghi) su cui si sta innescando una crisi economica che sarà probabilmente la più grave dal secondo dopoguerra e che provocherà gravi tensioni sociali. Ma non direi, come vuole la propaganda antieuropea, che le istituzioni dell’Unione stiano facendo poco. I programmi di acquisto da parte della BCE per circa mille miliardi di euro, la sospensione, per la prima volta da quando è stato introdotto, del patto di stabilità e crescita e dei suoi vincoli finanziari, il meccanismo europeo di assicurazione contro i rischi di disoccupazione proposto dalla Commissione, l’allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato, l’uso dei fondi strutturali per affrontare l’emergenza sanitaria e nuove forme di solidarietà finanziarie che stanno per essere adottate, sono tutte cose di estrema importanza e che possono condurre a un nuovo livello di integrazione in cui sia sempre più chiaro che esiste un interesse comune europeo distinto dagli interessi degli Stati membri.
La pandemia è spesso paragonata ad una guerra e dai grandi traumi collettivi, come le guerre, sono nati i nuovi ordini costituzionali.
Il terremoto sociale che producono rompe le antiche certezze, nascono nuovi leader, nuovi attori collettivi e nuove idee. Si definiscono così le linee di una costituzione materiale che poi vengono riannodate in un tessuto più organico e successivamente consacrate sul piano giuridico-formale. Nei periodi di accelerata trasformazione e di sconvolgimento dell’ordine esistente dobbiamo prestare attenzione a questo magma che può forgiare una nuova costituzione materiale. Questo è avvenuto nel secondo dopoguerra, da cui ha preso origine un fortunato ciclo costituzionale che è stato capace, per usare la formula di Ralf Dahrendorf, di “quadrare il cerchio” e cioè di tenere insieme armonicamente democrazia, mercato e libertà. Forse oggi all’orizzonte c’è qualcosa di simile anche se al momento non possiamo prevedere quali saranno gli sbocchi e quindi i caratteri distintivi di un possibile nuovo ordine costituzionale.
E’ inevitabile che la Corte di giustizia risentirà, nel bene e nel male, di tale processo di trasformazione e sulla Corte probabilmente graverà il compito di razionalizzare, sul terreno giuridico, le trasformazioni che verranno, naturalmente operando nei limiti consentiti dalle disposizioni dei Trattati. Del resto, fin dalle storiche sentenze Van Gend en Loos e Costa c. Enel, che hanno definito i tratti fondamentali dell’ordinamento giuridico europeo e i suoi rapporti con gli ordinamenti statali, poi, per quanto concerne il mercato comune con l’altrettanto fondamentale sentenza Cassis de Dijon, e successivamente promuovendo l’affermazione di un’”Europa dei diritti”, la Corte di giustizia ha contribuito a forgiare l’ordine costituzionale europeo. Ma anche in momenti più recenti la Corte ha affrontato le sfide dei tempi, per esempio con le decisioni che hanno consolidato quello che secondo me è stato un vero e proprio mutamento della costituzione economica europea a seguito della crisi finanziaria del 2011. Ricordo le decisioni che hanno riconosciuto la compatibilità con i trattati del ruolo assunto dalla BCE, a partire dal famoso whatever it takes di Mario Draghi, adottate nei casi Gauweiler e Weiss, ma anche la sentenza nel caso Pringle, che ha concluso per la compatibilità del MES con i Trattati, e l’altrettanto importante decisione nel caso Ledra che ha creato la spazio per la tutela dei diritti fondamentali nei confronti delle misure di austerità. Un’eguale forza costituzionale hanno le ancora più recenti sentenze (del 24 giugno 2019 e del 19 novembre 2019) riguardanti alcune leggi della Repubblica di Polonia sull’ordinamento giudiziario, in cui la Corte ha riconosciuto lo Stato di diritto come pilastro dell’integrazione e ha visto nell’indipendenza del potere giudiziario un principio che gli Stati sono tenuti a rispettare.
Interpretazioni evolutive, funzione “pretoria”, conformazione giurisprudenziale dell’assetto costituzionale richiedono un forte capitale in termini di legittimazione, che fin ora alla Corte non è mancato. Ma alla fine, come per qualsiasi Corte costituzionale, queste risorse di legittimazione affondano le loro radici nella stessa costituzione materiale e quindi nel grado di accettazione diffusa presso le società politiche nazionali e le comunità dei giuristi. Il mutamento che può essere innescato dalla pandemia, i cambiamenti della costituzione materiale avranno una probabile influenza su questo capitale accrescendolo o intaccandolo a seconda degli sbocchi che essi potranno avere. Naturalmente conterà pure quello che in concreto sarà capace di fare la Corte, come si relazionerà con i giudici nazionali, che sono anche giudici europei e con cui il dialogo è stato sempre fecondo.
Hai parlato di un processo di cambiamento della costituzione materiale in Europa, puoi spiegare meglio cosa intendi con questa espressione e come esso riguarderà gli Stati membri e l’Unione? In che misura ritieni che le vicende costituzionali degli Stati membri e quelle dell’Unione siano collegate?
Ho fatto riferimento al concetto di “costituzione in senso materiale” che spesso fa storcere il naso ai costituzionalisti d’oggi. Ma io credo che quando ci sono dei grandi traumi che innescano un processo di profondo cambiamento della società e della politica la nozione, sulla base dell’originale intuizione di Costantino Mortati, sia di grade utilità. Semplificando un po’, il passaggio chiave della visione di Mortati è l’idea che nella società esistono dei rapporti di sovra e sotto-ordinazione che si stabiliscono fattualmente e che le conferiscono un ordine che è fondato sulle classi dirigenti e i fini politici dominanti. In questa prospettiva la forza della costituzione scritta non deriva dal fatto di essere scritta ma discende da una situazione storico-concreta su cui essa si fonda e che tende a stabilizzare e a garantire, ponendo dei limiti all’agire politico. Pertanto, la nozione di costituzione in senso materiale non è, come da taluno è stata erroneamente intesa, uno strumento per giustificare ogni pratica politica contingente, anche quando collide con la costituzione formale, piuttosto l’indicazione che offre sta nel fatto che non ha senso richiamarsi all’astratta forza di norme scritte in un testo costituzionale, se questo non corrisponde ad un sistema costituzionale materiale che lo sorregge rendendolo vigente. Lungo questi binari concettuali si inserisce l’idea che il mutamento costituzionale si collega sempre ad una trasformazione dell’ordine storico-concreto su cui riposano i documenti costituzionali, con la conseguenza che se viene meno quell’ordine anche i documenti costituzionali perdono effettività e se l’ordine cambia nelle sue strutture fondamentali e il cambiamento si consolida si apre la strada a un mutamento costituzionale, o per via di modifiche tacite del documento costituzionale o per via di procedure formali.
Tutto ciò, secondo me, può applicarsi non solo allo Stato ma anche a quella organizzazione sovranazionale che è l’Unione europea, rispetto alla quale, come da tempo ha fatto la Corte di giustizia, si è parlato di una costituzione europea identificata essenzialmente con i trattati come interpretati nella giurisprudenza dei giudici europei (la living constitution europea). Una costituzione europea che – a mio parere - poggia la sua effettività su un certo ordine politico che ha retto le sorti del vecchio continente per circa settanta anni, sia pure con importanti trasformazioni ma con una continuità di fondo. Quest’ordine si intrecciava con quello degli Stati membri, con le loro costituzioni materiali e gli ordini nazionali e quello europeo, per lungo tempo, si sono reciprocamente rafforzati, pur mantenendo identità politico-costituzionali distinte. Questa relazione di continuità tra costituzioni nazionali e costituzione europea è spesso tralasciata perché Stati e Unione vengono visti come irrimediabilmente conflittuali, nel senso che la sovranità statale si oppone a una maggiore integrazione e quest’ultima porta a una perdita di sovranità. Così facendo, però, non si coglie la complessità della relazione, che affonda le sue radici nella concreta situazione storico-politica europea. La quale, sia detto per inciso, era collegata ad un ordine mondiale definito, di cui per molti decenni gli Stati Uniti sono stati i guardiani politici, militari e diplomatici.
Secondo un cliché intellettuale diffuso in Italia l’Unione non ha identità politica e per questo è fragile. Invece, a mio avviso, l’Europa ha una sua identità propriamente politica, fatta dalla convergenza delle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Tradizioni non coincidenti ma che hanno alcune idee basilari comuni: la democrazia liberale, l’economia sociale di mercato, lo Stato di diritto, i diritti fondamentali. Si è trattato di una componente dell’ordine euro-atlantico uscito dalla Seconda guerra mondiale, con suoi tratti peculiari costituiti soprattutto dall’importanza riconosciuta al suo welfare State profondamente diverso da quello americano.
Come osservavo, l’ordine costituzionale europeo e quelli nazionali sono stati non solo integrati ma si sono rafforzati vicendevolmente. La pace in Europa cui aspiravano le costituzioni del secondo dopoguerra ha avuto nell’integrazione europea lo sbocco e lo strumento fondamentale. L’aggancio europeo ha permesso di consolidare la democrazia in situazioni inizialmente difficili, come nell’Italia dei primi decenni repubblicani, ed è stato l’ombrello sotto il quale si è avviata la transizione democratica nei Paesi dell’est dopo il crollo del blocco sovietico. Inoltre, la coesione armonica di cui parlavo prima tra democrazia, mercato e libertà si è potuta realizzare, per lungo tempo grazie a questa interazione. L’integrazione dei mercati nazionali in un unico grande mercato ha favorito la prosperità economica e questa ha reso disponibili risorse per la tutela dei diritti (tutti i diritti costano, anche se i giuristi spesso lo dimenticano), e, dopo la prima fase di fondazione del mercato comune, le dinamiche mercantili hanno incontrato limiti e correzioni nei diritti fondamentali, che hanno trovato garanzia innanzi tutto a livello nazionale ma poi anche a livello europeo, dove si sono affermati diritti inizialmente sconosciuti all’ordine nazionale (la tutela multilivello dei diritti, si pensi al diritto alla salubrità dell’ambiente, ai diritti dei consumatori o ai nuovi diritti della sfera digitale).
L’Unione è considerata la patria del liberismo economico, ma si tratta di uno dei tanti stereotipi culturali slegati dalla realtà, costruiti leggendo libri che parlano di altri libri senza tenere conto di una realtà fatta di documenti normativi, sentenze e azioni politiche concrete. L’Unione ha limitato fortemente il mercato, lo ha regolato, lo ha imbrigliato, non solo per far fronte ai casi in cui c’è un suo “fallimento”, ma anche per tutelare valori extra-mercantili. Pensiamo allo sviluppo tipicamente europeo del diritto dei consumatori, alla tutela dell’ambiente con un uso massiccio del principio di precauzione, al diritto sulla sicurezza alimentare, alla regolazione molto invasiva di svariati settori in cui sono presenti finalità sociali (dall’energia alle telecomunicazioni, alla finanza), alla tutela dei dati personali. Non a caso una delle motivazioni della Brexit è stata quella di sfuggire a queste regole che imbrigliano il mercato per dare vita al “Singapore d’Occidente”.
La continuità tra costituzioni nazionali e costituzione europea è stata resa evidente dal frequente riferimento operato dalla Corte di giustizia alle “tradizioni costituzionali comuni” agli Stati membri e dalla consacrazione da parte dell’art.2 del TUE dei valori dell’Unione che sono proprio i valori costituzionali comuni a quegli Stati.
In tutto ciò sembra risiedere il vero significato dell’idea di un costituzionalismo multilivello, che, però, non può essere fondato semplicisticamente sulla forza del diritto e la cultura dei diritti – come alcuni lo intendono – bensì su una situazione storico-concreta, cioè su classi dirigenti e idee politiche dominanti, perché in grado di ottenere consenso nelle opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi, che sostengono quest’ordine costituzionale euro-nazionale. La costituzione europea non è auto-fondata e non riposa su una sua autonoma grundnorm, ma si poggia sul concreto ordine politico europeo, che rinvia agli Stati, agli attori collettivi che ne animano la sfera pubblica, alle loro classi dirigenti e alle idee dominati, alla possibilità di far coesistere nei popoli europei l’identità nazionale e quella europea. La solidarietà tra gli Stati prevista dai trattati si radicava in questo preciso contesto materiale.
Tuttavia oggi questa costruzione mostra segni di debolezza, mentre sembra risorgere la sovranità degli Stati e l’autonomia del loro diritto costituzionale. Quali potranno essere gli effetti della pandemia?
Il decennio che abbiamo trascorso è stato caratterizzato dagli attacchi alla democrazia liberale, all’economia di mercato, alle classi politiche che hanno governato in Occidente (le cosiddette élites) mettendo in difficoltà insieme i sistemi politici e costituzionali nazionali e l’Unione europea. E’ fuorviante ritenere che ci sia un’Unione europea debole e disunita e degli Stati che riprendono forza. L’attacco è stato sferrato contro un complessivo ordine politico costituzionale in cui ci sono gli Stati membri e l’Unione: simul stabunt simul cadent.
L’Europa è stata messa a dura prova da molteplici crisi – la crisi finanziaria, quelle legata ai flussi migratori, al terrorismo, alle conseguenze indesiderate dell’”iperglobalizzazione”, alla disoccupazione tecnologica - ma le democrazie nazionali e le loro élites non si sono rafforzate e la perdita di legittimità le ha investito in maniera pesante.
La vera posta in gioco è il mantenimento dei valori e delle idee che avevano definito l’ordine liberaldemocratico. Di esso le costituzioni degli Stati europei e il sistema dell’Unione europea sono parti integranti, interrelate e probabilmente inscindibili. Democrazia liberale, diritti fondamentali, stato di diritto, economia sociale di mercato, sono i veri elementi in discussione. Queste idee e i valori che rappresentano potranno sopravvivere, sia pure in un sistema giuridico-istituzionale modificato, a livello nazionale come europeo?
Su questo processo di cambiamento influirà una tendenza di fondo dei nostri tempi, che l’epidemia ha esasperato, e cioè l’affermazione di quella che Ulrich Beck chiama la “società globale del rischio”. Viviamo in un’epoca in cui, anche per le conseguenze indesiderate delle azioni umane, si moltiplicano i rischi cui siamo esposti, il cui concretizzarsi può costituire una minaccia, anche mortale, per gli individui e la società. Oggi viviamo l’emergenza sanitaria, ma fino a ieri facevano i conti con altri potenti fattori di rischio, che certamente non sono scomparsi ma sono solamente ibernati come tutto durante la pandemia. Basta citare, il terrorismo, le nuove fratture geopolitiche, il cambiamento climatico, le dinamiche finanziarie, le pressioni migratorie, i sommovimenti del mondo islamico, la disoccupazione tecnologica, il decremento demografico, l’insostenibilità dei sistemi previdenziali, la criminalità organizzata trans-nazionale, l’in-sicurezza informatica.
Ne sono accresciuti l’angoscia degli individui e il loro bisogno di protezione, che richiede sempre di più prevenzione (che è mancata nell’epidemia) e velocità di reazione. In tale scenario, assistiamo alla lotta tra due nuclei di costituzione materiale tra loro antagonisti, che, per semplicità, possiamo riassumere con due formule: Democrazia nazionale autoritaria versus Europa politica. La prima è la via più semplice: irrobustire le frontiere, isolarsi dalle società e dalle economie di altri Paesi, rimediare alla perdita di benessere statizzando i settori più importanti dell’economia, istituire un forte potere di governo legittimato dal voto popolare, limitando però le libertà individuali allorché il loro esercizio possa essere una minaccia per l’ordine così faticosamente conquistato. Si tratta di una sfida esistenziale per l’Unione europea, che sconta alcuni difetti iniziali e in particolare le carenze dei meccanismi di gestione dei rischi e degli stati di crisi nel segno di una solidarietà effettiva che leghi le differenti parti che la compongono.
Certo, di fronte a rischi globali l’Europa, proprio per la sua dimensione sovranazionale, sembra molto più idonea degli Stati a affrontarli riducendone l’impatto sulla società e sugli individui e la crisi finanziaria del 2011 ha già portato a importanti cambiamenti della costituzione economica dell’Eurozona per la gestione degli stati di crisi nell’interesse comune, di cui il nuovo ruolo della BCE è il più importante e oggi estremamente utile, anche se non vanno tralasciati il MES e l’attivismo della BEI.
Tuttavia la gravissima recessione innescata dalla pandemia li rende probabilmente insufficienti, e per questo si prospettano nuovi strumenti, come il meccanismo europeo di riassicurazione contro la disoccupazione, gli eurobond, un MES con condizionalità limitata alla lotta alla pandemia, l’aumento del bilancio europeo. Questi movimenti spingono verso l’Europa della politica in luogo di quella fondata sul quasi automatismo delle regole giuridiche. Processo che, più avanti, potrà completarsi dotando l’Unione di una sua capacità fiscale, cioè trasferendole una parte di quelle politiche fiscali ancora oggi sono conservate in capo agli Stati, e quindi un qualche potere di imposizione tributaria. Questa è la strada maestra per fare sì che la solidarietà finanziaria non sia accompagnata da forme di azzardo morale da parte dei suoi principali beneficiari. La medesima prospettiva potrebbe essere adottata in altri ambiti, come la difesa comune, per permettere di gestire i rischi globali in un mondo divenuto multipolare, in cui gli Stati Uniti si ritirano dal ruolo di custode dell’ordine liberaldemocratico e gli Stati europei sono troppo piccoli per mantenere una sovranità effettiva di fronte alle nuove potenze.
Ritieni quindi legittimo ipotizzare che dall’attuale condizione possa sorgere qualche speranza nuova per un futuro più solidale dell’Europa o si tratta di mera utopia?
C’è un aspetto interessante delle metafore belliche impiegate quando si parla della pandemia: “vincere contro il nemico comune” è lo slogan ripetuto nelle cancellerie europee. Il virus è il nemico e gli Stati sono impegnati nella guerra contro questo nemico. Non è necessario rifarsi alle teorie di Carl Schmitt per trovare nell’antagonismo esistenziale una fonte che definisce il nucleo essenziale dell’identità di un’unità politica. Crea solidarietà tra le parti di quell’unità e ne definisce i confini, distinguendola dalle altre. Il virus, il nemico comune, quello che il Premier Conte chiama lo shock simmetrico, perché colpisce in modo indifferenziato tutti, potrebbe essere il fattore che consolida la solidarietà tra i popoli europei e il terreno su cui costruire una più forte identità comune. Per capire quante chances di successo abbiano le due prospettive costituzionali precedentemente delineate bisognerà prestare attenzione a cosa faranno le classi dirigenti negli Stati e in Europa, nonché alle idee forza che le ispireranno, perché, come scriveva il teorico della costituzione in senso materiale, Costantino Mortati, essa è forgiata principalmente da due componenti: le classi dirigenti e le idee che riescono a imporsi, nella lotta, e risultare dominanti in una determinata epoca storica.
Nel contesto che hai descritto l’Europa dei diritti ha gli anticorpi per resistere al contagio da Covid-19?
Rispondo con un sì secco. Se le spinte disgregatrici non prevarranno e sarà mantenuta e magari rafforzata l’integrazione europea, anche con i mutamenti che probabilmente potranno verificarsi del suo quadro giuridico e istituzionale, i diritti fondamentali resteranno uno dei pilastri di quell’ordine costituzionale euro-nazionale di cui ho parlato. Non c’è solo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ma soprattutto c’è un guardiano dei diritti fondamentali che è la Corte di giustizia, che sempre opera nel rispetto delle prerogative che spettano alle Corti costituzionali, guardiane dei diritti garantiti dalle rispettive Costituzioni nazionali. Spetta, in concreto, sempre alla “saggezza delle Corti” evitare situazioni di sovrapposizione delle rispettive giurisdizioni e possibili conflitti. In passato lo hanno fatto e sono sicuro che continueranno a farlo in futuro.
Con le Tue ultime riflessioni siamo ritornati alla Corte di giustizia. L’emergenza epidemiologica si è abbattuta, imprevista, su tutte le istituzioni giudiziarie nazionali ed europee. La Corte di giustizia dell’Unione come ha reagito?
La Corte di Giustizia è dotata di infrastrutture informatiche all’avanguardia e, già da molto tempo, consente ai membri (giudici e avvocati generali) e ai collaboratori dei gabinetti di lavorare in smart working (nei periodi di sospensione dell’attività giudiziaria, di malattia e nei fine settimana) in condizioni ottimali. Gli applicativi in dotazione sui pc portatili consentono, infatti, un accesso integrale, in piena sicurezza, a tutte le risorse della Corte (data base, fascicoli on line, biblioteca) in modo semplice e veloce.
A seguito dell’emergenza causata dall’epidemia, sin da subito la Corte ha incentivato in modo generalizzato lo smart working, consentendo l’accesso agli uffici ma applicando rigorose misure igienico sanitarie e di distanziamento sociale. In un secondo momento, quando l’emergenza è arrivata con tutta la sua drammaticità anche in Lussemburgo, si è imposto a tutti lo smart working, consentendo l’accesso agli uffici solo per brevi periodi strettamente necessari.
Il lavoro a distanza dunque è approdato alla Corte di Lussemburgo. Come inciderà sull’esercizio della giurisdizione?
L’attività giurisdizionale è proseguita senza alcuna interruzione, con il mantenimento dei termini per le parti e anche di quelli “interni” (molto rigorosi in Corte). Gli avvocati generali hanno depositato e continuano a depositare le conclusioni nei termini stabiliti e parimenti i giudici continuano a approvare, scrivere e depositare le sentenze.
Per quanto riguarda le udienze pubbliche, in ragione dell’impossibilità di tenerle in remoto a causa della necessità della traduzione simultanea in tutte le lingue dell’Unione (il multilinguismo è uno dei valori fortemente radicati in Corte), si è proceduto nei seguenti termini: i Presidenti di Sezione (sentiti il giudice relatore e l’avvocato generale) dispongono un rinvio per quelle ritenute strettamente indispensabili e annullano invece quelle non ritenute indispensabili, con conseguente trasformazione delle domande che si sarebbero poste in forma orale alle parti nel corso dell’udienza in domande a risposta scritta.
Per quanto attiene, invece, alle udienze di pronuncia delle sentenze e di lettura delle conclusioni dell’avvocato generale, esse sono state concentrate al giovedì di ogni settimana alla sola presenza fisica, con ogni precauzione dovuta, del Presidente della Corte, del Cancelliere e del Primo avvocato generale.
Le riunioni generali settimanali - nelle quali i membri della Corte si riuniscono per decidere a quale formazione di giudici attribuire le diverse cause, se fissare o no un’udienza di discussione e se sono o meno necessarie delle conclusioni dell’avvocato generale - sono tenute in forma scritta.
Le riunioni per deliberare i singoli casi da parte delle sezioni sono state tenute in forma scritta ma si sta implementando un sistema di videoconferenza (possibile in ragione del fatto che si svolgono esclusivamente in francese) per i casi di maggiore complessità che richiedono una più articolata discussione.
E i Tuoi rapporti con i colleghi della Corte, immagino ordinariamente alimentati da contatti personali dentro la Corte, si stanno modificando?
I componenti della Corte di giustizia normalmente vivono a Lussemburgo e trascorrono le loro giornate di lavoro nel Palais al Kirchberg. L’interazione costante, la collegialità, il dibattito culturale e il confronto tra pari sono elementi caratterizzanti la Corte di giustizia e probabilmente sono indispensabili per comprenderne il funzionamento. Ogni martedì i membri della Corte, giudici e avvocati generali, partecipano alla réunion générale dove si decide per ogni causa la formazione giudiziaria – sezione di tre membri, sezione di cinque o Grande sezione – nonché la necessità o meno di un’udienza pubblica e di avvalersi o meno delle conclusioni dell’avvocato generale. La decisione è presa su una proposta, articolata e motivata, del giudice relatore (che è autore di un “rapporto preliminare”) e dell’avvocato generale responsabili del dossier. Apparentemente è una scelta organizzativo-procedurale ma in realtà è molto di più, perché scegliere il tipo di sezione e gli altri profili procedurali che ho menzionato significa avere una visione approfondita del dossier, e quindi di quali sono i reali nodi giuridici da sciogliere in rapporto alla giurisprudenza pregressa della Corte. Per questo, giudice relatore e avvocato generale possono anche essere in disaccordo e comunque sulla proposta ciascun membro della Corte può intervenire, prima della riunione con note scritte e successivamente con un intervento orale. Nella riunione generale c’è quindi un’analisi approfondita dei casi principali, cui tutti possono partecipare. Non c’è un dialogo ristretto al giudice relatore e all’avvocato generale ma un ampio, reale confronto, intellettualmente assai libero e vivace. Vi sono poi le udienze pubbliche, che hanno un valore fondamentale nell’esperienza della Corte, perché in un’udienza si tratta un solo caso e, a partire dal giudice relatore e dall’avvocato generale e poi con la partecipazione degli altri giudici, gli avvocati delle parti sono sottoposti a domande molteplici in relazione a quello che è emerso nel corso dell’udienza. L’udienza ha un’influenza reale – spesso veramente decisiva - sulle scelte della Corte. Successivamente ci sono le conclusioni scritte dell’avvocato generale che sono inviate a tutti i membri della sezione e poi la camera di consiglio in cui si svolge un vero dibattito a partire dalle conclusioni suddette e dalla proposta del giudice relatore. Il confronto tra pari e la collegialità sono quindi elementi costanti che richiedono un’interazione personale effettiva. Ovviamente, questo metodo di lavoro comporta che tutte le settimane ci siano numerose udienze. A parte ciò, la Corte è un forum incessante di dibattito giuridico e culturale, perché vi sono “giornate di riflessione”, seminari, incontri con i giudici delle giurisdizioni nazionali, “pranzi comuni di tutti i membri”, in cui si dibattono i temi trasversali e le questioni di ordine generale, naturalmente senza entrare nel merito dei casi pendenti. Vi sono poi i contatti giornalieri, conviviali, magari in caffetteria o al ristorante, sempre nutriti di confronti sui grandi trend del diritto europeo e in cui avviene altresì uno scambio di preziose informazioni sulla vita giuridica e istituzionale negli Stati membri. Tutto ciò è importate per il funzionamento di un organo giurisdizionale di un’organizzazione sovranazionale in cui occorre mettere insieme tradizioni giuridiche diverse, lessici giuridici differenti per ragioni culturali o linguistiche, ma anche per assicurare la qualità delle decisioni della Corte e la consapevolezza delle conseguenze delle scelte giurisprudenziali sui sistemi giuridici degli Stati membri. Perciò si tratta di un metodo di lavoro che, a mio avviso, non può essere abbandonato a seguito dell’epidemia. Oggi cerchiamo di adattarlo ad un contesto emergenziale, in vista di una sua piena ripresa quando l’emergenza volgerà al termine, adottando le dovute precauzioni. Anche nella fase attuale, in cui non ci sono contatti diretti, i rapporti tra i membri della Corte sono costanti, perché continuiamo a ricevere “rapporti preliminari”, a formulare osservazioni sugli stessi, a fare le proposte in vista della riunione generale, e, come ho già detto, a depositare gli atti. Inoltre abbiamo numerosi scambi di vedute via e-mail e ci teniamo comunque in contatto frequente, con tutti i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione, e non solo per ragioni connesse alla pratica giudiziaria. Come ho già detto, alcune udienze sono state sostituite con delle domande a cui gli avvocati devono rispondere per iscritto, riconoscendo anche nell’emergenza l’importanza di questo confronto, mentre altre sono state rinviate. In definitiva, credo che l’epidemia non intaccherà il nostro esprit de corps, l’abitudine al confronto intellettuale e l’attenzione che tutti diamo all’idea della giurisdizione come servizio da rendere - nel modo più efficiente, rapido, adeguato e qualitativamente elevato - ai cittadini e agli Stati in Europa.
Grazie da Giustizia Insieme.
Un’altra isola nell’arcipelago: le modifiche della legge n. 69/2019 alla luce degli obblighi internazionali in materia di violenza nei confronti delle donne
di Ilaria Boiano
Sommario 1. Premessa – 2. Il Codice Rosso. – 3. Obblighi internazionali e indicazioni di produzione legislativa nei casi di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica.-3.1. Le definizioni della violenza nei confronti delle donne negli atti internazionali. – 3.2. L’obbligo di due diligence e l’accesso alla giustizia tra Convenzione di Istanbul e diritto dell’Unione Europea. – 4. Le modifiche al codice penale. – 4.1. Aumenti dei limiti edittali delle pene e modifiche alle circostanze aggravanti. – 4.2. Introduzione di nuove fattispecie incriminatrici. – 4.2.1. Il delitto di costrizione o induzione al matrimonio. – 4.2.2. La deformazione dell’aspetto di una persona mediante lesioni permanenti al viso. – 4.2.3. La diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. – 4.2.4. Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. – 5. Le modifiche al codice di procedura penale e misure di prevenzione. –6. Centri antiviolenza.- 7. Conclusioni
1. PREMESSA
Nel presente contributo si offre una disamina delle norme di diritto sostanziale e processuale di recente introdotte nel nostro ordinamento, tenendo come parametro di riferimento per misurarne l’impatto nell’ordinamento il quadro di obblighi internazionali e di diritto europeo vincolanti, che saranno approfonditi preliminarmente alle novelle legislative, senza trascurare i risvolti concreti che le modifiche al codice penale e processuale possono avere nell’esperienza delle donne che vivono una situazione di violenza.
Questa ricostruzione si rende necessaria, ad avviso di chi scrive, per promuovere non solo tra gli operatori del diritto, ma anche in un pubblico più ampio, una maggiore consapevolezza della disponibilità di strumenti per assicurare una risposta efficace e tempestiva alle donne che si trovano in pericolo: come è noto, a seguito delle misure adottate per far fronte all’emergenza sanitaria in corso, da più parti è stato lanciato l’allarme per un aggravio della violenza domestica e, ancora una volta, la percezione diffusa e purtroppo amplificata dai media, è che non vi siano strumenti per farvi fronte. Di fatto non è così, pur permanendo limiti che nel prosieguo si evidenzieranno, che impongono agli operatori del diritto la responsabilità di sollecitare i rimedi necessari insieme alle organizzazioni della società civile impegnate sul territorio.
2. IL CODICE ROSSO
Il 19 luglio 2019 è stata approvata la legge n. 69, all’esito di una discussione parlamentare avviata con il disegno di legge AC 1455, di proposta governativa, presentato all’opinione pubblica con la denominazione di «codice rosso», alludendo al criterio che al pronto soccorso assicura l’ordine di priorità di trattazione per i pazienti a rischio di vita.
La prospettiva di emergenza si è tradotta, da un lato, in un generalizzato aumento delle pene e nell’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, dall’altro lato in una serie di disposizioni acceleratorie della fase iniziale del procedimento penale.
La logica sottesa alla legge appare così astrattamente coerente con gli obblighi internazionali di tempestività della risposta istituzionale e di repressione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne, tuttavia le misure introdotte non sono state calibrate con le cautele necessarie per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese, cioè conseguente all’attivazione degli stessi istituti processuali oggetto di novella, e non sono state stanziate le risorse necessarie per gli uffici sui quali ricadranno gli sforzi organizzativi in fase di attuazione delle modifiche legislative[1]. Non si può tacere, inoltre, che la legge n. 69/2019 ritorna su norme di diritto penale sostanziale e procedurale già oggetto di recenti modifiche, e ciò conferma la funzione meramente mediatica dell’espressione «codice rosso»: le misure introdotte non contribuiscono, infatti, a soddisfare le esigenze di sistematicità, coordinamento e coerenza che un «codice» dovrebbe garantire, bensì ampliano quello che le Sezioni Unite nella sentenza n. 10959/2016 hanno descritto come «un arcipelago normativo nel quale non sempre è facile orientarsi»[2].
L’efficacia dell’impianto legislativo introdotto dal legislatore rischia, infine, di essere compromessa dall’assenza di iniziative volte al potenziamento dei centri antiviolenza, case rifugio e servizi per le vittime di reato nonché dalla mancata promozione di un rinnovamento della struttura delle relazioni sociali e familiari. Non si può ignorare, a tal proposito, che la legge n. 69/2019 è stata oggetto di discussione parallela ad altre iniziative legislative riguardanti la disciplina della separazione, del divorzio e dell’affidamento dei figli minorenni che hanno posto seri dubbi di consapevolezza e coerenza del legislatore, dal momento che le modifiche ipotizzate in sede civile pregiudicano l’efficacia complessiva delle misure già esistenti nell’ordinamento per garantire i diritti delle donne esposte a violenza di genere nelle relazioni affettive[3].
Il nodo problematico dell’ordinamento ancora risiede, infatti, in un sostrato di discriminazione sessista che svuota di efficacia le disposizioni legislative esistenti. Il Comitato CEDAW, organismo delle Nazioni Unite che monitora l’attuazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) , nelle osservazioni conclusive rese all’esito dell’esame del rapporto periodico del Governo italiano sull’attuazione della CEDAW in Italia nel 2017, ha espresso preoccupazione per la sottovalutazione da parte delle autorità italiane della gravità della violenza di genere contro le donne[4], attitudine accertata anche dalla Corte EDU nella sentenza Talpis c. Italia del 2 marzo 2017[5], che ha condannato l’Italia per l’inerzia delle autorità dinanzi alle richieste di intervento e protezione proveniente dalla ricorrente, ravvisando in questa condotta la violazione degli articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 CEDU (divieto di discriminazione) (§144-145).
3. OBBLIGHI INTERNAZIONALI E INDICAZIONI DI PRODUZIONE LEGISLATIVA NEI CASI DI VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE E VIOLENZA DOMESTICA
3.1. Le definizioni della violenza nei confronti delle donne negli atti internazionali
La violenza nei confronti delle donne costituisce un problema sociale e pone una questione di riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali in situazioni «in cui spesso il reato si consuma in contesti dove preesistono legami tra la vittima e il suo aggressore», che impone agli operatori del diritto di fare i conti in concreto con un ordinamento «multilivello»[6], risultato dell'attività normativa e di indirizzo di numerosi organismi sovranazionali, i cui atti svolgono «un importante ruolo di sollecitazione nei confronti dei legislatori nazionali, tenuti a darvi attuazione»[7].
Prima questione che si pone in un ordinamento così composito è quella definitoria: con l’espressione «violenza di genere» il Comitato di monitoraggio dell’attuazione della CEDAW indica «[…] la violenza che è diretta contro le donne in quanto donne, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Vi rientrano le azioni che procurano sofferenze o danni fisici, mentali o sessuali, nonché la minaccia di tali azioni, la coercizione e la privazione della libertà»[8], per rimuovere la quale le autorità statali sono tenute ad adottare misure di natura legislativa, politica, sociale, economica e amministrativa.
Nella Dichiarazione per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne (DEVAW), atto di indirizzo adottato dalle Nazioni Unite nel 1993, si prende atto che la violenza nei confronti delle donne costituisce «manifestazione di relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, che hanno portato al dominio e alla discriminazione delle donne da parte degli uomini e alla prevenzione del pieno avanzamento delle donne, […] è uno dei meccanismi sociali cruciali attraverso i quali le donne sono costrette a occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini»[9].
Il riferimento al potere e al controllo quali moventi delle condotte ha condotto l’elaborazione complessiva in materia di tutela dei diritti umani «in un territorio nuovo e trasformativo»[10], perché ha spostato l’attenzione dalle relazioni di potere tra Stato e individuo a quelle esistenti tra uomini e donne, suggerendo una prospettiva volta a incidere sulle relazioni sociali, che si rinviene anche nel preambolo della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (d’ora in avanti Convenzione di Istanbul)[11].
L’art. 3 Convenzione di Istanbul riconosce espressamente nella violenza contro le donne una violazione dei diritti umani e una discriminazione di genere. Tale è anche la violenza domestica, che comprende «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». Nel rapporto esplicativo si evidenzia che la violenza domestica tra partner o ex partner colpisce «in modo sproporzionato» le donne di qualsiasi età. Per tali caratteristiche la violenza domestica è compresa nelle forme che può assumere, sempre ai sensi dell’art. 3, la violenza di genere, espressione che designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato.
La violenza domestica e di genere, quindi, si articola in uno o più atti che possono configurare una o più fattispecie incriminatrici previste dal codice penale italiano e che puniscono «violenza fisica, sessuale, psicologica o economica».
3.2. L’obbligo di due diligence e l’accesso alla giustizia tra Convenzione di Istanbul e diritto dell’Unione europea
Il diritto internazionale dei diritti umani stabilisce due ordini di obblighi per gli Stati: il principale è di natura negativa in quanto impone agli Stati di astenersi da dirette violazioni dei diritti umani attraverso i suoi agenti ed il suo apparato. All’obbligo negativo si aggiunge l’obbligo positivo di intraprendere azioni concrete e misure specifiche di natura legislativa, politica e culturale, rivolte anche ai soggetti non statali che agiscono in violazione dei diritti umani degli individui[12].
L’insieme di tali obblighi impone agli Stati di garantire misure di ordine generale e misure specifiche individuali in ossequio al generale obbligo di due diligence (dovuta diligenza), codificato dall’art. 5 Convenzione di Istanbul.
Il contenuto della due diligence è stato approfondito in tema di prevenzione della violenza nei confronti delle donne e misure di protezione sia nel contesto delle Nazioni Unite, dal Comitato CEDAW e dalla relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e le conseguenze[13], sia nel contesto del Consiglio d’Europa, in particolare dalla Corte EDU, in una costante circolarità tra i vari organismi, così consolidando la due diligence quale principio di diritto internazionale consuetudinario[14].
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, si ravvisa la responsabilità statale per violazioni dei diritti e delle libertà protette dalla CEDU in presenza di atti di violenza commessi da privati, laddove l’ordinamento interno non abbia assunto misure di carattere legislativo adeguate a punire condotte di violenza sessuale[15], violenza domestica[16] in tutte le sue forme, compresa la violenza psicologica[17].
Gli Stati sono tenuti, inoltre, a garantire la conduzione di indagini effettive[18] e la celebrazione di processi tempestivi[19], che garantiscano i diritti di tutte le parti, comprese le vittime delle violenze, da proteggere in concreto da ulteriori violenze[20], anche adottando misure temporanee a protezione delle donne e dei loro figli esposti alle violenze[21].
Nel corso dell’intero procedimento, sin dal primo accesso alle forze dell’ordine, deve essere rispettata l’integrità della persona offesa, per evitare che possa produrre ulteriore trauma lo stesso procedimento che consente l’esercizio di diritti fondamentali che compongono l’accesso alla giustizia[22].
La predisposizione di misure adeguate ed effettive, vale a dire non meramente formali, ma con risvolti concreti in termini di protezione e prevenzione, costituisce un obbligo positivo derivante non solo dagli artt. 2, 3, 8 CEDU, ma anche dal divieto di discriminazione stabilito dall’art. 14 CEDU: come si legge nella sentenza Opuz c. Turchia (2009), la violenza domestica patita dalla ricorrente «può essere considerata una violenza di genere che è una forma di discriminazione nei confronti delle donne» (§200), non basata «sulla legislazione per se, piuttosto risultato di un’attitudine generale delle autorità locali, come per esempio le modalità di trattamento riservate dalle forze dell’ordine alle donne quando denunciano violenza domestica e l’inerzia giudiziaria nell’assicurare protezione effettiva alla vittima» (§192)[23].
Seguendo la giurisprudenza della Corte EDU, la Convenzione di Istanbul stabilisce per gli Stati parte l’obbligo di una risposta fondata sull’adozione di politiche integrate e raccolta dei dati (capitolo 2), prevenzione (capitolo 3), protezione e sostegno (capitolo 4), introduzione di norme di diritto sostanziale civile e penale (capitolo 5), norme di procedura penale e misure di allontanamento (capitolo 6), migrazione e asilo (capitolo 7) e cooperazione internazionale (capitolo 8).
4. LE MODIFICHE AL CODICE PENALE
4.1. Aumenti dei limiti edittali delle pene e modifiche alle circostanze aggravanti
Coerentemente con le indicazioni contenute nel capitolo 5 della Convenzione di Istanbul, ma trascurando le misure di rafforzamento sociale e di cambiamento culturale, ambito di intervento privilegiato della legge n. 69/2019 è stato il codice penale, che ha visto l’aumento dei limiti edittali della pena per i seguenti delitti: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), per il quale è ora prevista la reclusione da tre a sette anni[24]; atti persecutori (art. 612-bis c.p.), punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi; violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), oggi punito con la reclusione da sei a dodici anni; violenza sessuale di gruppo (articolo 609-octies c.p.), punito con la reclusione da otto a quattordici anni.
Con riferimento alle circostanze aggravanti, l’aver agito in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza, previste prima all’art. 61, n. 11-quinquies, c.p., e quindi con aumento di pena fino a un terzo, sono state configurate in caso di condotte maltrattanti nei termini di aggravanti speciali a effetto speciale con un aumento di pena fino alla metà dal nuovo comma 1-bis (insieme con la circostanza dell’aver commesso il fatto nei confronti di persona con disabilità come definita ai sensi dell'art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi). Nel delitto di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) è stata introdotta un'aggravante nel caso in cui gli atti siano commessi con minori di anni quattordici in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessi.
L’art. 577 c.p., che prevede la pena dell’ergastolo per l’omicidio, è stato modificato dall’art. 11 legge n. 69/2019, così da estenderne l’applicabilità al reato commesso in danno dell’ascendente o del discendente «per effetto di adozione di minorenne» e della persona «stabilmente convivente con il colpevole o a esso legata da relazione affettiva»[25]. L’ultimo comma dell’art. 577 c.p., che prevede la pena della reclusione da ventiquattro a trenta anni in presenza di determinate relazioni qualificate dell’autore del reato con la persona offesa, è stato interpolato in modo da consentirne l’applicazione anche qualora la persona offesa sia «legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessate» ovvero ne sia «l’adottante o l’adottato nei casi regolati dal titolo VIII del libro primo del Codice civile».
L’art. 11 ultimo comma introduce un limite al bilanciamento tra circostanze attenuanti e aggravanti, escludendo che possano essere ritenute prevalenti le circostanze attenuanti rispetto alle aggravanti elencate all’art. 577 c.p.[26].
Rilevante in materia di sospensione condizionale della pena è l’art. 6, legge n. 69/2019, che modifica l’art. 165 c.p. subordinando la sospensione della pena nei casi di condanna per i delitti oggetto di intervento del legislatore e in presenza delle aggravanti fin qui illustrate «alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati».
La finalità della disposizione in concreto appare, tuttavia, frustrata dall’assenza di adeguate risorse destinate a rafforzare la disponibilità di programmi dedicati, i cui oneri sono posti addirittura a carico del condannato, così precludendo l’accesso alla sospensione condizionata della pena a coloro che non dispongono di risorse economiche sufficienti[27]. Altro limite della disposizione si ravvisa nella mancanza di parametri uniformi per l’accreditamento degli enti incaricati dei programmi, necessari per assicurare che gli stessi rispondano in concreto alla finalità rieducativa della pena, così come stabilito dall’art. 27 Cost., attraverso percorsi di consapevolezza sul disvalore delle condotte illecite perpetrate nei confronti delle donne in modo conforme agli obblighi derivanti dalla Convenzione di Istanbul. Così come disciplinato dal legislatore, l’accesso al percorso quale condizione per la sospensione condizionale della pena rischia, inoltre, di vanificare l’efficacia dello stesso, che presuppone un’adesione spontanea e consapevole del condannato.
Sarebbe stato auspicabile, inoltre, esplicitare l’obbligo di assicurare ai sensi dell’art. 16 Convenzione di Istanbul che i programmi dedicati ai condannati assicurino la sicurezza delle vittime e che siano stabiliti e attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime, senza sottrarre risorse a questi ultimi.
Con riguardo alla persona offesa, all’art. 572 c.p. viene aggiunto un ultimo comma nel quale si individua espressamente come persona offesa dal reato il minore di anni diciotto alla presenza del quale la condotta maltrattante è stata compiuta, per rafforzare così la tutela dei diritti dei figli minorenni esposti alla violenza di un genitore a danno dell’altro (cosiddetta «violenza assistita”), che ha trovato già riconoscimento in consolidata giurisprudenza di legittimità[28]. Per sistematicità della disanima, considerata la medesima finalità di tutela, si richiama anche l’art. 64-bis disp. att.c.p.p., inserito dall’art. 14, che stabilisce l’obbligo di trasmissione al giudice civile competente per «i procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all'esercizio della potestà genitoriale» (sic, nonostante sia stata sostituita dall’istituto della responsabilità genitoriale), di copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l'archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione ai reati previsti dagli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter c.p., nonché dagli artt. 582 e 583-quinquies c.p. nelle ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 576, comma 1, n., 2, 5 e 5.1, e 577, comma 1, n. 1, e comma 2, c.p.
La disposizione così assicura l’omogeneità nell’ordinamento di un’azione di coordinamento già attuata dal Tribunale di Roma, in attuazione delle disposizioni che disciplinano il ruolo del pubblico ministero nei procedimenti civili, con particolare riguardo a quelli relativi all’affidamento dei figli minorenni, come prescritto dall’art. 31 Convenzione di Istanbul[29].
Infine, la persona offesa potrà esercitare il diritto di querela per i delitti di violenza sessuale previsti dagli artt. 609-bis e 609-ter nel termine di dodici mesi (art. 609-septies, comma 2), prima di sei mesi. Sul punto si segnala, tuttavia, che il delitto di violenza sessuale punito dall’art. 609-bis c.p. rimane procedibile d’ufficio, quindi a prescindere dall’esercizio del diritto di querela di parte, se connesso con altro delitto procedibile d’ufficio (art. 609-septies, n. 4), proprio in ragione dell’impatto di ulteriori condotte illecite che possono comprimere la volontà della persona offesa[30].
4.2. Introduzione di nuove fattispecie incriminatrici
Nel codice penale la legge n. 69/2019 ha introdotto quattro nuove fattispecie incriminatrici: il reato di costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.); la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quater c.p.); la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.); il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis c.p).
4.2.1. Il delitto di costrizione o induzione al matrimonio
L’art. 7 della legge n. 69/2019 ha introdotto nel codice penale l’art. 558-bis, intitolato «costrizione o induzione al matrimonio», formulato sul modello del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chi, con violenza o minaccia, costringe o induce taluno a contrarre matrimonio. Il comma 2 individua specifiche modalità di induzione al matrimonio: 1) l’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona; 2) l’abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell'autorità derivante dall'affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia. L’evento del reato consiste nella contrazione del matrimonio o dell’unione civile. La pena è aumentata fino a un terzo se commessa nei confronti di minore di diciotto anni, mentre se i fatti sono perpetrati in danno di minore di anni quattordici, è prevista la pena della reclusione da due a sette anni.
Il delitto così costruito è stato presentato come risposta alla pratica dei cosiddetti matrimoni forzati, che riguardano per lo più giovani donne, ragazze, finanche bambine, sia di cittadinanza italiana sia cittadine di paesi terzi soggiornanti in Italia, tra le quali anche coloro che appartengono alle comunità Rom e Sinti[31].
Si consideri, inoltre, che le molteplici estrinsecazioni della condotta risultavano già riconducibili a una serie di delitti previsti dal codice penale, tra cui la violenza privata, anche in concorso con altri delitti, rendendo così possibile l’applicazione di una pena commisurata al grado di offensività rilevabile caso per caso, senza trascurare il contesto in cui si consumava la coercizione al matrimonio e le condotte successive, che possono integrare i delitti di maltrattamenti aggravati, violenza sessuale, con le specifiche aggravanti del fatto commesso nei confronti di minorenni, fino alla riduzione in schiavitù e la tratta.
Anche la formulazione dell’evento, che menziona il matrimonio e l’unione civile, tradisce la scarsa conoscenza del fenomeno da parte del legislatore, dal momento che esclude la rilevanza dei vincoli derivanti da riti non riconosciuti nell’ordinamento, che sono però «socialmente vincolanti» tra coloro che sul territorio praticano i matrimoni forzati[32].
Aspetto rilevante della fattispecie introdotta è l’extraterritorialità del delitto, dal momento che esso si ritiene integrato anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia, sul modello del delitto di mutilazione dei genitali femminili (art. 583-bis c.p.). Tale previsione, tuttavia, assume valore in termini di protezione, oltre che di deterrenza, solo ove sia garantito il pieno coinvolgimento delle autorità italiane anche in paesi terzi in azioni di rintraccio nel paese dove la vittima è stata trasferita e attraverso meccanismi di cooperazione internazionale dedicati e finanziati.
Imprescindibile, inoltre, è una riflessione anche sulle misure di ripristino del diritto alla residenza e al permesso di soggiorno autonomo in attuazione dell’art. 59 Convenzione di Istanbul, superando i ristretti limiti di cui all’art. 18-bis d.lgs. 25 luglio 1998, n. 28.
Non hanno visto la luce le ulteriori misure ipotizzate nei disegni di legge precedentemente in discussione[33], tra cui degno di nota era la costituzione di un osservatorio, di cui sarebbe stato necessario precisarne composizione e metodologia. D’altra parte, in un atto legislativo privo di coperture finanziarie aggiuntive, la misura sarebbe stata irrealizzabile.
In definitiva, facendo tesoro dell’esperienza maturata in tema di mutilazioni genitali femminili, che a seguito dell’introduzione della fattispecie incriminatrice specifica sono rimaste comunque drammaticamente sommerse in Italia[34], le misure penali sono solo apparentemente una «buona soluzione»[35]. Sarebbe stato più efficace valorizzare le fattispecie incriminatrici già esistenti e gli istituti di natura civilistica volti a tutelare la libertà personale da molteplici forme di coercizione funzionali a compiere atti non voluti, compresi quelli relativi alle scelte attinenti alla vita privata, familiare e sessuale, e che sono incentrate sull’accertamento del consenso delle parti coinvolte. In particolare, si rinvia all’articolo 122 c.c., che prevede tra le cause di impugnazione del matrimonio la violenza e il timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne[36], facendo rivivere disposizioni civilistiche che stimolano l’accertamento delle condizioni nelle quali una donna o una ragazza esprime la sua volontà, quindi sul contenuto del negozio giuridico che conclude, sulle condizioni di libertà individuale e sugli ostacoli materiali che impediscono alle donne di esprimere liberamente il proprio consenso; sulla necessità, infine, di analizzare le relazioni di potere che attraversano le vite delle donne e ragazze e la connessione tra le varie forme di subordinazione e violenza[37].
4.2.2. La deformazione dell’aspetto di una persona mediante lesioni permanenti al viso
L’art. 12, legge n. 69/2019 ha introdotto nel codice penale l’art. 583-quinquies intitolato «deformazione dell’aspetto di una persona mediante lesioni permanenti al viso», che punisce con la reclusione da otto a quattordici anni «chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso». Il legislatore, così, ha trasformato in un’autonoma fattispecie di reato l’aggravante speciale prima prevista dall’art. 583, comma 1, n. 4 c.p., che includeva «la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso» tra le lesioni gravissime punite con la reclusione da sei a dodici anni, contestualmente abrogata dalla legge n. 69/2019.
La sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti comporta la pena accessoria dell'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all'amministrazione di sostegno. Il delitto è procedibile d’ufficio e il trattamento sanzionatorio consente l’applicazione delle misure cautelari, dall’ordine di allontanamento alla custodia cautelare in carcere, a seconda delle esigenze cautelari che si ravvisano caso per caso.
Le nozioni da approfondire sono quelle di deformazione e sfregio permanente del viso, per le quali è rilevante l’orientamento della giurisprudenza di legittimità relativo proprio alla precedente aggravante prevista dall’art. 583, n. 4, c.p.
Con riguardo alla verifica del danno conseguente alla condotta, il giudice di merito sarà chiamato a una valutazione in concreto della sussistenza del predetto turbamento irreversibile dell'armonia e dell'euritmia delle linee del viso esprimendo «un giudizio che non richiede speciali competenze tecniche, in quanto ancorato al punto di vista di un osservatore comune, di gusto normale e di media sensibilità»[38]. L’autorità giudiziaria, quindi, anche discostandosi da valutazioni medico-legali, riterrà correttamente integrata la deformazione laddove si rilevi un’alterazione anatomica della simmetria del viso, producendo «effetti deturpanti sulla euritmia del volto»[39], secondo un grado di gravità più elevato dello sfregio permanente[40]. Quest’ultimo, invece, si ravvisa, secondo la giurisprudenza di legittimità, in presenza di «qualsiasi nocumento che, senza determinare la più grave conseguenza della deformazione, importi un turbamento irreversibile dell'armonia e dell'euritmia delle linee del viso, con effetto sgradevole o d'ilarità, anche se non di ripugnanza, secondo un osservatore comune, di gusto normale e di media sensibilità»[41].
L’art. 12 comma 4 consente l'applicazione dei benefici penitenziari per i condannati per il delitto in esame solo sulla base dei risultati dell'osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno. Si equipara, sostanzialmente, il delitto in esame agli altri delitti ivi previsti contro la libertà sessuale, stabilendo anche che quando il reato è commesso in danno di minore, ai fini della concessione dei benefici può essere valutata la positiva partecipazione al programma di riabilitazione psicologica specifica previsto dall'art. 13-bis dell'ordinamento penitenziario, ed esteso dall’art. 17, legge n. 69/2019, anche ai condannati per i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) e atti persecutori (art. 612-bis c.p.).
4.2.3. La diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti
Di recente, si è assunta una maggiore consapevolezza del fenomeno del cosiddetto revenge porn o pornovendetta[42], molto preoccupante per la sua diffusione soprattutto tra i giovani[43], e che consiste nel diffondere tramite vari canali telematici, senza il consenso della persona offesa, sue immagini fotografiche o video carpite con o senza il suo consenso e che la riprendono in intimità, nel compimento di atti di autoerotismo o nel corso di rapporti sessuali.
Nei confronti di chi «pubblica messaggi o filmati aventi contenuto denigratorio sui social network qualora i dati diffusi in rete siano fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa»[44] ha trovato applicazione il delitto di atti persecutori, punito dall’art. 612-bis c.p., che punisce con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La condotta materiale, ritenuta integrare il delitto di atti persecutori in queste situazioni, consiste proprio nell’invio reiterato alla persona offesa di messaggi telefonici, messaggi di posta elettronica, fino ai «post» sui social network, e la divulgazione tramite gli stessi di filmati che riproducono rapporti sessuali intrattenuti dall'autore del reato con la persona offesa[45].
Dinanzi alla crescente diffusione del fenomeno, offensivo di beni giuridici già oggetto di adeguata tutela penale, la diffusa sottovalutazione delle condotte ha avuto esiti letali per alcune vittime, indotte al suicidio, e ha consolidato una percezione sociale di insufficienza delle norme sostanziali e procedurali esistenti, anche in sede civile, per assicurare la repressione dei vari comportamenti commessi, l’adozione di misure cautelari, la rimozione delle immagini diffuse dal web, e il risarcimento del danno.
Si è ritenuto necessario quindi introdurre all'art. 612-ter c.p. la fattispecie incriminitrice specifica che punisce l’invio, la consegna, la cessione, pubblicazione o diffusione di immagini o video, senza il consenso delle persone rappresentate con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5.000 a 15.000 Euro. Si distinguono due fattispecie, a seconda delle modalità di acquisizione delle immagini da parte dell’agente: nel comma 1 si prevede la condotta di utilizzo di immagini o video utilizzati da chi li abbia precedentemente realizzati o sottratti; nel comma 2 le immagini o i video sono utilizzati da chi li abbia ricevuti o comunque acquisiti in altro modo. Il comportamento punito dal comma 2 richiede anche il dolo specifico di recare nocumento alle persone rappresentate. In entrambi i casi, il reato previsto è applicabile in quanto il fatto commesso non integri un più grave reato.
Le condotte sono aggravate se commesse dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici; è previsto inoltre l’aumento della pena da un terzo alla metà, se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza (comma 4).
Il delitto è punito a querela della persona offesa, che deve essere presentata entro il termine di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La procedibilità d’ufficio, invece, è stabilita per le circostanze aggravanti previste al comma 4, non lasciando così alla donna in gravidanza l’autonomia di valutazione dell’opportunità di esercitare o meno il diritto di querela, e quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.
4.2.4. Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa
L’art. 4, legge n. 69/2019, ha introdotto l’art. 387-bis c.p. che punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni la violazione degli obblighi derivanti dalla misura pre-cautelare dell’allontanamento urgente dalla casa familiare disposto dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 383-bis c.p.p., dell’ordinanza di applicazione di misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.).
La fattispecie incriminatrice, introdotta tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia nel titolo III, si pone la finalità deterrente rispetto alla violazione delle misure menzionate per rafforzare la prevenzione della reiterazione delle condotte della stessa specie di quelle che hanno motivato l’adozione della misura cautelare o pre-cautelare.
L’introduzione della fattispecie incriminatrice, la cui pena non consente l'arresto facoltativo e l'applicazione di misure cautelari[46], si rivela insufficiente ove sul piano operativo non si assisterà alla rigorosa applicazione dell’art. 276 c.p.p. che consente al giudice di disporre la sostituzione o l’applicazione di altra misura più grave, tenuto conto dell'entità, dei motivi e delle circostanze della violazione della misura applicata.
Il nodo problematico da affrontare è correlato, ancora una volta, alla formazione e specializzazione: non di rado, infatti, le segnalazioni di violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa sono sottovalutate e non lette nei termini di reiterazione delle condotte illecite per le quali la misura cautelare è stata applicata, mentre le motivazioni a giustificazione del comportamento addotte dal soggetto sottoposto a misura trovano maggior credito (soprattutto allorché abbiano a pretesto la condivisione della responsabilità genitoriale sui figli minorenni) e alla violazione non segue l’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 276 c.p.p., così indebolendo l’efficacia preventiva di tutto il sistema delle misure cautelari specifiche. La violazione dell’ordine di protezione adottato in sede civile rimane sanzionato dalla fattispecie di cui all’articolo 388 comma 2 c.p. che punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro centotre a euro milletrentadue chi elude l'ordine di protezione previsto dall'articolo 342 ter c.c, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
5. LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE E MISURE DI PREVENZIONE
Gli interventi sul codice di procedura penale sono accomunati dalla finalità di evitare che eventuali stasi tra l’acquisizione della notizia di reato, la sua iscrizione e l’avvio delle indagini preliminari, possano ritardare l’adozione di misure a protezione della persona offesa dai reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate commesse in contesti familiari o nell’ambito delle relazioni di convivenza.
In effetti, l’assenza di tempestività, che non di rado si è trasformata in inerzia[47], è il più grave rilievo mosso all’intervento delle autorità italiane nei casi di violenza: ciò si legge sin dalla delibera del luglio 2009 emessa dal CSM a seguito dell’attività di documentazione delle avvocate dei centri antiviolenza[48], è stato ribadito nei successivi atti di indirizzo del medesimo organo, fino alle linee guida di maggio 2018[49], è stato rilevato quale violazione degli artt. 2, 3 e 8 dalla Corte EDU nella sentenza Talpis e segnalato come principale problematicità nella relazione al Senato del 6 febbraio 2018 dalla Presidente Francesca Puglisi della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere[50].
Dai documenti e dalla giurisprudenza menzionati si comprende tuttavia, ancora una volta, che il ritardo o l’omesso intervento non sono riconducibili all’assenza di norme. È opportuno chiarire, infatti, che a seguito di acquisizione di notizia di reato, in ogni caso, è prescritto che la polizia giudiziaria riferisca «senza ritardo» per iscritto al pubblico ministero «gli elementi essenziali sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione» (art. 347, comma 1, c.p.p.). La comunicazione immediata, anche in forma orale, è prescritta «in ogni caso, quando sussistono ragioni di urgenza».
Con riguardo alla formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, la priorità assoluta per i delitti di cui agli artt. 572 e da 609-bis a 609-octies e 612-bis c.p. è invece già assicurata dall’art. 132-bis disp att. c.p.p. che, tuttavia, a riprova della frammentarietà della penna del legislatore, non è stato aggiornato con l’inclusione dei nuovi delitti.
Se da un lato si registra una scarsa attuazione di questo criterio acceleratorio, motivato spesso da carenze strutturali degli uffici giudiziari, il ritardo nella trasmissione della notizia di reato alla procura non è dipesa, fino alla novella, da una lacuna normativa, piuttosto dalla sottovalutazione delle ragioni di urgenza che sussistono in caso di denuncia presentata da una donna nei confronti del coniuge, del compagno o dell’ex partner, così come della sottostima della pericolosità degli autori di violenza nelle relazioni di intimità. Unico rimedio efficace per sradicare un’attitudine diffusa, ma motivata esclusivamente da ragioni culturali e, non di rado, da pregiudizi sul fenomeno, ancora letto nella cornice di «liti in famiglia», sarebbe stata, di conseguenza, la formazione e la specializzazione della polizia giudiziaria, come già segnalato nel corso delle audizioni dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera: l’art. 5 legge n. 69/2019, coglie parzialmente il suggerimento, prevedendo la formazione obbligatoria della polizia giudiziaria, dimenticando però di promuoverne la specializzazione[51], e omettendo pure di prevedere mezzi e risorse economiche per assicurare periodicità e omogeneità dell’attività formativa.
L’art. 2, continuando nella prospettiva acceleratoria, introduce all’art. 362 c.p.p., dedicato all’assunzione delle informazioni da parte del pubblico ministero, il comma 1-ter, nel quale si stabilisce che entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato si debba procedere ad assumere informazioni «dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell'interesse della persona offesa».
Il termine di tre giorni è ordinatorio e l’atto rientra tra quelli che possono essere delegati alla polizia giudiziaria, scelta che sarà obbligata a fronte dell’assenza di un potenziamento organizzativo, di mezzi e di risorse degli uffici giudiziari, con obbligo di adempimento «senza ritardo», secondo l’art. 370, comma 2-bis, c.p.p., introdotto dall’art. 3, con immediata trasmissione della documentazione dell’attività svolta.
Per di più, la misura non appare propriamente corrispondere all’interesse della persona offesa: ove la denuncia querela presentata, infatti, sia precisa, dettagliata e circostanziata, e tale può essere allorché la polizia giudiziaria abbia saputo approfondire i fatti, rilevando la durata, la natura dei rapporti tra le parti, le diverse forme di violenza in cui si è articolata la condotta e tutti gli elementi utili per verificare anche la sussistenza di esigenze cautelari, l’assunzione di ulteriori informazioni a distanza di tre giorni, verosimilmente sempre dagli stessi operanti che hanno acquisito la denuncia, espone la persona offesa alla vittimizzazione secondaria, ponendosi quindi in contrasto con gli obblighi derivanti dalla Direttiva 2012/29/UE che per le vittime di violenza nelle relazioni di intimità indica l’adozione di speciali misure di protezione (cons. 17), stabilendo, tra l’altro, all’art. 20 che il numero delle audizioni della vittima deve essere limitato al minimo e devono aver luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell'indagine penale.
Inoltre, dietro la finalità ufficiale della novella di garantire immediato contatto della persona offesa con l’autorità giudiziaria, anche ai fini dell’accertamento della sussistenza di esigenze cautelari, trapela, tuttavia, la diffidenza nei confronti delle persone offese che denunciano i delitti di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori: solo per costoro è previsto il compimento obbligatorio di un atto che nel sistema è eventuale, così rafforzando il pregiudizio di «non credibilità» che ancora ostacola il pieno accesso delle donne alla giustizia.
Non si tiene conto, inoltre, del fatto che, a soli tre giorni dall’acquisizione e trasmissione della notizia di reato, la persona offesa potrebbe trovarsi verosimilmente in una situazione di controllo attuale da parte dell’autore delle condotte denunciate, senza aver avuto lo spazio temporale per avere accesso ai centri antiviolenza e ai servizi di assistenza alle vittime di cui all’informativa obbligatoria ricevuta dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 90-bis c.p.p.
L’art. 14 interviene a integrare anche questo articolo, sebbene di recente introduzione, inserendo nel catalogo informativo anche il riferimento ai servizi di assistenza alle vittime di reato, rimasto nella penna del legislatore che ha recepito la Direttiva 2012/29/UE; ha esteso, inoltre, all’art. 190-bis, comma 1-bis, c.p.p., da sedici anni a diciotto anni l’età del testimone che ha già reso dichiarazioni in incidente probatorio e per il quale si limita la nuova escussione solo a «fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze», quando si procede per uno dei reati previsti dagli artt. 600-bis, comma 1, 600-ter, 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all'art. 600-quater 1(3), 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies c.p.
L’art. 15 ha integrato gli obblighi di comunicazione, introdotti dal d.lgs. n. 212/2015 e in parte anche dalla legge n. 119/2013, della scarcerazione, evasione, applicazione e revoca o sostituzione di misure cautelari, prevedendo espressamente, di volta in volta, la comunicazione contestuale alla persona offesa e al difensore ove nominato, a prescindere dalla richiesta della persona offesa, superando l’elezione di domicilio ex officio della persona offesa presso il difensore nominato stabilita dall’art. 33 disp. att. c.p.p.
Tale disposizione assicurava un filtro alle comunicazioni destinate alla persona offesa, tutelando la riservatezza di quest’ultima, eventualmente convivente con altre persone legate all’indagato/imputato e/o condannato. La modifica, in particolare con riferimento alla comunicazione prevista dall’art. 282-quater c.p.p. della misura cautelare dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare (282-bis c.p.p.), potrebbe rivelarsi fattore di rischio per l’incolumità della persona offesa, ove la polizia giudiziaria non procedesse alla sua convocazione presso gli uffici, dando invece notifica presso il domicilio che la persona offesa condivide con l’indagato attinto da misura cautelare.
Il comma 2 dell’art. 13 estende la possibilità per il giudice di disporre l'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall'art. 275-bis c.p.p., ossia mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, nel caso in cui la frequentazione dei luoghi che rientrano nella sfera delle abitudini della persona offesa sia necessaria all’indagato/imputato per motivi di lavoro ovvero per esigenze abitative. La disposizione, tuttavia, potrà trovare scarsa applicazione, stante l’assenza di previsioni finanziarie atte a fornire gli uffici giudiziari dei cosiddetti braccialetti elettronici in dotazione sufficiente.
L'art. 16 modifica l'art. 275, comma 2-bis, c.p.p. in materia di criteri di scelta delle misure cautelari, inserendo accanto ai delitti di maltrattamenti (art. 572 c.p.) e atti persecutori (art. 612 bis c.p.), anche la fattispecie di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti di cui all'art. 612-ter c.p nel catalogo dei delitti per i quali non è applicabile l’esclusione della custodia cautelare in carcere ove il giudice ritenga che, «all'esito del giudizio», la pena detentiva «irrogata» non sarà superiore a tre anni.
Con riguardo alle misure cautelari, dall’aumento dei limiti edittali massimi per i delitti di maltrattamenti e atti persecutori, deriva l’estensione della durata massima delle misure cautelari[52].
Se tale prolungamento della durata massima delle misure cautelari può sembrare rimedio utile per tenere conto delle esigenze di protezione delle persona offesa, che vede venir meno la misura applicata a volte già durante le indagini o nel corso del dibattimento, tuttavia interventi dilatori dei termini, hanno in generale l’effetto concreto di rallentare il procedimento penale a danno del principio della sua ragionevole durata, garanzia dell’imputato, ma anche per la vittima del reato a una risposta giudiziaria effettiva[53].
Meritano approfondimento, infine, le modifiche apportate dall’art. 9, comma 4, legge n. 69/2019, a gli artt. 4 e 8 del d.lgs. n. 159/2011, c.d. Codice Antimafia, per la prima volta applicate in casi di violenza nei confronti delle donne dal Tribunale di Roma su richiesta della Procura di Tivoli[54]: il legislatore ha espressamente consentito l’applicabilità all’indiziato per il delitto di maltrattamenti e di atti persecutori, superato l’accertamento in concreto dell’attualità della sua pericolosità sociale[55], della misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con la possibilità di disporre, ove necessario, anche il divieto di soggiorno in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale o in una o più province. Con il consenso dell'interessato, anche a in questo caso potrà essere utilizzato il c.d. braccialetto elettronico, ove disponibile. Infine, gli indagati per il delitto di maltrattamenti e per il delitto di atti persecutori potranno essere sottoposti a misure di prevenzione di natura patrimoniale e al divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione o da minori.
6. CENTRI ANTIVIOLENZA
La legge n. 69/2019 interviene solo marginalmente in tema di centri antiviolenza, misure di assistenza a favore degli orfani dei crimini domestici e in tema di indennizzo, senza apportare modifiche sostanziali che possano concretamente rafforzare il perseguimento delle finalità correlate alle disposizioni novellate.
Con riguardo ai centri antiviolenza, l’art. 18, legge n. 69/2019 sopprime una clausola introdotta all’art. 5-bis, d.l. n. 93/2013, convertito dalla legge n. 119/2017, funzionale a promuovere la costituzione di nuove case rifugio e centri antiviolenza: il legislatore del 2013, infatti, aveva valutato l’opportunità di riservare un terzo dei fondi disponibili «all'istituzione di nuovi centri e di nuove case-rifugio al fine di raggiungere l'obiettivo previsto dalla raccomandazione «Expert Meeting sulla violenza contro le donne», Finlandia, 8-10 novembre 1999», documento nel quale già si evidenziavano le carenze dell’ordinamento italiano in tema di protezione e accoglienza per le donne in fuga da situazione di violenza domestica.
L’abrogazione della clausola di riserva dei fondi conferma la fondatezza delle preoccupazioni espresse dalle organizzazioni di donne impegnate sul territorio ad assicurare una gestione secondo i canoni di indipendenza e con una prospettiva di genere come richiesto dalla Convenzione di Istanbul (artt. 9, 22 e 23 Convenzione di Istanbul), che hanno segnalato l’insufficienza delle risorse stanziate e i ritardi nella loro erogazione, dal momento che nessun rimedio è stato predisposto alle problematiche gestionali già rilevate dalla Corte dei conti nella relazione adottata il 5 settembre 2016[56]. La debolezza degli interventi oggi trova conferma nella richiesta urgente rivolta alle istituzioni di reperire fondi e strutture per rispondere adeguatamente alle necessità delle donne a rischio durante l’attuale emergenza sanitaria.
7. CONCLUSIONI
Con l’entrata in vigore della legge n. 69/2019 emerge, dai dati resi pubblici dalla stampa, un considerevole aumento delle notizie di reato trasmesse alle Procure nel solo mese di agosto: la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, nell’immediatezza dell’entrata in vigore della legge, ha ricevuto almeno trenta segnalazioni al giorno, tra le quali, purtroppo, anche la querela di Adriana Signorelli[57], uccisa dal marito dal quale si stava separando il 1° settembre, quattro giorni dopo la sua denuncia. Quest’ultima, però, pare essere la più recente di altre querele presentate nei confronti del marito per maltrattamenti, danneggiamento e minacce gravi. A seguito dell’ultima denuncia, dalle notizie diffuse dalla stampa, la donna sarebbe stata invitata a lasciare la sua abitazione a tutela della sua incolumità, così addossando alla stessa l’onere della sua protezione, mentre nessuna misura restrittiva sembra essere stata applicata nei confronti dell’autore delle condotte, a distanza ormai di mesi dai primi comportamenti illeciti (novembre 2018).
Con il prolungarsi della vigenza delle misure di contenimento della pandemia causata dal corona virus, la cronaca non ha potuto ignorare le notizie di aggressioni in casa che hanno costretto le donne a lasciare la loro abitazione, in piena emergenza sanitaria, rivelando l’inattuazione delle disposizioni vigenti che consentono l’allontanamento dell’autore di violenze dalla casa di convivenza, tanto da costringere la Procura della Repubblica di Trento ha raccomandare il ricorso alle misure precautelari, tra cui l’allontanamento urgente dalla casa familiare (art. 384 bis c.p.p.), e la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.).
Rimane la considerazione che le modifiche legislative intervenute in materia negli ultimi dieci anni necessitano di sedimentazione e, al momento, l’unica riforma davvero necessaria per assicurare alle donne il diritto di vivere libere dalla violenza è quella culturale, volta a rifondare le relazioni sociali per incidere in modo trasformativo anche sugli operatori del diritto[58], affinché si dia immediatamente credito a una donna che chiede aiuto e che manifesta paura per la sua vita.
[1] Secondo i primi commenti, l’atto non si discosta dalla cornice di un «populismo penale come progetto politico di governo». Così G.D. Caiazza, Governo populista e legislazione penale: un primo bilancio, Dir. pen. proc, 2019, p.589. Per un primo commento della legge si veda S. Recchione, Codice Rosso. Come cambia la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere con la legge 69/2019, www.ilpenalista.it, 26 Luglio 2019; M.C. Amoroso-L. Giordano- G. Sessa, Relazione su novità normativa, Corte di cassazione, Ufficio del Massimario.
[2] S.U. 29 gennaio 2016, n. 10959, in Dir. pen. proc., 2016, 1063 ss., nt. Michelagnoli, L'espressione "delitti commessi con violenza alla persona" al vaglio delle Sezioni Unite: rileva anche la violenza psicologica, pp. 1071-1079; Peccioli, Delitti commessi con violenza alla persona e atti persecutori: un problema processuale privo di riflessi sostanziali, pp.1080-1084; Amoroso, La nozione di delitti commessi con violenza alla persona: il primo passo delle Sezioni Unite verso un lungo viaggio, CP, 2016, pp. 3714 ss.
[3] Il riferimento è al DDL A.S. n. 735. Per un commento si veda I. Boiano- M.T. Manente- S. Napolitani, La genitorialità come luogo di controllo sociale e legittimazione della violenza sessista, in www.senato.it.
[4] Alla sottovalutazione della gravità, peraltro, il Comitato riconduce anche «il basso tasso di procedimenti giudiziari e di condanne, con conseguente impunità per gli autori dei reati; il basso tasso di ordini di protezione emessi dai tribunali in sede civile; il frequente invio delle donne vittime di violenza a servizi mediazione familiare e conciliazione; le disparità regionali e locali relative alla disponibilità e la qualità dei servizi di assistenza e protezione, compresi i rifugi, per le donne vittime di violenza». Così Comitato CEDAW, Concluding observations on the seventh periodic report of Italy, luglio 2017, che si può leggere sul sito dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, www.ohchr.org.
[5] C. edu, 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, in Oss. fonti, 2017, f. 3, p. 26, nt. Buscemi, La protezione delle vittime di violenza domestica davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Alcune osservazioni a margine del caso "Talpis c. Italia"; in RIDPP, 2017, pp. 1192-1195, con nota di Casiraghi, L'Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere; in Fam. dir., 2017, pp. 626-635, nt. Folla, Violenza domestica e di genere: la Corte EDU, per la prima volta, condanna l'Italia.
[6] Cass.16 maggio 2019, n. 34091. Per un’analisi complessiva della costruzione di un ordinamento multilivello e della dottrina in materia si veda R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, 2011; A. Di Stasi, I rapporti fra l’ordinamento e il sistema convenzionale, in Id. (a cura di), Cedu e ordinamento italiano. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e l’impatto nell’ordinamento interno (2010-2015), Cedam, 2016, 73 ss.; V. Zagrebelsky- R. Chenal-L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, 2016, pp. 55 ss.
[7] Anche la normativa sostanziale e processuale vigente deve essere interpretata alla luce delle medesime fonti sovranazionali che ne costituiscono la premessa, in particolare con riguardo al diritto dell’Unione Europea e alla CEDU, e ciò in ossequio all’obbligo di interpretazione conforme in virtù del comma 1 dell’articolo 117 Cost. (C. cost. 24 ottobre 2017, nn. 348 e 349, ribadite nel loro assetto di fondo dalla C. cost. 11 marzo 2011, n. 80). Per una disamina del tema dell’interpretazione conforme si veda A. Bernardi (a cura di), L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea. Profili e limiti di un vincolo problematico, Jovene, 2015.
[8] Comitato Cedaw, Raccomandazione generale n.19: Violenza nei confronti delle donne, doc. A/47/38, 1992, § 6, che si può leggere sul sito dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, www.ohchr.org. Per una disamina complessiva delle prospettive di analisi del fenomeno si veda I. Boiano, Femminismo e processo penale. Come può cambiare il discorso giuridico in tema di violenza maschile contro le donne, Ediesse, 2015.
[9] Nazioni Unite, Dichiarazione sull’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, risoluzione dell’Assemblea Generale n. 48/104 del 20 Dicembre 1993.
[10] Così D. Otto, Violence Against Women: Something Other than a Human Right Violation, in Australian Feminist Law Journal, n. 1, 1993, p. 161.
[11] Adottata nel 2011, ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77, ed entrata in vigore il 1° agosto 2014.
[12] C. Benninger-Bude, Due Diligence and Its Application to Protect Women from Violence, Nijhoff Law Specials, 2009, p. 11.
[13] Incarico istituito dalle Nazioni Unite con la risoluzione n. 45/1994.
[14] Così Comitato Cedaw, Raccomandazione Generale n. 35 sulla violenza di genere contro le donne e di aggiornamento della raccomandazione generale, CEDAW/C/GC/35, 14 luglio 2017.
[15] C. edu, M.C. c. Bulgaria, 4 dicembre 2003, §148 ss.
[16] C. edu, Opuz c. Turchia, 9 giugno 2009, §132.
[17] C. edu, A. c. Croazia, 14 ottobre 2010, §60.
[18] C. edu, B.S. c. Spagna, 24 luglio 2012, §§40 ss.
[19] C. edu, Y. c. Slovenia, 28 maggio 2015, §§23 ss.
[20] C. edu, Maiorano c. Italia, 15 dicembre 2009; Kontrovà c. Slovacchia, 31 maggio 2007; Opuz c. Turchia, cit.; Hajduovà c. Slovacchia, 30 novembre 2010; Valiulené c. Lituania, 26 marzo 2013; Eremia c. Moldavia, 28 maggio 2013.
[21] C. edu, O.C.I. e altri c. Romania, 21 maggio 2019; D.M.D. c. Romania, 3 ottobre 2017.
[22] C. edu, Y. c. Slovenia, 28 maggio 2015.
[23] Tale approccio ha guidato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo anche nei casi successivi Eremia e altri c. Moldavia, 28 maggio 2013; Mudric c Moldavia, 16 luglio 2013, B. c. Moldavia, 16 luglio 2013; Talpis c. Italia, 2 marzo 2017; Volodina c. Russia, 9 luglio 2019.
[24] I limiti edittali erano già stati innalzati dagli originari uno/cinque anni alla fascia compressa tra due e sei anni dalla legge 1° ottobre 2012, n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007.
[25] L’ergastolo era già applicabile in caso di omicidio commesso in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 600-bis 600-ter, 609-bis, 609-quater, 609-octies (n. 5) (art. 576, n. 5, c.p., integrato dalla legge n. 69/2019 con il delitto di cui all’art. 583-quinquies c.p.), e per l’autore del delitto previsto dall’art. 612-bis nei confronti della stessa persona offesa (art. 576, n. 5.1, c.p.). Si veda Cass. 14 aprile 2019, n. 20785.
[26] Il limite non ha efficacia nel caso la condotta sia stata commessa per motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, n. 1, c.p.), dal vizio parziale di mente (art. 89 c.p.), dalla minore età (art. 98 c.p.) e dalla minima importanza dell’opera prestata nel concorso di persone nel reato (art. 114 c.p.).
[27] Si vedano le prime critiche dell’Unione Camere Penali in sede di trattazione del disegno di legge in Commissione giustizia del Senato, http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/documenti/51600_documenti.htm.
[28] La violenza assistita è integrata dalla condotta di chi costringa il minore, suo malgrado, a presenziare – quale mero testimone – alle manifestazioni di violenza, fisica o morale, è invero certamente suscettibile di realizzare un'offesa al bene tutelato dalla norma (la famiglia), potendo comportare gravi ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata. Si veda Cass. 23 febbraio 2018, n. 18833; Cass. 10 aprile 2019, n. 21768.
[29] Tavolo interistituzionale per la prevenzione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne presso il Tribunale di Roma, Linee operative per il coordinamento tra gli uffici giudiziari civili e penali, 9 maggio 2019.
[30] Sul punto si veda M.T. Manente (a cura di), La violenza nei confronti delle donne dalla convenzione di Istanbul al Codice Rosso, Giappichelli, 2019, pp. 57 ss.
[31] Sarebbe stata opportuna, tuttavia, per verificare la necessità stessa della fattispecie incriminatrice o comunque per meglio articolarla, una preliminare ricerca, sollecitata dalle organizzazioni della società civile interpellate dalla Commissione Giustizia del Senato in sede di discussione dei disegni di legge dedicati al tema , per rilevare e descrivere l’estensione e le caratteristiche del fenomeno e quindi il numero, la dinamica e le peculiarità dell’esperienza delle donne e delle ragazze a rischio di matrimoni forzati, senza trascurare le loro caratteristiche (età, scolarizzazione, sesso, paese di origine), la strategia da loro stesse dispiegata o ipotizzata per sottrarsi all’imposizione, le conseguenze fisiche, psicologiche, economiche e sociali vissute dalle donne. Piattaforma Lavori In corsa Cedaw, Rapporto Ombra al Comitato CEDAW, 2011; A. Davide-T. Dal Pra-P. Randini-B. Spinelli (a cura di), Onore e destino, izzat e kismet, honour and fate. Linee guida per la prevenzione ed il contrasto ai matrimoni forzati, Trama di terra, 2004. Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Recommendation 1723 (2005) Forced marriages and child marriages, 5 Ottobre 2005.
[32] G. Pepè, I matrimoni forzati presto previsti come reato anche in Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 20 maggio 2019.
[33] A.S. n. 174; A.S. n. 664.
[34] Si rinvia ai risultati del progetto condotto da Differenza Donna Ong, Best Practices To Empower Women Against Female Genital Mutilation. Operating For Rights And Legal Efficacy, Commissione europea, 2018-2020.
[35] D.Diawara- C. Jama, Une loi pénale spécifique contre le mariage forcé? Une fausse bonne solution, in Voix de Femmes. Étude de faisabilité d’une Cellule d’Alerte, de Veille et d’Intervention en faveur des jeunes mineures et majeures en danger d’envoi forcé et de mariage forcé à l’étranger, Voix de Femmes, 2009.
[36] Formula più ristretta rispetto a quella proposta durante i lavori parlamentari, “timore reverenziale di tale gravità da doversi ritenere un vizio del consenso”, che potrebbe essere recuperata dal legislatore.
[37] C. Pateman, Women and Consent, Political Theory, 1980, vol. 8 n. 2, pp. 149-168.
[38] Cass. 2 marzo 2017, n. 22685, Cass. 16 giugno 2014, n. 32984; Cass. 16 gennaio 2012, n. 21998.
[39] Cass. 16 giugno 2014, n. 32984.
[40] Cass. 4 luglio 2000, n. 12006.
[41] Cass. 16 giugno 2014, n. 32984; Cass.16 gennaio 2012, n. 2199; Cass. 21 aprile 2010, n. 26155; Cass. 4 luglio 2000, n. 12006.
[42] Accademia della Crusca, La legge sulla diffusione di immagini sessualmente esplicite e la pornovendetta, non "revenge porn", Firenze, 4 aprile 2019.
[43] Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo, XVIII legislatura.
[44] Cass. 28 novembre 2017, n. 57764.
[45] Cass. 16 luglio 2010, n. 32404.
[46] Sul punto S. Recchione, Codice Rosso cit.
[47] Si veda il caso del femminicidio di Marianna Manduca, su cui si è pronunciato T. Messina, Sez. I, 30 maggio 2017.
[48] C.S.M., Iniziative per migliorare la risposta di giustizia nell'ambito della violenza familiare, delibera dell’8 luglio 2009.
[49] C.S.M., Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, delibera del 9 maggio 2018.
[50] F. Puglisi, Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere. Relazione al Senato, 6 febbraio 2018.
[51] F. Menditto, Linee guida per l’applicazione della legge n.69/2019, Procura di Tivoli, Prot. n. 1229/19U.
[52] Per la custodia cautelare in carcere si dovrà considerare, infatti, il termine di sei mesi in fase di indagini e un anno, dopo il decreto che dispone il giudizio, in quanto si tratta di reati per i quali ormai la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni; i termini saranno raddoppiati per le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere, tra cui l’ordine di allontanamento e il divieto di avvicinamento alla persona offesa.
[53] C. edu, Jankovic c. Croazia, 5 marzo 2009, §69.
[54]T. Roma Sez. III, decr. 3 aprile 2017.
[55] F. Menditto, Le misure di prevenzione e la confisca allargata (l. 17 ottobre 2017, n. 161), Giuffré, 2017, pp. 26 ss. In giurisprudenza cfr. ex multis Cass. 1 febbraio 2018, n. 7420; Cass. 7 gennaio 2016, n. 6636; S.U. 29 maggio 2014, n. 33451; Cass. 22 settembre 2006, n. 34150.
[56] C. conti, La gestione delle risorse finanziarie per l’assistenza e il sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli (d.l. n. 93/2013), 5 settembre 2016, n. 9/2016/G.
[57] A. Galli, Codice Rosso anti-femminicidio, Greco: «Legge giusta ma siamo sommersi di denunce», in milano.corriere.it, 2 settembre 2019.
[58] A. Simone- I. Boiano (a cura di), Femminismo ed esperienza giuridica. Pratiche, Argomentazione, Interpretazione, Efesto, 2018.
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