ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid.
di Veronica Sordi
Le pronunce analizzate offrono l’occasione per riflettere sullo stato attuale del sistema di giustizia amministrativa – delineato dai recenti interventi normativi per fronteggiare l’emergenza Covid – e in particolare se sia possibile rinunciare all’oralità del processo.
Prima di esaminare le ordinanze adottate dai giudici amministrativi in merito all’opportunità di un rinvio dell’udienza (fittiziamente celebrata in ragione dell’emergenza) per consentire la discussione orale della causa, è opportuno compiere una breve e mirata ricognizione della normativa “emergenziale” che desta non poche perplessità, interrogativi e problemi applicativi di particolare rilevanza[1].
Occorre in particolare richiamare le disposizioni contenute nei dd.ll. nn. 18 e 28/2020.
Nel dettaglio, l’art. 84, d.l. 18/2020, recante “Disposizioni in Materia di Giustizia amministrativa”, al co. 5 (non modificato dalla conversione del d.l. nella l. 24 aprile 2020 n. 27), prevede che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”.
Tale previsione è stata parzialmente superata – secondo alcuni[2] su impulso della giurisprudenza del Consiglio di Stato e, in particolare, delle ordinanze 21 aprile 2020 nn. 2538 e 2539 (vd infra) – dalla disciplina di cui d.l. 28/2020, che al co. 1 dell’art. 4 (“Disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia amministrativa”), stabilisce che “A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici. L'istanza è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite. Negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto. In tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno un giorno prima della trattazione, l'avviso dell'ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza fino alle ore 9 antimeridiane del giorno dell'udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza. Il decreto di cui al comma 2 stabilisce i tempi massimi di discussione e replica”.
Come lucidamente evidenziato a prima lettura da autorevole dottrina[3], tale nuova disciplina non è immune da criticità, in quanto sembra ancora lontana dal fornire una piena ed effettiva operatività al principio del contraddittorio durante il periodo emergenziale: anzi, determinando un’asimmetria irragionevole tra le parti[4] e attribuendo al giudice l’(inedito) potere di valutare l’opportunità della discussione orale, quanto meno astrattamente, mette seriamente a rischio l’impianto costituzionale del giusto processo[5] (in tutte le sue declinazioni, dal contraddittorio, all’oralità, fino a investirne anche la ragionevole durata).
La disposizione, lasciando aperta la possibilità che il Presidente non consenta la discussione, non può quindi ritenersi implicitamente abrogativa del richiamato art. 84, comma 5, d.l. 18, nella parte in cui riconosce il diritto delle parti di sostituire la discussione con “brevi note di udienza” [6]. Con linee guida del 20 aprile 2020, il Presidente del Consiglio di Stato, proprio con riferimento alla possibilità per le parti di presentare le suddette brevi note ha chiarito che “mentre la prima parte dell’art. 84 comma 5 cit. si rivolge anche alle udienze cautelari, la seconda parte della disposizione ha ad oggetto esclusivamente le udienze pubbliche e quelle camerali (non cautelari). Lo si evince agevolmente da due ordini di considerazioni: i) i termini dei procedimenti cautelari non sono mai stati sospesi, e dunque non si spiegherebbe il riferimento alla “rimessione in termini” contenuto nella seconda parte del comma 5 cit. ; ii) anche il riferimento alle note aggiuntive nei due giorni precedenti l’udienza costituirebbe previsione priva di qualsivoglia utilità, posto che nel procedimento cautelare le parti hanno già in via ordinaria la possibilità di presentare memorie entro due giorni liberi dall’udienza, o addirittura entro un giorno libero nel caso di operatività della dimidiazione dei termini. La facoltà di presentare “brevi note” sino a due giorni liberi dall’udienza deve, dunque, considerarsi riferita alle sole udienze pubbliche e camerali non cautelari. Nel medesimo termine di due giorni la parte, anziché presentare le note difensive, può limitarsi a chiedere il rinvio dell’udienza ove, a cagione della sospensione emergenziale, non abbia potuto fruire dei termini di cui all’art. 73 comma 1 o all’art. 87 comma 3” (pt 3 e 4).
Entrando ora nel merito delle pronunce che di recente sono intervenute sul tema e procedendo secondo un ordine cronologico, occorre innanzitutto richiamare le note (e già citate) ordinanze gemelle[7] con le quali la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, sotto la vigenza della disciplina di cui al d.l. 18/2020, si è pronunciata sull’istanza presentata dall’appellante di rinvio dell’udienza al fine di poter discutere la controversia, motivata in ragione della particolare complessità e delicatezza della questione, nonché sull’opposizione al rinvio proposta dagli appellati, fondata invece sull’asserita circostanza per cui “l’interesse alla discussione orale, invocato dalla controparte, non sarebbe stato oggetto di previsione legislativa per la fase emergenziale a partire dal 15 aprile 2020, durante la quale il regime processuale prevedrebbe il passaggio in decisione delle cause esclusivamente sulla base degli atti, con l’unica eccezione della rimessione in termini per il deposito di memorie e repliche”.
In particolare, la Sesta Sezione afferma che, sebbene (i) il tenore dell’art. 84, co. 5, d.l. 18/2020 sembri autorizzare il giudice a rinviare la trattazione della causa esclusivamente al fine di consentire l’effettivo esercizio del contraddittorio scritto di cui all’art. 73 c.p.a., senza riconoscere alle parti la facoltà di chiedere un differimento per poter discutere oralmente la controversia, e (ii) il processo amministrativo, differentemente da quello penale[8], non sembri “improntato al principio di oralità delle dichiarazioni e del contraddittorio in senso “forte” (ovvero, sia nella formazione della prova, sia come diritto dell’accusato di confrontarsi “de visu” con l’accusatore), ben potendo il confronto tra i litiganti e con il giudice avvenire in forma meramente cartolare e le parti decidere di neppure comparire in udienza”, ad ogni modo, il “il contraddittorio cartolare «coatto» ‒ cioè non frutto di una libera opzione difensiva, bensì imposto anche contro la volontà delle parti che invece preferiscano differire la causa a data successiva al termine della fase emergenziale pur di potersi confrontare direttamente con il proprio giudice ‒” non si configura come una soluzione percorribile alla luce dei principi costituzionali e convenzionali (art. 6 CEDU) neppure attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione de qua[9], in quanto tale “contraddittorio cartolare «coatto» costituirebbe una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” di rango costituzionale che si esprime nei principi del «giusto processo»”. Invero, gli artt. 24 e 111, co. 2, Cost, impongono che tutte le parti processuali abbiamo concretamente la possibilità di esporre puntualmente, e, quindi, anche oralmente, le proprie ragioni, rispondendo e contestando quelle degli altri e, pertanto, di ottenere dal giudice, loro diretto interlocutore, una tutela piena ed effettiva. In altri termini, il Consiglio di Stato precisa che il citato contraddittorio cartolare coatto contrasterebbe con le suddette disposizioni in quanto (i) la previsione di un divieto assoluto di contraddittorio orale potrebbe determinare un “ostacolo significativo per il ricorrente che voglia provocare la revisione in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione resa dall’autorità amministrativa”, oltre che (ii) con il principio della pubblicità dell’udienza, giacché “l’imposizione dell’assenza forzata, non solo del pubblico, ma anche dei difensori, finirebbe per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta”, refrattaria ad ogni forma di controllo pubblico”. Conclude pertanto la Sesta Sezione che la tenuta con il sistema costituzionale dell’art. 84, co. 5, è possibile qualora, non potendo il giudice ordinare un contraddittorio solo di tipo cartolare, possa rinviare la discussione della causa – “in un arco temporale che non superi l’anno in corso (tenuto conto della durata del rito cartolare fino a fine giugno, della sospensione feriale dei termini e del carico delle udienze già aggravato dall’emergenza pandemica da COVID-19)” – così da garantire “un giusto contemperamento delle posizioni delle parti ed evitare di ledere il diritto di difesa”.
Ancora, il Consiglio di Stato – chiamato a pronunciarsi sull’appello proposto contro l’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, nella parte in cui, secondo l’Amministrazione appellante, avrebbe comportato “interinali statuizioni di rigetto sulle pregiudiziali questioni della legitimatio ad processum e delle condizioni dell’azione dell’originaria ricorrente che [invece] avrebbero dovuto essere assunte con la forma della sentenza non definitiva ex art. 36, comma 2, Cod. proc. amm., antecedente e distinta dalla ordinanza medesima” –, con una serie di ordinanze gemelle del 7 maggio 2020[10], ha concesso, in ragione della “particolare complessità e importanza della controversia”, il rinvio dell’udienza per la discussione orale, affermando che “la domanda di trattazione orale davanti a questo giudice, per rispetto della piena esplicazione dei principi del contraddittorio e dell’oralità meriti, in proporzione a siffatta complessità ed importanza, adeguata e corrispondente considerazione (cfr. Cons. Stato, VI, ordd. 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539)”, non trattandosi di una fattispecie caratterizzata da una “semplicità [tale] da non richiedere alcuna discussione”, né idonea a determinare “potenziali effetti irreversibili sul diritto di difesa”. In tale occasione, la Quinta Sezione, richiamando espressamente l’insegnamento delle ordinanze gemelle surrichiamate, ha chiaramente legato l’importanza dell’oralità e del contraddittorio alla peculiare rilevanza e alla complessità della questione controversa e, dunque, alla considerazione che alla stessa deve essere data necessariamente.
Diverso è il caso in cui il TAR Lazio[11], sempre nelle more dell’applicazione del suddetto art. 84 d.l. 18/2020, in ragione della particolare importanza nel giudizio dinanzi allo stesso pendente dove era stata sollevata dalla ricorrente una questione di legittimità costituzionale, ha assegnato alle parti un termine di novanta giorni “per approfondire e sviluppare, con memorie specificamente dedicate, la citata questione”, precisando inoltre che debba essere tenuta in debita considerazione la circostanza che “il Collegio non ha potuto evidenziare alle parti l’importanza della citata questione in sede di discussione orale, per effetto delle disposizioni di cui all’art. 84 d.l. n. 18/2020”. Con tale provvedimento, quindi, il giudice ha espressamente evidenziato che la disciplina emergenziale di cui all’art. 84 cit., precludendo la possibilità di discutere oralmente e determinando – inevitabilmente – un effetto pregiudizievole sulle concrete modalità di esercizio del diritto di azione e di difesa mediante la previsione di un contraddittorio esclusivamente cartolare, limita la cognizione del giudice costretto necessariamente ad attendere le difese (solo) scritte dalle stesse (e che peraltro, per le questioni particolarmente complesse, quali gli incidenti di costituzionalità o le questioni pregiudiziali dinanzi alla CGUE, visti i limiti dimensionali degli scritti difensivi, potrebbero non essere comunque sufficienti), di fatto, allungando i tempi per l’adozione della decisione.
Rievocano lo schema del climax ascendente, per la sempre maggiore sensibilità espressa in relazione alla necessaria e concreta operatività del principio dell’oralità, i provvedimenti assunti dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato[12] nell’ambito di una controversia temporalmente rientrante nella disciplina fissata dall’art. 84, co. 5, d.l.18/2020, nella quale le parti non avevano prodotto né note né memoria per l’udienza di trattazione. In tale fattispecie, il giudice, nel rilevare che non era possibile conoscere “senza la partecipazione delle difese delle parti, lo stato del procedimento di cui si verte, anche ai fini della permanenza dell’interesse”, ha chiarito, in primo luogo, che anche l’attuale disciplina derogatoria del processo amministrativo deve comunque – ove possibile – essere interpretata conformemente ai principi costituzionali, e che, laddove la particolare situazione emergenziale non consenta l’ordinaria oralità e pubblicità del processo, non permettendo, dunque, di garantire, in assenza di richieste delle parti o di memorie, la pienezza del contraddittorio, è necessario, per risolvere la controversia, (i) acquisire dall’Amministrazione una dettagliata relazione in ordine allo stato del procedimento e alla posizione degli appellati e, compiuto tale adempimento nei termini indicati, (ii) fissare l’udienza di discussione nel merito della causa ad un momento in cui (auspicabilmente) sarà consentito svolgere in modo regolare (e quindi anche oralmente) le proprie difese.
Infine, per completezza, è opportuno richiamare il provvedimento, con il quale la Quarta Sezione del Consiglio di Stato[13], sulla scorta delle più volte ricordate ordinanze gemelle della Sesta Sezione[14], non ha accolto l’istanza della parte appellata confermativa della richiesta di rinvio dell’udienza già precedentemente avanzata – in ragione del deposito da parte dell’appellante di documenti e note di udienza in violazione dei termini a difesa –, rilevando che tale deposito, in cui, nella specie, il Ministero dell’Interno si era opposto alla richiesta di rinvio formulata ex adverso (confermando l’interesse alla trattazione dell’appello cautelare), era in realtà “irrilevante, in quanto le ragioni dell’appello cautelare [erano] state già evidenziate in maniera diffusa con la proposizione dell’impugnativa cautelare”, e ritenendo che “il differimento richiesto [potesse] compromettere la ragionevole durata del presente giudizio cautelare e che manifeste esigenze di economia processuale - potendo il decorrere del tempo privare di utilità la richiesta cautelare avanzata dall’Amministrazione – [inducevano] a disattendere la indicata richiesta di differimento”. In forza di tali argomentazioni ha, pertanto, all’esito della delibazione propria della fase cautelare, accolto l’appello cautelare.
Le ordinanze esaminate sembrano far emergere, al netto delle specifiche fattispecie nelle quali sono state pronunciate e delle diverse interpretazioni cui possono prestarsi, una innegabile sensibilità al principio dell’oralità e del contraddittorio. Si ritiene che sussista una circolare connessione tra le ragioni a fondamento dell’oralità, ragioni volte a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale e a mettere in condizioni tutti i protagonisti del processo (parti e giudice) di cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del processo (art. 2 c.p.a.), visto che, dal punto di vista delle parti, è lampante che l’oralità sia mezzo attraverso il quale il contraddittorio si realizza nella sua pienezza; dal punto di vista del giudice, invece, mediante l’oralità l’organo giudicante può con immediatezza realizzare il proprio convincimento sulle ragioni di una delle parti.
La situazione emergenziale, in uno con le deroghe che sono state disposte all’ordinario svolgersi del processo amministrativo, a parere di chi scrive, non giustifica dunque la compressione totale di alcuni principi, il cui riconoscimento, come anticipato, qualifica l’idea stessa di processo. In particolare, non si rinviene la ragione per cui si debba rinunciare all’oralità a meno che non si voglia ripensare interamente il modello processuale tradizionale e rinunciare alla più pura dinamicità dialettica e alla ben nota qualificazione di processo come “giuoco”, secondo cui “[il processo] non è soltanto l'alternarsi, in un ordine cronologico prestabilito, di atti compiuti da diversi soggetti, ma e la concatenazione logica che ricollega ciascuno di questi atti a quello che lo precede ed a quello che 1o segue, il nesso psicologico per il quale ogni atto che una parte compie al momento giusto costituisce una premessa e uno stimolo per l'atto che la controparte potrà compiere subito dopo. Il processo e una serie di atti che s’incrociano e si corrispondono come le mosse di un giuoco: di domande e risposte, di repliche e controrepliche, di azioni che danno luogo a reazioni, suscitatrici a loro volta di controreazioni”[15]. In tale prospettiva, quindi, l’udienza di discussione, anche nel processo amministrativo, assume un’innegabile centralità, sebbene trattasi di una centralità relativa stante il previo (e necessario) spiegamento delle difese scritte. Non può infatti negarsi che l’udienza rimane comunque quel momento indispensabile di garanzia del contatto tra le parti e il giudice e, dunque, del giusto processo[16].
In conclusione, è evidente che non possiamo rinunciare all’oralità, oltre che per i riflessi che avrebbe sull’effettivo esercizio del contraddittorio delle parti[17], anche per la sua funzione – fondamentale e irrinunciabile – di chiarificazione dei fatti oggetto della controversia e mezzo per consentire al giudice, raggiunto il suo pieno convincimento, di fare (davvero) giustizia. In tal senso, emblematico è il pensiero di E. Allorio, il quale ha espressamente ricondotto al principio di oralità la capacità di chiarire “molte cose meglio che in faticose comparse, che in brevi battute di dialogo eliminiamo spesso pagine e pagine di studiati ma artificiosi argomenti, che il giudice moderno non possa rinunciare a fornirsi un’idea diretta della causa, conferendo coi patroni delle parti, non quale ascoltatore passivo, ma quale curioso interrogatore”[18].
[1] M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di Giustizia Amministrativa: l'art. 84 del Decreto Cura-Italia, in lamministrativista.it, 17 marzo 2020; F. Francario, L'emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa: le nuove misure straordinarie per il processo amministrativo”, in federalismi.it; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell'art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.lexitalia.it.
[2] S. Tarullo, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale. Prime osservazioni sull’art. 4 del D.L. 28 del 2020, in federalismi, 13 maggio 2020, secondo cui “il legislatore d’urgenza, mediante l’art. 4 del D.L. n. 28/2020, sembra aver «approfittato» di questa apertura per rimettere la decisione finale sul contraddittorio orale al presidente, ove manchi l’istanza congiunta delle parti”.
[3] M.A. Sandulli, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in lamministrativista.it, 1 maggio 2020; Id., Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in giustiziainsieme.it, 4 maggio 2020; F. Saitta, Da Palazzo Spada un ragionevole no al «contraddittorio cartolare coatto» in sede cautelare. Ma il successivo intervento legislativo sembra configurare un’oralità…a discrezione del presidente del collegio, in federalismi; S. Tarullo, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale, cit.; G. Veltri, Il processo amministrativo. L’oralità e le sue modalità in fase emergenziale: “tutto andrà bene”, in www.giustizia-amministrativa.it, 2 maggio 2020. Sul tema si ricordano anche i webinar “Processo amministrativo e Covid”, 24 aprile 2020, coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di F. Francario, M. Lipari, L. Maruotti, G. Montedoro, G. Morbidelli, P. Portaluri, M. Ramajoli, C. Saltelli, S. Santoro, R. Savoia, G. Severini, M. Spasiano, nonché quello organizzato da Alla ricerca del filo d’Arianna su “Legislazione di emergenza e Diritto Amministrativo”, 18 maggio 2020, con gli interventi di M. Renna, M.A. Sandulli, V. Angiolini e F. Fracchia.
[4] Sulla parità delle parti, si veda G. Crepaldi, Le pronunce della terza via. Difesa e collaborazione nel processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2018 77; C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2015, 207; F.G. Scoca, Riflessioni sulla giustizia amministrativa: un percorso intellettuale coerente, in V. Spagnuolo Vigorita (a cura di), Opere giuridiche, vol. I, Napoli, Jovene, 2001, LIX.
[5] M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzia di effettività della tutela, Giappichelli, Torino, 2017, 310.
[6] M.A. Sandulli, Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, in giustiziainsieme.it, 4 maggio 2020.
[7] Cons. St., VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539 (Est. Simeoli, Pres. Montedoro). Sul tema, N. Durante, Il lockdown del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2020; A. D’Urbano – R. Santi, L’abolizione (temporanea?) della fase orale nel processo amministrativo per l’emergenza sanitaria. Il Consiglio di Stato (ordinanze nn. 2538 e2539 del 2020) riapre alla possibilità di discussione, in federalismi, 29 aprile 2020; C. Volpe, Pandemia, processo amministrativo e affinità elettive, in www.giustizia-amministrativa.it, 27 aprile 2020; S. Tarullo, Contraddittorio orale e bilanciamento presidenziale, cit., evidenzia che il quesito di fondo caratterizzante le ordinanze gemelle de quibus è se “il contraddittorio orale (discussione) è un diritto della parte o una concessione del giudice che bilancia questo valore processuale con altri valori”. L’A. rileva che la VI sezione del Consiglio di Stato abbia sposato la seconda tesi “ritenendola valida almeno per il presente periodo emergenziale … nonostante la premessa solidamente ancorata all’art. 111 della Costituzione”.
[8] Ancora attuale l’argomento chiovendiano secondo il quale l’oralità, principio cardine per altre forme di processo, in primis quello penale, dovrebbe operare anche rispetto agli altri tipi di giudizio, in quanto “si cercherebbe invano una qualsiasi ragione atta a dimostrare che la ricerca della verità debba procedere in modo diverso a seconda che la materia di cui si tratta sia penale o civile” o, per quel che qui interessa, amministrativa. In tal senso G. Chiovenda, Relazione sul progetto di riforma del procedimento civile elaborato nel 1920 dalla Commissione per il dopo guerra, in Id., Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1931, 4 ss.
[9] In tema di interpretazione costituzionalmente conforme quale “regola precettiva per l’ascrizione di significato a una determinata disposizione primaria nel confronto con la fonte gerarchicamente superiore”, le ordinanze de quibus richiamano le sentenze della Corte cost. nn. 46/2013; 77/2007, nonché le ordinanze nn. 102/2012, 212, 103 e 101/2011, 110, 192 e 322/2010, 257/2009, 363/2008.
[10] Cons. St., V, 7 maggio 2020, nn. 2887, 2888 2889, 2890, 2891 (Est. Perotti, Pres. Severini).
[11] TAR Lazio, Roma, III-quater, 27 aprile 2020, n. 4209 (Est. Marotta, Pres. Savoia). In altro giudizio, la stessa Sezione (stessi presidente e relatore) ha però respinto, con motivazioni sommarie e sostanzialmente assertive, un ricorso con il quale erano state sollevate eccezioni di illegittimità costituzionale in ordine alla disciplina delle cooperative di somministrazione lavoro (sentenza 4936 dell’11 maggio 2020).
[12] Cons. St., III, 8 maggio 2020, n. 2918 e 2919 (Est. Cogliani, Pres. Lipari).
[13] Cons. St., IV, 8 maggio 2020, n. 2475 (est. Caponigro, Pres. Anastasi).
[14] Cfr. nota 3
[15] P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1950, 23 ss.
[16] F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2013, 158, secondo il quale la nozione di giusto processo “prende sostanza dalle garanzie che positivamente le vengono connesse”.
[17] F. Benvenuti, voce Contraddittorio (diritto amministrativo), in Enc. dir., vol. IX, Milano, Giuffrè, 1961, 747; G. Crepaldi, Le pronunce della terza via. Difesa e collaborazione nel processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2019, 79 ss; R. Merengo, voce Udienza (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol. XLV, Milano, Giuffrè, 1992, 483.
[18] E. Allorio, Sull’avvenire della giustizia civile, Giurisprudenza italiana, 1947, in Problemi di diritto, vol. II, Milano, 1957, 513 ss.; in tal senso si vedano anche G. Chiovenda, Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno, 1907, in Id., Saggi di diritto processuale, I, 379; S. Satta, Guida pratica per il nuovo processo civile italiano, Milano, 1941, secondo cui “oralità in altri termini non significa oratorietà, anzi perfettamente il contrario: amichevole discussione, nella comune volontà di scoprire il vero”, 37 ss.
di Marco Imperato
sommario: 1.Premessa. - 2.La gogna mediatica e le nostre responsabilità -3.La rete dei contatti personali: dialogo fisiologico e raccolta di informazioni… o pressioni indebite e scambi inconfessabili? 4. I principi invalicabili per tutelare il confronto istituzionale senza degenerare nel traffico di influenze. - 5.I frutti (non tutti da buttare) della discrezionalità e il falso mito del passato. - 6.La ricerca di una terza via tra rottamazione e difesa corporativa. - 7.Le incompatibilità: segno concreto di discontinuità. - 8.Conclusioni: le parole devono diventare azioni.
1.Premessa
Lo stillicidio di intercettazioni che stiamo osservando mischia situazioni e vicende di significato molto diverso tra loro.
Le chat pubblicate (chi sceglie quali…?) non sono paragonabili agli incontri notturni con politici per pilotare la scelta del Procuratore di Roma, rivelati dal noto trojan sul telefono di Palamara.
Alcune vicende non configurano condotte in alcun modo illecite, altre sono presentate in modo enfatico per colpire questo o quell'obiettivo e se contestualizzate si rivelerebbero di modesto rilievo. Altre sono inconsistenti e si colorano negativamente più per il contesto dello scandalo che per il merito. I colleghi ingiustamente danneggiati avranno modo di far valere le loro ragioni.
Non tutto quello che viene pubblicato però è privo di significato rispetto al sistema che racconta, anzi.
Credo che si debba trovare un’alternativa tra accuse qualunquiste che omologano tutto e tutti in modo superficiale e populista da una parte, ed un silenzio imbarazzato dall’altra, rotto solo da qualche comunicato dei gruppi, che finisce per essere quasi sempre auto-assolutorio.
Le vicende e le responsabilità vanno distinte e spiegate, certo. Ma soprattutto va individuato ciò che invece rappresenta una caduta rispetto ai doveri istituzionali, rispetto al codice etico dell’Anm e anche alla Carta dei Valori di cui noi magistrati di Area ci siamo riempiti la bocca in questi anni.
2. La gogna mediatica e le nostre responsabilità
Questo modo di fare cronaca ha poco o nulla a che fare con l’informazione: genera sdegno e denuncia, sì, ma senza contestualizzare, senza consentire di valutare le vicende, bensì gettando tutto in un unico calderone di fango. Peraltro dovremmo avere l’onestà intellettuale di dire che come categoria non siamo certo privi di responsabilità se nel Paese si è tollerato e diffuso (e qualche volta usato) questa barbarie di informazione, una gogna mediatica che asseconda (troppo) facili generalizzazioni e delegittimazioni. L’alternativa non è la censura o l’opacità, ma dovrebbe esserci un trasparente filtro dei dati di rilevanza processuale e una volta fatto quel filtro con le garanzie dovute alle parti del processo, i contenuti di rilevanza pubblica dovrebbero diventare ostensibili e conosciuti, non lasciati a un mercato nero nascosto che decide cosa e quando pubblicare.
Detto della necessità di distinguere e di ragionare e di comprendere meglio, non possiamo però poi eludere il merito e girarci dall’altra parte.
3. La rete dei contatti personali: dialogo fisiologico e raccolta di informazioni… o pressioni indebite e scambi inconfessabili?
Il dialogo e i contatti personali nell’ambito di un organo collegiale complesso sono per certi aspetti inevitabili e fisiologici, talvolta doverosi e indispensabili.
Sappiamo che molti contatti informali ai margini dell’organo di autogoverno sono legati dalla volontà (a volte ritenuta una necessità…) di ricercare quelle informazioni che purtroppo non finiscono nelle carte ufficiali e che però possono essere decisive e rilevanti. I magistrati sanno che questo è il problema dei problemi da anni perché nonostante le tante discussioni e riforme spesso ancora le istruttorie ufficiali non garantiscono una conoscenza effettiva della realtà: i veri problemi degli uffici non sempre risultano per iscritto, così come quasi tutti i colleghi candidati per un posto semidirettivo o direttivo sono presentati sulla carta sempre tutti eccezionali, complicando così l’individuazione delle differenti qualità e dei diversi meriti che stanno dietro queste versioni appiattite e burocratiche. Il fatto che questo nodo non sia stato sciolto dimostra a mio parere che va cambiato profondamente il paradigma con cui funzionano le nomine e non possiamo più lasciare che i buchi del sistema informativo siano riempiti da canali informali, spesso quasi soltanto correntizi.
4. I principi invalicabili per tutelare il confronto istituzionale senza degenerare nel traffico di influenze
A prescindere da questo tema dei canali informativi, se è vero che il dialogo tra i componenti degli organi eletti e dei corpi intermedi che li esprimono è comprensibile e non di per sé illecito, ci sono almeno due precisazioni fondamentali da fare:
-questo dialogo informale può portare al compromesso politico (inteso come risultato migliore possibile nell’interesse dell’autogoverno, dei colleghi, degli uffici e del servizio che offriamo), ma mai dovrebbe condurre ad uno scambio do ut des e ancor meno allo scambio secondo logiche di fazione
-l’esito del confronto deve essere fondato su ragioni ostensibili: dobbiamo poter spiegare (dentro e fuori la magistratura) le decisioni che prendiamo
Questi due limiti e principi non sono stati rispettati e non abbiamo garanzie che vengano rispettati in futuro.
I proclami e le promesse oggi lasciano davvero il tempo che trovano, in un sistema che ha perso autorevolezza e credibilità (forse anche oltre i suoi gravi demeriti? cambia poco…).
Area e le sue componenti non sono state impermeabili a questo sistema. L’impressione è che la nostra presunta diversità si è limitata talvolta solo a pretendere che lo scambio avvenisse sulla base anche della qualità.
Ma questo non è sufficiente.
Non credo lo fosse in passato e sicuramente non è sufficiente oggi, sebbene i margini di discrezionalità abbiano portato anche risultati positivi per gli uffici, con nomine illuminate che nel vecchio mondo dell’anzianità senza demerito sarebbero state inimmaginabili.
5.I frutti (non tutti da buttare) della discrezionalità e il falso mito del passato
Permettetemi un esempio: quando lavorai in Procura a Marsala tra il 2004 e il 2008 gli uffici erano in grave sofferenza e senza una strategia organizzativa reale da parte dei direttivi. Dodici anni dopo il Tribunale e la Procura hanno svoltato completamente, con numeri e tempi che garantiscono davvero un servizio giustizia degno di questo nome. Il merito va a tutti i magistrati che si sono sacrificati in questi anni ma indubbiamente anche a una serie di direttivi e semidirettivi che hanno dimostrato capacità organizzative importanti.
Il passato non era un’età dell’oro a cui tornare per uscire dai mali del correntismo e del carrierismo.
Tuttavia, dire che la discrezionalità del CSM nelle nomine abbia condotto anche a scelte molto positive e innovative non può bastare; non possiamo accontentarci di stare al tavolo cercando solo di giocare in modo più corretto.
6. La ricerca di una terza via tra rottamazione e difesa corporativa
Dobbiamo pretendere che il gioco cambi radicalmente e che si scardini quella rete che è stata utilizzata per fini personali e lottizzazioni più o meno mascherate.
Oggi la magistratura è in crisi di autorevolezza; l’associazionismo e l’autogoverno sono guardati con sfiducia e amarezza da tanti di noi, specialmente i più giovani. Per questo è diventato indispensabile chiedere conto di ogni scelta con trasparenza e pretendere coerenza.
Non accetto che non ci sia alternativa al “così fan tutti” o al “fa tutto schifo”, perché quella strada di delegittimazione qualunquista porta all’anzianità senza demerito e a pessimi direttivi. Quella strada porta al sorteggio nel Csm e alla fine dell’autogoverno e quindi dell’indipendenza della magistratura… perché quella strada porta al chiuderci nei nostri uffici, conduce al cinismo e alla disillusione. Come pretendere di esercitare la giurisdizione, giudicando i comportamenti delle persone, se ci ammettessimo di essere incapaci di eleggere i responsabili del nostro governo e di guarire le derive di malaffare del nostro sistema?!
Non sono ancora abbastanza stanco per accettare questa deriva.
Cosa fare allora? Cosa può darci la fiducia che le cose cambino?
7. Le incompatibilità: segno concreto di discontinuità
Ritengo che il punto di partenza possano e anzi debbano essere delle nuove rigorose incompatibilità tra incarichi di autogoverno, ruoli associativi, direttivi e fuori ruolo.
Non mi illudo: i comportamenti non mutano improvvisamente con delle regole ed è necessario che queste siano precedute e accompagnate da un percorso di cambiamento culturale. Tuttavia mettere dei paletti chiari è il primo segnale di voler fare sul serio, di voler spezzare il circuito di carrierismo autoreferenziale che sta avvelenando il sistema e che ha gravemente deturpato l’azione delle correnti.
Le proposte sulle incompatibilità sono tante e qui mi limito a richiamarne alcune, frutto di un gruppo di lavoro trasversale creato dalla giunta Anm dell’Emilia Romagna:
per le candidature al C.S.M.
-la preclusione in capo al Presidente e Segretario della A.N.M. nel corso del loro mandato e per due anni dalla cessazione del mandato [...];
-la preclusione per tutti i componenti del C.d.c. nel corso del loro mandato [...];
-la preclusione per Segretari e Presidenti dei gruppi associativi durante il mandato e per due anni dalla cessazione del mandato [...];
-una preclusione per tutti i componenti del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura nel corso del loro mandato [...]
Sui componenti del CSM
- si chiede che venga rivisto il trattamento economico attualmente in vigore tenendo conto della fascia di professionalità acquisita, integrata con diarie e con tutti i rimborsi necessari allo svolgimento delle funzioni.
-Il limite minimo di anzianità di servizio per potersi candidare al C.S.M. [deve] essere di 12 anni di svolgimento effettivo delle funzioni giudiziarie, di cui gli ultimi quattro trascorsi nelle funzioni per cui ci si candida (requirenti o giudicanti).
- si ritiene necessario un periodo di rientro nelle funzioni giudiziarie e pertanto, al termine dell’incarico, l’Assemblea a maggioranza ritiene che per due anni, decorrenti dall’effettiva ripresa delle funzioni giudiziarie, non potranno avanzare domanda per un posto semidirettivo o direttivo, accettare o richiedere incarichi “fuori ruolo” per qualsiasi incarico di collaborazione diretta con gli uffici ministeriali.
Sui colleghi c.d. “fuori ruolo”
-si suggerisce di verificare l’opportunità di diversificare all’interno di quest’ultima categoria, gli incarichi svolti presso organi giudiziari quali la Corte Costituzionale, la Corte di Giustizia Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
- I colleghi c.d. “fuori ruolo”, per un termine di quattro anni dal rientro in servizio, non potranno candidarsi al C.S.M. richiedere incarichi direttivi e semidirettivi;
-proporre domanda, in ogni caso, se non abbiano effettivamente svolto funzioni giudiziarie per un numero di anni pari alla legittimazione richiesta per il posto messo a concorso.
Sui magistrati che abbiano assunto cariche politiche ed incarichi presso organi politici
-cessato l’incarico politico, il magistrato non potrà più candidarsi al CSM e non sarà legittimato a chiedere un ruolo direttivo o semidirettivo per 5 anni dalla ripresa delle funzioni giudiziarie;
-cessato l’incarico politico, il magistrato potrà rientrare solo nelle funzioni giudiziarie collegiali giudicanti.
Sui magistrati candidati ma non eletti alle predette cariche. Ferma restando l’incompatibilità con il distretto nel quale hanno presentato una propria candidatura, essi non potranno fare istanza per posti direttivi o semidirettivi prima di 5 anni dalla ripresa del servizio.
A questa serie di proposte mi permetto di aggiungere almeno altri due temi fermi sul tavolo da troppo tempo:
-rendere i posti semi-direttivi tabellari (almeno alcuni di questi)
-audizione diretta di tutti i candidati ai posti direttivi di maggiore peso specifico (proprio per evitare la ricerca di canali informali)
Certamente alcune di queste proposte richiederebbero interventi legislativi ma nulla impedisce che Area o l’Anm intera le pongano come condizioni ai propri aderenti, consentendo così ai colleghi di misurare in modo oggettivo e concreto la coerenza dei comportamenti.
8.Conclusioni: le parole devono diventare azioni
Da anni il mio impegno è dentro il Movimento e soprattutto dentro Area. Qui ho trovato colleghi affini per valori e per modo di interpretare il mestiere, con passione e spirito di servizio.
Però Area non può accontentarsi di gestire un sistema sperando che il sistema non cambi anche noi: se balli col diavolo è lui a cambiare e te e non il contrario.
Dobbiamo avere il coraggio di segnare la differenza, di dimostrare che non ci basta giocare (forse… più…) correttamente degli altri, ma che vogliamo cambiare gioco, che vogliamo spezzare il circolo vizioso e uscire dal girone delle telefonate e dei “grazie” più o meno estorti o detti per cortesia ma che possono finire per imbrigliarci nella rete.
Dimostriamo di voler davvero che tutti i magistrati si distinguano solo per funzioni e che la giurisdizione sia al centro.
Le proposte sulle incompatibilità credo siano la cartina tornasole che ci farà capire se veramente vogliamo cambiare sistema.
Per ritrovare fiducia nel nostro impegno.
Per ridare credibilità e autorevolezza all’associazionismo e all’autogoverno della magistratura.
Covid e mascherine
di Alberto Rizzo
Sommario: 1. Premessa - 2. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica - 3. La normativa di carattere penale attualmente vigente - 4. Il problema del burqua - 5. Le attuali problematiche di carattere penale - 6. Obbligatorietà dell’azione penale.
1.Premessa
Sono trascorsi diversi mesi dall’inizio dell’emergenza scatenata dal Covid-2019, eppure il virus non cessa di essere il protagonista indiscusso dei nostri pensieri e diuturni discorsi.
Di cose se ne sono dette tante - anche troppe - e si continua a dirne. Certamente, uno degli argomenti su cui tutti hanno espresso il proprio parere è la dibattutissima questione delle mascherine: quali usare, quando usarle, a chi farle indossare, a chi no e così via.
Ebbene, senza voler scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi, la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche, proviamo a concentrare l’attenzione su uno scenario che è rimasto in secondo piano, ma che ha comunque notevole rilevanza: i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?
Procediamo con ordine.
2. L’obbligo di indossare mascherine nell’emergenza pandemica
Inizialmente, l’obbligo di indossare le mascherine non si è articolato in modo uniforme sul territorio. Tale obbligatorietà è stata per lo più prevista in modo “trasversale”, ossia solo per determinate fasce di popolazione (i sanitari, gli esercenti commerciali dei beni di prima necessità come alimentari, farmacie etc.) e – in ogni caso – solo a livello regionale.
Quindi, obbligatorie solo per alcuni e, comunque, non dappertutto.
A causa dell’alto numero di contagi, la Lombardia è stata la prima ad emettere un’ordinanza locale con cui ha imposto l’obbligo a chiunque esca di casa di coprire naso e bocca, possibilmente con una mascherina o, in mancanza, impiegando una sciarpa o un foulard (Ordinanza n. 521 del 4/4/2020).
Sempre a inizio aprile, la Valle d’Aosta ha stabilito l’obbligo di indossare mascherina e guanti non solo per gli esercenti commerciali, ma anche per chi va a fare la spesa. Stessa cosa ha disposto il Veneto, mentre il Piemonte e la Toscana hanno comunicato che avrebbero reso obbligatorio l’uso della mascherina per tutti, ma solo dopo aver provveduto a distribuirne una gran quantità alla popolazione.
Infine, con il DPCM del 26 aprile, finalizzato ad accompagnare l’Italia nella fatidica “FASE 2”, l’obbligo è stato introdotto e regolamentato sull’intero territorio nazionale.
Ad oggi, l’utilizzo in Piemonte è previsto dal Decreto 2 maggio 2020, n. 50, il quale prevede l’obbligo per tutti i cittadini di utilizzare protezioni delle vie respiratorie nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto, e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuamente il mantenimento della distanza di sicurezza, escludendo da tale obbligo “i bambini al di sotto dei sei anni, nonché i soggetti con forme di disabilità non compatibili con l’uso continuativo delle mascherine ovvero i soggetti che interagiscono con i predetti”.
Questa la situazione attuale.
3. La normativa di carattere penale attualmente vigente
Eppure, in questo contesto di “iper-legificazione” c’è un elemento che pare essere stato completamente dimenticato: il precetto penale.
Infatti, nell’ordinamento italiano esistono ancora delle norme, di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico.
In particolare, sono due le norme fondamentali che impongono tali restrizioni:
- l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931), che così recita: “E’ vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000. È vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale di pubblica sicurezza con apposito manifesto. Il contravventore e chi, invitato, non si tolga la maschera, è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000.”
- l’altra, un po’più dettagliata, è l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975: “E' vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. ((Nei casi di cui al primo periodo del comma precedente, il)) contravventore è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro. ((Qualora il fatto è commesso in occasione delle manifestazioni previste dal primo comma, il contravventore è punito con l'arresto da due a tre anni e con l'ammenda da 2.000 a 6.000 euro.)) Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza.”
Dalla lettura di queste disposizioni sorgono due interrogativi principali: cosa vuol dire “mascherati” e quali sono questi “giustificati motivi”?
La difficile interpretazione di tali norme, invero, ha già comportato non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla dibattutissima questione dell’abbigliamento religioso.
In particolare, ci si riferisce a determinati abbigliamenti “occultanti”, ossia quelli imposti dalla fede musulmana (burqa o hijab).
Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?
Ovviamente il problema non si pone fintanto che la donna in questione non acceda a luoghi pubblici o affollati, ovvero nei quali è necessario provvedere al suo riconoscimento, come i Tribunali o gli aeroporti.
Sono, questi, interrogativi cui la giurisprudenza ha provato a dare risposte, giungendo a conclusioni anche diametralmente opposte. La questione si era fatta tanto spinosa che, nel 2010, una parte politica aveva tentato di riformare il dettato normativo dell’art. 5 L. 152/1975, al fine di rendere più chiara la sua portata interpretativa. Infatti, il nodo gordiano della questione risiede nel fatto che la norma parla espressamente solo di “caschi protettivi”, facendo in seguito riferimento, in via residuale ed assai genericamente, a “qualunque altro mezzo” atto a rendere difficoltoso il riconoscimento.
4. Il problema del burqua
Ebbene, è proprio da questa indeterminatezza che sorge il problema del burqa.
Infatti, che tale indumento renda del tutto impossibile l’attività di riconoscimento, è fuor dubbio.
La proposta di modificare la norma era finalizzata a far rientrare il burqa nel novero dei “mezzi” volti a impedire il riconoscimento, ed era fondata sulla concezione secondo cui i motivi che stanno alla base del velo integrale non siano in realtà di carattere religioso, bensì solo etnico-culturale: non si tratterebbe, quindi, di un precetto imposto dalla fede religiosa, ma solo di un’usanza adottata dalle comunità islamiche più integraliste e, pertanto, non sarebbe da ricomprendere tra i “giustificati motivi” che fondano l’eccezione al precetto penale ex art. 5 L 152/75.
Tuttavia, tale prima proposta di riforma non ha trovato il seguito sperato.
Per quanto concerne la giurisprudenza, ad oggi la pronuncia più importante in materia è quella emessa nel 2008 dal Consiglio di Stato (n. 3076/2008), nella quale viene chiarito che “il burqa non contrasta né con l’art. 85 del R.D. 1931, né con l’art. 5 l. 152/75 poiché, in primo luogo, il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’articolo 85 del R.D. n. 773/193 non può sussistere, dal momento che il velo islamico non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa”.
Nemmeno sarebbe pertinente, a parere del Consiglio di Stato, il richiamo all’articolo 5 della legge n. 152/1975, che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
La ratio della norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento.
Un divieto assoluto, quindi, vi è solo in occasione di manifestazioni che avvengano in luogo aperto al pubblico, ad eccezione di quelle di carattere sportivo che impongano tali usi, altrimenti l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento rimane vietato solo se avviene "senza giustificato motivo".
Infine, il Consiglio di Stato ha messo un punto sulla questione, affermando che quello del burqa è “utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. (…) Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.”
Nel 2017, al riguardo, è stata avanzata un’ulteriore proposta di riforma dell’art. 5 L. 152/75, anch’essa rimasta tale, e fondata nuovamente sulla necessità di chiarire la portata troppo generica dei “mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento”. Tale ulteriore proposta poneva l’accento sulla ratio dell’art. 5, ossia quella di scongiurare atti di terrorismo con misure atte a evitare occultamenti o travisamenti di identità.
5. Le attuali problematiche di carattere penale
Ebbene, tornando all’argomento principale, ossia all’obbligo recentemente imposto di indossare le mascherine protettive in luoghi aperti al pubblico, appare una certa similitudine con il discorso sviluppato in riferimento all’abbigliamento occultante, se non altro per quanto concerne i problemi interpretativi che possono sorgere.
Partendo dal presupposto che vi sono due norme di rilevanza penale che impongono di non comparire in luogo pubblico mascherati, o con altri mezzi che rendano difficile il riconoscimento dei connotati - se non per giustificato motivo -, pare opportuno chiedersi se effettivamente le ragioni che stanno alla base dell’obbligo imposto siano valutabili come un “giusto motivo”, tale da scriminare quel comportamento che, altrimenti, avrebbe indubbiamente rilevanza penale.
A tal proposito, è ormai pacifico che il virus si trasmetta tramite un contatto stretto con una persona infetta. È lo stesso Ministero della Salute che, nella pagina Web appositamente dedicata a fornire chiarimenti sulla natura del Covid-19, scrive: “Il nuovo Coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata. La via primaria sono le goccioline del respiro delle persone infette”.
Non si tratta, quindi, di un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio.
Parrebbe, quindi, che indossare la mascherina in luoghi aperti non possa essere in alcun modo un “giustificato motivo”.
Volendo, quindi, ragionare in questi termini, si apre uno scenario alquanto sconcertante.
Appurato che indossare le mascherine per prevenire o limitare la diffusione del virus non costituisce un giustificato motivo ai sensi di legge, va da sé che tale comportamento sia penalmente rilevante ai sensi degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931.
Ebbene, basta dare uno sguardo alle strade di qualunque città d’Italia per rendersi conto di quanti cittadini, certamente convinti di fare una cosa buona e giusta, circolano indossando una mascherina.
A questo punto, dovremmo chiederci per quale motivo tutti i pubblici ufficiali in servizio, che constatano la presenza di persone dotate di mascherine in luogo pubblico, non abbiano segnalato all’Autorità Giudiziaria tali notizie di reato, rendendosi a loro volta passibili del reato di cui all’art. 361 c.p.
Oppure potrebbe essere che, in quanto le nuove norme (che impongono di indossare la mascherina in luogo pubblico) sono completamente contrastanti con le precedenti che vietano espressamente tale comportamento, si sia verificata un’abrogazione implicita di queste ultime, secondo quanto disposto dall’art. 15 delle Preleggi.
Se non fosse così, non ci si spiega come nessuno sia intervenuto a sanzionare tali comportamenti.
Ma non è tutto. Sempre partendo dall’assunto che tale comportamento sia penalmente rilevante - e che non vi sia stata un’abrogazione implicita dei precetti penali che lo sanzionano - si potrebbe affermare come le norme regolamentari, che impongono di andare in giro indossando la mascherina, di fatto stiano invitando la popolazione a tenere un comportamento contra legem.
Infatti, l’art. 414, comma primo, Codice penale, recita: “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione”.
Parrebbe, effettivamente, che sussistano tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie: indubbiamente i regolamenti sono divulgati “in forma pubblica” e, abbiamo appurato, impongono ai consociati di tenere un comportamento che va contro le disposizioni di cui agli artt. 5, L. 152/75, e 85, R.D. 773/1931.
6. Obbligatorietà dell’azione penale
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione – che risulta ancora costituzionalmente previsto – è quindi scomparso? Ai Lettori e ai Magistrati il compito di rispondere.
Vi è, peraltro, un’ultima questione che può fornire alcuni spunti di riflessione.
Posto che in molti riterrebbero l’utilizzo delle mascherine un “giustificato motivo”, idoneo a scongiurare un eventuale contrasto con i precetti penali sopra riportati, ciò non toglie che gli obblighi imposti alla popolazione siano stati precettati esclusivamente da ordinanze e decreti regionali, ovvero decreti ministeriali.
Tuttavia, uno dei principi cardine del nostro Ordinamento è quello della gerarchia tra le fonti del diritto: esse non sono tutte di pari grado, bensì assumono importanza differente.
La legge costituzionale è all’apice della gerarchia, seguita dalle leggi statali ordinarie e, solo in seguito, da quelle regolamentari (sia di origine governativa, sia regionale).
La fonte superiore, chiaramente, prevale su quella inferiore e quest’ultima non può in alcun modo contraddire le fonti di grado superiore.
Ciò comporta, quindi, che giammai un regolamento potrebbe imporre un precetto che sia in contrasto con quello di una legge ordinaria (quale è quella penale); in tal caso, ben lungi dall’essere rispettato, sarebbe proprio il regolamento a dover essere disapplicato.
In definitiva, le vie percorribili sono due: o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore.
In ogni caso, il contesto legislativo in cui ci troviamo è, a dir poco, confusionario, e sarebbe auspicabile che, nonostante il periodo di emergenza e la necessità di farvi fronte velocemente, non si perdano di vista altri valori altrettanto importanti, quali quelli sanciti nella nostra Costituzione.
Sliding doors per la “doppia pregiudizialità” (traendo spunto da Corte App. Napoli, I Unità Sez. lav., 18 settembre 2019, in causa n. 2784 del 2018, XY c. Balga)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Conviene davvero far luogo alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali, così come ha fatto nel caso odierno il giudice partenopeo? – 2. Primo scenario: si pronunzia per prima la Corte costituzionale. – 3. Secondo scenario: si pronunzia per prima la Corte dell’Unione. – 4. I benefici che possono attendersi dall’adozione di un protocollo d’intesa che disciplini i rapporti tra le Corti in vista della ottimale soluzione da apprestare alle questioni di “doppia pregiudizialità” (con specifico riguardo proprio ai casi in cui siano simultaneamente prospettate).
1. Conviene davvero far luogo alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali, così come ha fatto nel caso odierno il giudice partenopeo?
Due ordinanze della Corte di Appello di Napoli, adottate lo stesso giorno e rispettivamente indirizzate alla Corte costituzionale ed alla Corte dell’Unione europea, ripropongono la questione, come si sa assai vessata, della “doppia pregiudizialità” con riguardo ai casi in cui si tratti di stabilire se si abbia violazione della Carta di Nizza-Strasburgo (e, dopo la 20 del 2019, anche di discipline eurounitarie a queste quodammodo “connesse”[1]), in ispecie per l’aspetto dell’ordine temporale riguardante la chiamata in campo delle due Corti da parte dei giudici comuni, da cui poi – com’è chiaro – discendono rilevanti conseguenze, ampiamente studiate da una nutrita schiera di studiosi ed alle quali, solo per taluni aspetti, si farà ora nuovamente richiamo.
Nulla – avverto subito – qui si dirà per i profili di merito (concernente una vicenda di illegittimo licenziamento dal lavoro[2]), limitandomi a trattare del solo punto sopra indicato[3].
L’autorità remittente, come si diceva, opta per il simultaneo interpello delle due Corti, facendo propria una soluzione tecnica patrocinata da una sensibile dottrina[4], tenendosi dunque distante da entrambi i corni opposti dell’alternativa che vede prospettate in ordine consecutivo prima questa ovvero quella questione pregiudiziale[5]; ed è interessante notare l’argomento sul quale principalmente fa leva il giudice partenopeo a sostegno della opzione prescelta, con il riferimento al bisogno di parare il rischio che possa essere “esautorato” o “emarginato” il ruolo del giudice di merito per il caso che il rinvio alla Corte di giustizia si abbia “a valle” del sindacato di costituzionalità[6].
Come si vede, si prendono, dunque, le distanze dalla soluzione volta ad accordare priorità temporale alla questione di costituzionalità: una soluzione che – come si sa –, a giudizio di molti commentatori, sarebbe stata imposta dalla Consulta con la 269 del 2017 e fatta nondimeno oggetto di sostanziale temperamento con le pronunzie del 2019[7], con le quali pur tuttavia il giudice delle leggi non cela di preferire che gli sia data comunque la precedenza rispetto al giudice eurounitario[8]. Stranamente, però, nella ordinanza di rimessione alla Consulta nulla si dice a riguardo della opposta soluzione, che veda chiamata per prima la Corte dell’Unione, malgrado il giudice di merito sia ben consapevole del fatto che quest’ultima opzione non gli è più preclusa alla luce dell’attuale orientamento della Corte nazionale. Una soluzione che – come si è tentato di argomentare in altri luoghi – resta, a mia opinione, quella più vantaggiosa, se non pure di necessità imposta, per plurime ragioni delle quali non è ora il caso di fare parola[9]. Talvolta, anzi, è appunto una soluzione obbligata, non foss’altro che per il fatto che il giudice di merito può nutrire dubbi circa il retto significato del parametro sovranazionale e non può, pertanto, stabilire se si abbia, o no, la violazione anche della Carta dell’Unione, oltre che della Costituzione, e, insomma, nulla di sicuro è in grado di dire a riguardo della Carta stessa (o di altra fonte che vi dia attuazione) sì da determinarsi poi a rivolgersi al giudice costituzionale, per lesione indiretta dei parametri costituzionali che vi danno “copertura”, in applicazione dello schema usuale della fonte interposta.
Si aggiunga, poi, che non di rado, proprio grazie al previo interpello della Corte dell’Unione, il giudice nazionale è messo in condizioni di impostare nel modo ancora più efficace e corretto la questione di costituzionalità (ad es., laddove riceva indicazioni non soltanto in merito al giusto significato da attribuire al disposto eurounitario ma anche con riguardo alla sua attitudine, che potrebbe non aversi, ad essere portato ad immediata applicazione, sì da richiedersene la protezione nei riguardi di norma interna con esso incompatibile a mezzo del sindacato di costituzionalità) o, addirittura, a prospettare una questione di costituzionalità che altrimenti non avrebbe presentato, secondo quanto si preciserà meglio più avanti.
In generale, dubito che giovi al giudice comune (e, di riflesso, all’amministrazione della giustizia) prospettare allo stesso tempo un dubbio di costituzionalità “bifronte”, per un verso volto verso il parametro costituzionale e per un altro verso volto verso il parametro eurounitario, coperto però – qui è il punto – dal velo della ignoranza circa il modo con cui quest’ultimo potrebbe essere illuminato e messo opportunamente a fuoco dal suo giudice naturale, la Corte dell’Unione.
Mutatis mutandis – anche se la questione non è ora di specifico interesse per questo studio – ugualmente possono andare le cose sul versante dei rapporti tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo; e non è un caso – a me pare – che proprio di recente sia stata sollevata una questione di costituzionalità, che ha subito attratto l’attenzione dei commentatori, in tema di gestazione per conto di terzi, a seguito e dietro sollecitazione di un noto (e discusso) parere emesso dalla Corte suddetta in applicazione del prot. 16[10]; la qual cosa, a mio modo di vedere, rende conferma per tabulas dei non pochi benefici che da quest’ultimo possono aversene e, dunque, della opportunità (e, anzi, della necessità) di far luogo senza ulteriore indugio alla sua ricezione anche nel nostro ordinamento[11].
Ad ogni buon conto, l’effetto di maggior rilievo che consegue alla presentazione congiunta delle due questioni è dato dal carattere del tutto casuale della tecnica decisoria a mezzo della quale possono essere ripianate le antinomie tra norme interne e norme eurounitarie, a seconda che si pronunzi per prima questa o quella Corte potendosene avere ora la “non applicazione” diretta di quella interna accompagnata dall’applicazione di quella sovranazionale (sempre che, ovviamente, self executing[12]) ed ora invece l’annullamento della prima (laddove ne sia acclarata la invalidità) con effetti erga omnes. L’una e l’altra soluzione – è doveroso riconoscere – presentano vantaggi e svantaggi, ampiamente rilevati in altre sedi, dei quali non giova ora tornare a dire.
Sia chiaro. Malgrado le accese discussioni che si sono avute in merito all’ordine cronologico in cui le due pregiudizialità si dispongono (o dovrebbero disporsi), un punto è nondimeno da tener fermo; ed è che anche la soluzione della presentazione congiunta, oggi fatta propria dal giudice napoletano, non esclude affatto (ed anzi implica) che poi esse siano definite in tempi diversi dalle Corti per ciascuna di esse competenti, con la conseguenza che la simultaneità è solo “in entrata”, non pure “in uscita”. E tuttavia – come si viene ora dicendo – altro è che la tecnica decisoria buona per il caso sia demandata alla sorte, come si fa con le lotterie sperando che poi venga estratto il numero vincente, ed altra cosa che sia invece precostituito dal giudice comune il binario sul quale incanalare la questione, prefigurandosene quindi i possibili esiti.
Ora, ad una prima impressione parrebbe che l’opzione favorevole all’esercizio congiunto delle due pregiudizialità presenti l’innegabile vantaggio (non da poco) di accelerare i tempi di chiusura della vicenda processuale, già per il fatto stesso di mettere contemporaneamente in moto e di avviare le due macchine processuali; come si dirà però a momenti, in realtà, si tratta – perlomeno in molti casi – di un effetto ottico, di una mera apparenza appunto, ed anzi potrebbe aversene una non lieve complicazione del quadro della quale è bene avere avvertenza.
Va, al riguardo, prestata la massima attenzione alla circostanza per cui il carattere “pregiudiziale” di entrambe le questioni presentate alle Corti potrebbe indurre il giudice remittente ad attendere che entrambe si siano pronunziate prima di riprendere il processo, che, poi, per vero, talora potrebbe chiudersi rapidamente, talaltra invece avvolgersi in se stesso e richiedere tempi lunghi prima di pervenire a maturazione, secondo quanto si dirà meglio a momenti.
Altra cosa, poi, è stabilire se a ciascuna Corte convenga giocare sul tempo, d’anticipo, anche al fine di condizionare variamente l’operato dell’altra, ovvero se sia maggiormente vantaggioso il gioco di rimessa, attendendo la pronunzia dell’altra, magari al fine di potervi replicare a modo[13]: un nodo, questo, che, ad ogni buon conto, ciascuna Corte dovrà sciogliere da sola, alla luce delle proprie complessive esigenze, anche tenendo presenti altre istanze davanti ad essa pendenti, salvo che non si metta in atto al riguardo un raccordo informale tra le stesse, nei termini che si preciseranno in chiusura di questa riflessione.
2. Primo scenario: si pronunzia per prima la Corte costituzionale
Supponiamo, dunque, che, in caso di simultanea presentazione delle due questioni, si pronunzi per prima la Corte costituzionale. Ovviamente, lo svolgimento della vicenda processuale può poi avere andamenti diversi. Ad es., potrebbe darsi il caso che, considerato il modo con cui la questione è prospettata non soltanto davanti a sé ma anche (e soprattutto) al giudice lussemburghese, la Consulta si determini ad avvalersi a sua volta del potere di rinvio pregiudiziale, specie per il caso che tema il possibile insorgere di un conflitto con la Corte dell’Unione e punti dunque ad indurre quest’ultima ad un ripensamento del proprio punto di vista, quale in precedenti occasioni già manifestato (come, in buona sostanza, si è avuto con Taricco). Si avrebbe, pertanto, la sovrapposizione di due rinvii, che potrebbero convergere come pure divergere per impostazione e connotati complessivi, suscettibili di essere trattati dalla Corte dell’Unione separatamente ovvero, verosimilmente, congiuntamente.
Potrebbe altresì darsi il caso – a mia opinione, con ogni probabilità, di più frequente riscontro, anche alla luce di talune esperienze già maturate – che il giudice costituzionale focalizzi l’attenzione sui profili di stretto diritto interno, pronunziandosi specificamente sulla violazione del parametro costituzionale che, una volta acclarata, potrebbe portare alla messa in atto dello strumento dell’assorbimento dei vizi, e trattenendosi perciò dall’esame della sospetta lesione altresì del parametro eurounitario. La qual cosa presenta l’innegabile vantaggio di parare sul nascere il rischio di orientamenti divergenti tra le Corti interpellate. Di contro, è verosimile attendersi riferimenti al diritto eurounitario vivente, così come peraltro si ha nei riguardi della giurisprudenza della Corte EDU, fatti a rinforzo della soluzione prescelta, una volta constatata la convergenza del proprio orientamento con quello invalso a Lussemburgo (o a Strasburgo)[14].
L’invalidazione della norma interna, poi, potrebbe concretarsi in un annullamento “secco” ovvero in uno di tipo manipolativo e, segnatamente, additivo (di principio ovvero di regola). Quest’ultima evenienza presenta uno speciale interesse, dal momento che preclude poi ai giudici in genere di esercitare eventuali rinvii alla Corte dell’Unione aventi per specifico oggetto il testo di legge così come riscritto dalla Consulta (e, dunque, in buona sostanza, la norma da questa aggiunta o, come che sia, variamente corretta), ostandovi l’impenetrabile scudo protettivo a sua difesa eretto dall’art. 137, ult. c., cost.[15].
Ora, non è chiaro se, una volta avutosi il riscontro della incostituzionalità della norma interna, il processo pendente davanti al giudice comune possa subito riprendere: non dovrebbe essere così – e quest’esito, come si è sopra rilevato, ha pur sempre un suo innegabile costo –, venendo altrimenti contraddetto ex post il carattere pregiudiziale che sta a base del rinvio alla Corte dell’Unione, la cui pronunzia – quale che ne sia il segno – non potrebbe, ad ogni buon conto, portare all’applicazione della norma interna ormai espunta dall’ordinamento. Di certo, la Corte stessa si trova comunque il terreno spianato nell’emettere il proprio verdetto, consapevole di non entrare comunque in rotta di collisione con il giudice delle leggi, quanto meno appunto per il caso che la causa invalidante sia esclusivamente data dal contrasto con il parametro costituzionale.
Il conflitto tra le Corti, invece, aversi per il caso che la questione di costituzionalità dovesse essere definita nel senso dell’accoglimento anche per lesione del parametro eurounitario, lesione che potrebbe risultare esclusa in un secondo momento dal giudice lussemburghese. Un autentico nodo insolubile verrebbe, in una congiuntura siffatta, a legarsi attorno alla questione considerata nel suo complesso, dal momento che il giudice comune sarebbe poi tenuto a dare lineare e fedele seguito ad entrambi i verdetti ricevuti. Ma il vero è che il vizio è a monte, perché altro è – come si è venuti dicendo – che l’annullamento della norma interna si abbia in relazione al solo parametro costituzionale, la cui interpretazione e salvaguardia competono in ultima istanza alla Consulta, ed altra cosa che esso si abbia anche (e persino esclusivamente) in relazione al parametro eurounitario, senza però tener conto della interpretazione e salvaguardia datane dal suo giudice naturale, la Corte di giustizia. Non ho dunque dubbio alcuno a riguardo del fatto che la Consulta non possa esprimersi in merito a quest’ultimo punto se non dopo aver a sua volta interpellato la Corte dell’Unione o, comunque, aver atteso la pronunzia sollecitata dal giudice comune.
Altra questione ancora, che peraltro – come si sa – ogni volta si pone in presenza di decisioni che acclarino la esistenza di una violazione di un parametro, è quale norma debba trovare applicazione al posto di quella invalidata. L’ordinamento, infatti, come si sa, si ricuce subito da se medesimo, spettando poi al giudice di merito rinvenire la norma giusta da far valere per il caso, interna o sovranazionale che sia[16].
Diverso scenario, invece, si ha in caso di rigetto della questione da parte della Consulta. È chiaro che quest’esito presuppone che la questione sia stata esaminata in ogni suo profilo, dunque anche per l’aspetto della denunziata lesione del parametro eurounitario: un nodo, quest’ultimo, che tuttavia ancora una volta – come più d’uno ha fatto notare – non può essere verosimilmente sciolto se non dopo l’obbligatorio passaggio da Lussemburgo[17].
Si fermi, solo per un momento, l’attenzione sul punto. Se è vero, com’è vero, che l’esito del rigetto è eventualità di non raro riscontro, nel caso qui specificamente preso in esame di simultanea presentazione delle due questioni (e, ulteriormente specificando, di definizione del giudizio di costituzionalità in un tempo anteriore rispetto a quello che ha luogo in ambito sovranazionale), dovremmo assistere ad un intensificarsi dei rinvii da parte della Consulta e, di conseguenza, ad un raddoppio degli interpelli sulla medesima questione fatti alla Corte di giustizia. In realtà, le cose non stanno affatto così; e, pur dandosi talvolta rinvii effettuati dalla Consulta, quale quello di cui alla ord. 117 del 2019, è chiaro che questi non possono minimamente competere per numero (e, per ciò pure, per ambiti materiali dagli stessi coperti) con quelli che si hanno nelle sedi in cui si amministra la giustizia comune. La congiunta presentazione delle due questioni dunque (e, più ancora, ovviamente, la eventuale precedenza accordata alla pregiudizialità costituzionale) fatalmente comporta – piaccia o no – una vistosa contrazione ed un autentico impoverimento dei casi di rinvio, con ciò che – com’è chiaro – ne consegue in ordine alla implementazione della Carta di Nizza-Strasburgo in ambito interno e, in genere, all’arricchimento del patrimonio europeo dei diritti[18].
Ad ogni buon conto, in tal modo si tornerebbe – come si vede –, perlomeno in non pochi casi, all’ipotesi inizialmente affacciata, che vede comunque il giudice sovranazionale naturalmente sollecitato a pronunziarsi per primo affinché la vicenda processuale possa poi proseguire linearmente lungo il percorso per essa tracciato.
3. Secondo scenario: si pronunzia per prima la Corte dell’Unione
Passiamo, dunque, ad esaminare il diverso scenario che potrebbe delinearsi per il caso che si pronunzi per prima la Corte dell’Unione. Tornano ora ad evidenza taluni svolgimenti della vicenda processuale sopra rappresentati ma, naturalmente, a parti invertite. Anche la Corte di giustizia, infatti, conoscendo il modo con cui è presentata la questione davanti alla Consulta, ne terrà verosimilmente conto.
Qui pure la circostanza per cui si è avuta la simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali qualche problema, per vero, lo pone per i successivi sviluppi della vicenda che invece – mi preme, ancora una volta, rimarcare – non si avrebbero per il caso di questioni presentate in tempi diversi (e, in particolare, in quello di precedenza accordata al rinvio pregiudiziale, ex art. 267 TFUE).
Se, infatti, la pronunzia della Corte lussemburghese dovesse dare indicazioni nel senso della incompatibilità della norma interna rispetto a quella eurounitaria, il giudice del rinvio non potrebbe denunziare il superamento da parte di quest’ultima dei “controlimiti” davanti alla Consulta, avendo ormai consumato il proprio potere di investire quest’ultima, mentre potrebbe chiaramente farvi luogo in caso di prioritario interpello della Corte suddetta. Insomma, come si vede, cambierebbe nella sostanza il modo stesso con cui verrebbe presentato il dubbio di costituzionalità.
È bensì vero che si tratterebbe ora di una nuova questione, diversa dalla precedente, ma l’avvenuta trasmissione la prima volta degli atti di causa al giudice delle leggi si porrebbe quale un ostacolo dal giudice non superabile. È, poi, evidente che la “esposizione” dei “controlimiti” – come si diceva – potrebbe aversi motu proprio dal giudice costituzionale ma, appunto, non è detto che si abbia. E, sempre in via di mera ipotesi, qualora la Corte costituzionale non li dovesse far valere, nulla vieterebbe che quindi provveda, dopo la eventuale pronunzia di quest’ultima di rigetto, nuovamente il giudice comune, proprio perché – come si diceva – la questione è comunque diversa da quella originariamente presentata. La palla passerebbe, in tal modo, ancora una volta alla Consulta, la quale poi potrebbe – perché no? – mutare avviso e determinarsi per la presentazione del rinvio pregiudiziale che pure avrebbe potuto già porre in essere in precedenza: con un defatigante ping pong – come si vede – comunque pregiudizievole per lo svolgimento della vicenda processuale (se non altro, appunto, per l’aspetto della sua durata temporale), pur laddove questa dovesse poi concludersi nel migliore dei modi.
L’ipotesi che il giudice comune sospetti la violazione dei “controlimiti” da parte della risposta ricevuta da Lussemburgo dovrebbe, ad ogni buon conto, considerarsi remota, dal momento che, verosimilmente, l’obiettivo dallo stesso avuto di mira con l’esperimento del rinvio è, il più delle volte, proprio quello di essere incoraggiato e sostenuto nel perseguimento dell’obiettivo di rilevare l’incompatibilità della norma interna rispetto al parametro eurounitario. E ciò, proprio in considerazione del fatto che quest’ultimo è dato da norma o da norme, in caso di congiunto richiamo a plurimi parametri, in cui si ha il riconoscimento di diritti fondamentali ovvero da norme anche di altre fonti nei riguardi di quella o di quelle serventi (“connesse”). Ben diverso è, invece, lo scenario che si ha laddove il rinvio verta su parametri che nulla hanno a che vedere con la salvaguardia dei diritti, nel qual caso nulla esclude che il vero obiettivo del rinvio sia quello di sgombrare il campo dalla presenza di un disposto normativo sovranazionale suscettibile di far da impedimento all’applicazione di uno interno, sollecitandosi pertanto la Corte dell’Unione ad avallare una interpretazione del primo conciliante con quella data dell’enunciato nazionale. Tutto ciò, nondimeno, è qui privo d’interesse e non giova, pertanto, soffermarvisi ulteriormente.
Voltiamo nuovamente pagina e prendiamo adesso in esame il caso – come si diceva, di più frequente riscontro – che le indicazioni date dal giudice sovranazionale nel senso della sussistenza dell’antinomia tra le norme dei due ordinamenti non creino problema alcuno di un possibile superamento dei “controlimiti”. Ebbene, la “non applicazione” immediata della legge nazionale non potrebbe – a quanto pare – aver sollecitamente luogo, stante la pendenza del giudizio costituzionale. Già solo per ciò – come si vede – non è affatto detto che si abbia poi nei fatti l’atteso beneficio dell’accelerazione dei tempi processuali conseguente alla simultanea presentazione delle due questioni pregiudiziali.
La conclusione lineare, naturale, del giudizio di costituzionalità dovrebbe poi essere nel segno della conferma anche da parte della Consulta della sussistenza dell’antinomia stessa (se non altro, appunto, in relazione al parametro eurounitario)[19]. Ricorrendo siffatta ipotesi, è chiaro che alla ripresa del processo nel quale sono state prospettate le questioni pregiudiziali l’effetto della “non applicazione” della norma interna, accompagnata dall’applicazione diretta di quella sovranazionale, scivola e si converte in quello della “disapplicazione” conseguente all’annullamento della norma stessa per mano del giudice costituzionale, o – il che è praticamente lo stesso – è da questo per intero assorbito e in esso ricompreso[20].
Se, di contro, dovesse ritenersi che il giudice possa ugualmente riprendere subito il processo rimasto pendente, in quest’ultimo si avrà – come di consueto – la “non applicazione” della norma interna, che poi sarà verosimilmente caducata con effetti erga omnes, a beneficio dell’intera collettività, sempre che ovviamente si ritenga che il giudizio davanti alla Consulta possa ugualmente proseguire una volta chiusosi anzitempo quello principale (la qual cosa – come si sa – da molte esperienze della giustizia costituzionale non dovrebbe dar luogo ad alcun problema).
Se, di contro, il giudice costituzionale non dovesse allinearsi alle indicazioni date dal giudice eurounitario (cosa che – come si è già ad altro riguardo rilevato – potrebbe aversi solo facendo valere una incisione dei “controlimiti”), allora verrebbe a realizzarsi un autentico “cortocircuito”, come sempre d’altronde si ha ogniqualvolta si assista a conflitti tra Corti nazionali e Corti europee, il cui superamento può aversi unicamente facendo appello al comune senso di responsabilità ed attingendo a tutte le risorse apprestate dal principium cooperationis, le sole che possano consentire alla vicenda processuale di uscire dal tunnel nel quale è venuta a trovarsi.
Sta di fatto che, quand’anche la Corte costituzionale dovesse emettere un verdetto di rigetto, specie poi se non preceduto dall’esperimento di un rinvio pregiudiziale per mano della stessa Corte, ugualmente alla ripresa del processo rimasto sospeso non potrebbe comunque farsi applicazione della norma interna uscita indenne dal sindacato di costituzionalità a motivo della acclarata violazione del parametro eurounitario da parte del giudice naturale preposto a garanzia dello stesso.
Si prenda adesso in considerazione il caso che la Corte dell’Unione non rilevi la sussistenza di un’antinomia tra le norme in campo. Ebbene, ancora una volta, il giudice comune non potrà riprendere il processo, stante la pendenza del giudizio davanti alla Consulta, il quale poi, per il profilo del (supposto ma insussistente) contrasto con il parametro sovranazionale non potrà comunque concludersi nel senso dell’accoglimento, restando poi la partita ovviamente aperta, per ciò che concerne la denunziata lesione del parametro interno, ad ogni possibile esito.
4. I benefici che possono attendersi dall’adozione di un protocollo d’intesa che disciplini i rapporti tra le Corti in vista della ottimale soluzione da apprestare alle questioni di “doppia pregiudizialità” (con specifico riguardo proprio ai casi in cui siano simultaneamente prospettate)
Una succinta notazione finale. Si sarà notato l’utilizzo ricorrente, praticamente esteso a tappeto per l’intera riflessione svolta, della forma verbale condizionale, peraltro non inusuale nei miei pensieri in genere che il più delle volte rivelano personali, diffuse insicurezze, di gran lunga maggiori delle poche certezze che credo di aver raggiunto dentro di me attorno a questioni di diritto costituzionale (e non solo). Qui, però, la forma verbale suddetta rinviene giustificazione nel fatto che al rinvio pregiudiziale perfettamente si attaglia la nota definizione data da S. Romano della Carta costituzionale del suo tempo, che ai suoi occhi appariva composta dai meri titoli dei capitoli di un libro che avrebbe dovuto quindi essere pressoché per intero scritto dall’esperienza, nelle sue non di rado oscillanti e discontinue movenze. Insomma, quella dell’art. 267 TFUE è – come si sa – una mera norma definitoria di una competenza che nella sua messa in atto può trovarsi chiamata ad un lungo, alle volte tortuoso, cammino lungo un percorso gravato da ombre ancora più che illuminato da luci.
I casi di “doppia pregiudizialità”[21] presentano non pochi problemi la cui opportuna soluzione non conviene – a me pare – che resti esclusivamente rimessa alla improvvisazione del momento, foriera – come si è veduto – di incertezze, dissapori, veri e propri aperti conflitti. Questi ultimi – com’è chiaro – sono pur sempre da mettere in conto, ma – perlomeno fin dove possibile – conviene, a mia opinione, a tutte le Corti che si appresti, per loro iniziativa, un pugno di regole essenziali, dotate perciò della necessaria flessibilità e comunque rispettose della indisponibile autodeterminazione, nelle singole vicende processuali, di ciascun operatore di giustizia: regole con le quali, dunque, si traccino i percorsi che possono essere utilmente intrapresi in vista della ottimale soluzione dei casi.
Il metodo della definizione pattizia delle relazioni tra i massimi operatori di giustizia è già stato sperimentato – com’è noto – con molta soddisfazione da parte di tutti e – ciò che più importa – con non pochi benefici per l’amministrazione della giustizia e, per ciò pure, per le aspettative nutrite da quanti ad essa si rivolgono[22]. Si tratta ora di estenderlo e portarlo a frutto con specifico riguardo alla questione qui nuovamente studiata, in ispecie proprio ai casi di simultanea presentazione delle questioni pregiudiziali, laddove – come si è veduto – possono aversi i maggiori problemi che poi finiranno, a conti fatti, con lo scaricarsi sulle spalle dei giudici comuni, vale a dire di coloro da cui partono le domande di giustizia costituzionale (nell’accezione materiale del termine, quale riferita ai casi di rivendica di protezione per i diritti fondamentali) ed ai quali tornano poi risposte talora reciprocamente contrastanti. I giudici – sia chiaro – non potranno comunque essere sgravati del peso, alle volte schiacciante, delle responsabilità, morali prima ancora che giuridiche, connesse al munus di cui sono titolari. Se, tuttavia, si riuscirà a renderlo maggiormente sopportabile, credo che sia cosa senza dubbio da tutti auspicata. D’altronde, gli stessi giudici europei e i giudici costituzionali hanno, ciascuno per la propria parte, tutto l’interesse ad evitare – fin dove possibile – di trovarsi infilati in un labirinto dal quale potrebbero faticare non poco ad uscire, in mancanza di “cartelli” che indichino appunto la via breve e sicura conducente alla meta.
[1] Ad oggi restano largamente indefiniti i connotati della “connessione” in parola, con specifico riferimento al terreno su cui maturano le esperienze di tutela dei diritti al piano dei rapporti interordinamentali, mentre di altre specie di “connessioni”, di cui si ha riscontro in ambiti materiali diversi (ad es. per ciò che concerne la insindacabilità dei parlamentari), si sa molto dalla nutrita giurisprudenza al riguardo formatasi. Ad ogni buon conto, la più sensibile dottrina si mostra avvertita [v., part., R.G. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 4 marzo 2019, spec. § 6, e, in ultimo, G. Scaccia, Corte costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale oltre la Carta dei diritti?, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 2/2020, 12 maggio 2020, 316 ss., spec. 325 ss.] del rischio che, nel campo qui osservato, possa farsi della “connessione” in parola un utilizzo non adeguatamente vigilato, sì da pervenire, al tirar delle somme, alla sostanziale devitalizzazione della tecnica decisoria dell’applicazione diretta a beneficio di quella dell’annullamento: un rischio da me già paventato in sede di primo commento della 269 del 2017, quindi rilevato in una nota alla 20 del 2019, dal titolo La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2019, 25 febbraio 2019, 113 ss., e del quale peraltro si è avuto, ancora di recente, riscontro [nel caso, di cui a Corte cost. n. 44 del 2020, con nota favorevole sul punto, di C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 30 marzo 2020, spec. 177 ss.].
[2] Può vedersi illustrata da M. Mazzetti, La legittimità della disciplina italiana contro il licenziamento collettivo, in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 12 febbraio 2020, dove sono pure le due ordinanze che hanno dato lo spunto per la succinta riflessione che mi accingo a svolgere.
[3] Mi si consenta, tuttavia, solo di passaggio di osservare l’improprio riferimento all’art. 10 cost. che figura ai punti 81 e 93 della ordinanza di rimessione degli atti alla Consulta, di sicuro frutto di un refuso (seppur reiterato…), dal momento che – come si sa – la “copertura” al diritto dell’Unione è per ius receptum offerta dagli artt. 117, I c., e, soprattutto, 11 della Carta costituzionale, nel mentre l’ulteriore richiamo all’art. 10 potrebbe giustificarsi unicamente nel caso, obiettivamente di remoto riscontro, che con norma sovranazionale si abbia la “razionalizzazione” di norme generalmente riconosciute della Comunità internazionale, secondo quanto, peraltro, ha ripetutamente precisato la giurisprudenza costituzionale già a partire dalla svolta sulla CEDU inaugurata nel 2007 (sul punto, part. nella 349).
[4] È stata dapprima affacciata da F. Sorrentino, È veramente inammissibile il “doppio rinvio”?, in Giur. cost., 2/2002, 781 ss., e quindi ripresa, con particolare vigore argomentativo, spec. da R. Conti, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è ‘in gioco’ la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in Giudice donna (www.giudicedonna.it), 4/2017, spec. § 6, e, dello stesso, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, cit., spec. § 4. Variamente sul punto, v., inoltre, C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 2/2019, spec. 25 ss.; nella stessa Rivista, M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, 20 ss.; G. Martinico, Conflitti interpretativi e concorrenza fra corti nel diritto costituzionale europeo, in Dir. soc., 4/2019, 691 ss., spec. 702 ss.; I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020, 8 gennaio 2020, 77 e nt. 41, dove si precisa che la soluzione in parola, seppur non preclusa, sia comunque da non preferire “alla luce del principio di leale collaborazione, per evitare di causare conflitti e cortocircuiti tra le Corti” (con cit. conf. di N. Lupo).
[5] Non disponiamo purtroppo di dati sicuri a riguardo delle preferenze maggiormente invalse in seno alla magistratura comune sul punto cruciale qui nuovamente discusso; solo occasionalmente, in ispecie attraverso i commenti a questa o quella iniziativa processuale che si leggono nelle riviste specialistiche, si ha qualche notizia al riguardo: troppo poco, però, di tutta evidenza [ad es., segnala R.G. Conti, Il contenzioso sul risarcimento dello Stato alle vittime di reato: Cass. n. 2964/2019 alla ricerca dell’eguaglianza europea, in Riv. dir. comp. (www.diritticomparati.it), 1/2019, 125 ss., una vicenda in materia civile in cui si è assistito all’utilizzo dello strumento del rinvio pregiudiziale non accompagnato dalla simultanea prospettazione di una questione di legittimità costituzionale; in tema, v., ora, il comunicato della Corte di giustizia n. 61 del 14 maggio 2020 che riferisce delle Conclusioni dell’avv. gen. Bobek, in causa C-129/2019, a cui opinione tutte le vittime di reato intenzionale violento dovrebbero avere diritto al risarcimento indipendentemente dal luogo nel quale risiedano].
Ora, è un vero peccato che non si riesca a saperne di più; e francamente mi sfugge la ragione per cui non si possano sollecitare tutti gli uffici giudiziari a trasmettere ad un centro di raccolta on line, di libero accesso a studiosi ed operatori, tutte gli atti adottati in merito a questioni di doppia pregiudizialità, sì da potersene avere indicazioni preziose sia per la teoria che per la pratica giuridica.
[6] V., part., p. 29, ord. cit.
[7] Di una “flessibilizzazione dei rapporti” tra i giudici ha, ancora non molto tempo addietro, discorso G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 25 ottobre 2019, 7 (ma similmente, con varietà di linguaggio e di toni, molti altri).
[8] Sul punto, ex plurimis, v. G. VITALE, I recenti approdi della Consulta sui rapporti tra Carte e Corti. Brevi considerazioni sulle sentenze nn. 20 e 63 del 2019 della Corte costituzionale, in www.federalismi.it, 10/2019, 22 maggio 2019; nella stessa Rivista, S. Catalano, Doppia pregiudizialità: una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, e N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, 13/2019, 10 luglio 2019, part. § 6; A.M. Nico, La costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia al banco di prova dei controlimiti, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2019, 16 luglio 2019; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, cit., 25 ss.; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, cit.; G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Oss. AIC (www.osservatorioaic.it), 6/2019, 5 novembre 2019. Un animato confronto si è, poi, al riguardo avuto in occasione del Seminario del Gruppo di Pisa su Il sistema “accentrato” di costituzionalità, Pisa 25 ottobre 2019, e ivi part., per i profili ora specificamente in rilievo, la Relazione introduttiva di R. Romboli, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2020, spec. § 3, nonché i contributi di I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, cit., 66 ss., spec. 78 ss., e gli altri di A.M. Nico, L’accesso e l’incidentalità, Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 1/2020, 22 gennaio 2020, 163 ss., spec. 173 s., e, nella stessa Rivista, già, il mio La Consulta e il tiro alla fune con gli altri giudici, 3/2019, 29 ottobre 2019, 1 ss. Si è poi fatto, non molto tempo addietro, il punto da diversi angoli visuali e pervenendo ad esiti ricostruttivi parimenti diversi in R. Romboli, Caro Antonio ti scrivo (così mi distraggo un po’) in dialogo con il Ruggeripensiero sul tema della “doppia pregiudizialità”, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2019, 26 novembre 2019, 644 ss. e, nella stessa Rivista, nel mio Caro Roberto, provo a risponderti sulla “doppia pregiudizialità” (così mi distraggo un po’ anch’io…), 3/2019, 9 dicembre 2019, 678 ss., nonché, più di recente, in G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, cit., 1 ss., dove, tra l’altro, si fa notare che, a motivo della acclarata preferenza manifestata dalla Consulta perché le sia data la precedenza rispetto alla Corte dell’Unione, si richiede “al giudice comune un adeguato onere di giustificazione che indichi le ragioni del mancato, preventivo, sollevamento dell’incidente di costituzionalità” (11); D. Tega, Il superamento del “modello Granital”. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 27 gennaio 2020; C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 18 febbraio 2020, 296 ss.; A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta OnLine, 13 marzo 2020 e in Oss. fonti (www.osservatoriosullefonti.it), 1/2020, 13 ss.; E. Cavasino, Diritti e principi nello spazio giuridico europeo dei diritti fondamentali: un aspetto dell’esperienza costituzionale, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 1/2020, 21 marzo 2020, 561 ss., spec. 571 ss. e 582 ss. V., inoltre, i contributi all’incontro di studio su Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, svoltosi a Bologna il 7 febbraio 2020, in corso di stampa, tra i quali G. Scaccia, Corte costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale oltre la Carta dei diritti?, cit.
[9] Di questa idea mi sono, ancora di recente, dichiarato nel mio Tecniche decisorie dei giudici e “forza normativa” della Carta di Nizza-Strasburgo, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 8 aprile 2020, 521 ss., spec. 527 ss., dove altresì possono vedersi alcuni rilievi in relazione alla tesi, patrocinata di recente da una sensibile dottrina (A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità, cit.), secondo cui la precedenza dovrebbe accordarsi alla pregiudiziale costituzionale per il caso che la norma interna sia frutto di una opzione discrezionale del legislatore, mentre laddove risulti vincolata alla luce del disposto sovranazionale cui strumentalmente si leghi dovrebbe darsi la preferenza alla pregiudiziale eurounitaria. Carattere, questo della norma interna, che ovviamente presuppone la previa interpretazione del parametro sovranazionale, che molte volte solo a Lussemburgo può aversi, secondo quanto qui pure si viene dicendo.
[10] Sulla vicenda, v., tra gli altri, A.M. Lecis, Una nuova frontiera del dialogo tra giurisdizioni: la Cassazione rimette alla Corte costituzionale una q.l.c. fondata sul parere consultivo della Corte EDU in materia di GPA, in Riv. dir. comp. (www.diritticomparati.it), 21 maggio 2020; G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 22 maggio 2020, e G. Armone, La gestazione per altri: nuovo appuntamento davanti alla Corte costituzionale, in Quest. giust. (www.questionegiusitizia.it), 22 maggio 2020.
[11] Sul punto il confronto è – come si sa – assai animato, non pochi (anche accreditati) studiosi avendo avanzato riserve e perplessità e persino aperto dissenso in merito alla ricezione in parola, tuttavia con non minore decisione contestati da altri studiosi e, soprattutto, operatori [nel primo senso, v., part., M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 novembre 2019 e, quindi, G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Federalismi (www.federalismi.it), 5/2019, 6 marzo 2019; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 13 novembre 2019; pure ivi, M. Esposito, I d.d.l. di ratifica del Protocollo 16 della CEDU: un altro caso di revisione costituzionale per legge ordinaria?, 2/2019, 30 dicembre 2019; G. Zampetti, Ordinamento costituzionale e Protocollo n. 16 alla CEDU: un quadro problematico, in Federalismi (www.federalismi.it), Focus Human Rights, 3/2020, 5 febbraio 2020, 157 ss. Nel secondo senso, molti degli intervistati da R. Conti sul tema CEDU e cultura giuridica italiana, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it); in particolare, v. l’intervista a M. Castellaneta, A. Di Stasi e A. Tancredi, su La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista, 23 gennaio 2020, e quella a P. Biavati, G. Costantino ed E. D’Alessandro su La CEDU e i processualcivilisti, 6 febbraio 2020, nonché lo stesso R. Conti, in più scritti, tra i quali Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 30 gennaio 2019, e Chi ha paura del protocollo 16 – e perché?, in Sist. pen. (www.sistemapenale.it), 27 dicembre 2019, ed E. Spatafora, Il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 5 febbraio 2020, 369 ss.; volendo, può poi vedersi anche il mio Protocollo 16 e identità costituzionale, in Dir. comp. (www.diritticomparati.it), 1/2020, 5 gennaio 2020, 213 ss. Infine, delle implicazioni di ordine istituzionale connesse allo strumento di cooperazione in parola tratta, ora, anche C. Masciotta, Il Protocollo n. 16 alla CEDU alla prova dell’applicazione concreta e le possibili ripercussioni sull’ordinamento italiano, in Dir. pubbl. comp. eur., 1/2020, 183 ss.].
[12] … quanto meno così dovrebbe essere per la tesi ormai stabilmente affermatasi nell’esperienza, una tesi nei riguardi della quale tuttavia si sono manifestate in altri luoghi alcune riserve, segnatamente con riferimento alla supposta necessità che, per i casi di antinomie riguardanti norme dell’Unione prive dell’attitudine alla diretta applicazione, si debba comunque investire della loro cognizione la Consulta (questione, nondimeno, diversa da quella ora in esame che – come si è veduto – presuppone l’esercizio congiunto delle due pregiudizialità). Basti solo pensare al fatto che, caducata la norma interna incompatibile con norma sovranazionale non self executing, il giudice non può far altro che desumere da quest’ultima la regola buona per il caso ovvero estrarla da altra fonte nazionale che possa a ciò prestarsi, cosa che avrebbe potuto (e potrebbe) fare ab initio, “non applicando” il diritto interno contrario al diritto dell’Unione. Certo, non si avrebbe il beneficio della rimozione con effetti erga omnes della norma invalida; ma l’argomento, peraltro – come si sa – ricorrente a giustificazione della svolta segnata dalla 269, finisce con il provare troppo, ponendosi in via generale in contestazione di quel meccanismo dell’applicazione diretta che è uno dei tratti maggiormente qualificanti ed espressivi della primauté del diritto sovranazionale, il cuore pulsante – come lo si è altrove qualificato – della costituzione materiale dell’Unione.
[13] Così, ad es., per quanto concerne la nostra Corte, si potrebbe assistere alla “esposizione” dei “controlimiti”, come si è avuto con Taricco (ma, su ciò, subito infra).
[14] Merita di essere qui pure rimarcato l’animus che traspare da molte pronunzie del giudice delle leggi nelle quali le relazioni tra la Costituzione e le altre Carte, ovverosia in buona sostanza tra le Corti che ne sono istituzionalmente garanti, sono impostate dalla Consulta in applicazione di una “logica” – si è detto in altri luoghi – ancillare, vedendosi nelle seconde esclusivamente una conferma di quanto già è detto e salvaguardato dalla nostra legge fondamentale. Nessun caso, invero, si conosce – salvo mio errore – in cui il giudice costituzionale abbia riconosciuto la esistenza nella nostra Carta di una lacuna in ordine alla salvaguardia di un diritto fondamentale, in altre Carte invece insussistente, sì da fare a queste ultime richiamo ad integrazione del dettato costituzionale, vale a dire da annullare una norma di legge perché incompatibile esclusivamente e direttamente con altro documento materialmente costituzionale, quale appunto la Carta dell’Unione o la CEDU. Ha sì ammesso, anche di recente, che talvolta ab extra viene una tutela più “ampia” di quella offerta in ambito interno, mai appunto una mancanza della stessa cui far rimedio attingendo altrove la protezione di cui i diritti, in ispecie quelli non espressamente nominati, hanno bisogno.
[15] Si rammenti, al riguardo, la vicenda di cui a Cons. St., sez. V, n. 4207 del 2005, sulla quale può, volendo, vedersi, la mia nota Le pronunzie della Corte costituzionale come “controlimiti” alle cessioni di sovranità a favore dell’ordinamento comunitario? (A margine di Cons. St., sez. V, n. 4207 del 2005), in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it).
[16] Non si dimentichi, al riguardo, che potrebbe assistersi altresì all’applicazione diretta della Costituzione, oltre che – naturalmente – di norma sovranazionale, a “copertura” del vuoto determinatosi per effetto della caducazione della norma di legge, tanto più poi – aggiungo – laddove dovesse aversi una sostanziale coincidenza o, come che sia, una effettiva convergenza tra norme, rispettivamente, della Costituzione e della Carta di Nizza-Strasburgo che danno il riconoscimento di diritti fondamentali.
[17] Non è di quest’avviso I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, cit., 74 ss. e 77, a cui opinione il giudice costituzionale non sarebbe tenuto ad interpellare la Corte di giustizia. Di qui, poi, il sempre possibile conflitto per il caso che in un momento successivo quest’ultima accerti la sussistenza dell’antinomia; ciò che obbligherebbe il giudice a tornare ad investire la Consulta della questione, la quale naturalmente potrebbe, a sua volta, avvalersi a questo punto dell’arma del rinvio, magari a finalità di “persuasione” nei riguardi del giudice eurounitario, come si è avuto con Taricco. Come si vede, una complicazione inutile, un autentico gioco dell’oca, in cui è sempre incombente il rischio del ritorno alla casella di partenza, quando il percorso potrebbe invece risultare assai più lineare, nel senso qui caldeggiato.
[18] Ho ripetutamente avvertito di questo rischio sul quale, nondimeno, mi parrebbe urgente fermare specificamente l’attenzione [v., ad es., il mio La Consulta e il tiro alla fune con gli altri giudici, cit., spec. § 3].
[19] Per l’ipotesi ora ragionata, potrebbe dunque assistersi alla messa in atto della tecnica dell’assorbimento dei vizi nel senso inverso a quello dapprima preso in esame, giudicandosi non più necessaria la verifica della violazione del parametro costituzionale, una volta ormai acquisita quella del parametro eurounitario.
[20] Come si vede, lo scenario ora descritto è diverso da quello da me preso in considerazione in altri studi [spec. in Dopo la sent. n. 269 del 2017 della Consulta sarà il legislatore a far da paciere tra le Corti?, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2018, 23 marzo 2018, 155 ss.], nei quali mi sono interrogato circa il modo più adeguato per centrare l’obiettivo del cumulo dei rimedi, pervenendosi all’effetto sia della “non applicazione” della norma interna e sia pure della sua “disapplicazione” conseguente ad annullamento. Lì, infatti, si immagina che la presentazione della questione pregiudiziale davanti alla Corte dell’Unione preceda quella davanti alla Consulta; ed è chiaro che, una volta che la prima abbia dato conferma della sussistenza dell’antinomia, la norma interna dev’essere senza indugio messa da canto nel giudizio in cui è stato attivato lo strumento di cui all’art. 267 TFUE, richiedendosi quindi per il suo annullamento il superamento dei canoni concernenti la rilevanza e la incidentalità, a mia opinione possibile solo dopo che una legge vi avrà derogato. Qui, di contro, si immagina il caso di simultanea presentazione delle due questioni, con le conseguenze che si vanno ora illustrando.
[21] … alla quale potrebbe, poi, un domani aggiungersi, dopo l’auspicata ricezione del prot. 16 già richiamato, anche una terza, nella forma sia pure peculiare, soft, della richiesta di parere alla Corte di Strasburgo, con conseguente ulteriore complicazione del quadro, viepiù aggravata poi dall’eventuale, essa pure auspicabile, adesione dell’Unione alla CEDU; ma, di tutto ciò nulla può ora dirsi.
[22] Ragguagli al riguardo possono aversi da R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, e Chi ha paura del protocollo 16 – e perché?, citt.
Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione
Nota a Corte d’appello di Roma 27.4.2020, n. 1453
di Rita Russo
Sommario: 1.- Il caso: una donna si dichiara madre intenzionale della bambina partorita dalla compagna 2.- La controversia sul riconoscimento 3.- I precedenti di legittimità e la soluzione della Corte d’appello 4.- Lo status del figlio nato con ricorso a pratiche vietate.
1.- Il caso: una donna si dichiara madre intenzionale della bambina partorita dalla compagna.
Due donne italiane, residenti in Italia e conviventi da lungo tempo, ricorrono alla procreazione medicalmente assistita (PMA), spostandosi temporaneamente, a tal fine, in Danimarca. Nell’ordinamento italiano la PMA è riservata alle coppie, anche non coniugate, di sesso diverso: nulla da fare per coppie omosessuali e per aspiranti genitori single, pur se non si tratta di un comportamento penalmente sanzionato, come nel caso della gestazione per altri, definita dalla legge 19.2.2004 n. 40 “surrogazione di maternità” (art. 12 comma 6), pratica che costituisce delitto ed è equiparata, quoad poenam, alla commercializzazione di gameti e di embrioni, mentre la “applicazione” di tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso comporta una sanzione amministrativa (art. 12 comma 2)[1].
Le due donne scelgono quindi di praticare la PMA in un altro paese europeo, e, tornate in Italia, una delle due partorisce una bambina, alla quale è attributo il cognome materno. Nessun problema per il riconoscimento del legame genitoriale tra la bambina e la donna che l’ha data alla luce (che abbia o meno fornito il materiale genetico) atteso che nell’ordinamento nazionale madre è colei che partorisce il bambino; non così per la madre intenzionale e cioè colei che ha condiviso il progetto di genitorialità con l’altra e ha dato il consenso alla PMA[2]. L’ufficiale di stato civile, al quale è stata presentata una dichiarazione di riconoscimento, ex artt. 250 e 254 c.c., rifiuta di annotare il riconoscimento; il ricorso ex art. 95 DPR 396/2000, con il quale si chiede la rettificazione dell’atto di nascita con l’annotazione del riconoscimento, è rigettato dal Tribunale di Roma, per la ragione che la nozione di filiazione è indefettibilmente legata al presupposto che la discendenza derivi da persone di sesso diverso e che non è consentita la formazione di un atto di nascita nel quale siano indicate come genitori due persone dello stesso genere. Il giudice di prima istanza conclude nel senso che la posizione della minore potrà essere tutelata mediante l’adozione speciale ai sensi dell’art. 44 lett. d) della legge 184/1983. Immediato è l’appello, nel quale si fa osservare che è pacifica in giurisprudenza la trascrivibilità dell’atto di nascita, formato all’estero, in cui due donne sono indicate come madri dello stesso bambino[3]. Inoltre si osserva che, quanto alla legislazione nazionale, accanto alle norme in materia di filiazione dettate dal codice civile vi è anche un diverso sistema di filiazione, dato dalla legge n. 40/2004 e in particolare dagli artt. 8 e 9. Nella prospettazione delle ricorrenti, queste norme fondano un sistema di costituzione del rapporto di filiazione diverso e autonomo da quello fondato sul dato biologico, regolato dal codice civile, e che valorizza il consenso prestato dalla coppia.
2.- La controversia sul riconoscimento
Questo, in effetti, è il cuore del problema.
La disciplina codicistica della filiazione considera la procreazione un fatto biologico, dal quale discende il dovere di assumersi le responsabilità genitoriali, prescindendo dal consenso del procreante[4]. Vero è che il riconoscimento è un atto volontario, ma il figlio ha azione imprescrittibile per fare dichiarare giudizialmente la paternità e la maternità, dando la prova del fatto naturale (il parto della madre, salvo che abbia esercitato il diritto all’anonimato, e la discendenza biologica dal padre). Si tratta una compagine normativa nata in un contesto in cui erano sconosciute le possibilità date dalla PMA. Nel momento in cui la scienza rivela questa possibilità il legislatore interviene, stabilendo con la legge n. 40/2004 cosa è permesso e cosa è vietato: inizialmente la scelta è rigorosa, perché la PMA lecita è solo quella che non scinde l’identità giuridica del nato dalla sua identità biologica. Tuttavia il legislatore, consapevole che le pratiche di PMA eterologa sono comunque diffuse all’estero e – prima della entrata in vigore della legge- anche in Italia, si preoccupa di tutelare i nati da pratiche illegali, conferendo loro uno status indiscutibile e, nel quadro rassicurante della genitorialità fondata sul legame biologico, insinua come un cuneo l’art. 9 il quale prevede che facendo ricorso alle tecniche di PMA eterologa sia pure in violazione (dell’allora) divieto di cui all’art. 4, il marito o convivente della partoriente e che ha dato il consenso alla fecondazione con seme altrui non può esercitare l’azione di disconoscimento, né l’impugnazione ex art. 263 c.c., la madre non può chiedere di partorire in anonimato ed il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi.
Il divieto di PMA eterologa è caduto nel 2014, per effetto di una dichiarazione di illegittimità costituzionale[5], ma la disposizione dell’art. 9 resta valida ed efficace: il genitore biologico non può avanzare pretese ed il genitore giuridico non può cambiare idea e dismettere le sue responsabilità solo per la mancanza di legame genetico. Si deve qui ricordare che la Corte Costituzionale, nella sentenza di cui sopra, ha osservato come detto divieto fosse lesivo della libertà fondamentale della coppia, di formare una famiglia con dei figli, senza che la sua assolutezza fosse giustificata dalle esigenze di tutela del nato, le quali devono ritenersi “congruamente garantite” dalle norme già vigenti, e in particolare dall’art. 8 della legge n. 40. Si osserva che il testo della norma (I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli [legittimi o di figli riconosciuti] della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime) contiene un ampio riferimento ai «nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», e in considerazione della genericità di quest’ultima locuzione e dell’essere la PMA di tipo eterologo una species del genus, rende chiaro che, in virtù di tale norma, anche i nati da quest’ultima tecnica «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».
Date queste permesse, può dirsi che gli art. 8 e 9 della legge n.40 sono fonte di principii di carattere generale in materia di filiazione? Esiste una genitorialità fondata solo sul consenso? E se questo consenso è prestato da una coppia dello stesso sesso? Si può essere madre intenzionale di un bambino che ha già un madre che lo ha partorito?
3.- I precedenti di legittimità e la soluzione della Corte d’appello
Sono questi i quesiti posti alla Corte d’appello di Roma, che deve fare i conti con un precedente di legittimità recentissimo, ove si si nega la rettificazione dell'atto di nascita di un minore, nato in Italia, mediante l'inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, poiché nell'ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva[6]. In questa sentenza della Cassazione, così come in una altra, di poco successiva e fondata su analoghe considerazioni, ma ancor più analiticamente sviluppate[7], si precisa che in questo caso non vengono in applicazione i principii affermati dalle sezioni unite nel 2019, in materia di trascrizione di atti di nascita formati all’estero; le sezioni unite, come è noto, hanno operato una distinzione tra il caso dell’atto di nascita formato all’estero a seguito di ricorso alle pratiche di maternità surrogata, la cui trascrizione in Italia è da ritenersi incompatibile con l’ordine pubblico internazionale e l’atto di nascita, sempre formato all’estero, del figlio di due madri, partorito da una delle due, che invece è trascrivibile [8]. Nelle citate sentenze del 2020 si afferma che, nel caso in cui il minore sia di cittadinanza italiana, e nato in Italia, queste regole non si applicano, in quanto valevoli solo per la trascrizione di un atto di nascita formato all’estero secondo la legge straniera, che incontra l’unico limite della non contrarietà all’ordine pubblico internazionale. Il caso del minore nato in Italia, di cittadinanza italiana, è invece assoggettato interamente alla disciplina dell'ordinamento italiano, che, secondo queste recenti sentenze, non consente il riconoscimento della genitorialità da parte di due madri. In sintesi, si afferma che, salvo i casi espressamente contemplati dalla legge, la genitorialità resta un fatto biologico, legato imprescindibilmente alla unione tra due persone di sesso diverso.
La Corte di merito supera però queste argomentazioni, osservando come la circostanza che alcune pratiche di PMA siano vietate per legge non comporta che il trattamento riservato al minore debba essere deteriore rispetto a quello nato da pratiche lecite. Si pensi ad esempio alla fecondazione post mortem, caso nel quale la stessa Corte di legittimità ha riconosciuto che alla bambina così nata possa essere attribuito lo status di figlia del marito deceduto[9]. Ma il ragionamento della Corte d’appello non si ferma qui, perché si osserva come in realtà la legge nazionale, attraverso i citati artt. 8 e 9, introduce un principio di tutela del minore che ha diritto a conseguire lo status, anche se ottenuto con l’aggiramento dei divieti in tema di PMA. La legge n. 40/2004 può classificarsi come una lex minus quam perfecta in quanto il divieto del precetto comporta una sanzione, ma non la rimozione degli effetti del comportamento vietato, anzi essa riconosce la più ampia tutela a colui che nasce da pratiche vietate, poiché dalla prestazione del consenso alla fecondazione dell’ovulo, che è irretrattabile, discende la assunzione di responsabilità genitoriali con tutti i doveri ad essa connessi, in applicazione del principio che la violazione delle prescrizioni e divieti posti dalla legge non possono ricadere su chi è nato[10]. Non è qui in gioco il diritto della coppia omosessuale di essere genitori bensì il diritto del figlio, anche se nato da partiche vietate in Italia, ad ottenere lo status, ed il rispetto del suo miglior interesse, secondo i principi dati dalle convenzioni intenzionali che l’Italia ha sottoscritto [11]. L’altro argomento utilizzato dalla Corte di merito è quello del trattamento discriminatorio che riceverebbero i bambini nati in Italia rispetto ai bambini nati all’estero, il cui atto di nascita è invece, come si è detto, trascrivibile, salvo il caso del ricorso a pratiche di gestazione per conto terzi. Tale trattamento sarebbe discriminatorio quando applicato non già a minori di cittadinanza non italiana, o nati all’estero perché i genitori erano ivi abitualmente residenti, ma a bambini i cui genitori, pur italiani e residenti in Italia, hanno abbastanza denaro per restare all’estero non solo il tempo necessario alla fecondazione, ma fino al parto e alla conseguente formazione dell’atto di nascita.
4.- Lo status del figlio nato con ricorso a pratiche vietate.
L’argomento della disparità di trattamento è suggestivo, e forse meriterebbe di essere sviluppato anche con riferimento alla disparità di trattamento tra i minori nati da PMA eterologa ed eterosessuale e quelli nati da PMA praticata da coppia omosessuale. La soluzione del caso dipende però principalmente dalla individuazione del significato e della effettiva e (attuale) portata degli art. 8 e 9 della legge n. 40/2004, in relazione all’art. 250 c.c..
Si discute invero se la assunzione di responsabilità genitoriali discenda, nel caso di PMA, direttamente dal consenso prestato alla fecondazione, ovvero il consenso abbia soltanto l’effetto di rendere “riconoscibile” il genitore. La questione riguarda le coppie non sposate perché invece per le coppie unite in matrimonio il percorso è molto più agevole: la madre è colei che partorisce ed il padre (ex art 231 c.c.) è il coniuge della partoriente. Se la coppia non è sposata e ricorre (legittimamente o meno) alla PMA, secondo una certa tesi vi sarebbe attribuzione ex lege dello status di figlio nato fuori dal matrimonio, dovendosi qualificare il riconoscimento quale “conseguenza ineluttabile” della già espressa volontà al trattamento. Secondo altri, il consenso prestato avrebbe l’effetto di un “prericonoscimento del nascituro” e la dichiarazione di volontà di accedere alle tecniche di fecondazione assistita potrebbe essere qualificata se non come accertamento anticipato del rapporto di filiazione, almeno quale volontà irrevocabile di riconoscimento che, peraltro, è irretrattabile[12]. Secondo altra tesi ancora è comunque necessario un successivo espresso riconoscimento ex artt. 250 e 254 del codice civile [13].
E qui viene in rilievo la interpretazione dell’art. 250 c.c. quale stabilisce che “il figlio nato fuori dal matrimonio può essere riconosciuto dal padre e dalla madre”. Alla luce del quesito che oggi ci poniamo, la parola “può” acquista non tanto il significato di una scelta discrezionale, questione su cui a lungo si è dibattuto, ma indica la titolarità di un diritto e la possibilità legale di esercitarlo[14]. E’ da chiedersi allora chi sono i titolari di questo diritto e quale è il significato delle parole “padre” e “madre” alla luce della legge n. 40/2004. Il significato non può limitarsi ad indicare il padre e la madre biologici, perché è pacifico che in virtù del disposto dell’art. 8 della legge n. 40 il figlio può essere riconosciuto anche da chi non è a lui geneticamente legato. Ma, ancora, significa non più di due persone? La risposta è affermativa, perché la legge n. 40 non lascia spazio a legami giuridici con il donatore di gameti, salva la ricerca della identità personale[15]. E infine, significa necessariamente un maschio e una femmina? E qui sorge il problema. Proviamo allora a spostare il focus dalla titolarità del diritto alla assunzione dei doveri, o meglio delle responsabilità genitoriali.
E’ stato acutamente osservato che in caso di procreazione attraverso l’assistenza medica la “fonte” della genitorialità è il principio di responsabilità che emerge in positivo dall’art. 8 della legge n. 40/2004 dal successivo art. 9 che esclude la sussistenza di una relazione giuridica tra il procreato il donatore e quindi impedisce la costituzione di uno status fondato sulla coincidenza tra verità biologica e la verità legale[16]. Di recente anche la Corte di Cassazione si è espressa, con la già citata sentenza in tema di fecondazione post mortem, la cui motivazione è in più punti richiamata nella sentenza in esame, nel senso che l’art. 8 esprime “l'assoluta centralità del consenso” come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di PMA [17].
Si può pertanto affermare che pur se il consenso prestato alla PMA eterologa non comporta di per sé la immediata acquisizione dello status, ha però valore primario in quanto comporta degli effetti preclusivi, e protettivi per il minore, vincolando chi vi ha fatto ricorso alla assunzione di responsabilità nei confronti del nato pur in assenza di legame biologico. In questo sembra potersi individuare la ratio dell’art. 9 della legge, anche nella sua formulazione originaria, e cioè nella esigenza di proteggere il minore privo di legame biologico con i genitori committenti da eventuali ripensamenti. Questo meccanismo di tutela è in definitiva ciò che salva la legge dall’essere uno strumento servente alle esigenze dei soli adulti. Se la regola iuris tutelasse solo l’interesse gli adulti a diventare genitori, anche quando madre natura è di diverso avviso, si degraderebbe il rapporto di filiazione da relazione umana profonda -forse la più profonda che l’individuo possa sperimentare- a un mero scambio ove il minore è solo strumento di “autorealizzazione del committente” un oggetto che serve solo per soddisfare il desiderio di genitorialità dell’adulto[18]. Nel momento in cui nell’ordinamento - e prima ancora nella realtà dei fatti- fanno ingresso modalità di procreazione non legate all’atto (necessariamente etero) sessuale, una legge rispettosa dei diritti umani deve prevedere adeguate forme di protezione per i figli nati da tali pratiche anche imponendo a coloro che hanno causato la loro nascita di assumerne la responsabilità. Si tratta di un misura di protezione del minore, conforme alle regole poste dalla Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia, in particolare dagli artt. 7, 8 e 9.
Vero è che l’interesse del minore, per quanto da tenersi in primaria considerazione, non è assoluto e può venire in bilanciamento con altri interessi e potrebbe, in taluni casi, anche essere considerato recessivo, o meglio da realizzare con una tutela diversa dal riconoscimento dello status. Si vedano ad esempio, in tema di ricorso alla maternità surrogata, le affermazioni rese dalla Corte Costituzionale nel 2017 [19] laddove si precisa che “il quadro europeo ed internazionale di tutela dei diritti dei minori evidenzia la centralità della valutazione dell’interesse del minore nell’adozione delle scelte che lo riguardano” e che in “in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest'ultimo interesse” salvo però i casi in cui l’interesse alla verità ha natura pubblica, come avviene quando si è fatto ricorso alla maternità surrogata, pratica considerata contraria alla dignità umana; anche in questi casi tuttavia l’interesse del minore non è cancellato, data la “presenza di strumenti legali” che consentono la costituzione di un legame giuridico col “genitore contestato”, quale è l’adozione in casi particolari.
In termini coerenti con questa pronuncia, sempre in tema di maternità surrogata, in data 10 aprile 2019 la Corte EDU si è espressa con un Advisory Opinion nel caso Mennesson, osservando che il diritto al rispetto della vita privata del minore, ai sensi dell’articolo 8 CEDU, non richiede necessariamente che il riconoscimento della relazione con la madre intenzionale avvenga attraverso la trascrizione del certificato di nascita estero nei registri dello stato civile, in quanto la costituzione del rapporto filiale può risultare conforme alla Convenzione anche con il ricorso ad altri istituti, quali l’adozione, a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano la rapidità e l’effettività dell’attuazione del diritto del minore, conformemente al suo superiore interesse[20].
Qui però non di maternità surrogata si tratta, ma di genitorialità omosessuale: su un piatto della bilancia l’interesse del minore alla sua protezione, sull’altro il riconoscimento della genitorialità non biologica e non fondata sull’imitatio naturae.
Se il bambino nato da PMA eterologa ha diritto ad essere protetto, assumendo lo status di figlio, e tale diritto aveva -per scelta del legislatore- anche quando la pratica era illecita, perché non assicurare lo stesso trattamento al bambino nato da PMA praticata da coppia omosessuale?
Questa non è, come si potrebbe pensare, una domanda retorica, perché più risposte sono possibili, atteso che esiste un divieto legislativo di accesso alla genitorialità omosessuale con il quale fare i conti e, nel sistema nazionale, anche il divieto di accesso per queste coppie alla genitorialità giuridica della adozione (non in casi particolari) di minorenni : il giudice deve quindi attribuire un peso al disvalore della condotta vietata e confrontarlo con il peso del miglior interesse del minore. E, in termini di peso, certamente rilevante è una recente affermazione della Corte Costituzionale, la quale, nel respingere la questione di legittimità costituzionale del divieto di accesso alla PMA per le coppie omosessuali, ha affermato che la diversità di sesso dei componenti della coppia è “condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia”[21].
Una pluralità di risposte, quindi: la prima, netta, è l’affermazione che la genitorialità richiede, anche nell’interesse del minore, l’imitatio naturae e non può quindi riconoscersi se non vi sono un uomo e una donna; la seconda, altrettanto netta, l’affermazione che è indifferente l’orientamento sessuale dei genitori perché non è provato che vivere in una “famiglia arcobaleno” sia di per sé pregiudizievole per il minore e ogni altra soluzione sarebbe discriminatoria non solo per i genitori ma anche per il bambino; la terza, che si potrebbe definire di mediazione, è ritenere che la condizione di coppia omossessuale non precluda in senso assoluto la genitorialità, ma subordini il riconoscimento della relazione familiare non biologica ad un ulteriore passaggio e cioè la valutazione in concreto di idoneità alla adozione ex art. 44 lett. d) della legge 184/1983[22].
Nel dirimere l’incertezza non sembra decisivo il sopra citato intervento della Corte Costituzionale la quale, pur affermando che il legislatore si preoccupa di garantire al bambino non ancora nato le condizioni che “appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza" (e cioè genitori eterosessuali), distingue però le tutele da assicurare al nascituro da quelle per il bambino già nato (pur menzionando qui la sola adozione) e, d’altra parte, non può fare a meno di richiamare gli argomenti già spesi dal giudice di legittimità[23] sulla assenza di divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli e sull’assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l'inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore. Né lo stesso intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione garantisce sempre l’individuazione di un punto fermo, come dimostra la vicenda della trascrizione dell’atto di nascita del “figlio di due padri”, con ricorso alla maternità surrogata, posto che malgrado il recente intervento delle sezioni unite la questione è oggi rimessa alla Corte Costituzionale[24].
[1] Per un approfondimento v. STEFANELLI, Procreazione e diritti fondamentali, in Trattato di diritto civile, Milano 2018, 134; CASABURI, Maternità surrogata, Treccani, libro dell’anno 2016; D’AVACK, La maternità surrogata: un divieto “inefficace”, in Diritto di famiglia e delle persone, 2017, I, 139; GATTUSO, Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40, in Questione Giustizia, 2018.
[2] Secondo il documento diffuso dal Parlamento Europeo il termine “madre intenzionale” indica il soggetto che ha intenzione di crescere il minore: Il regime di maternità surrogata negli Stati Membri dell’Ue, sintesi 2013 in http://www.europarl.europa.eu
[3] Cass. civ. 30/09/2016, n.19599 in Diritto & Giustizia 2016, 3 ottobre; Cass. civ. 5/06/2017, n.14878 in Diritto & Giustizia 2017, 16 giugno.
[4] Cass. civ. 15/03/2002, n.3793 in Vita not. 2002, 332.
[5] Corte Cost. 10/06/2014 n. 162 in www.cortecostituzionale.it
[6] Cass. Civ. 03/04/2020, n.7668 in Diritto & Giustizia 2020, 6 aprile.
[7] Cass. Civ. 22/04/2020, n.8029 in Diritto & Giustizia 2020, 23 aprile.
[8] Cass. s.u. 08/05/2019, n.12193 in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2019, 3, I, 1062. La questione è oggi rimessa alla Corte Costituzionale da Cass. 8325/2020; si veda per un approfondimento LUCCIOLI: Il parere preventivo della Corte edu in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla corte di cassazione? In questa Rivista, 22.5.2020.
[9] Cass. civ. 15/05/2019, n.13000 in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2019, 3, I, 1117.
[10] Cass. civ. 30/09/2016, n.19599 cit.
[11] Convenzione sui diritti del fanciullo, New York, 20.11.1989 Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, Strasburgo 25.1.1996 .
[12] Si veda anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici: GIUNCHEDI: La procreazione assistita post mortem tra responsabilità procreativa e favor stabilitatis , in Famiglia e Diritto 2020, 1, 39.
[13]GATTUSO, Il problema del riconoscimento ab origine della genitorialità omosessuale, in G. Buffone, M. Gattuso, M. M. Winkler, Unione civile e convivenza, Milano 2017.
[14] FERRANDO, Filiazione legittima e naturale, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, 315. Secondo una tesi diffusa in dottrina, il riconoscimento è da qualificare un negozio di accertamento avente causa nella rimozione dell’incertezza di una situazione giuridica, spontaneo e irrevocabile, espressivo del diritto soggettivo del genitore; si veda STEFANELLI: Stato giuridico dei figli, in Trattato cit., 255. Nel senso che il riconoscimento è diritto soggettivo primario del genitore v. anche Cass. civ. 10/05/2001 n. 6470, in NGCC, 2002, 3.
[15] Corte Cost. 162/2014, cit. e Corte Cost. 22/11/2013 n. 278 in www.cortecostituzionale.it
[16] STEFANELLI Procreazione e diritti fondamentali, cit., 135.
[17] Cass. civ. 15/05/2019, n.13000 cit.
[18] LUCCIOLI: Il parere preventivo della Corte edu in materia di maternità surrogata cit.
[19] Corte Cost. 18.12.2017 n. 272 in www.cortecostituzionale.it
[20] Sia consentito il rinvio a RUSSO: Il caso Mennesson vent’anni dopo: divieto di maternità surrogata e interesse del minore, in questa Rivista, 20.11.2019.
[21] Corte Cost. 23/10/2019, n. 221 in www.cortecostituzionale.it
[22] Soluzione quest’ultima cui la stessa Corte Costituzionale non sembra contraria, si vedano le già citate Corte Cost. n. 221/2019 e n. 272/2017.
[23] Cass. 19599/2016 cit.
[24] Cass. civ. 29/04/2020, n.8325 in Diritto & Giustizia 2020, 30 aprile.
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