ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista a Maurizio De Lucia, Dino Petralia e Lia Sava
di Andrea Apollonio
Gli aiuti che i governi nazionali e le istituzioni europee e internazionali si apprestano a mettere in campo per fronteggiare la tragica situazione economico-sociale che l'Italia - come il resto del mondo - sta vivendo a causa della diffusione del Coronavirus, rappresentano un'immissione di risorse pubbliche pari soltanto a quella registrata nel dopoguerra: allora come adesso, l'esigenza è "ricostruire", sgombrando il campo dalle macerie della depressione.
Da quel piano di aiuti a questo, sono intercorsi settant'anni: di storia repubblicana, ma anche di prolificazione delle mafie. Settant'anni in cui le mafie - ed in particolare Cosa Nostra siciliana - si sono esponenzialmente arricchite con i soldi pubblici puntualmente erogati dallo Stato per fronteggiare ogni sorta di emergenza. E' una storia che Maurizio De Lucia (oggi procuratore capo di Messina), Lia Sava (oggi procuratore generale di Caltanissetta) e Dino Petralia (oggi procuratore generale di Reggio Calabria) conoscono bene, anche per la lunga militanza nella procura palermitana; e che rievocano, intessendo conoscenze professionali e ricordi personali.
E' a loro che Giustizia Insieme, nell'intento di contribuire efficacemente al dibattito sui rischi di infiltrazioni mafiose nella gestione emergenziale delle risorse pubbliche e dell'elargizione - anche tramite linee di credito garantite dallo Stato - di aiuti economici ai privati, ha rivolto domande che, andando oltre le semplificazioni giornalistiche, invitano a scavare più a fondo.
I tre procuratori in quest'intervista formulano proposte che tentano un difficile bilanciamento tra i vari interessi in gioco. Lo scenario che tratteggiano è fosco, puntato di chiaroscuri, dal quale emerge anche un messaggio rassicurante: se è vero che il nostro Paese non ha dimenticato l'oramai trentennale lezione impartita da Giovanni Falcone, che chiede anzitutto al legislatore cautele e controlli sui flussi finanziari (fonte primaria del rafforzamento mafioso), questa volta non si permetterà alle cosche di trarre profitto dalle difficoltà economico-sociali del nostro Paese.
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1. Qualche tempo fa il quotidiano tedesco conservatore Die Welt ha pubblicato un articolo in cui si affermava che in Italia la mafia aspettava soltanto i soldi che l'Unione Europea avrebbe erogato per l'emergenza Coronavirus, suscitando aspre critiche da parte di politici italiani. Qualche giorno dopo, però, due voci autorevoli della magistratura inquirente italiana, Francesco Greco e Giovanni Melillo, hanno messo in guardia il Governo, che nel Decreto Credito non avrebbe previsto adeguati strumenti di controllo del rischio di finanziamento privato (ma con garanzie pubbliche) delle mafie e delle loro imprese; rischio, anzi, che i due Procuratori definiscono "assai concreto". Viene dunque spontaneo chiederVi, anzitutto: l'emergenza sanitaria da Covid19 può davvero rappresentare una grande opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose?
Lia Sava: L’emergenza sanitaria da Covid 19 rappresenta, senza ombra di dubbio, una straordinaria ed inaspettata opportunità di arricchimento per le organizzazioni mafiose. Trattasi di questione complessa, che deve essere affrontata senza semplificazioni o approssimazioni di sorta ma, al contrario, va analizzata alla luce di ciò che ben conosciamo in ordine alle dinamiche delle organizzazioni di stampo mafioso operanti non solo in Italia ma anche all’estero. Siamo di fronte ad una partita che si sta già giocando fra le mafie e gli organi dello Stato chiamati a contrastarle e dal cui esito finale dipende il futuro della economia legale del nostro Paese. Non vi è crisi che non venga sfruttata dalla criminalità organizzata come un’opportunità di guadagno e l’emergenza in atto, inaspettata e di proporzioni inimmaginabili, se non scatteranno idonei meccanismi volti a garantire legalità e trasparenza nella redistribuzione della liquidità della quale famiglie ed imprese hanno necessità impellente, potrebbe determinare una crescita esponenziale dei profitti scaturenti dal malaffare. La rapida diffusione del Covid 19 in Italia ha colto tutti impreparati ma le grandi mafie sono in grado di farvi fronte più agevolmente perché nel loro tessuto connettivo è insita la capacità di rapido adattamento ai mutamenti economici e sociali e questo è tratto distintivo ben noto alle Forze di Polizia e alla magistratura inquirente.
Invero, prima ancora del quotidiano tedesco Die Welt, due circolari della DAC (la Direzione Centrale Anticrimine) della Polizia di Stato indirizzate a tutti i Questori d’Italia, in data 27 marzo e 4 aprile, hanno segnalato la necessità prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus. Lo scenario che possiamo ipotizzare è, dunque, allarmante. Le imprese riconducibili alla criminalità organizzata cercheranno di infiltrarsi, con svariate modalità che dovremo riuscire ad intercettare, in diversi settori del circuito produttivo, alcuni dei quali particolarmente attivi in fase di emergenza, pensiamo alle forniture alimentari ed a particolari presidi medici, ed in altri che, al contrario, sono stati messi in ginocchio dalla stessa crisi come, ad esempio, il settore turistico e l’edilizia. Le mafie cercheranno di inserirsi a vario titolo nelle maglie interstiziali dei circuiti produttivi in difficoltà con strumenti poliedrici e verosimilmente raffinati ma che dovremmo aver imparato a conoscere attraverso le risultanze di indagini e processi in materia di criminalità mafiosa che abbiamo celebrato negli ultimi venticinque anni nel nostro paese.
Allora: la sfida è tutta qui. Non vi è crisi che non costituisca un’opportunità per le mafie di accrescere il loro potenziale, sfruttando il consenso sociale che possono recuperare distribuendo generi alimentari, prestando denaro. Lo Stato deve certamente snellire l’accesso al credito per le imprese in difficoltà perché la rapidità, in questa partita, è fondamentale ma attenzione: questa rapidità non deve significare meno controlli. Se la parola magica è “ liquidità” (che le mafie tendono a fornire attraverso prestiti rapidi che condurranno alla compartecipazione nell’impresa fino a fagocitarla) occorrerà essere tempestivi a contrastare le infiltrazioni nei settori particolarmente a rischio.
La partita la vincerà lo Stato se sapremo arginare l’accaparramento da parte di imprese mafiose dei sussidi sia nazionali che europei e delle gare di appalto. Ovviamente si dovrà prestare particolare attenzione al settore sanitario, dove occorrerà scongiurare che nella fase due si abbassino la tutela di legalità ed i controlli per la partecipazioni agli appalti e sarà indispensabile anche un senso etico nella ripartenza da parte degli imprenditori, direi un’ etica paziente che costituirà uno dei fattori indispensabili per vincere la nostra partita. Infatti, al fine di rafforzare la capacità di tenuta dell’imprenditoria sana ed al fine di contrastare le mire espansionistiche del crimine organizzato, se da un lato è utile semplificare le leggi per l’erogazione del credito, dall’altro è essenziale essere capaci di effettuare sempre una rapidissima valutazione ex ante dei rischi criminali connessi ad una normativa prima che la stessa sia emanata, prendendo spunto proprio dalle risultanze di indagini delle Direzioni Distrettuali Antimafia ed Antiterrorismo degli ultimi anni. Ad esempio, prima di varare una nuova normativa, occorrerebbe verificare se la criminalità organizzata ha utilizzato, in passato, proprio quei meccanismi che, per ipotesi, la disciplina in fieri verrebbe a consentire.
Maurizio De Lucia: Innanzitutto non metterei in connessione le affermazioni ed i luoghi comuni del quotidiano tedesco con le molto più concrete e analitiche osservazioni dei procuratori di Napoli e Milano; dopodiché il pericolo di interessamenti delle mafie su tutto quello che l’emergenza del coronavirus comporta è certamente reale.
E’ la storia delle mafie che ci parla della loro capacità di cogliere tutte le occasioni possibili per accrescere il loro potere.
Individuo in particolare quattro profili, del resto già segnalati da autorevoli colleghi e commentatori:
quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando “risorse” proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo. Penso in particolare alle presenze mafiose in diverse amministrazioni comunali di piccoli centri del Sud Italia dove il rischio, in assenza di verifiche e controlli è certamente concreto;
quello di utilizzare le risorse pubbliche e i canali di finanziamento offerti dalla legislazione anticrisi sia per impossessarsene che quali utili canali di riciclaggio;
quello di acquisizione delle molte imprese che saranno vittime della crisi;
quello, forse il più pericoloso per le implicazioni che comporta, di riuscire ad infiltrarsi negli appalti pubblici che verranno. Non dimentichiamo che gli appalti, da sempre costituiscono per le mafie l’anticamera del salotto che consente di parlare con l’economia e con la politica. Il rischio concreto di controlli poco stringenti è che riviva quel tavolino che negli anni '80 del secolo scorso vedeva seduti insieme uomini di Cosa nostra, imprenditori e politici. Ricordiamoci che quel “tavolino” fu favorito anche da una imponente stagione di spese pubbliche in deroga effettuate in Sicilia per un valore in pochi anni di 5000 miliardi delle vecchie lire.
Dino Petralia: Basti ricordare cosa ha rappresentato l’EXPO per Milano o la ricostruzione del dopo sisma in Abruzzo ed altri grandi eventi ancora in cui il flusso di denaro è stato enorme e soprattutto a rischio di accesso ad un’imprenditoria troppo disinvolta. Se non coinvolta col crimine organizzato.
Detto ciò, credo anche che il DL credito/liquidità non sia la sede esatta per pianificare controlli e meccanismi di filtro antimafioso. Disponiamo già di uno strumentario cospicuo di meccanismi preventivi di controllo e intervento e su questo l’ANAC ha svolto un ruolo assai determinante e fruttuoso; occorre raffinare e allertare e su questo registro il grido d’allarme di Greco e Melillo mi pare opportuno e tempestivo.
2. Sempre nel Decreto Credito - che il premier Conte ha definito una "potenza di fuoco con 400 miliardi di garanzie per le imprese" - sembra si sia rinunciato tanto al tradizionale controllo prefettizio sui beneficiari della misura (nei confronti dei richiedenti il finanziamanto), tanto alla tracciabilità dell'uso del finanziamento (denaro), attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati. Nella Vostra esperienza di capi di importanti uffici inquirenti, in realtà meridionali fortemente caratterizzate dalla presenza mafiosa, quanto sono importanti i presidi amministrativi e bancari nell'arginare il rischio di elargizione dei fondi alle imprese che rispondono a interessi criminali? Ed è secondo voi opportuno, nell'ambito di un'emergenza sanitaria (e quindi economico-sociale) che impone di bilanciare tutti gli interessi in gioco, privilegiare la speditezza e la fluidità del finanziamento, rinunciando alla rigorosità - e ai tempi - dei controlli a monte?
Maurizio De Lucia: I controlli sono importanti, è evidente, ma è anche evidente che non devono svolgere un ruolo frenante dell’intervento a sostegno delle imprese in un momento così difficile per il Paese. Distinguerei. I controlli bancari devono ispirarsi, come in parte già è, al principio “conosci il tuo cliente”, mi riesce difficile immaginare una banca che eroga fondi, sia pure integralmente garantiti dallo Stato, ad un soggetto – imprenditore che non sia già suo cliente e quindi noto. In questo senso si potrebbe pensare proprio ad un coinvolgimento e a delle responsabilità della banca, del resto già ampiamente presenti nel nostro ordinamento. Quanto ai controlli amministrativi, devono essere accelerati con un grosso sforzo di informatizzazione della macchina pubblica, si può anche qui pensare a controlli che avvengano in itinere e non al termine di ogni passaggio della procedura di finanziamento, ma non credo si possa pensare a rinunciarvi.
Dino Petralia: Le grandi Procure si dedicano in modo mirato a quest’ambito di indagini - in proposto la struttura di tutti i grandi uffici requirenti prevede Dipartimenti di Economia, Pubblica amministrazione etc. - e in ogni caso le Direzioni Distrettuali Antimafia indagano laddove le speculazioni economico-finanziarie maturano in contesti mafiosi. Una polizia giudiziaria ormai altamente specializzata completa i ranghi di un fronte investigativo-inquirente davvero formidabile.
Tuttavia, si tratta pur sempre di un sistema che opera ex post, ossia all’indomani dei fatti e dunque tardivo rispetto agli obiettivi di una cascata di liquidità che mai come va tenuta immune dal rischio di infiltrazioni corrosive e fagocitanti.
Si fronteggiano, da un lato, l’esigenza di garantire ossigeno operativo e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro, il bisogno - insopprimibile e vitale - di snellire le procedure di erogazione in modo da accelerare il processo di ripresa. Due esigenze delle quali nessun sacrificio dell’una o dell’altra può giustificare però uno slabbramento dei sistemi di controllo. Ne risentirebbe l’efficacia dell’obiettivo e la stessa tenuta della democrazia.
Occorre allora potenziare i sistemi attuali che non sono pochi né inadatti e semmai allertarli convogliandoli sotto una regia comune, ma in ogni caso scongiurando appesantimenti burocratici in grado di ritardare e infiacchire l’itinerario che dalla fonte conduce all’erogazione economica.
La magistratura è comunque pronta al resto, ma auguriamoci che non ce ne sia bisogno!
Lia Sava: Per rispondere alla domanda ritengo necessario fare il punto degli interventi fino ad ora svolti per il sostegno alle imprese per far fronte alla crisi da covid 19. In prima battuta sono state emanate disposizioni per la sospensione di mutui, sono state concesse agevolazioni per il pagamento di affitti, è stato rinviato il pagamento di alcune tasse ed è stata prevista l’erogazione di 600 euro per chi ha chiuso la propria attività a seguito dell’emergenza covid 19 e per autonomi iscritti con gestione separata. Con il decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 è stata prevista l’iniezione di liquidità per far fronte alla crisi. Ed ancora una volta torna in gioco la parola “liquidità”. Per ottenere questa “liquidità” occorre l’intermediazione delle banche. Ed allora: ecco che la criminalità organizzata potrebbe inserirsi nelle maglie di questo meccanismo e sfruttarne, in qualche modo, la lentezza. In particolare, le imprese che non saranno ritenute meritevoli dalle banche di accesso al credito secondo le linee del decreto dell’8 aprile 2020 nr. 23 sopra richiamato, specie nei settori maggiormente “appetibili” in tempo di coronavirus, come quello agroalimentare, potranno essere, ancora una volta, “tentate” dalle organizzazioni criminali per beneficiare del loro apporto di capitali di provenienza illecita. In questo senso mi ha particolarmente colpito la notizia, a dimostrazione che la criminalità organizzata è pronta con iniezioni di liquidità, ad investire nei settori in crisi, il blocco alla frontiera di un furgone proveniente dai paesi dell’est carico di denaro contante e guidato da soggetti calabresi legati alle ‘ndrine. Allora comprendiamo con assoluta chiarezza che le mafie considerano, anch’esse, la parola “liquidità” come il grimaldello per vincere la partita in atto. Ed, allora, diventa indispensabile ed imprescindibile che i flussi per il rilancio delle attività economiche siano tracciati e controllati, attraverso un monitoraggio anche all’estero. Infatti, la tempistica della liquidità non è indifferente per l’impresa in crisi, mentre le richieste di finanziamento procederanno attraverso passaggi che richiederanno tempo (le imprese devono rivolgersi alla banca di fiducia, che svolgerà l’istruttoria ed inoltrerà la richiesta di garanzia alla Sace che, a sua volta, istruirà la pratica e se la stessa avrà esito positivo verrà emessa la garanzia, contro-garantita dallo Stato, e quindi l’istituto di credito erogherà il denaro richiesto).
Occorrerebbe, dunque, bilanciare il fattore “rapidità nell’erogazione” con strumenti volti ad evitare che fruiscano dei benefici imprese mafiose tali, nella maggior parte dei casi, per interposizioni fittizie, o a imprenditori condannati o indagati per reati sintomatici ( ad esempio: contro la pubblica amministrazione, per reati tributari) o già sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. Sarebbe, altresì, importante accertare se la liquidità erogata sia effettivamente destinata ad arginare la crisi scaturente dal coronavirus. Inoltre, non possono essere bloccati i meccanismi previsti dal codice degli appalti né si può pensare di prescindere dai certificati antimafia. Invero, si tratta di regole che sono indispensabili, e lo abbiamo compreso proprio attraverso il percorso faticoso delle indagini svolte negli ultimo trentennio, in tema di criminalità organizzata al fine di arginare le sue inquietanti infiltrazioni nel tessuto economico nel nostro paese. Infatti, senza regole chiare che impongano trasparenza massima nel settore delle gare di appalto, si darà un assist determinante che potrebbe consentire alle mafie di vincere la partita a spese dell’economia legale che sarebbe irrimediabilmente compromessa, finendo per annientare i sacrifici e gli sforzi compiuti da forze dell’ordine e magistratura per salvaguardare la libertà di fare impresa senza il cappio della criminalità organizzata.
3. Nel gennaio 2020 la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina ha dato il via alla c.d. "Operazione Nebrodi", con decine di arresti e centocinquanta imprese sequestrate. E' stata scoperchiata una truffa milionaria senza precedenti ai danni dell'Unione Europea, in cui mafiosi e colletti bianchi (professionisti, centri di assistenza, funzionari pubblici) agivano di concerto, da anni, per accaparrarsi i fondi agricoli comunitari. Lo scenario che fa intravedere l'emergenza sanitaria da Covid19 potrebbe prevedere lo stesso copione, con imprese create ad hoc per la percezione degli aiuti economici, con il necessario supporto dei colletti bianchi?
Dino Petralia: La Procura di Messina - che mi piace idealmente ribattezzare, al pari di quella di Reggio Calabria, con uno slogan come il Pubblico Ministero dello Stretto - ben conosce il suo lavoro; lo ha dimostrato e lo dimostra! E tuttavia è patrimonio comune a tutta la realtà mafiosa non solo nazionale che i boss strizzano l’occhio famelico al sistema legale, inoculandosi come virus nefasti sia attraverso imprese apparentemente legali ma destinate solo alle più intense grassazioni di denaro pubblico, sia costituendo realtà economiche e commerciali perfettamente lecite grazie ai profitti incamerati.
La mafia fa il suo - potremmo senza equivoci affermare! - ma i pubblici amministratori e dipendenti colludendo sono infedeli, corrotti, apostati del giuramento, e tradiscono due volte: lo Stato per il quale lavorano, la legge che ne regola la disciplina. E vanno puniti tanto duramente quanto i mafiosi.
Lo scenario è dunque doverosamente ipotizzabile.
Lia Sava: Assolutamente si. L’operazione Nebrodi ha indebolito forti cosche ed ha colpito il sistema criminale delle frodi comunitarie che venivano realizzate attraverso un meccanismo peculiare e cioè far apparire propri terreni che non lo sono per trarne beneficio. L’operazione, che evidenziato un sistema ( con collegamenti fra mafia dei Nebrodi, Cosa Nostra Palermitana e Clan Santapaola) analogo in altre realtà territoriali del nostro paese. Invero, anche nel distretto nisseno, abbiamo riscontrato la realizzazione di truffe pianificate, organizzate dalla criminalità organizzata, ove i centri che avrebbero dovuto controllare erano in accordo con le mafie realizzando un vero e proprio sistema criminale. A rendere particolarmente allarmante il fenomeno è stata la circostanza per cui oggetto di concessione in favore dei soggetti legati alla criminalità organizzata sono stati terreni demaniali dei quali Cosa Nostra ha acquisito la disponibilità mediante procedure di evidenza pubblica turbate grazie alla presenza di funzionari compiacenti e/o intimiditi dalle organizzazioni mafiose. Peraltro, lo stesso meccanismo, sempre nel distretto nisseno, è stato ricostruito, nel 2018, dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, nella c.d. operazione “Terre Emerse” nell’ambito del quale è stata emessa ordinanza di custodia cautelare a carico di n. 12 soggetti per i reati di concorso esterno in associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, truffa aggravata e falso in atto pubblico. L’attività investigativa ha fatto, peraltro, emergere la responsabilità anche di un notaio che ha proceduto alla redazione di atti pubblici di donazione, a favore degli altri indagati, aventi ad oggetto beni appartenenti al demanio forestale della Regione Siciliana. Da ciò si desume in via immediate e diretta che i meccanismi ben collaudati dalla criminalità organizzata e ricostruiti nelle indagini sopra delineate ben potranno essere messi in atto dalle mafie per accaparrarsi della “liquidità” messa in circolo dallo Stato e dall’Unione Europea per far fronte al Covid 19. Le indagini svolte dalle D.D.A. hanno evidenziato, dunque, uno schema comune che, partendo da una parvenza di legalità nell’ iter burocratico ha consentito di ottenere somme ingenti con la complicità di notai e figure professionali di riferimento .
Le mafie, infatti, ormai evolute, fanno della collusione con i colletti bianchi il loro punto di forza e cercano strade apparentemente lecite per amministrare e finanziare i propri affari illeciti, in Sicilia come in Calabria, in Campania , in Puglia, ed in Abruzzo a seguito del terremoto. Nel distretto nisseno, in particolare, l’affinato meccanismo investigativo messo in campo dalla Procura della Repubblica di Enna e l’istituzione di un apposito Gruppo Specializzato di Magistrati in materia di “truffe AGEA” , sfruttando la cooperazione con l’Olaf e altri meccanismi di cooperazione internazionale realizzati anche grazio ad Eurojust, ha consentito il recupero alle casse dello Stato di diversi milioni di euro.
Maurizio De Lucia: A prescindere dalle vicenda specifica che è stata istruita del mio Ufficio e che è ancora sub judice, le mafie, come abbiamo ricordato, hanno interesse ad intercettare qualunque forma di ricchezza e lo fanno attraverso il controllo del territorio e con il ricorso prima ancora che alla minaccia, alla persuasione corruttiva, nei confronti di quella che è stata definita la borghesia mafiosa e che troppo spesso si rivela disponibile a fornire il suo ausilio ai delitti mafiosi, per la verità neppure solo in Sicilia e nel Meridione. La consapevolezza del rischio del ripetersi di fenomeni che sono già stati oggetto di molte verifiche processuali ci deve indurre a tenere altissima la guardia, per farlo è necessario affinare sempre più gli strumenti della legislazione antimafia che abbiamo e curare che essi rimangano saldamente presenti nella legislazione.
4. E' ancora l'esperienza siciliana che torna utile nel ragionamento che stiamo svolgendo, in cui sono stati elaborati con successo - soprattutto rispetto all'erogazione dei fondi agricoli comunitari - protocolli di legalità (penso, in primo luogo, al c.d. "protocollo Antoci"), in grado di avviare un dialogo virtuoso tra enti locali e Prefettura che, grazie ad una serie di controlli incrociati, smascherano i mafiosi travestiti da imprenditori richiedenti fondi pubblici, senza ovviamente rispettare i vincoli e le finalità del finanziamento. Poiché il Decreto Credito varato dal Governo intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato, credete possibile esportare l'esperienza dei protocolli di legalità in questo campo, creando quindi (a monte, prima dell'erogazione del finanziamento) un dialogo virtuoso tra istituti di credito, Prefettura e, perché no, in chiave preventiva, magistratura inquirente?
Maurizio De Lucia: I protocolli sono uno strumento utile, ma non vanno santificati (per la verità in nessun campo). Il c.d. protocollo Antoci nell’imporre l’obbligo del certificato antimafia a tutti coloro che volevano accedere ai finanziamenti europei per le terre dei Nebrodi, ha certamente creato un ostacolo in più alla mafia, costringendo i mafiosi ad utilizzare dei prestanome, con conseguenti difficoltà e aumento della catena dei rapporti illeciti e consentendo dunque alla Procura di contestare in maniera massiccia il delitto di cui all’art 512 bis c.p.; ma i delitti ed in senso più ampio il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in quel territorio è stato evidenziato dalle indagini penali. Intercettazioni e controlli posti in essere da carabinieri e guardia di finanza all’interno di una indagine penale, che, alla fine, si rivela l’unico strumento davvero efficace sul fronte della repressione.
Sul piano invece della prevenzione, certamente un dialogo costante tra sistema bancario, forze di polizia e forse anche magistratura non può che realizzare effetti positivi, in questo senso anche specifici protocolli che consentano l’accesso immediato a banche dati e impongano comportamenti virtuosi ai sottoscrittori hanno la loro utilità.
Dino Petralia: Il Protocollo Antoci è stata un’idea tanto semplice quanto provvidenziale! Il punto è riuscire ad osservarlo, cosa che per la mafia agricola (e non solo) dei Nebrodi è accaduta.
Ora, che siano protocolli di legalità o altri meccanismi, ciò che importa è l’affidamento di chi deve farli osservare. E, se si considera che il flusso economico alle imprese per il tramite del sistema bancario oggi sarà davvero imponente, i presidi più attrezzati sono le Prefetture, magari disegnando una geografia di interazione regionale con una regia capofila.
Altro aspetto di sensibilissimo rilievo è quello del rispetto da parte degli operatori finanziari, banche in testa, delle note segnalazioni di operazioni sospette che, per quanto affidate ormai a sistemi (Gianos e altri) strutturati su reti neurali assai sofisticate e intelligenti, fanno capo comunque agli operatori umani. Ed è su tale settore che oggi più che mai il controllo deve concentrarsi!
Lia Sava: Il c.d. “protocollo Antoci” ha avuto un nucleo centrale fondamentale . In sostanza, le aziende che intendono affittare terreni del Parco devono fornire il certificato antimafia della Prefettura non potendo autocertificarsi neppure per bandi con importi inferiori a 150 mila euro e tale meccanismo ha creato effetto moltiplicatore di legalità e trasparenza. Pertanto, poiché il decreto nr. 23 dell’8 aprile 2020 intende promuovere, tramite il sistema bancario, un massiccio finanziamento delle imprese con la garanzia dello Stato la predisposizione di protocolli fra istituti bancari, prefetture, forze dell’ordine e magistratura inquirente potrebbe garantire, in questa direzione, rapidità e trasparenza nell’erogazione della liquidità. Questi protocolli, secondo me, dovrebbero cercare il coinvolgimento delle organizzazioni professionali di riferimento che possono avere un ruolo di strategico di grande importanza.
5. L'orizzonte che tratteggiate è fosco, puntato di chiaroscuri. Siamo partiti dalla semplicistica - e forse preconcetta - posizione del quotidiano Die Welt: e se i tedeschi avessero ragione?
Lia Sava: La strategia per sfumare il chiaro scuro e rendere limpido il panorama nel quale ci muoviamo e nel cui ambito si gioca la partita alla quale ho fatto più volte riferimento occorre mettere in campo, oltre agli strumenti di prevenzione ed investigativi ai quali ho fatto cenno, anche mettere in campo strategie complessive che coinvolgano le grandi imprese “sane” di questo paese che, in questa fase di crisi da Covid 19, devono prendersi cura dei dipendenti ( per evitare che si facciano tentare dall’offerta deviante del crimine organizzato), devono essere attente ad evitare fornitori “ambigui”, adottare buone prassi per la tutela dei clienti. Ma occorrerà anche stare attenti al sistema della “comunicazione” che può diffondere panico o comunicare notizie confuse e contraddittorie, direi emotive, che possono favorire criminalità organizzata nel corso della partita in atto. Ancora, nella seconda fase emergenziale molte imprese dovranno difendersi da iniziative di creditori e dovranno predisporre strumenti di recupero della continuità aziendale. In questo senso, il decreto liquidità ha introdotto novità anche nel campo della “crisi di impresa”. L’obiettivo è palese: salvaguardare le imprese, anche attraverso il coinvolgimento dei soci nell’accrescimento dei flussi di finanziamento verso la società.
Ed è di tutta evidenza, però, che anche in queste maglie si può annidare l’interesse perverso della criminalità organizzata che cercherà di diventare “socio” per sfruttare le potenzialità del sistema. In questo panorama si inserisce il rinvio di un anno dell’entrata in vigore della riforma sulla crisi di impresa. Invero, se lo spirito della riforma è quello di fronteggiare il fisiologico “rischio di impresa” per scongiurane gli effetti negativi, non può essere reso immediatamente attuale per fronteggiare una crisi di straordinaria natura come quella del Covid 19. Segnalo che il Procuratore Generale della Cassazione ha costituto, in questa direzione, un gruppo di studio composto da alcuni Procuratori Generali e da magistrati esperti al fine di studiare gli effetti della crisi e l’impatto della riforma in fieri e ciò anche per individuare i necessari interventi correttivi scaturenti dall’emergenza in atto che, verosimilmente, non sarà di beve durata. Ne consegue che, mai come in questa fase, oltre alla cooperazione fra forze dell’ordine, magistratura, prefetture, organizzazioni di categoria, cooperazione internazionale, sostanziati in cabine di regia ed in protocolli operativi, gli operatori del diritto dovranno “scambiarsi i saperi”. Invero, la normativa civilistica in tema di crisi di impresa, i principi di contabilità e le regole riguardanti la c.d. priorità della continuità aziendale, le norme di diritto commerciale in materia di redazione dei bilanci, le disposizioni che regolano l’accesso ai finanziamenti con procedure semplificate non devono avere segreti per gli investigatori e per la magistratura requirente, proprio per arginare i rischi di infiltrazioni mafiose. La partita è dunque aperta e complicata. Ma possiamo e dobbiamo vincerla. Ancora una volta: attraverso l’etica paziente.
Maurizio De Lucia: L’articolo del Die Welt, al di là del modo, pone un problema, solo che non lo pone all’Italia, ma all’Europa, nella quale non da ora le mafie sono fortemente insediate.
Si può ricordare il contenuto di una intercettazione tra due mafiosi, captata all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Uno dei due era a Palermo e l’altro si accingeva ad entrare nell’ex DDR. Ebbene il secondo chiedeva al primo cosa dovesse fare e la risposta era “Compra!” ; “cosa devo comprare?”
“tutto quello che trovi, immobili, alberghi imprese…”
Quello di cui si deve parlare allora è di pensare ad una legislazione antimafia europea che ancora manca e che invece è ineludibile formare.
Come sappiamo oggi la disciplina della materia è affidata alla Decisione Quadro del 24 ottobre 2008 sul contrasto alla criminalità organizzata. Questa decisone ancora non impone agli Stati di introdurre un concetto omogeneo di organizzazione criminale. Se ciascuno Stato va per la sua strada sono le mafie a saper cogliere le smagliature nelle quali infilarsi. Per questo è necessario costruire una normativa europea che tenga conto soprattutto, ma non solo dell’esperienza italiana una sorta di articolo 416 – bis europeo, incentrando la fattispecie sulla presenza di condotte collettive di natura violenta, intimidatoria e corruttiva che producono una alterazione delle “regole del gioco” dell’economia di mercato, del funzionamento della pubblica amministrazione e della formazione del consenso politico. In assenza di una disciplina di tale genere il rischio che le infiltrazioni delle nostre mafie sui nostri appalti avvengano attraverso l’interfaccia di società fiduciarie di diritto olandese o tedesco o di altro paese dell’ Unione è certamente un rischio reale.
Dino Petralia: Dobbiamo impegnarci al massimo affinché l’ipotesi ventilata da Die Welt non abbia affatto ragione!
Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19.
di Fabio Francario
Sommario: 1.- Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale. 2.- Il dl 8 marzo 2020 n 11; 3.- Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. 4.- Il dl 4 aprile 2020 n. 23. 5.- Considerazioni conclusive.
1. Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale.
Nell’ambito delle disposizioni generalmente dettate per governare lo svolgimento dell’attività giudiziaria nel periodo dell’emergenza, i diversi decreti legge finora emanati stanno riservando al processo amministrativo un trattamento differenziato. La differenziazione finisce però con il dettare una disciplina che non sembra riconducibile ad alcun principio generale del processo, ingenerando il timore che il diritto dell’emergenza, attraverso una diminuzione oltre misura delle garanzie tipiche di un rimedio processuale giurisdizionale, stia nuovamente degradando il processo amministrativo ad una mera procedura di ricorso.
E’ noto che non basta fregiare una procedura di ricorso con l’appellativo di processo per poterla considerare tale [1] perché è necessario che l’esercizio della funzione giurisdizionale si svolga nel rispetto di principi fondamentali e di regole certe[2].
Nel caso del processo amministrativo ciò si è verificato anche in assenza della codificazione avvenuta con il d lgs 104/2010. Anzi, l’assenza di una compiuta codificazione ha fatto sì che il legame con i principi generali del processo sia sempre stato particolarmente forte, che questi abbiano spesso direttamente integrato le lacune esistenti nella disciplina quando i principi non erano chiaramente espressi da norme già codificate nel c.p.c.. In passato la più autorevole dottrina si è molto impegnata per chiarire che, se il c.p.c. rappresentava un termine di riferimento presso che obbligato per l’integrazione della lacunosa e frammentata disciplina del processo amministrativo, ciò non significava anche che nella ricostruzione degli istituti si dovesse rinunciare a guardare direttamente a principi comuni del diritto processuale[3]. In un costruttivo dialogo con l’Adunanza Plenaria e con la Corte costituzionale, proprio la continua ricerca e l’affinamento dei principi processuali generali ha consentito di chiarire, ben prima dell’entrata in vigore del codice, che quello amministrativo è un processo di parti[4], soggetto pertanto al principio della domanda, al principio dispositivo e al principio del contraddittorio, principi tutti che convivono con l’immanente principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò ha consentito di ricostruire gli istituti processuali e di governare il processo con ragionevolezza e uniformità anche senza e ancor prima della codificazione del processo amministrativo.
Orbene, se si guardano le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo si deve constatare non tanto il fatto che si differenzino da quelle dettate per la generalità degli altri processi, quanto piuttosto, a malincuore, che non rispondono ad alcun principio. Si disperdono infatti in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento.
Che la tutela cautelare debba continuare ad essere erogata anche nei periodi di sospensione del processo, quale ne sia la causa, non è una graziosa concessione della attuale decretazione d’urgenza, ma l’applicazione di un fondamentale principio processuale comune, riconducibile al principio di effettività della tutela giurisdizionale, per il quale la tutela cautelare non può subire soluzioni di continuità[5]. Nel caso del processo amministrativo la decretazione non si è limitata a confermare quanto era ovvio e già insito nel sistema, e cioè che la tutela cautelare rimaneva fruibile nel periodo di sospensione e che i processi avrebbero ripreso a svolgersi nei termini e nelle forme ordinarie al termine della sospensione, precisando magari soltanto che le misure emergenziali in atto impedivano unicamente la trattazione orale che, come fatto per il periodo dell’emergenza dal processo civile, veniva sostituita da una comparizione figurata delle parti all’udienza camerale attraverso la presentazione di brevi note d’udienza. Si è invece diffusa nel ridisciplinare forme, tempi e modi del giudizio cautelare[6] e dello stesso giudizio di merito al termine della sospensione. Qualsiasi avvocato dedito alle cause amministrative[7] potrà testimoniare di non aver saputo più con certezza se, come e quando sarebbero state trattate le istanze cautelari durante il periodo dell’emergenza o se fosse tenuto espletare le attività difensive durante il periodo di sospensione o se quelle ugualmente espletate durante tale periodo possano considerarsi ugualmente valide per le udienze fissate al termine della sospensione o se la considerazione delle stesse dipenderà dalla personale interpretazione del giudice o ancora qual sia il loro rapporto con le brevi note che possono essere presentate due giorni prima dell’udienza[8].
2. Il dl 8 marzo 2020 n 11. In verità le cose non erano partite tanto male. Il dl 8 marzo 2020 n 11 detta misure straordinarie per contrastare l’emergenza epidemiologica e contenere gli effetti negativi con riferimento esclusivamente allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Con maggior chiarezza rispetto alle analoghe disposizioni dettate per i giudizi civili, penali, tributari e militari, con specifico riferimento al processo amministrativo l’art 3 del decreto prevede di governare l’emergenza applicando eccezionalmente l’istituto processuale della sospensione dei termini (primo comma: “Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applicano altresì dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 22 marzo 2020”). Applicazione logica e razionale dell’istituto processuale che la dottrina processualistica ha sempre ritenuto naturalmente deputato a regolare lo svolgimento dell’attività giudiziaria non solo nel caso delle ferie estive, ma anche in ipotesi di eventi calamitosi[9]. Connaturati al regime di tale istituto, che per i principi codificati nell’art 298 c.p.c. comporta l’interruzione dei termini in corso e un vero e proprio divieto di compiere gli atti processuali, sono l’assoggettamento al regime di sospensione di tutti i termini processuali [10] e, come già ricordato, l’esclusione della tutela cautelare, che deve continuare ad essere garantita per assicurare il rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale[11]. L’imprevedibilità della sospensione e le particolari ragioni che hanno imposto la sospensione, dovuta alla necessità di evitare spostamenti da e per gli uffici giudiziari e assembramenti negli uffici medesimi per udienze e attività di cancelleria varie, hanno poi logicamente richiesto due particolari accorgimenti: lo spostamento delle udienze già fissate nel periodo di sospensione al termine della stessa (primo comma, secondo cpv: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020, le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”) e la eliminazione della udienza camerale, sostituita dalla pronuncia con provvedimento cautelare provvisorio adottato in forma monocratica (“I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, con il rito di cui all’articolo 56 del medesimo codice del processo amministrativo e la relativa trattazione collegiale è fissata in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”).
Sotto questo profilo la normazione recata dall’art 3 del dl 11/2020 non ha posto particolari problemi interpretativi, tranne che per il caso in cui non fossero state ricalendarizzate le udienze in modo da evitare che venissero in scadenza nel periodo si sospensione i termini a difesa calcolati a ritroso dall’udienza. Problema comunque agevolmente risolvibile chiedendo in tal caso di essere rimessi in termini, possibilità peraltro espressamente prevista dal medesimo decreto (art 3, comma 7).
Per lo svolgimento delle udienze al termine del periodo di sospensione l’art 3 aveva poi previsto, al quarto comma, il passaggio in decisione “sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti abbia chiesto la discussione in udienza camerale o in udienza pubblica con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, udienza che si sarebbe comunque svolta con collegamento da remoto (comma 5).
Un improvvido parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo ha però inspiegabilmente escluso che si fosse di fronte ad un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, e che si dovesse ritenere in realtà sospeso unicamente il termine per la notifica del ricorso originando un’incertezza interpretativa della quale francamente non si sentiva alcuna necessità[12].
3. Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. L’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 dispone l’abrogazione dell’art 3 del dl 11/2020 regolando diversamente il regime della sospensione, che viene prorogata fino al 15 aprile. La nuova disciplina[13], se per un verso elimina l’incertezza interpretativa originata dal parere del Consiglio di Stato, precisando che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, per l’altro introduce significative innovazioni. Laddove secondo l’art 3 del d.l. 11/2020 la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); nell’art. 84 viene invece escluso che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte e viene imposta come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Opportunamente, si dispone però che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito), facendo salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55.
Come eccezione nell’eccezione, il secondo comma dell’art 84 prevede inoltre la possibilità che le controversie possano essere comunque trattate, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, nel periodo compreso tra il 6 e il 15 aprile, ove vi sia l’accordo delle parti; rendendo in tal modo disponibile alle parti la sospensione del processo. Tralasciamo ogni considerazione sulla disposizione dettata, evidentemente sempre “in deroga a quanto previsto dal comma 1”, per la trattazione nel medesimo periodo 6 – 15 aprile dei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento totale o parziale della domanda cautelare.
Al quinto comma, l’art 84 del d.l. 18/2020 conferma la previsione, già recata dall’art 3 del dl 11/2020, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
4. Il dl 4 aprile 2020 n. 23. L’art 36 del dl 4 aprile 2020 n. 23 al primo comma ha prorogato fino all’11 maggio 2020 la sospensione per i processi civili, penali, tributari e militari e dettato nuovamente una disposizione atipica per il processo amministrativo al terzo comma, prevedendo che “Nei giudizi disciplinati dal codice del processo amministrativo sono ulteriormente sospesi, dal 16 aprile al 3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, dello stesso codice”.
Viene dunque nuovamente distorta l’applicazione logica e lineare dell’istituto della sospensione dei termini, riproducendo la già criticata e incomprensibile teorizzazione proposta dal Consiglio di Stato nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 10 marzo 2020 con riferimento al dl 11/2020. Dopo che il dl 18/2020 aveva chiarito che la sospensione dovuta all’emergenza Covid 19 si applicasse “a tutti” i termini processuali.
Si è già detto che rimane in assoluto incomprensibile la logica di ritenere che le peculiari ragioni alla base della attuale eccezionale sospensione dei termini per contrastare l’emergenza Covid 19 impongano la sospensione del solo termine di proposizione del ricorso. Il problema sembrava sopito ma è stato riproposto con forza dal nuovo decreto, costringendo la dottrina a tornare immediatamente sul tema per sottolineare quanto è forse ancora più grave ; e cioè come possa mai “dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui –nonostante il Governo abbia ritenuto che l’emergenza pandemica fosse ancora tale da giustificare la sospensione dei termini giudiziali civili, penali, tributari e contabili e di quelli per la notifica dei ricorsi dinanzi al giudice amministrativo – le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate) che, per pura (drammatica e assolutamente non prevedibile) ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze di cui all’art. 54 c.p.a. nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio prossimi), non possono adeguatamente difendersi contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza”[14].
Detto in altri termini: essendo venuta meno la possibilità di chiedere fondatamente la rimessione in termini in vista delle udienze la cui fissazione richieda lo svolgimento dell’attività difensiva nel suddetto arco temporale, la falsa sospensione dei termini obbliga le parti a riaprire e tenere aperti gli studi professionali per poter preparare e svolgere comunque l’attività difensiva nel perdurare dell’emergenza sanitaria e poco importa se l’avvocato non avrà tempo e modo di predisporre le attività difensive (si suppone per le medesime ragioni che inducono a sospendere il termine per la predisposizione e notifica dei ricorsi): la causa passa comunque in decisione all’udienza già fissata. Al di là della mancata considerazione dell’esigenza sanitaria che è alla base di tutte le disposizioni emergenziali, ciò in buona sostanza significa che la disciplina del processo amministrativo, differentemente da quella degli altri processi giurisdizionali, non si preoccupa di garantire la pienezza del contraddittorio, consentendo di sollevare più che fondati dubbi sulla sua costituzionalità[15].
Oltre a quello relativo alla ratio normativa, la disposizione pone comunque anche innumerevoli problemi esegetici, solo in parte risolti dalla relazione illustrativa che precisa che il riferimento ai “ricorsi” comprende quelli “di primo e secondo grado: introduttivo, appello, incidentale e per motivi aggiunti, ecc.”, sui quali non ci si vuole per il momento soffermare preferendo giungere alle osservazioni conclusive del discorso sin qui svolto.
5.- Considerazioni conclusive.
Il solo balletto cui si è assistito, su come debba intendersi l’istituto processuale della sospensione nel giudizio amministrativo (tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere; tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere), è fatto di per sé deprecabile perché fornisce il classico esempio di una prassi che è la causa prima della paralisi dei processi decisionali di qualsivoglia operatore giuridico in qualsivoglia settore dell’ordinamento: iperproduzione normativa, continuamente cangiante con meccanismi di pura e semplice sovrapposizione alle normative preesistenti, con effetto di disorientamento finale.
Ma in questa sede preme sottolineare che (solo) nel caso del processo amministrativo la disciplina dell’istituto della sospensione si allontani dal rispetto di principi comuni di diritto processuale per approdare ad una falsa sospensione priva di qualsivoglia ratio normativa.
La preoccupazione forse più grave è che tutte queste incertezze interpretative siano al fondo ingenerate da una tendenza volta a diminuire le garanzie processuali nei giudizi amministrativi. Le incertezze interpretative di questa decretazione d’urgenza sono all’evidenza ingenerate da una disciplina eccessivamente analitica che, per un verso, condiziona la rimodulazione in concreto dei calendari delle udienze collegiali come se questi fossero noti al legislatore e come se la finalità da perseguire non fosse quella di evitare gli spostamenti degli operatori da e verso gli uffici giudiziari e gli assembramenti al loro interno per udienze e attività di cancelleria; e che, per l’altro, non si preoccupa di garantire che tale rimodulazione prima di ogni altra cosa dovrebbe invece garantire il rispetto della pienezza del contraddittorio.
Ciò lascia più o meno chiaramente intravedere un disegno che potrebbe prendere corpo nel futuro prossimo venturo, una volta terminata l’emergenza, secondo il quale si potrà praticamente fare a meno di tutta l’attività processuale delle parti diversa dalla proposizione delle domande (memorie, repliche, produzioni documentali, richieste istruttorie e trattazione orale).
La strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale rischia così di ricondurre il processo amministrativo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale, correndo il rischio, paventato da un insigne Maestro, derivante dal fatto che “se si riconosce al ricorrente la sola potestà di dar vita ad un processo mentre nel contempo sia attribuito al giudice, anche in via concorrente, il potere di determinare l’oggetto del giudizio o la sua effettiva estensione … in realtà si nega in un tale processo ogni garanzia di giustizia”[16].
E’ un rischio che deve essere assolutamente scongiurato per evitare che venga depotenziata l’efficacia e incisività dell’intervento giurisdizionale (non penale) nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione.
A maggior ragion se nell’immediato futuro si dovranno assicurare efficienza e legalità di un piano straordinario di rilancio dell’economia[17].
[1] E. Fazzalari, Procedimento e processo (teoria gen.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1987, 821 ss.
[2] “Il processo è uno strumento che fornisce certezza in quanto risolve una situazione d’incertezza che origina la controversia; esso deve essere il più possibile certo” (così C. E. Gallo, Contributo allo studio della invalidità degli atti processuali nel giudizio amministrativo, Milano, 1983, 34). In tema v. di recente i contributi raccolti in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Editoriale scientifica, Napoli, 2018 e in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.
[3] Per tutti v. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 301, 302: “Per note ragioni storiche le leggi processuali civili sono diventate la sede di norme che, per il fatto di esprimere o richiamare principi fondamentali del nostro ordine costituzionale o da questi immediatamente derivanti – perché relativi all’esercizio del potere giurisdizionale considerato nella sua essenza unitaria e in rapporto all’autonomia dei soggetti giuridici, costituzionalmente tutelata – valgono per tutti i processi; o di norma tecniche che esprimono principi valevoli ugualmente per tutti i processi ma per ragioni diverse dalla precedente, cioè per il fatto di ricollegarsi alla fondamentale unitaria natura della norma processuale proprio come norma secondaria , dalla quale scaturisce l’identica funzione tecnica di alcuni istituti quale che sia il processo in cui trovano attuazione. La fonte principale d’integrazione diretta del diritto processuale amministrativo è data da questi principi, che non sono però principi propri del processo civile, ma principi di un diritto processuale comune, pur se questo ha la sede di elezione nella legge processuale civile”. Sul significato e sui limiti dell’attuale rinvio dell’art 39 c.p.a. al c.p.c. v. G.P. Cirillo, Diritto processuale amministrativo, Milano, 2017, 11.
[4] Per tutti v. E. Cannada .- Bartoli, voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XIII, 1966, 1077 ss.
[5] Cfr. F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, V. anche M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[6] C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in Giustamm.it, sottolinea efficacemente che “se sono auspicabili riforme del sistema della giustizia amministrativa per garantire una risposta sempre più pronta ed efficace alle istanze dei cittadini, devono invece sicuramente evitarsi interventi asistematici e parziali di per sé idonei a garantire e ad accrescere la qualità della risposta giurisdizionale”
[7] Non sarebbe inutile ricordare anche la sottolineatura fatta da V. Domenichelli, Sulla ragionevolezza dei termini nel processo amministrativo, in F. Francario, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit. 371, per cui “i termini processuali sono un incubo e possono togliere il sonno agli avvocati”
[8] Chi abbia dubbi può comunque vedere gli approfondimenti tematici a cura di T. Cocchi, B. Gargari e V. Sordi, in www.giustamm.it. , e la rassegna statistica di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it, “emergenza coronavirus”. Si veda in ogni caso il comunicato del 10 aprile 2020 dell’Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti avente oggetto “D.L. 8 aprile 2020 n. 23 e giustizia amministrativa”.
[9] S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 237: “Fra le cause più note di sospensione o di proroga dei termini si possono ricordare gli eventi bellici, le calamità naturali, il mancato funzionamento degli uffici giudiziari, le ferie estive. … La sospensione per calamità naturali (terremoti, mareggiate, alluvioni etc) è disposta dal legislatore (di solito dal Governo con decreto legge) il quale stabilisce il periodo di sospensione”.
[10] Si suol dire che con la sospensione il processo entra in una fase di quiescenza, e cioè che pende ma non procede: cfr. E.T. Liebman, Sulla sospensione propria e “impropria del processo, in Riv. Dir. Proc., 1958, 153 ss; F. Cipriani, Sospensione, in Enc. Giur. Treccani, XXX, Roma, 2004; C. Punzi, L’interruzione del processo, Milano, 1963284 ss; S. Menchini, Sospensione del processo civile, in Enc dir., XLIII, Milano 1990, 55.
[11] V. ante sub nt 16.
[12] L’interpretazione del Consiglio di Stato è stata unanimemente criticata dai commenti dottrinali immediatamente dedicati al d.l. 11/2020. V. in ptcl F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, In Federalismi.it; M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3, D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it, ai quali adde anche gli Autori citati sub nota seguente.
[13] Per i primi commenti v. F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 23 marzo 2020; M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, ivi; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 6 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in Giustamm.it.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in Giustamm.it.
[14] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è riservata alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al pieno contraddittorio difensivo, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza COVID 19, 9 aprile 2020; Id., Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, ivi.
[15] M.A. Sandulli, op. ult. Cit.
[16] F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 36.
[17] Per questi profili si rinvia a F. Francario, Guido Corso, Guido Greco, Maria Alessandra Sandulli e Aldo Travi, In difesa di una tutela piena nei confronti della pubblica amministrazione, pubblicato su www.giustizia-amministrativa.it .
Il diritto della crisi d’impresa ai tempi della pandemia di Giovanni Negri
Tra un’emergenza comunque a tempo e il timore che, come spesso avviene nel Paese, non ci sia nulla di più definitivo del provvisorio, anche il diritto della crisi d’impresa vive giornate a loro modo memorabili. Con misure in parte ovvie e altre che difficilmente si sarebbe pensato di leggere. A conferma che certo il mondo della giustizia è investito in queste settimane da un terremoto che sta modificando, quanto in profondità sarebbe prematuro ora stimarlo, innanzitutto tempi e modi della giurisdizione, sia civile sia penale, ma anche punti e norme di diritto sostanziale.
Emergenza a tempo o il tempo dell’emergenza?
Da ultimo con il decreto legge n. 23 in vigore da pochi giorni, è stato messo in campo un arsenale di norme indirizzate in larga parte al mondo delle imprese la cui efficacia andrà sperimentata, ma la cui portata è certo rilevante. E lo è, nella testimonianza dell’eccezionalità del momento, nell’istituire una finestra di tempo, la cui ampiezza varia da misura a misura, all’interno della quale le regole ordinarie, alle quali ci si era abituati ormai da tempo, non valgono più. Oppure quelle con le quali si stava, con fatica, prendendo dimestichezza, arriveranno (forse) solo tra qualche tempo.
I teorici del diritto, naturalmente molto avranno da dibattere sullo stato di eccezionalità e sulle forzature alle quali il legislatore può dare luogo abusandone. Di certo con gli ultimi interventi di diritto dell’economia il Governo ha deciso come prima cosa di comprare tempo, mettendo le aziende al riparo da alcune gravi conseguenze, reali o solo attese, della complicata fase in corso.
Un anno ancora per il Codice della crisi
E allora, se il lockdown porta lavoratori e imprese in un mondo nuovo, con scenari tuttora imprevedibili, una delle prime scelte è, in un certo senso, “classica”, una proroga. A essere interessato dal rinvio, un anno, al 1° settembre 2021, è tutto il Codice della crisi, comprese, a questo punto, le misure di allerta, elemento che più di altri forse lo qualifica. Comprensibili le ragioni che hanno condotto a questo slittamento (anche se altrettanto condivisibili possono essere le perplessità espresse anche su questa rivista da Renato Rordorf, presidente delle commissioni che la legge delega prima e il decreto legislativo poi hanno redatto), dalla volontà di non mettere gli imprenditori davanti un set di regole assai significative e nuove in un momento di inedita crisi, alla difficoltà di raggiungere in una fase estrema quegli obiettivi di salvaguardia del tessuto produttivo cui il Codice tende. Oltretutto il prevedibile crollo degli investimenti da una parte e, dall’altra, di risorse finanziarie significative da destinare alle imprese non ancora in insolvenza rischia di compromettere anche gli strumenti più innovativi del Codice.
L’impatto del rinvio
A slittare sono così misure che, comunque, anche in tempo di crisi e forse tanto più in tempo di crisi, un senso lo avrebbero avuto, dal sovraindebitamento, all’esdebitazione, (come trasposti e rimodellati nel codice della crisi) alla disciplina dei gruppi e al concordato in continuità (con salvaguardia dei livelli occupazionali).
Discorso a parte poi sulle misure di allerta, il cui debutto, a ora allineato a quello di tutto il resto del Codice, verosimilmente potrebbe confrontarsi con dati di bilancio terremotati dalla crisi di queste settimane, dando luogo a un’esplosione di segnalazioni di difficile gestione dal sistema degli ocri e di assai dubbio sbocco.
I concordati guadagnano tempo
Le misure di diritto fallimentare introdotte dal decreto si completano con un pacchetto di disposizioni dedicate a concordati e accordi di ristrutturazione, per favorirne la messa a punto durante la crisi e tenendo conto degli effetti della crisi stessa, anche se già omologati, non trascurando i concordati in bianco. In sostanza per concordati e accordi di ristrutturazione già omologati è previsto il rinvio di 6 mesi per i pagamenti in scadenza tra il 23 febbraio e il 30 giugno; per quelli con un termine in scadenza per la presentazione di un piano il rinvio di 90 giorni per modificarne condizioni e contenuti; possibile poi la modifica unilaterale, prima dell’omologazione, dei termini di adempimento inizialmente prefigurati per tenere conto di eventi dovuti all’epidemia dove è stata presentata la sola prenotazione il rinvio di 90 giorni del termine per la presentazione del piano.
Inevasa è rimasta (per ora?) la richiesta di un blocco delle azioni esecutive individuali, sorta di automatic stay disciplinato per legge, magari accompagnandolo con il pagamento di interessi di mora. Con la possibilità molto concreta di vedere aumentare in maniera considerevole le domande di preconcordato che l’automatic stay appunto lo prevedono, soprattutto dopo che, per effetto del decreto, è stato rinviato il termine di presentazione.
4 mesi fallimenti free
A volere ricordare poi l’ultima misura introdotta dal decreto, il blocco delle istanze di fallimento o di insolvenza, per un periodo di 4 mesi, dal 9 marzo al 30 giugno, è forse più di una suggestione considerare il diritto della crisi al tempo dell’emergenza sanitaria come (anche) un’esasperazione di quell’oscillazione tipica della legislazione fallimentare tra esigenze di tutela del debitore e protezione dei creditori. Un’oscillazione che ha costellato le riforma sul punto da parecchi anni a questa parte, da quelle più strutturali agli interventi più episodici. Ora, è evidente, la necessità di un’ampia protezione delle imprese in difficoltà va letta insieme e in parallelo alla preoccupazione di non fare diventare in qualche modo strutturale il provvisorio, per non favorire cioè quei “furbetti” delle procedure che, per esempio, in un recente passato sfruttavano il vecchio assetto del concordato preventivo come strumento di alterazione della concorrenza per ripulirsi dall’eccessiva esposizione debitoria e poi ripartire.
La continuità aziendale ora si presume
Soffermandosi infine sugli aspetti del decreto che incidono sul Codice civile, in questo caso l’intenzione è quella di evitare che l’applicazione meccanica di norme classiche del sistema, come quelle sulla valutazione delle perdite e , sulla responsabilità degli amministratori (che comunque dovranno convocare l’assemblea presentando la relazione sulle perdite), sulla valutazione di continuità aziendale (presunta, se esistente prima del 23 febbraio), contribuiscano ad affossare aziende che prima della crisi erano in condizione di buona se non ottima salute e, anzi, con buone possibilità di sviluppo.
A favorire l’afflusso di finanza secondo linee interne, visto che alle garanzie pubbliche sull’accesso al credito è dedicata tutta la prima parte del decreto, c’è l’ultima norma spiana la strada, cancellando la postergazione, all’apporto di risorse da parte dei soci. Viene così cancellata la norma che subordinava i soci agli altri creditori per i finanziamenti erogati dal 9 aprile al 31 dicembre 2020.
"..Oggi più che mai la Corte europea è chiamata a difendere i nostri diritti e le nostre libertà in termini di principio, tenendo bene in considerazione le basi del sistema europeo di protezione dei diritti umani."
"...La misura dell'internamento forzato dei soli "sospettati" di infezione potrebbe essere prevista solo se lo stato espressamente deroga ai principi della Convenzione ai sensi dell’articolo 15 della stessa."
"...lo strumento concreto più importante per l'attuazione di questa solidarietà sarebbe l'approvazione degli eurobond per quegli Stati che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria, come l'Italia e la Spagna."
"...L'attuale crisi non deve essere un'occasione per gli Stati di chiudere i propri confini a coloro che necessitano di protezione internazionale."
Intervista a Paulo Pinto de Albuquerque
di Roberto Conti
Giustizia Insieme ha raccolto la testimonianza di Paulo Pinto de Albuquerque, che ha da poco ultimato la sua esperienza di giudice designato dal Portogallo presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Europa, diritti e solidarietà alla prova dell’emergenza pandemica. Questi i temi trattati da Pinto insieme alle esperienze più forti vissute presso la Corte edu, ove egli ha lasciato testimonianza attraverso numerose opinioni dissenzienti che hanno contribuito a delineare l’immagine e la funzione del giudice europeo dei diritti dell’uomo.
(traduzione a cura del dott. Calogero Ferrara)
*a seguire versione in inglese
Professore Paulo Pinto de Albuquerque, il Covid 19 in che modo può incidere sul ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo e sul patrimonio dei valori protetti dalla CEDU?
Oggi più che mai la Corte europea è chiamata a difendere i nostri diritti e le nostre libertà in termini di principio, tenendo bene in considerazione le basi del sistema europeo di protezione dei diritti umani. Gli stessi principi dovrebbero essere applicati a tutte le parti della Convenzione. Non può esserci una geometria variabile in cui alle democrazie consolidate viene dato sempre maggior rispetto al confronto con le nuove democrazie. Oggi stiamo affrontando la stessa minaccia globale e, pertanto, dovrebbe essere fornita la stessa risposta globale in materia di diritti umani. Se la Corte applicherà un approccio armonioso e integrato nell'interpretazione della Convenzione, riuscirà a vincere la sfida di difendere i diritti previsti dalla Convenzione in questi tempi tormentati di sconvolgimento e contaminati da cotanta incertezza sociale ed economica.
Assistiamo in questo periodo a forti limitazioni dei diritti fondamentali, applicate con forme e misure diverse dai vari decisori nazionali. Vi è secondo lei un rischio autoritario in alcuni dei Paesi europei?
Qualche giorno fa, l'ex giudice della Corte suprema Lord Sumption ha messo in guardia dal pericolo che il Regno Unito diventasse uno "stato di polizia", a seguito delle misure adottate dal governo per combattere il pericolo di pandemia. Un pericolo che non può considerarsi meno importante dell'altro. E io sono d'accordo con lui.
Alcuni stati europei hanno approvato delle restrizioni manifestamente eccessive dei diritti fondamentali. Ciò è accaduto sia nelle democrazie consolidate che nelle nuove democrazie. Ad esempio, l'internamento forzato di persone solamente "sospettate" di essere contagiate da una malattia infettiva non è consentito dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera e), della CEDU, alla luce della consolidata giurisprudenza della corte di Strasburgo che limita espressamente l’isolamento forzato ai casi di persone "infette" da una malattia contagiosa. La misura dell'internamento forzato dei soli "sospettati" di infezione potrebbe essere prevista solo se lo stato espressamente deroga ai principi della Convenzione ai sensi dell’articolo 15 della stessa. Tuttavia alcuni Stati hanno imposto questa misura senza prevedere alcuna deroga alla Convenzione. Questo è solo un esempio ma se ne potrebbero fare molti altri.
Da più parti si invoca nelle relazioni fra i Paesi europei il concetto di solidarietà per la gestione dell’emergenza pandemica. La Convenzione edu conosce il tema della solidarietà?
Si, certamente. La Convenzione europea dei diritti dell'uomo è intrinsecamente uno strumento di solidarietà tra i popoli europei. Già il preambolo della stessa Convenzione prevede il raggiungimento dell’obiettivo di una "maggiore unità" tra le parti contraenti. La giurisprudenza della Corte europea ne è una testimonianza, ad esempio in materia di diritto delle migrazioni e di discriminazione.
Il principio di non refoulement si basa sul principio di solidarietà e questo obbligo rimane valido anche durante i periodi di emergenza. Non dimentichiamo che l'articolo 15 della CEDU afferma che le misure adottate dallo Stato in tempo di emergenza devono essere strettamente necessarie e coerenti con gli altri obblighi nascenti dal diritto internazionale. L'attuale crisi non deve essere un'occasione per gli Stati di chiudere i propri confini a coloro che necessitano di protezione internazionale.
Lo stesso principio di solidarietà è implicito nella normativa in materia di discriminazione, ad esempio per quanto riguarda alcune misure di discriminazione positiva. In tal caso, la solidarietà può svolgere un ruolo importante all'interno dello stesso Stato. È giunto il momento di promuovere politiche di discriminazione positiva in favore delle minoranze vulnerabili, come gli anziani, le persone con disabilità e i detenuti.
La Corte europea dovrebbe essere particolarmente sensibile alla fondamentale importanza rivestita dal principio di solidarietà in sede di interpretazione della Convenzione.
Quanto i diritti fondamentali della persona potranno costituire, ad emergenza si spera presto finita, l’elemento sul quale rafforzare l’unione fra i popoli europei?
Dopo la seconda guerra mondiale, il sogno europeo è stato costruito sugli ideali di pace, democrazia e solidarietà, come dimostra il preambolo della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se i popoli d'Europa seguiranno questi principi, supereranno questa crisi molto prima e con minori danni. Se, all’opposto, combatteranno la crisi in modo isolato, ognuno alla ricerca della propria sicurezza personale, la crisi durerà più a lungo e il danno causato sarà ben più pesante.
Questo è il motivo per cui un approccio articolato a livello europeo alla crisi, basato sui principi di dignità umana, uguaglianza e solidarietà, è essenziale per la sopravvivenza del modus vivendi europeo.
In termini pratici, lo strumento concreto più importante per l'attuazione di questa solidarietà sarebbe l'approvazione degli eurobond per quegli Stati che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria, come l'Italia e la Spagna.
La ricostruzione che si comincia ad ipotizzare in un contesto economico sicuramente depresso a livello globale determinerà una riconsiderazione del ruolo dei diritti fondamentali? Porterà a valorizzare taluni diritti piuttosto che altri? E il ruolo dei giudici, nazionali e sovranazionali, è per queste ragioni destinato a mutare rispetto all’attuale?
Il ruolo del giudice è e sempre sarà quello di trovare un equilibrio tra i diritti e le libertà individuali e i bisogni della società, considerando che i diritti civili e politici sono strettamente intrecciati con i diritti economici, sociali e culturali. Non esistono diritti umani di prima e seconda classe.
In tempi di difficoltà economica e di incertezza, è fondamentale che il giudice - e soprattutto il giudice costituzionale - tuteli attentamente il nucleo fondamentale dei diritti economici, sociali e culturali. Il giudice dovrebbe sempre assicurarsi che il nucleo di tali diritti non sia in svendita. Di conseguenza, anche in tempi di crisi, deve essere garantita una protezione minima dei diritti economici, sociali e culturali e i principi di dignità umana, uguaglianza e solidarietà devono rimanere inalterati. Come afferma giustamente Robert Alexy: “è proprio in tempi di crisi che una protezione costituzionale, anche minima, dei diritti sociali è indispensabile”.
Qual è il ricordo più bello della Corte edu che lei ha mantenuto ?
Il ricordo più bello del mio mandato come giudice internazionale è l’attribuzione del dottorato onorario dalla Edge Hill University nel Regno Unito.
Il 7 dicembre 2019 mi è stato conferito un dottorato onorario da questa prestigiosa università britannica per il mio contributo alla protezione e alla promozione dei diritti umani in Europa. Mi ha profondamente commosso il discorso del Preside dell'Università, che ha evidenziato che sono stato l’autore di più di 150 opinioni (vedi l'elenco allegato) e che queste opinioni avevano contribuito in modo significativo allo sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda la tutela del diritto di difesa in materia penale e la protezione delle persone vulnerabili, quali donne, minoranze e detenuti.
Analogo riconoscimento mi è arrivato anche dal mio paese. Un mese dopo, infatti, il presidente dell'Ordine degli avvocati portoghesi mi ha conferito la medaglia d'onore dell'Associazione degli avvocati portoghesi, per la mia trentennale carriera nella difesa dei diritti umani e per il lavoro svolto a Strasburgo in favore delle parti più deboli.
E un ricordo di un caso nel quale secondo lei la Corte edu non è riuscita a svolgere la sua funzione di garante dei diritti umani?
Il 14 gennaio 2016 il Financial Times ha pubblicato in prima pagina una decisione di una camera della Corte europea dei diritti umani, che ha limitato significativamente il diritto alla privacy dei lavoratori sul posto di lavoro. Il Financial Times ha detto che il giudice portoghese aveva scritto una opinione dissenziente, difendendo il diritto dei lavoratori alla privacy. Nella mia opinione ho sostenuto che un approccio incentrato sui diritti umani in relazione all'uso di Internet sul posto di lavoro richiede e un quadro normativo interno trasparente, una politica di attuazione coerente e una strategia di applicazione proporzionata da parte sia dei datori di lavoro pubblici che privati.
Alcuni mesi dopo, la Grande Camera ha ribaltato il giudizio quella sentenza e si è schierata in favore della mia opinione. Questo caso è un vivido esempio dell'enorme impatto sociale della giurisprudenza di Strasburgo sulle questioni economiche e del lavoro. In un momento di crescente mercificazione dei lavoratori e crescente pressione sui sindacati, la Corte europea ha reagito stabilendo standard progressivi sulla governance delle imprese ed in relazione ai diritti dei lavoratori e dei sindacati.
Questo acquis europeo è ora minacciato, a causa dell'effetto drastico dei pacchetti di austerità sui diritti sociali dei lavoratori, del drammatico indebolimento della protezione dei migranti e dell'attacco frontale alla negoziazione collettiva e al diritto di sciopero. Quando lavoravo alla Corte Europea ho scritto diverse opinioni in cui ho sostenuto che il declino dello Stato sociale non è irreversibile e che la giustizia sociale può ancora essere raggiunta attraverso la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Versione in lingua inglese dell’intervista.
Professor Paulo Pinto de Albuquerque, how can Covid 19 affect the role of the European Court of Human Rights and the heritage of the values protected by the ECHR?
Today more than ever the European Court is called to defend our rights and freedoms in a principled manner, keeping in mind the foundations of the European system of protection of human rights. The same principles should be applied to all parties to the Convention. There can be no variable geometry in which consolidated democracies are increasingly given more deference compared to new democracies. We are today confronted with the same global threat, therefore the same global human rights response should be given. If the Court applies a harmonious, integrated approach to the interpretation of the Convention, it will rise to the challenges of upholding Convention rights in these troubled times of upheaval tainted with so much social and economic uncertainty. Nowadays, we are facing serious restrictions of fundamental rights, implemented through different forms and measures by the various national decision-makers. Do you think there is an authoritarian risk in some of the European countries?
Former Supreme Court judge Lord Sumption warned some days ago that the UK was in danger of becoming a “police state”, in view of the measures taken by the government to fight the pandemic danger. One danger is no less important than the other. I agree with him. Some European states have approved manifestly excessive restrictions of fundamental rights. This has happened in consolidated democracies as well as in new democracies. For example, involuntary internment of people “suspected” of being infected with an infectious disease is not permitted by article 5 (1) (e) of the ECHR, in view of the previous case law of the Strasbourg court in the which explicitly limits involuntary internment to people “infected” with an infectious disease. The measure of involuntary internment of people “suspected” of being infected with an infectious disease can only be imposed if the state derrogates from the Convention under its article 15. Yet some states have imposed this measure without derogating from the Convention. This is just one example. Many more could be given.
The concept of solidarity for the management of the pandemic emergency is widely invoked in relations between European countries. Is the ECHR aware of the theme of solidarity?
Yes, of course. The European Convention on Human Rights is intrinsically an instrument of solidarity among European peoples. The preamble of the European Convention itself envisages the achievement of “greater unity” between its contracting parties. The case law of the European Court testifies to this, for example in matters of migration law and discrimination law.
The principle of non refoulement is founded on the principle of solidarity. This obligation remains valid during times of emergency. Let us not forget that article 15 of the ECHR states that the measures taken by the state in time of emergency must be strictly necessary and consistent with its other obligations under international law. The present crisis should not be an occasion for states to close down their borders to those in need of international protection. The same principle of solidarity is implicit in discrimination law, for example regarding certain measures of positive discrimination. Here solidarity can play an important role within the same state. Now is the time to promote policies of positive discrimination in favor of vulnerable minorities, such as the elderly, persons with disabilities and prisoners. The European Court should be very sensitive to the fundamental importance of the principle of solidarity in the interpretation of the Convention.
At the end of the emergency period, to what extent can the fundamental rights of the person be the element on which to strengthen the union among the peoples of Europe?
After the second world war, the European dream was built upon the ideals of peace, democracy and solidarity, as the preamble of the European Convention on Human Rights shows. If the peoples of Europe stick to this credo, they will overcome this crisis much sooner and with less damage. If they fight this crisis in an isolated fashion, each people searching for its own salvation, the crisis will last longer and the damage caused will be heavier. This is why an European-wide articulated approach to the crisis, based on the principles of human dignity, equality and solidarity, is now vital for the survival of the European modus vivendi. In practical terms, the most important practical tool for the implementation of this solidarity would be the approval of eurobonds for those states that were most hit by the sanitary crisis, like Italy and Spain.
In a such depressed economic context at a global level, could the reconstruction that is going to be envisaged lead to a reconsideration of the role of fundamental rights? Will it lead to the enhancement of certain rights rather than others? And for the same reasons, is the role of judges - national and supranational - destined to change compared to their present one?
The role of the judge is and will always be to strike a balance between the individual rights and freedoms and the needs of society, taking into consideration that civil and political rights are intertwined with economic, social and cultural rights. There are no first and second class human rights. In times of economic hardship and uncertainty it is crucial that the judge and especially the constitutional judge carefully safeguards the core of economic, social and cultural rights. The judge should make sure that the core of these rights is not for sale. Consequently, even in times of crisis, a minimum protection of economic, social and cultural rights must be afforded and the principles of human dignity, equality and solidarity must remain intact. As Robert Alexy quite rightly states: “it is precisely in times of crisis that even a minimal constitutional protection of social rights seems indispensable”.
What is the best memory of your experience at the European Court of Human Rights?
The most beautiful memory of my mandate as an international judge is my Honorary Doctorate at Edge Hill University in the United Kingdom. On 7 December 2019, I was awarded an honorary doctorate from this prestigious british university for my contribution to the protection and promotion of human rights in Europe. I was profoundly touched by the speech of the Dean of the University, who acknowledged the fact that I had authored more than 150 opinions (see the list attached) and these opinions had significantly contributed to the development of international human rights law, especially in regard to defence rights in criminal law and procedure and the protection of vulnerable persons, like women, minorities and prisoners.
This acknowledgment came also from my own country. A month later, the President of the Portuguese Lawyers' Bar Association awarded me the medal of honor of the Portuguese Lawyers' Bar Association, for my 30 year long career in the defence of human rights and the work done in Strasbourg in favour of the most vulnerable.
And what’s a reminder of a case in which, in your opinion, the ECHR failed to fulfil its role as guarantor of human rights?
On 14 January 2016 the Financial Times made the front page with a judgment of a chamber of the European Court of Human Rights, which limited significantly the right to privacy of workers in the workplace. The Financial Times mentioned that the Portuguese judge had written a dissenting opinion, defending the workers' right to privacy. In my dissent, I argued that an human-rights centred approach to Internet usage in the workplace warrants a transparent internal regulatory framework, a consistent implementation policy and a proportionate enforcement strategy by public as well as private employers.
Some months later, the Grand Chamber reversed the chamber judgment and sided with my opinion. This case is a vivid example of the huge social impact of the Strasbourg case law on business and labour issues. In a time of increasing commodification of workers and mounting pressure on trade unions, the European Court has reacted by setting progressive standards on corporate governance and the rights of workers and trade unions. This European acquis is now under threat, due to the drastic effect of austerity packages on social rights of workers, the dramatic weakening of migrant workers’ protection and the frontal attack against collective negotiation and the right to strike. I have written several opinions at the European Court, where I defended that the decline of the Social State is not irreversible and Social Justice can still be achieved through the European Convention on Human Rights.
Covid -19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto – 2. Nel cuore del problema – 3. Ma quali misure? – 4. E quali sanzioni? – 5. Conclusioni.
1. La valutazione dei rischi sul lavoro e Covid-19: le opinioni a confronto
L’emergenza sanitaria in corso ha rimodellato le nostre abitudini di vita, sospeso l’esercizio di diritti ed esaltato l’assunzione di responsabilità di ciascuno verso la collettività. Ma mentre la dimensione privata – che è di nuovo fortemente pubblica – cerca di attraversare questi giorni, queste settimane, non vanno dimenticati quanti devono contemporaneamente esporsi necessariamente ad un maggior pericolo di contagio perché impegnati in attività lavorative che non sono sospese e non sono compatibili con lo smart working. Il mondo del lavoro può contrarsi ma non cessare il proprio moto.
Ma come incide l’emergenza sanitaria sul sistema teso a garantire la sicurezza del lavoro? Lo confina in un limbo, tra quei che son sospesi? Il nuovo si associa al vecchio? E in che forme: si sovrappone, ne viene integrato, gli impone delle modifiche[1]? Ecco alcune delle domande che si sono affacciate non appena nei provvedimenti adottati dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale sanitaria si è alluso al mondo del lavoro. Ma in fine dei conti tutti gli interrogativi si condensano in uno: il nuovo rischio sanitario deve essere considerato mediante la valutazione dei rischi, fulcro della normativa prevenzionistica?
Il quesito evoca immediatamente la previsione dell’art. 29, comma 3 TU, della quale basterà riportare solo una parte del testo: “La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, …, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, …”.
I repertori di giurisprudenza abbondano di massime che ammoniscono sulla necessità che la valutazione consideri tutti i rischi ai quali sono esposti i lavoratori. Meno frequente è che si concettualizzi la classe dei rischi che devono essere considerati, anche in funzione della evidenziazione di quelli che ne restano esclusi.
Nel dibattito apertosi all’insegna del Covid-19 sono presto emerse posizioni nettamente contrapposte[2].
Secondo alcuni, i rischi oggetto di valutazione – e che quindi impegnano ad un aggiornamento della stessa – sono solo quelli specifici dell’organizzazione lavorativa. Pertanto, si distingue la classe dei rischi specifici, implicati dal processo produttivo, dal modo di essere dell’organizzazione definita dal datore di lavoro, da quella dei rischi generici[3], ovvero dei rischi ai quali è esposta la collettività ed il lavoratore non in quanto tale ma come membro di essa.
Si evoca, nel medesimo orizzonte, l’opposizione tra rischio endogeno e rischio esogeno, assegnando valore, quale presupposto dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi, solo al primo.
Il rischio sanitario al quale oggi ognuno è esposto, in Italia come in gran parte del mondo, sarebbe un rischio generico, esogeno, e come tale non imporrebbe al datore di lavoro di tenerne conto mediante l’aggiornamento della valutazione dei rischi.
Si pone l’enfasi, a confermare questa tesi, sul fatto che la valutazione del rischio sanitario anche in ambito lavorativo è stata fatta dalla pubblica autorità, imponendo – oggi possiamo fare riferimento al d.l. n. 19/2020 – la regola del distanziamento e, solo ove questa non sia applicabile, l’obbligo di adottare, quali DPI, le mascherine chirurgiche. Si considera che l’obbligo di valutazione datoriale può ritenersi sussistente solo in corrispondenza di una libertà di decisione organizzativa; sicché, assente questa, viene a mancare il presupposto del dovere.
Sull’opposto fronte si è fatto appello principalmente all’art. 2087 c.c., quale fonte di un obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, secondo la particolarità del lavoro, deducendone – ma invero senza particolare argomentazione – che ciò vale anche in relazione al livello di rischio nascente dalla situazione di contagio pandemico e pertanto, “visto l’aumento esponenziale del livello normale di rischio derivante dal pericolo della malattia virale Covid 19, è necessario aggiornare il documento di valutazione dei rischi”[4].
Ulteriore argomentazione fa leva su una interpretazione ‘estensiva’ dell’art. 267 TU, che si riconosce concernere gli aspetti ambientali connessi all'uso delle specifiche sostanze nelle lavorazioni proprie del processo produttivo ma che dovrebbe essere applicato anche all’agente biologico CoViD19, considerato che il protocollo lo definisce rischio biologico generico e che nell'allegato XLVI del TUSL è considerato anche il Coronaviridae, ossia l'aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”[5].
Di più ampio respiro la ricostruzione che rimarca la necessità di una interpretazione ispirata alla logica sottesa al TU, quale emerge dall’artt. 3, comma 1, a mente del quale, “il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”; dall’art. 2, comma 1, lett. o), laddove definisce la salute del lavoratore come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”; dall’art. l’art. 2, comma 1, lett. n), D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale la “prevenzione” è “il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”.
Se ne trae il giudizio di una volontà del Governo di coinvolgere le imprese nell’opera di contenimento del virus. Ma l’obbligo di aggiornare la valutazione dei rischi si fa discendere essenzialmente dall’art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, del quale si rimarca il riferimento a “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”. Si sostiene che quest’ultima espressione “fa intendere che debbono essere valutati tutti i rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa: come appunto il coronavirus”[6]. E si richiama, ad ulteriore conferma dell’assunto, quanto ritenuto dalla Commissione per gli interpelli nel dare risposta al quesito in merito alla sussistenza dell’obbligo di valutazione anche per i rischi derivanti dalla “situazione ambientale e di sicurezza intesa anche come security, in particolare in paesi esteri ma non solo, legata a titolo esemplificativo ma non esaustivo ad eventi di natura geo politica, atti criminali di terzi, belligeranza e più in generale di tutti quei fattori potenzialmente pericolosi per l’integrità psicofisica dagli equipaggi nei luoghi (tipicamente aeroporti, alberghi, percorso da e per gli stessi e loro immediate vicinanze) dove il personale navigante si trovi ad operare/alloggiare quando comandati in servizio”. Ad avviso della Commissione, il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta[7].
2. Nel cuore del problema
Sull’uno e sull’altro fronte si dispiegano argomenti di notevole spessore.
Tuttavia, a mio avviso, la questione non si presta a soluzioni draconiane: obbligo si/obbligo no, in ogni caso senza se e senza condizioni. E, in fin dei conti, a leggere bene tra le righe la distanza tra i due orientamenti è minore di quanto non appaia.
Cominciamo con l’esaminare alcuni capisaldi della tesi che esclude l’obbligo di aggiornamento. In definitiva, essa sembra assumere una nozione di rischio professionale ritagliata sul tipo di produzione piuttosto che sulle singole mansioni espletate dai lavoratori. Non sembra bisognevole di dimostrazione che, al contrario, è proprio il rischio intrinseco alle singole attività lavorative a dover essere valutato. La stessa definizione di valutazione dei rischi offerta dall’art. 2, lett. q) - valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività – non pare alludere all’organizzazione in senso astratto ma a quella concretata dalla connessione tra luoghi fisici, procedure, apparecchiature, uomini.
Sicché vanno considerati i singoli segmenti del processo produttivo, le fasi della lavorazione, le diverse postazioni di lavoro e le attrezzature impiegate[8].
Se ciò persuade, allora è agevole considerare che quasi in ogni impresa, accanto a lavorazioni che non innalzano il rischio di contagio rispetto al livello al quale è esposto il non lavoratore, ve ne sono altre nelle quali le mansioni espletate espongono l’operatore ad un rischio ‘differenziale’ di essere aggredito dall’agente patogeno. Si pensi a coloro che hanno relazioni con i clienti, con i fornitori; che in generale svolgono compiti che implicano il contatto con soggetti estranei alla compagine aziendale. Non è, per questi lavoratori, quello da contagio, un rischio specifico? V’è davvero differenza tra il caso dell’impresa che invii un lavoratore in uno Stato estero nel quale è in atto un’epidemia – che si riconosce essere rischio professionale[9] - e quello del lavoratore chiamato a ricevere in azienda una persona che proviene da un ambiente esterno nel quale è in corso un’epidemia?
Ma anche relativamente a tutti gli altri lavoratori la tesi in esame non sembra convincente. Se si è disposti ad adottare quale criterio di discrimine il requisito della specificità del rischio, e però correlato alle varie mansioni previste dall’organizzazione produttive, allora viene da chiedersi se le prescrizioni – non più le raccomandazioni – imposte alla intera collettività (allontanarsi dal domicilio solo per comprovate necessità sanitarie, di lavoro ecc.) non definiscano un livello di rischio inferiore rispetto a quello cui risulta esposto il lavoratore, ‘confinato’ all’interno di un ambiente che, ordinariamente, è spazialmente delimitato, è frequentato da una pluralità di persone, richiede costantemente contatti intersoggettivi.
Detto altrimenti e più semplicemente: non è l’attività di lavoro divenuta ex sé un fattore di accrescimento del rischio sanitario al quale è esposto il non lavoratore?
Si potrebbe obiettare, l’argomento lo si è già preannunciato, che questo fattore è stato oggetto di valutazione da parte del legislatore, il quale ha imposto la regola del distanziamento fisico. Quindi non vi sarebbe alcuna necessità, premessa del dovere, per il datore di lavoro di valutare il rischio da Covid-19. Si afferma che “La valutazione di quel rischio è operata a monte dalla pubblica autorità, ai cui comandi il datore di lavoro deve adeguarsi adattando a tal fine la propria organizzazione alle misure di prevenzione dettate dalla stessa pubblica autorità. Tale riorganizzazione non è altro che un adeguamento alle direttive pubbliche e, come tale, non pare costituire un vero e proprio aggiornamento della valutazione dei rischi ex art. 29 del d.lgs. n. 81/2008, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza delle direttive pubbliche rileva non già ai sensi dell’art. 55 dello stesso decreto, bensì in relazione alle speciali sanzioni pubblicistiche sancite dalla pubblica autorità”.
Si può replicare che previsioni come quelle contenute nelle lett. z) e gg) dell’art. 1, comma 2 d.l. n. 19/2020 possono essere associate al concetto di valutazione del rischio solo in ben diverso senso. In realtà le norme operano una positivizzazione della regola cautelare da adottare per lo specifico rischio, nel peculiare contesto delle attività di impresa la cui prosecuzione è consentita. Il che dimostra che il legislatore ha identificato un fattore produttivo di rischio e una misura in grado di ridurre – non crediamo di eliminare – tale rischio; da qui la formulazione di un comando. Nulla più dell’ordinario procedimento attraverso il quale si perviene alla formazione di una regola cautelare.
Ciò non attinge la dimensione delle premesse fattuali dell’obbligo di aggiornamento della valutazione dei rischi. Anzi, a ben vedere, l’enunciazione della regola segnala l’esistenza del rischio e la necessità della adozione della misura impone di riconsiderare l’intera morfologia aziendale, al fine di verificare se non ne discendano effetti negativi per la sicurezza dei lavoratori. Di più: la regola positivizzata della quale stiamo trattando ha in realtà carattere elastico; essa non ha un contenuto definito rigidamente, ma indica un obiettivo da garantire conformando la specifica situazione concreta in chiave funzionale al raggiungimento dello stesso. Si prescrive che le attività consentite possono essere svolte se prima il titolare mette in esecuzione (“assume”) misure atte ad evitare assembramenti e predispone le condizioni per garantire il rispetto delle distanze interpersonali. Come è agevole osservare, si tratta di disposizione che rimanda a scelte organizzative del datore di lavoro, al quale è indicato unicamente il risultato da conseguire.
D’altro canto, non è forse vero che la regola del distanziamento fisico impone rilevanti modifiche organizzative se non addirittura al modo di produrre? E l’art. 29, comma 3, con il quale abbiamo aperto queste riflessioni, non impone di rielaborare immediatamente la valutazione dei rischi in occasione – almeno – di modifiche della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori? Si potrebbe obiettare che, per essere quelle considerate dalla norma, deve trattarsi di modifiche che incidono in senso peggiorativo sulle condizioni di salubrità dell’ambiente di lavoro; di talchè non devono essere considerate quelle che invece costituiscono misure migliorative. Mi sembrerebbe tuttavia una lettura ‘ingenua’, nel senso che non tiene conto delle implicazioni sistemiche di ogni innovazione. Ad esempio: la maggior distanza tra due lavoratori addetti ad una comune lavorazione può determinare la sopraggiunta inidoneità della misura che garantiva l’esecuzione in sicurezza (si pensi al controllo visivo di un lavoratore sull’altro, o alla disposizione di pulsantiere ecc.).
In sintesi, la valutazione dei rischi deve essere aggiornata, secondo quanto impone l’art. 29, comma 3, perché l’implementazione della misura del distanziamento fisico determina una rilevante modifica della organizzazione, in astratto ma ancor più perché il d.l. n. 19/20 rimanda al datore di lavoro per la definizione dell’assetto organizzativo concreto che vale a garantire il risultato del rispetto delle regole di condotta positivizzate.
Sarebbe erroneo sostenere che in questo modo si pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di fare fronte al rischio epidemico. Agevole la replica: al debitore di sicurezza lavorativa non si chiede di garantire la salute dell’intera collettività ma unicamente del lavoratore che, a causa della necessità di prestare l’opera fuori dal domicilio, si trova esposto al rischio ed impossibilitato a proteggersi isolandosi.
Né risulta decisivo in senso avverso il richiamo alla disciplina del rischio biologico espressamente prevista dal TU; disciplina che indubbiamente fa riferimento agli agenti biologici implicati ordinariamente dal processo produttivo. Infatti, ciò importa l’inapplicabilità delle specifiche disposizioni ma non esclude la cogenza del più generale obbligo datoriale discendente dall’art. 2087 c.c.; obbligo che vincola anche alla valutazione dei rischi che, si noti, non siano classificati dal TU.
3. Ma quali misure?
Altra questione è se le misure del distanziamento e dell’uso di DPI – e più in generale quelle espressamente previste in provvedimenti normativi - esauriscano il novero delle misure da adottare. Essa rimanda ad un tema perennemente dibattuto; ma si può cominciare con il rilevare che proprio il carattere elastico della prescrizione da un canto relativizza e dall’altro drammatizza il tema della adozione di misure ulteriori, che fossero suggerite dalla scienza e tuttavia non indicate dal d.l. 19/2020.
Lo relativizza perché in realtà il datore di lavoro è chiamato dalla regola ad individuare l’assetto organizzativo in grado di assicurare il rispetto della stessa; e qualora non ve ne fosse alcuno possibile, l’alternativa non può che essere la chiusura della lavorazione. Lo drammatizza perché ciò pone in capo al datore di lavoro l’onere di identificare le condizioni che permettono di osservare la misura. Il che non è sempre agevole e soprattutto si proietta su prassi che normalmente stressano il concetto di osservanza, tendendo a ritenere tale anche condotte non integralmente rispettose della prescrizione. Per altro verso, al datore di lavoro non si può chiedere più di quanto la scienza, allo stato attuale, permette di conoscere come efficaci misure prevenzionistiche.
In questa cornice si iscrive il Protocollo d’intesa. Il fatto che l’art. 1, comma 3, dello stesso d.P.C.M. del 22 marzo 2020 abbia previsto che le «imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali» e che le misure di cui a tale decreto presidenziale rientrano tra quelle confermate e sussunte nel d.l. n. 19/2020 ha fatto sostenere che il Protocollo ha natura lato sensu normativa[10].
Il profilo è di sicura rilevanza sul piano del diritto del lavoro e anche per le ricadute sull’attività di vigilanza; ma per quanto attiene alla dimensione penalistica è sostanzialmente irrilevante. Per il versante contravvenzionale vale quanto si osserverà a breve; per quello dei reati contro l’incolumità pubblica o individuale, la positivizzazione della regola cautelare – sia nella forma della legge, del regolamento, dell’ordine o della disciplina (art. 43, comma 1 c.p.) – viene in considerazione nel giudizio sulla colpa, ma può essere non risolutiva.
Indubbiamente, le misure concordate tra le parti sociali e condivise dal Governo si pongono come punto di riferimento per la individuazione delle misure prevenzionistiche ritenute, allo stato, necessarie per ridurre il rischio da Covid-19; ma ciò non esclude che esse possano essere insufficienti quando emerga che rappresentano non già le misure suggerite dalla scienza e dalla tecnica del tempo presente ma l’esito di un compromesso tra esigenze economiche e esigenze di tutela della salute individuale e collettiva. Solo una esplicita presa di posizione del legislatore può permettere che un nucleo di misure, che non esauriscono le cautele disponibili, sia valutato come integrale adempimento dell’obbligazione prevenzionistica.
4. E quali sanzioni?
Da quanto sin qui esposto discendono rilevanti conseguenze anche in tema di vigilanza e di sanzioni.
Poiché l’implementazione della misura disposta dal d.l. 19/2020 importa rilevanti modifiche organizzative, la valutazione va aggiornata immediatamente ed il relativo documento rielaborato entro trenta giorni dalla adozione della modifica
Si tratta di obblighi la cui violazione è presidiata da sanzione penale, prevista dall’art. 55, comma 3 TU.
E’ possibile quindi che gli organi preposti alla vigilanza svolgano il controllo del rispetto dell’obbligo e che impartiscano, ricorrendone le condizioni, la prescrizione condizionata, secondo la previsione dell’art. 301 TU.
Quid iuris se l’impresa non rispetta le regole imposte dal d.l. 19/20?
A considerare le misure indicate come volte a garantire la sicurezza dei lavoratori sul lavoro si dovrebbe ritenere che la mancata adozione debba trovare qualche eco in una delle norme sanzionatrici del TU. Senonché, a rendere inutile una ricerca che sarebbe stata di non agevole compimento, viene l’espressa previsione dell’art. 4 del d.l. 19/20, a mezzo della quale si manifesta la scelta del legislatore di mantenere un controllo pubblicistico sull’attuazione delle misure di contenimento, per la cui violazione è stato previsto uno speciale corredo sanzionatorio.
Si prevede, infatti, che, salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3.
Nei casi di cui all'articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa), si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni.
Le violazioni sono accertate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; si applicano i commi 1, 2 e 2.1 dell'articolo 202 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di pagamento in misura ridotta. Le sanzioni per le violazioni delle misure di cui all'articolo 2, comma 1, sono irrogate dal Prefetto.
Come si vede, l’osservanza delle misure è posta sotto il controllo del Prefetto, con una soluzione certamente fin qui sconosciuta al mondo della sicurezza del lavoro.
Per contro vi è una integrazione tra misura emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro nella previsione dell’art. 16 del d.l. n. 18/20, secondo la quale “per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall'articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”. Si ripropone, come è già stato osservato, il consueto modello prevenzionistico, fondato sul favore per misure collettive rispetto a quelle individuali (cfr. art. 75 TU).
Non è però agevole individuare la sanzione applicabile nel caso di mancata dotazione delle mascherine chirurgiche, giacché l’art. 87, comma 2 lett. d) chiama in causa il comma 3 dell’art. 77, che prescrive la dotazione di DPI conformi ai requisiti previsti dall’art. 76, tra i quali la conformità al d.lgs. n. 475/1992 e succ. mod.; conformità che manca alle mascherine chirurgiche, le quali sono prodotte in conformità delle norme UNI 14683-2019 e rientrano tra i dispositivi medici di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1997, n. 46; diversamente dai facciali filtranti (mascherine FFP2 e FFP3), che sono utilizzati in ambiente ospedaliero e assistenziale per proteggere l’utilizzatore da agenti esterni, i quali sono certificati ai sensi di quanto previsto dal D.lgs. n. 475/1992 e sulla base di norme tecniche armonizzate (UNI EN 149:2009).
Sicché, se da un verso la previsione dell’art. 16 sembra avere lo scopo di rendere idonee come DPI maschere che diversamente non lo sarebbero, dall’altro emerge l’inapplicabilità dell’art. 87, come sopra citato. Ne risulta la configurabilità della contravvenzione di cui agli artt. 18, comma 1 lett. d) e 55, comma 5 lett. d).
Più palese è la correlazione tra la violazione degli obblighi concernenti i DPI previsti dal 77, comma 4, e la sanzione penale: è quella apprestata dall’art. 87.
5. Conclusioni.
Come sempre accade, il mondo del lavoro si è mosso rapidamente. Mentre si discute se si debba o meno procedere all’aggiornamento della valutazione dei rischi molte imprese hanno assunto iniziative volte a ridurre al minimo il rischio che i lavoratori si ammalino avendo contratto il virus sul posto di lavoro. Le innovazioni sono state formalizzate in modi diversi. L’opinione espressa nelle righe precedenti conduce a ritenere che non può assumere rilievo la forma, ogni volta che si sarà realizzato nella sostanza un aggiornamento della valutazione dei rischi; ma a questo scopo, occorre rimarcarlo, è pur sempre necessario osservare le pertinenti prescrizioni normative; in particolare quelle dettate dall’art. 29.
[1] A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4, ha sostenuto, con riferimento alle pertinenti disposizioni del d.P.C.M. 11.3.2020, che “trattasi di indicazioni aggiuntive rispetto a un sistema normativo – preesistente e generale – di protezione e prevenzione della salute e della sicurezza del lavoratore che resta pienamente efficace”. IL d.P.C.M. è il primo provvedimento che, nella blanda forma della raccomandazione, ha prefigurato una gamma di misure a chiara funzione prevenzionistica, quali – a prescindere dal ricorso al lavoro agile e dall’incentivazione alle ferie e ai congedi – la sospensione delle attività nei reparti non essenziali alla produzione, l’adozione di protocolli anti-contagio, il distanziamento fisico e in subordine l’adozione di DPI, la sanificazione degli ambienti, la riduzione degli spostamenti all’interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni. Pochi giorni dopo è stato stipulato tra le parti sociali il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, del 14.3.2020, contenente linee guida alle imprese per l’adozione di specifici protocolli di sicurezza anti-contagio. Sul ruolo di tale accordo nel quadro della tutela della sicurezza del lavoro, P. Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL, 2019, fasc. 2, 107 ss. Infine, almeno per ora, è giunto – e con ben altra cogenza – il d.l. 25.3.2020, n. 19, recante norme sulle “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19”, al quale si farà ampio richiamo nel testo.
[2] Controversia che non tocca le attività lavorative prestate nell’erogazione dei servizi sanitari e ospedalieri, per le quali si riconosce nel rischio biologico da Covid-19 un rischio specifico professionale.
[3] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 129, “i rischi specifici … sono connessi al contesto strutturale, strumentale, procedurale e di regole che il datore di lavoro ha concepito e messo in atto per il perseguimento delle proprie finalità produttive”.
[4] A. Ingrao, op. cit., 4.
[5] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4.
[6] R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5.
[7] Interpello 25.10.2016, n. 37412.
[8] Per quanto non specificamente tematizzato, l’assunto emerge con sufficiente nitidezza anche dalle pronunce della giurisprudenza di legittimità; nelle quali si danno affermazioni come la seguente: “Il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, all’interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro…” (Cass. 25.2.2020, n. 6567; corsivo mio).
[9] P. Pascucci, op. cit.,129 s.
[10] Pascucci, terzo saggio, 123.
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