ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gianni Canzio in magistratura
Intervista di Roberto Conti e Giovanni Liberati a Gianni Canzio
La varietà delle esperienze professionali e di studio di Gianni Canzio e il loro dispiegarsi dalla giurisdizione di merito a quella di legittimità, dalla dirigenza di grandi uffici giudiziari di merito a quella della Corte di cassazione, dall’Ufficio del Massimario alla presidenza di Commissioni ministeriali (che hanno varato le più importanti riforme in campo processuale penale degli ultimi anni), stimola la curiosità sulla interazione tra loro di queste così articolate esperienze. L’intervista al Presidente Canzio è stata così pensata per favorire una riflessione tra i rapporti tra dottrina, giurisdizione di merito e di legittimità e attività legislativa. È però la lettura delle risposte a dimostrare che essa è molto più di un intervista, dispiegandosi come un lungo viaggio nel mondo della giurisdizione vissuto dal protagonista ad un livello che merita, tutto, di essere conosciuto per quanto è stato poliedrico, ricco, provocatorio ed esaltante per l'intera giurisdizione, soprattutto oggi.
1. Cominciamo dall’inizio. Sei entrato nell’ordine giudiziario a 25 anni. Cosa ricordi del tuo periodo da “giudice ragazzino”.
Avevo appena compiuto 25 anni quando il 15 gennaio 1970, dopo un lungo concorso iniziato ben due anni prima, ho intrapreso l’ “uditorato giudiziario” a Roma. Un’esperienza – incomparabile con l’odierno tirocinio dei MOT - di cui ricordo soprattutto il periodo di affidamento in Procura con Antonino Scopelliti, un magistrato indipendente, colto e brillante. Il caso volle che, trent’anni dopo, fossi designato relatore nel giudizio di legittimità sull’omicidio mafioso di cui Egli fu vittima il 9 agosto 1991, pochi mesi prima della celebrazione in Cassazione del maxiprocesso palermitano a Cosa Nostra, per il quale era stato indicato come PG di udienza. Terminato l’uditorato e destinato come tutti i magistrati di quel concorso a una sede del Nord, scelsi di fare il giudice civile presso il Tribunale di Vicenza, dove rimasi fino al 1977, con un breve intervallo nel 1973-74 presso la Corte costituzionale come assistente di studio. La tecnica e lo strumentario delle operazioni giudiziarie si apprendevano ascoltando o leggendo i magistrati più anziani ed esperti (ricordo, fra tutti, il fine argomentare in camera di consiglio di Bruno Meneghello, fratello del noto scrittore). Negli stessi anni 1970-77 collaboravo con la Rivista giuridica dell’edilizia di Aldo Sandulli – impareggiabile Maestro -, nei settori dell’urbanistica e dell’espropriazione. Intanto, di cultura della giurisdizione, valori costituzionali e politica giudiziaria si dibatteva vivacemente all’interno delle correnti dell’ANM. Partecipavo attivamente alle riunioni del gruppo di MD del Triveneto, che era forte di personalità prestigiose, come Dusi, Palombarini, Borraccetti e altri di cui, con rammarico, non ricordo i nomi: tempi e luoghi indimenticabili di riflessioni sui rapporti fra magistratura, politica, società e istituzioni, e di crescita culturale e professionale. Corrente, quella di MD, in cui non ho poi militato attivamente ma alla quale, seppure con costante spirito critico verso le posizioni più estreme, sono rimasto idealmente e intellettualmente legato anche dopo la sua confluenza in Area, che ho condiviso.
2. Pensi che l’attuale sistema di accesso abbia migliorato la qualità dei magistrati, sia stato neutro o l’abbia impoverito? Viene subito spontaneo chiederti se l’accesso in magistratura e l’attuale assetto che valorizza le scuole di preparazione alla magistratura alle quali partecipano esclusivamente accademici, avvocati e giudici non ordinari, accanto al ruolo, disomogeneo rispetto alle varie realtà territoriali, delle scuole di specializzazione delle professioni forensi. Manca l’apporto dei magistrati ordinari (al di fuori di quello, limitato, che gli stessi possono offrire all’interno delle scuole di specializzazione e/o dei tirocini che le stesse organizzano all’interno degli uffici giudiziari)? E se sì quale potrebbe essere secondo te?
Un modello di accesso al concorso in magistratura immediatamente aperto ai laureati in giurisprudenza, senza essere preceduto da forme di partecipazione a qualche corso seppure rudimentale di preparazione, probabilmente non è mai esistito nella pratica. Anche io, come tanti altri, subito dopo essermi laureato e prima di presentarmi al concorso in magistratura nel marzo 1968, seguii per circa un anno il (pressoché gratuito) corso napoletano di preparazione tenuto presso la sua abitazione dal mitico presidente Guido Capozzi, di tradizione civilista, che insegnava a noi giovani laureati a risolvere le questioni e i temi controversi ragionando attraverso le linee generali degli istituti e più in generale del sistema delle fonti. L’attuale progetto governativo di tornare al passato, dopo le esperienze certamente non del tutto positive delle scuole di specializzazione, gestite sia da enti privati che dalle Università, pone tuttavia una serie di problemi, attinenti sia alla corretta ed efficiente gestione di concorsi che sarebbero verosimilmente caratterizzati da un troppo alto numero di concorrenti (evento verificatosi in passato e causa della sopravvenuta modifica legislativa), sia alla più difficoltosa individuazione di quelli realmente meritevoli. Inoltre, il concorso in magistratura potrebbe perdere la connotazione di concorso di secondo livello, con eventuali conseguenze negative sul piano del trattamento retributivo. A me sembra che stia avendo un indubbio successo (ne sono stato testimone diretto quanto alla Corte d’appello di Milano e alla Corte di cassazione) e meriti perciò di essere valorizzato – ampliandone anzi il perimetro - il meccanismo di selezione dei più meritevoli, costituito dal tirocinio di diciotto mesi presso gli uffici giudiziari, laddove esso venga seguito seriamente da gruppi di magistrati professionalmente preparati e si concluda con un parere favorevole motivato. Un buon tirocinio di questo tipo permea i giovani laureati della cultura della giurisdizione e prepara i migliori magistrati del futuro.
3. Torniamo alla tua esperienza di giudice di merito negli uffici giudicanti e requirenti. Anche qui il tema è caldissimo, ponendosi sempre più frequentemente, soprattutto dal mondo forense, l’idea della separazione delle carriere come momento di garanzia massima dei diritti del cittadino. Alla luce della tua esperienza, di merito e di legittimità, condividi l’attuale assetto costituzionale o pensi che sia perfettibile e, se sì, in quale modo?
Innanzitutto, mi sia consentito qualche ricordo personale delle esperienze vissute. Il 1977 fu segnato da una serie di episodi di eversione dello Stato democratico che videro in prima linea, anche con il rischio della vita, i magistrati italiani. Mi sembrò doveroso lasciare per qualche tempo il confortevole mestiere di giudice civile e contribuire a fronteggiare il fenomeno del terrorismo, sperimentando il differente percorso professionale dell’inchiesta e dell’esercizio dell’azione penale. Di qui, in assenza di regole ostative, l’immediato passaggio alla funzione inquirente presso la Procura di Rieti (in quel momento scoperta e la più prossima a Roma, dove intendevo trasferirmi). La Sabina reatina venne investita negli anni 1978-1980 da una serie di indagini: sia su talune organizzazioni terroristiche “rosse” (il gruppo toscano di Prima Linea e le Unità Comuniste Combattenti, lasciando da parte il falso comunicato n. 7 delle BR, che annunciava la presenza del cadavere di Aldo Moro nel lago della Duchessa sui monti reatini), che impiegavano i casolari di campagna come nascondigli e deposito di armi; sia su quelle di matrice “nera” (Ordine Nuovo, Terza Posizione, Costruiamo l’azione ecc.), quest’ultime collegate ai NAR laziali. Furono perciò numerosi in quegli anni gli incontri e gli scambi informativi con Mario Amato, del cui isolamento e della cui sofferenza, per gli attacchi ricevuti anche dall’interno della magistratura romana, sono stato partecipe e resi testimonianza – dopo la sua uccisione - alla Prima Commissione del CSM. Nel 1988, con la pubblicazione del nuovo codice di procedura penale, decisi di tornare alla funzione giudicante, come giudice (civile e penale) del Tribunale di Rieti, senza che questo passaggio fosse annotato criticamente da alcuno: non vi erano all’epoca regole ostative, ma quel che contava era la considerazione di imparzialità e oggettività che il magistrato – nel mio caso, fra l’altro, notoriamente di estrazione civilistica - aveva nel tempo acquisito. Dei valorosi giudici con i quali ho lavorato a Rieti vorrei ricordare almeno la figura stimatissima di Alberto Caperna, un amico fraterno scomparso troppo prematuramente, dopo che era passato - anche lui - da giudice di tribunale a sostituto procuratore di Roma, diventando poi un brillante procuratore aggiunto nel settore dei reati contro la P.A.
Vorrei, a questo proposito, svolgere alcune considerazioni critiche rispetto alla, pur legittima e autorevole, proposta legislativa di separazione delle carriere dei magistrati. Il progetto di riforma, oltre a destrutturare larga parte del modello costituzionale sull’ordinamento professionale della magistratura, sul sistema di governo autonomo del CSM, sulla obbligatorietà dell’azione penale ecc., potrebbe a mio avviso determinare, per una paradossale eterogenesi dei fini, l’effetto perverso di una più spiccata autoreferenzialità (anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e di una ancora più accentuata indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo. Infatti, si rileva costantemente l’ipertrofia del fenomeno dell’inchiesta, che, in assenza di pregnanti controlli del giudice per le indagini preliminari, è divenuta l’effettivo baricentro del rito. Da essa spesso sorge - anche per il ricorrente e (almeno disciplinarmente) illecito intreccio di relazioni e scambi di atti fra uffici di Procura e organi di stampa - il prevalere nella collettività di ansie securitarie e del pregiudizio di colpevolezza dell’indagato, che viene inesorabilmente colpito dalla “gogna mediatica”. Con il conseguente rischio che prevalgano logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata da Calamandrei, dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione. Meriterebbe viceversa attenzione, a mio avviso, la proposta alternativa di aprire più pregnanti finestre di controllo giurisdizionale in taluni momenti topici delle indagini preliminari (dall’iscrizione nel registro degli indagati alla durata delle indagini, fino alla correttezza delle scelte imputative, laddove esse incidano sulla selezione di differenti binari processuali o sull’utilizzo di strumenti altamente pervasivi delle libertà individuali, come il trojan), oltre ad implementare quelle già disciplinate dalla legge (per la proroga delle indagini, le misure cautelari personali e reali, le intercettazioni, l’esercizio o non dell’azione penale ecc.); anziché introdurre interventi di tipo gerarchico come l’avocazione o di rilievo disciplinare, che esaltano vieppiù la logica di separatezza dell’ufficio del pubblico ministero e si rivelano potenzialmente compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati. Con la sentenza Scurato n. 26889 del 2016, riguardante l’utilizzo a fini intercettativi del captatore informatico – trojan – nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, le Sezioni unite sottolineavano, infatti, “… l'esigenza che, nei rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata, risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettatIve; fermo restando il sindacato di legittimità della Corte di cassazione in ordine all'effettiva sussistenza di tali presupposti…”.
4. L’approdo alla Corte di Cassazione, mediato da un’esperienza importante come Presidente delle Corti di appello di L’Aquila e Milano ed il ritorno come Primo Presidente. Anche qui proviamo a cominciare dall’inizio e dall’impatto con le funzioni di legittimità di un giudice di merito che non aveva svolto funzioni di appello. Saprai certamente che è in gestazione al CSM la modifica al sistema di accesso alle funzioni di legittimità. Alla luce della tua esperienza professionale, pensi sia condivisibile la prospettiva che valorizza l’esperienza di chi ha esercitato le funzioni di consigliere di appello o presso l’ufficio del Massimario?
Comincio a rispondere alla prima parte della domanda, certamente la più difficile perché s’affollano nella mente tanti ricordi, alcuni felici e altri tristi. Avevo appena compiuto 50 anni quando venne accolta la mia domanda di trasferimento dal Tribunale di Rieti alla Corte di cassazione, non mediato dall’esercizio – allora non prescritto - delle funzioni di consigliere di appello. Verosimilmente, le sentenze e le note di dottrina pubblicate e le relazioni svolte nei corsi di formazione dei magistrati vennero considerate titoli idonei per l’esercizio delle funzioni di legittimità. Fui assegnato come consigliere alla Prima sezione penale, dove rimasi dal 1995 al 2009. In sezione venni addetto già nel 1997 al compito davvero formativo dell’esame preliminare (‘spoglio’) dei procedimenti, svolgendo altresì il ruolo di referente informatico. Furono per me anni di straordinaria crescita professionale, grazie soprattutto al fortunato incontro umano e intellettuale con figure indimenticabili di colleghi ed amici, come Torquato Gemelli e Giovanni Silvestri - poi nominati presidente aggiunto e rispettivamente presidente di sezione -, Maestri impareggiabili delle garanzie di legalità e libertà. Fra le tantissime sentenze redatte in quegli anni (com’è noto, in Cassazione i consiglieri scrivono un numero impressionante di sentenze ogni anno!), di cui molte riguardanti delitti di mafia o di criminalità organizzata, resta incancellabile nella mia memoria, al di là delle soluzioni decisorie adottate, la dolorosa lettura degli atti relativi alla strage delle Fosse Ardeatine (Sez. I, 16/11/1998, Priebke), agli eccidi delle foibe (Sez. I, 22/4/1998, Motika) e alla tragica vicenda del funzionario di polizia Calipari in Iraq (Sez. I, 19/6/2008, P.G ed altri in proc. Lozano): i procedimenti riguardavano, per aspetti diversi, il tema dei limiti della giurisdizione italiana per i crimini di guerra e contro l’umanità. Negli stessi anni, sollecitato da Giovanni Silvestri, curavo per Il Foro Italiano note redazionali o di commento a sentenze: una straordinaria e rigorosa palestra di studi e ricerche, questa, che consiglio ad ogni giovane giurista. Venni quindi assegnato dal presidente Sgroi, nel gennaio 1998, alle Sezioni unite penali, delle quali fin dal 2000 divenni coordinatore, prima con Gino De Roberto e poi con Giorgio Lattanzi, sotto la lunga presidenza Marvulli, redigendo come estensore numerose sentenze. Era intanto entrata in vigore la legge n. 128 del 2001 che aveva previsto la creazione di un’apposita sezione per le inammissibilità dei ricorsi penali. Fummo De Roberto e io a premere - nonostante l’avversione mostrata dai presidenti di sezione più anziani - per l’istituzione della Settima sezione (del cui primo coordinamento venni incaricato) e per l’avvio della fase di organizzazione e sperimentazione delle modalità di trattazione e decisione delle decine di migliaia di ricorsi inammissibili, anche alla luce degli indirizzi interpretativi inaugurati in materia da alcune importanti sentenze delle Sezioni unite, redatte proprio da Gino De Roberto. Va riconosciuto che le attuali, brillanti, performance (di durata dei processi e di qualità delle decisioni) della Cassazione penale devono essere attribuite non solo alla scelta del legislatore ma anche alle soluzioni pratiche autonomamente adottate dalla Corte per il successo di quella riforma, fino a riconoscere che fra i consiglieri penali è andata crescendo nel tempo una vera e propria “cultura della inammissibilità”.
Furono quelli, fra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo, anni vivaci, perfino creativi, per la Corte. Partecipai attivamente all’organizzazione dell’Assemblea generale del 23/4/1999 e all’attuazione delle proposte di autoriforma da essa formulate, collaborando fra l’altro alla istituzione nel 2002 del Gruppo consultivo presso la Prima Presidenza, antesignano dell’odierno Consiglio Direttivo.
Riservando al prosieguo la narrazione di alcune esperienze nella direzione delle Corti di appello di L’Aquila e di Milano, provo ora a rispondere alla seconda parte della domanda.
A me sembra che, come la modernità esige per ogni organizzazione complessa, ancor più se di rilievo costituzionale come il CSM, anche il governo autonomo della Magistratura dovrebbe ispirarsi nelle sue molteplici valutazioni non a rigidi e burocratici automatismi, bensì a una qualche ragionevole e motivata flessibilità delle regole predeterminate. Quel che dovrebbe contare, per sfuggire all’arbitrio dei decisori, è che ogni scelta fosse assistita dal rigore e dalla trasparenza delle relative giustificazioni e che si facesse perno, perciò, sulla duplice garanzia della motivazione, chiara ed essenziale nell’applicazione dei criteri inferenziali, e del successivo, eventuale sindacato impugnatorio, anziché sull’ossequio formale e automatico a regole fissate una volta per tutte e assolutamente inderogabili. Vorrei ricordare un episodio verificatosi nel corso della precedente consiliatura. La Quinta Commissione aveva proposto due consiglieri di corte d’appello come presidenti di sezione della stessa corte, pretermettendo un presidente di sezione del tribunale, pure più anziano e obiettivamente meritevole, e però privo delle funzioni di consigliere di appello. In Plenum osservai che il presidente di sezione del tribunale aveva per circa dieci anni diretto la sezione per il riesame e per l’appello in materia di libertà personale, svolgendo pertanto le tipiche funzioni di controllo proprie del giudice delle impugnazioni, talora anche su ricorsi avverso provvedimenti de libertate della medesima corte d’appello. La sua pretermissione appariva dettata dall’applicazione fredda ed ottusa di un pur esplicito criterio predeterminato, che tuttavia – a mio avviso - andava interpretato dal Consiglio con ragionevole flessibilità. Il rilievo fu accolto all’unanimità, la pratica tornò in Commissione, che infine propose come presidente di sezione della corte d’appello quel presidente di sezione del tribunale. La stessa osservazione sarebbe apparsa valida in passato e dovrebbe valere anche oggi, laddove (oltre le funzioni di giudice del tribunale della libertà) il giudice di tribunale avesse esercitato o eserciti di fatto le funzioni tipiche del consigliere di appello, deliberando ad esempio sulle impugnazioni delle sentenze di primo grado del pretore o attualmente del giudice di pace.
5. L’Ufficio del Massimario nel quale hai svolto nel tempo le funzioni di vicedirettore e di direttore è poco conosciuto dai non addetti ai lavori. Nella macchina della Corte di Cassazione e dei numeri che la caratterizzano, sia nel settore civile che in quello penale, qual è il suo peso e quale potrebbe essere, anche in considerazione delle recenti modifiche che, estendendo il numero di assistenti destinati a quell’Ufficio, hanno visto un decremento delle professionalità destinate in via esclusiva alla massimazione delle sentenze?
Annovero gli anni di direzione del Massimario (2002-2009) fra i più interessanti e intensi della mia vita di magistrato, perché caratterizzati dall’impresa collettiva di costituire una vera e propria comunità di studiosi del diritto, con una forte spinta all’innovazione tecnologica e informatica e alla sperimentazione di vie nuove. Ho iniziato a lavorare con Stefano Evangelista, un grande giurista prematuramente scomparso, per poi incontrare e dialogare con tanti giovani e valenti magistrati, diventati infine presidenti di sezioni o avvocati generali o anche – Domenico Carcano e Margherita Cassano – presidenti aggiunti della Corte e qualcuno giudice costituzionale – Stefano Petitti -. Va ricordato che, in stretta contiguità storico-sistematica con il riconoscimento della funzione nomofilattica della Corte «del precedente», l’art. 68 O.G. del 1941 istituiva l’Ufficio del Massimario e del Ruolo, al quale è tradizionalmente affidato il compito di favorire la formazione della giurisprudenza di legittimità e la sua documentazione e diffusione (mediante la massimazione dei principi di diritto estratti dalle decisioni selezionate). Le riforme degli anni 2006-2009 hanno inciso profondamente sia sulla struttura organizzativa, sia sul tradizionale ruolo e sulle funzioni del Massimario. Dall’esigenza di conformare alla riforma ordinamentale lo schema dei settori civile e penale conseguirono rilevanti provvedimenti di riorganizzazione dell’ufficio, ispirati al duplice criterio della collocazione dei magistrati in omogenee aree tematiche e della valorizzazione delle rispettive professionalità, anche mediante il loro collegamento con le singole sezioni della Corte, secondo forme d’interazione nuove e originali. Va rimarcata altresì l’importanza, a partire dal 2004, della Rassegna annuale di giurisprudenza civile e penale di legittimità, curata dai magistrati del Massimario, caratterizzata dalla selezione e dall’analisi sistematica dei più significativi arresti giurisprudenziali nella formazione del diritto vivente. Nasce pure nell’ottobre 2004 il Servizio Novità, gestito a cura del Massimario nel sito web della Corte di cassazione, diretto a consentire la massima diffusione dell’informazione giuridica, com’è tuttora testimoniato dalle numerosissime visite degli utenti, segno di fiducia nella puntualità e qualità dei documenti e degli abstracts. Non è rimasta dunque immutata, nel tempo, l’opera del Massimario di razionalizzazione e di analisi dei più significativi approdi ermeneutici della Corte di cassazione. L’obiettivo pratico dovrebbe essere oggi quello di affidare a studiosi del diritto di sicura professionalità (aprendo dunque l’ufficio a un limitato numero di figure diverse dai magistrati) l’opera di rigorosa selezione delle (poche) decisioni davvero meritevoli di massimazione, onde consentire la costruzione di coerenti schemi argomentativi in fattispecie paradigmatiche, da utilizzare in casi simili o analoghi; passare quindi dall’opera di redazione della singola «massima/precedente» alla realizzazione di un più razionale «sistema di precedenti» per singoli settori, temi o materie.
6. Torniamo un attimo indietro. In che misura l’esperienza di studioso e docente della organizzazione giudiziaria ha influito sulla sua attività di Presidente delle Corti di L’Aquila e Milano? Quali differenze hai riscontrato tra la teoria della organizzazione giudiziaria e la realtà di quelle Corti, tenendo conto della particolarissima situazione della città di L’Aquila e dell’intero distretto e dell’importanza e delle dimensioni della Corte d’appello di Milano? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai percepito nella direzione di quelle Corti, provenendo da una lunga esperienza di giudice di legittimità?
Paradossalmente, proprio la lunga esperienza di autorganizzazione e di organizzazione del faticoso lavoro in Cassazione ha reso meno difficoltoso l’approccio ai - per me inediti - compiti di direzione di una Corte di appello, articolata in vari tribunali e composta da numerosissimi magistrati del distretto. D’altra parte, anche lo studio e la conoscenza della disciplina ordinamentale si è rivelata utile per assicurare, pur nella necessaria mediazione con la dura realtà, la legalità e la correttezza di base delle soluzioni operative adottate. Le due esperienze – L’Aquila e Milano – sono state tuttavia profondamente diverse.
Il tragico sisma aquilano del 6 aprile 2009 aveva comportato, oltre la perdita di centinaia di vite umane, abitazioni, uffici, studi professionali, il crollo disastroso dell’intero palazzo di giustizia, ove erano allocati tutti gli uffici giudiziari di primo e secondo grado, inquirenti e giudicanti. Quando arrivai, poco tempo dopo, avvertii un’atmosfera di sospensione dei ritmi della vita, perciò anche della giurisdizione, e però anche la voglia di ricominciare, tutti insieme, magistrati, avvocati e cancellieri. Quei trenta mesi vissuti a L’Aquila restano indimenticabili per la coralità dell’impegno, etico e professionale, di tutte le persone, giovani e meno giovani, che ho conosciuto e con le quali ho lavorato collegialmente, giorno dopo giorno. La Protezione civile accolse subito le nostre richieste e costruì in tempi rapidissimi appositi prefabbricati dove collocare provvisoriamente uffici e aule; i Vigili del Fuoco, accompagnati dai cancellieri, recuperarono tempestivamente fra le macerie la maggior parte dei fascicoli; fu quella l’occasione di procedere mano a mano allo spoglio ragionato dei procedimenti, in vista della loro “pesatura” e fissazione; il Consiglio giudiziario adottò per la prima volta il modulo delle sedute “itineranti”, ognuna presso la sede di uno degli otto tribunali del vasto territorio, per verificarne le criticità e i bisogni ed esprimere ad essi vicinanza e solidarietà; anche la formazione decentrata divenne uno strumento “itinerante” di aggregazione; vennero presentati e approvati i progetti di ricostruzione del nuovo palazzo di giustizia (effettivamente inaugurato nel 2015). Attraverso questa imponente e corale capacità di mobilitazione organizzativa fu possibile dopo pochi mesi, nel settembre 2009, riavviare, anche grazie all’attiva partecipazione dell’Avvocatura e del personale amministrativo, la giurisdizione civile e penale nel distretto aquilano, raggiungendo risultati inimmaginabili, addirittura con incrementi di produttività. Ho avuto modo di conoscere a l’Aquila – insieme a tante figure straordinarie delle istituzioni, come Franco Gabrielli, Francesco Paolo Tronca ecc. - magistrati davvero eccezionali per umiltà, coraggio e generosità, di molti dei quali non ha mai saputo l’appartenenza correntizia: alcuni di loro sono oggi stimati presidenti di corti di appello (Fabrizia Francabandera e Luigi Catelli) e di tribunali o procuratori della Repubblica.
Affatto diversa e incomparabile è stata la entusiasmante esperienza di presidente della Corte d’appello di Milano, per oltre quattro anni dal settembre 2011 al dicembre 2015. Alle serie criticità riscontrate al momento della presa di possesso nel complessivo assetto organizzativo, determinate dalla prolungata assenza del presidente e caratterizzate, in particolare, da un indice di ricambio dei procedimenti molto basso, da un incremento esponenziale delle sopravvenienze rispetto ai procedimenti definiti, dalla stasi di realizzazione dei programmi di informatizzazione dei servizi, si rese necessario procedere innanzitutto ad un’approfondita analisi dei problemi, che venne condotta attraverso una serie di studi e interlocuzioni collegiali. Poi, elaborato un condiviso disegno organico, fu data una decisa risposta alle criticità: da un lato, con l’urgente adozione di variazioni tabellari, che consentirono di registrare una radicale inversione di tendenza sia nel settore civile che in quello penale, con una rilevante riduzione delle pendenze e un significativo incremento della produttività e della qualità delle decisioni; dall’altro, con prassi virtuose di riordino dell’assetto organizzativo, fra cui la realizzazione del sito web della Corte e dell’Ufficio Innovazione, per dare concreta esecuzione alle attività di coordinamento dei vari progetti di innovazione tecnica e informatica. Penso all’applicazione in appello del PCT, che già funzionava brillantemente in Tribunale grazie ai moduli introdotti dalla Presidente, Livia Pomodoro, con il lungimirante apporto dell’Avvocatura milanese). Insomma, la Corte divenne un vero e proprio ‘cantiere’ di iniziative, corroborato – oltre che da un dialogo serrato e proficuo con l’Avvocatura - dal coinvolgimento dei consiglieri e presidenti di sezione, in un continuo lavoro collettivo di elaborazione ed affinamento di modelli operativi mirati al miglioramento del servizio giustizia (in un territorio economicamente e socialmente ricco ed esigente nei confronti delle istituzioni locali), frutto della mobilitazione e della valorizzazione delle potenzialità professionali e progettuali di ciascuno. Anche il Consiglio giudiziario, tradizionalmente ben strutturato e composto da magistrati dotati di sicuro prestigio e forte personalità, si rese protagonista della promozione di modelli organizzativi più efficienti, soprattutto per gli uffici investiti in quegli anni dalla revisione della geografia giudiziaria, anche in virtù della partecipazione attiva ai lavori consiliari degli avvocati e dei professori universitari e del carattere parzialmente “itinerante” delle sedute presso i vari tribunali del distretto. L’atmosfera del palazzo di giustizia di Milano è assolutamente unica nel panorama nazionale soprattutto perché – inserito com’è nel cuore della città e munito di sufficienti spazi per le stanze dei magistrati e per le udienze – è frequentato e vissuto fisicamente da coloro che ivi operano per l’intera giornata: uno storico luogo di incontri, dibattiti, studio e formazione, in cui si intessono significative relazioni umane e professionali, in un costante e serrato dialogo, talora conflittuale ma sempre trasparente. Molti ricordi s’affollano nella mente. Ne focalizzo due fra i più significativi. Fu davvero un bel giorno quello del 30 maggio 2013, in cui l’aula magna della Corte di appello venne intitolata alle figure luminose e indimenticabili di Guido Galli ed Emilio Alessandrini, che sacrificarono la vita in difesa della libertà, della dignità e della democrazia. Rivedo le immagini del commosso abbraccio fra Marco Alessandrini, figlio di Emilio, e la moglie Bianca e i figli Alessandra, Carla, Giuseppe e Paolo di Guido Galli. Fu viceversa una tragica giornata quella del 9 aprile 2015 in cui persero la vita in un’aula di giustizia di quel palazzo, nel corso di un’udienza, uno stimato magistrato, un giovane e brillante avvocato e un cittadino testimone, uccisi dalla furia omicida di un folle killer: le immagini delle vittime innocenti riverse a terra e il senso di sconfitta per la pure imprevedibile falla apertasi nel sistema di sicurezza sono ancora impressi nella mia mente.
Vorrei concludere sottolineando che la lunga e appassionata esperienza di giudice di legittimità mi ha insegnato a non dismettere mai l’esercizio concreto dell’attività giurisdizionale anche quando si è chiamati a dirigere un ufficio, e cioè a continuare in qualche misura - come ho fatto in realtà sia a L’Aquila che a Milano - a fare il giudice civile o penale, insieme con gli altri giudici, a studiare e decidere collegialmente i processi, a scrivere sentenze e ordinanze.
7. Due momenti diversi della tua esperienza in Corte di Cassazione. Il primo, da relatore di una delle sentenze che più si ricordano - Cass. S.U. penali n. 30328/2002 sul nesso di causalità -. Cosa ti ha lasciato?
Il diritto vivente viene elaborato da uomini e donne che studiano, riflettono, dibattono, per poi costruire il ‘precedente’, auspicabilmente condiviso e utile per la soluzione di casi simili o analoghi. Dietro ogni arresto giurisprudenziale si intravedono volti, parole, discussioni dei tanti protagonisti del complesso itinerario decisorio, ciascuno espressione di diversi saperi e valori. Proverò a ricostruire l’indimenticabile e affascinante ‘milieu’ storico-culturale nel quale è venuta alla luce la sentenza Franzese, che riguarda due norme del codice penale, gli articoli 40 e 41 intitolati al rapporto di causalità e articolati in brevissime disposizioni, che sembrano scolpite nel marmo e che sono state fatte salve da ogni progetto riformatore. Insomma, proverò a raccontare chi eravamo e come eravamo circa venti anni fa. Ricordo dentro la Corte di cassazione, primo fra tutti, Mariano Battisti, consigliere e presidente della Quarta sezione penale, giurista raffinato e autore di importanti sentenze in materia di causalità e colpa, il quale, fin dal processo sul disastro di Stava, privilegiava l’efficienza causale ex post rispetto all’aumento e alla mancata diminuzione del rischio ex ante. E poi Carlo Brusco, consigliere della medesima sezione, che a sua volta investigava il terreno epistemologico delle inferenze probabilistiche e il modello delle leggi scientifiche di copertura. In Procura generale, ricordo Gianfranco Iadecola, studioso attento della causalità nel campo della responsabilità medica, P.G. d’udienza nella causa Franzese. E, nell’Ufficio del Massimario, Teresa Massa, magistrato giovane e sfortunata, scomparsa prematuramente, che spiegava ai giudici i paradigmi della scienza e della logica movendosi fra “nuvole e orologi” di ascendenza popperiana. All’esterno della Corte, debbo menzionare, innanzi tutto, lo straordinario contributo culturale offerto negli anni 1999-2001 da professori (Carlo F. Grosso, Filippo Sgubbi, Francesco Palazzo, Sergio Seminara), avvocati (Ettore Randazzo) e magistrati di cassazione (rappresentati da Giovanni Silvestri e da me), partecipi dei fervidi lavori della Commissione ministeriale “Grosso” di riforma della parte generale del codice penale: lavori che hanno lasciato indubbie tracce nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, con particolare riguardo al terreno della causalità e della colpa. La contaminazione intellettuale fra sapere scientifico ed esperienziale, maturata in quel contesto, ruppe gli argini del dogmatismo autoreferenziale della dottrina e della giurisprudenza, incrociandosi con le moderne riflessioni di Federico Stella e Michele Taruffo, nonché di giovani studiosi, come Ombretta Di Giovine, Massimo Donini e Rocco Blaiotta (poi consigliere e presidente della Quarta sezione penale), sui temi della causalità e della colpa, della prova e della decisione, della verità e del dubbio. Sembrò allora vincente l’intuizione che le strutture delle categorie del diritto penale classico, per essere adeguatamente applicate, dovessero concretizzarsi verso il fatto, nel crogiuolo esperienziale del processo. E così, la causalità, posizionata tanto al centro delle teorie della conoscenza quanto nel cuore del processo, nel contesto della singola imputazione e dell’ascrizione della responsabilità individuale, si palesò in tutta la complessità della sua duplice dimensione, logico-giuridica e scientifica, di elemento costitutivo del reato. Si riconobbe quindi che, nel passaggio dall’ipotesi di accusa alla ricostruzione probatoria del fatto, nel contraddittorio proprio del rito accusatorio, fino alla conclusiva conferma/falsificazione dell’ipotesi, secondo inferenze di valenza induttivo-probabilistica, viene a snodarsi il dramma del giudicare, fra verità e dubbio, in condizioni di incertezza probatoria soprattutto laddove siano in gioco vicende di elevata complessità e rilevanza sociale. Certo, il garantismo della teoria condizionalistica, secondo il modello di spiegazioni causali supportate da leggi di copertura, continua a presentare varianti applicative e nuovi capoversi, quali: la causalità omissiva, quella psicologica, il concorso di persone nel reato, lo slittamento della causalità verso la colpa ecc. E però, dopo un ventennio, mi sembra che le difficoltà probatorie di settore non giustifichino un mutamento verso una teoria causale di tipo alternativo. Sicché, ancora oggi, sembra più saggio tenere ferma la prospettiva garantista del diritto penale classico, secondo cui non si può mai confondere il fattore di rischio e la ’possibile’ causa ex ante con la causa ‘certa’ ex post. D’altra parte, va ribadito – come sosteneva Pino Borré - che anche il più autorevole ‘precedente’ rappresenta solo la soluzione più ragionevole che fino a quel momento è stata raggiunta dalla giurisprudenza e che resiste fino a quando non ne venga acquisita un’altra più persuasiva e ragionevole. Ebbene, anche il precedente Franzese non si configura affatto come una ‘gabbia della ragione’; anzi mi sembra che abbia aperto percorsi di ricerca e scenari nuovi, nella consapevolezza del debito culturale che ogni arresto giurisprudenziale ha verso la comunità dei giuristi nello storico fluire del diritto nazionale. Debbo aggiungere che quello stesso clima culturale di stampo liberaldemocratico degli anni ‘90 del secolo scorso ispirò notevolmente il percorso ermeneutico della giurisprudenza di legittimità in tema di crimine mafioso organizzato, i cui arresti hanno contribuito alla solida costruzione di categorie giuridiche di straordinario rilievo in materia sia sostanziale, quanto alla delimitazione dell’area di tipicità delle fattispecie criminose, sia processuale. Intendo riferirmi agli approdi interpretativi di legittimità (ad esempio, Sez. Un., n. 33748/2005, Mannino, fortemente debitrice del precedente Franzese) nell’analisi delle forme di manifestazione della direzione, della partecipazione interna o della contiguità esterna all’associazione mafiosa e, quindi, nella fissazione dei criteri discretivi fra le diverse figure del capo, dell’associato, del concorrente esterno, o dello scambio elettorale politico-mafioso: fattispecie, quest’ultime, del concorso esterno e del voto di scambio certamente non di mera creazione giurisprudenziale. Come pure vanno richiamati i canoni affermati dalla giurisprudenza e ormai condivisi sul terreno più strettamente processuale (secondo il modello del “doppio binario”), in tema di applicazione delle massime di esperienza e dei criteri di inferenza e valutazione della prova indiziaria, di governo delle presunzioni per le misure cautelari personali, di verifica dei requisiti di affidabilità della chiamata di correo, di legittimità e utilizzabilità delle intercettazioni. Va pure sottolineato che, anche nelle fasi dell’emergenza criminale più acuta, come quella degli omicidi “eccellenti”, astrattamente riferibili come delitti fine a un mandato della “cupola” di Cosa nostra, la Corte di cassazione, negli anni ’90, non ha affatto sostenuto il principio di una corresponsabilità automatica ed oggettiva, “di posizione”, dei “capi” per l’esecuzione del delitto. Ma, in ossequio al principio liberale di personalità della responsabilità penale e ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, ha preteso che risultassero concretamente accertati, caso per caso e alla stregua di indizi convergenti e univoci, l’effettivo ruolo di ciascun rappresentante dei mandamenti alle deliberazioni collegiali della “commissione” palermitana, anche con riguardo ai diversi tempi che ne hanno segnato la vita e il funzionamento col prevalere della fazione egemone e sanguinaria di Totò Riina e dei corleonesi. Un contributo nomofilattico, quello della Corte di cassazione, di cui va riconosciuta l’obiettiva utilità ai fini della corretta direzione delle indagini e della chiara formulazione delle contestazioni da parte del pubblico ministero, prima, e del controllo probatorio dell’ipotesi accusatoria, nel contraddittorio e nel giudizio di merito, poi, in funzione del giusto processo e della giusta decisione.
8. Nella sentenza delle S.U. penali n. 8770/2018 le Sezioni Unite da te presiedute affermano che all’interprete non è “vietato andare 'oltre' la letteralità del testo, quando l’opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l’unica plausibile e perciò compatibile col principio della prevedibilità del comando; sia, cioè, il frutto di uno sforzo che si rende necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi così a dare luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al 'diritto vivente' nella materia in esame.” Dietro questa affermazione di principio qual è la visione del ruolo del giudice che si è inteso offrire alla comunità degli interpreti?
Ius litigatoris e ius constitutionis. Parole auliche ancora attuali nell’attuale assetto delle funzioni di legittimità o dimostrative che le intuizioni di Piero Calamandrei non sono più coerenti con i “numeri” di una Corte di Cassazione come quella italiana?
Le Sezioni unite penali, con la sentenza Mariotti n. 8770 del 2018, hanno preso posizione sul tema della responsabilità penale del medico dopo le riforme «Balduzzi» e «Gelli-Bianco», con particolare riferimento alla portata del novellato art. 590-sexies cod. pen. Oltre alla lettura ermeneutica del dettato dell’art. 6 della «Gelli-Bianco», condivisa dal successivo indirizzo giurisprudenziale della Quarta sezione penale (in termini di rilevanza della sola colpa da imperizia e non da negligenza o imprudenza, per difetto di conformità alle linee guida nella fase dell’esecuzione e non della selezione della migliore pratica, e della sola colpa lieve e non anche di quella grave), va rimarcato che le Sezioni unite hanno evidenziato il nucleo forte di razionalità racchiuso nel dettato dell’art. 2236 cod. civ., come scrutinato per ben due volte dalla Corte costituzionale, e ne hanno sottolineato la portata applicativa per l’interprete. A me sembra che il passo motivazionale trascritto nella domanda si ponga in perfetta linea di continuità con quanto affermato in una precedente sentenza delle Sezioni unite penali (n. 18288 del 2010, PG in proc. Beschi), circa il ruolo del formante del diritto vivente, opera della giurisprudenza di legittimità in funzione nomofilattica, nella costruzione della trama regolatrice della decisione nel caso concreto. Il diritto vivente postula «la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente creativa della interpretazione, la quale, senza varcare la linea di rottura col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima». Nella relazione di tipo concorrenziale tra potere legislativo e potere giudiziario, il reale significato della norma, in un determinato contesto socioculturale, non sempre emerge dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniuga tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Sicché, in tali casi, «la struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività concretizzatrice della giurisprudenza». D’altra parte, nel difficile equilibrio fra il principio di legalità penale e la mediazione interpretativa del giudice, che rende talora incalcolabile l’agire dell’interprete, il sistema non è sprovvisto di antidoti, soccorrendo – nonostante la incomparabile mostruosità dei numeri dei ricorsi per cassazione - la rete coerenziatrice della «nomofilachia», ad opera della Corte «del precedente», e, oggi ancor più, il proficuo dialogo fra le Corti.
9. Il ruolo della Corte di Cassazione rispetto al tema dei diritti fondamentali e dei rapporti con le Corti sovranazionali. Come hai visto cambiare la Corte di legittimità negli anni in cui vi hai lavorato?
Il mondo è davvero cambiato – si potrebbe ben dire – da quando entrai per la prima volta in Corte di cassazione nel 1995, un’epoca in cui per la giurisprudenza di legittimità vi era una sola fonte primaria e sovraordinata alle altre: la Costituzione; mentre il rilievo degli interventi della Corte Edu o della Corte di Lussemburgo era davvero minimo. Oggi, a valle del primo ventennio del XXI secolo e dopo un’intensa stagione di studi e ricerche sulla portata delle Carte dei diritti e sul ruolo delle Corti sovranazionali, si riconosce viceversa che l’inesistenza di una gerarchia fra le fonti e la configurazione dei rapporti fra ordinamenti in termini di parità orizzontale pretendono la costante ricerca delle ragionevoli compatibilità e giustificano la necessità di quello che si chiama “il dialogo fra le Corti”, nel rispetto effettivo del principio di leale cooperazione e in vista del comune fine di dare concretezza ai diritti fondamentali della persona e alle garanzie della Rule of Law. È diventato centrale il ricorso a prassi virtuose di coordinamento che consentano di scongiurare le eventuali aporie ermeneutiche, mediante peculiari modalità di confronto fra giudici interni e sovranazionali, soprattutto fra le Corti supreme e le giurisdizioni sovranazionali. Nell’ambito di una straordinaria stagione d’incontri, seminari e colloqui, la Corte di cassazione ha siglato nel 2015-2016 un Protocollo d’intesa e un Memorandum con la Corte di Strasburgo e nel 2017, nell’ambito della Rete giudiziaria dell’Unione europea, un Protocollo di accordo sulla cooperazione con la Corte di Lussemburgo, la cui precipua finalità è quella di individuare le linee generali di sviluppo delle rispettive giurisprudenze, attraverso tecniche di formazione e informazione dei giudici e nel rispetto dell’indipendenza di ciascuna giurisdizione. Un sistematico confronto appare lo strumento più efficace per realizzare la cornice metodologica dentro la quale verificare l’effettività dell’applicazione giudiziale della Carta dei diritti fondamentali e approfondire le tematiche che, più di altre, hanno segnato il recente atteggiarsi dei rapporti fra le Corti (cons., da ultimo, il precariato scolastico, il mandato d’arresto europeo, la prescrizione dei reati, il divieto di bis in idem, il principio di non discriminazione, il diritto di asilo ecc.). La strada segnata dai Protocolli d’intesa rappresenta un punto di non ritorno e una straordinaria evoluzione di cui non potrà farsi a meno nel percorso di costruzione dell’ordinamento integrato. Una speciale importanza va attribuita all’approfondimento dei meccanismi di funzionamento in action delle giurisdizioni e delle best practices processuali, nonché all’analisi dei registri del linguaggio, del ragionamento giuridico e dello stile delle motivazioni nei più rilevanti arresti delle Corti, interne e sovranazionali, in grado di veicolare codici comportamentali, linee guida e tecniche di argomentazione condivise, in una sorta di nuovo ius commune europeo. Il “dialogo fra le Corti” si è sviluppato negli anni 2016-2017 anche in sedi extraeuropee, sottoscrivendo, talora anche con la partecipazione del CSM, formali Memorandum of Understanding con le Corti supreme della Federazione Russa, della Repubblica Popolare di Cina e dello Stato di Israele, diretti anch’essi allo scambio sistematico di documentazione e informazioni sulle linee generali di sviluppo della relativa giurisprudenza, nel rispetto dell’indipendenza di ciascuna giurisdizione. Ricordo inoltre che la Corte di cassazione italiana è rappresentata dal suo Presidente nella Rete delle Corti supreme europee. In tale veste ho fatto da relatore sia a Madrid nel 2016, sul tema delle Corti supreme come Corti del precedente, che a Tallin in Estonia nel 2017, sul tema della indipendenza delle Corti supreme, con particolare riguardo alle vicende della suprema Corte della Repubblica di Polonia, che, insieme con l’intero sistema giudiziario, era stata investita da una serie di controriforme ordinamentali dirette a comprimere l’autonomia di quella magistratura nel suo complesso.
10. Veniamo ai temi più caldi. Il 2016 è l’anno in cui ti insedi come Primo Presidente della Corte. Qual è stato, secondo te, il ruolo delle correnti nella nomina a quell’incarico all’interno del CSM?
E qual è il tuo avviso sul ruolo delle correnti nella magistratura alla luce delle vicende a tutti note di quest’ultimo periodo? Da più parti, soprattutto all’interno della magistratura, si era avvezzi all’idea che rispetto agli incarichi direttivi o semidirettivi entrassero in gioco elementi non esclusivamente legati alla professionalità. E ciò ancorché il nostro sistema, a differenza di quello nordamericano, non prevede la nomina fiduciaria dei giudici da parte di organi politici. Tutto marcio e da buttare?
L’esperienza al CSM. Ci verrebbe da dire: nessuna domanda! Raccontaci se lo ritieni utile, qualche episodio che possa dare la misura del tuo rapporto con i consiglieri e con le correnti della magistratura.
Il ruolo del Primo Presidente all’interno del CSM quando in gioco ci sono questioni che riguardano l’assetto della Corte di Cassazione. Pensiamo alla nomina dei Presidenti di sezioni o agli assetti interni collegati alle tabelle: neutralità assoluta, attiva partecipazione in relazione alla conoscenza dell’organo supremo della giurisdizione e dei consiglieri che vi operano o rispettosa terzietà pur nella istituzionale necessità di fornire il proprio apporto conoscitivo?
Non ne sono personalmente a conoscenza, ma mi sembra legittimo che i rappresentanti delle correnti in seno al CSM dialoghino fra loro – e, perché no, anche con i membri laici – in occasione della importante nomina del Primo Presidente della Corte di cassazione. D’altra parte, avevo autorizzato la pubblicazione della domanda con i relativi allegati che attestavano la presenza dei requisiti per la nomina. Il CSM deliberò all’unanimità a mio favore con le astensioni dei due rappresentanti di MD (con i quali, peraltro, subito s’instaurò un rapporto amichevole e proficuo); mentre gli autorevoli concorrenti, Renato Rordorf, a sua volta nominato presidente aggiunto, e Franco Ippolito, presidente della Sesta sezione penale, si rivelarono i più validi e leali collaboratori nel biennio di presidenza della Corte.
Quanto, più in generale, al ruolo e alla funzione delle correnti nella magistratura associata, non si può non riconoscere lo straordinario rilievo che, a partire dalla metà degli anni a’60 del secolo scorso, ha avuto per lo sviluppo della giurisdizione il vivace dibattito aperto fra le diverse e talora opposte visioni delle correnti sui rapporti fra la magistratura, la società, la politica e le istituzioni democratiche (in proposito, consiglio la lettura di quella sorta di atlante storico disegnato dal bel libro di E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, 2018). Voglio dire che mi sembra davvero riduttivo pensare di scrivere la storia della magistratura italiana attraverso la pubblicazione di talune chat fra i magistrati, che pure evidenziano condotte gravemente riprovevoli e profonde degenerazioni del fenomeno correntizio, o di approvare una riforma ordinamentale definendola spregiativamente “spazzacorrenti”. In verità, come non è lecito “spazzare” le persone, neppure le più corrotte, così non meritano - in nome della giustificata repressione di comportamenti illeciti di singoli magistrati - di essere “spazzati” i valori e le idee che sostengono la legittima distinzione dei magistrati in autonomi gruppi associativi. Voglio aggiungere che non ho mai apprezzato i laudatores temporis acti, quelli di “dopo di me il diluvio”, e però neppure i fautori di una radicale palingenesi, quelli di “prima di me le tenebre”. Il giurista non può rinunciare all’analisi critica e non può non intravedere nei fatti del passato, insieme con le ombre, anche le luci. Dico questo anche a proposito dell’esperienza biennale (2016-2017) di partecipazione ai lavori della precedente consiliatura. Sia il Procuratore Generale, Lello Ciccolo, che io abbiamo condiviso molte deliberazioni del Plenum, adottate quasi sempre all’unanimità, aventi ad oggetto la nomina di tanti, eccellenti, presidenti e procuratori generali di Corti d’appello, presidenti di sezione e avvocati generali della Corte di cassazione, procuratori della Repubblica delle città più importanti, e fra essi per la prima volta numerose donne: dirigenti che hanno dato e stanno dando prove altamente positive di svolgere con onore e impegno l’incarico loro affidato e di non meritare quindi un’ingiustificata opera di delegittimazione. E’ stato ancora quel Consiglio a dare una forte spinta alla riattivazione sia dei rapporti con la Scuola della Magistratura che dei lavori della Nona Commissione con riguardo alle relazioni internazionali, non solo all’interno della Rete dei consigli di giustizia europei (preparando così il terreno alla recente nomina del Prof. Donati a presidente dell’ENCJ) e delle Reti balcanica e mediterranea, ma anche attraverso la stipulazione di memorandum d’intesa con diverse e lontane realtà giudiziarie (come la Repubblica popolare di Cina, lo Stato d’Israele ecc.); ad intervenire con un giudizio netto di riprovazione in ordine alle drammatiche vicende conseguenti al golpe fallito in Turchia e alle gravi violazioni dell’indipendenza dei magistrati in Polonia, pretendendo la sospensione dei due Paesi dalle rispettive Reti; a promuovere visite presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea e incontri di studio a Roma fra CSM, Corte costituzionale, Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte di giustizia UE; a siglare intese significative con l’Avvocatura e il CNF; a procedere alla non semplice e faticosa revisione del regolamento interno, in cui – tra l’altro - vengono per la prima volta puntualmente disegnati i termini dei rapporti fra il Comitato di presidenza, le singole Commissioni e il Plenum. Ed è stato quel Consiglio a deliberare la desecretazione e la pubblicazione in due volumi degli atti riguardanti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nonché la commemorazione degli ottanta anni dalle leggi razziali del 1938, mediante la cura e la pubblicazione di una bella raccolta di saggi, intitolata “Razza e in-giustizia”, che fu presentata in Senato con gli interventi della Sen. Liliana Segre e della Presidente della Corte suprema israeliana.
Per quanto mi riguarda, posso affermare che non ho affatto inteso il ruolo di componente di diritto del CSM e di membro del Comitato di presidenza in termini di asettica neutralità, essendomi sembrato doveroso dare il responsabile contributo di sapere e di esperienza del presidente della Corte di cassazione per ogni deliberazione di rilievo dell’Assemblea plenaria, prendendo spesso la parola ed esprimendo di volta in volta un voto motivato e consapevole, a volte in senso favorevole e altre volte in senso contrario alla proposta di Commissione. E ciò è avvenuto ripetutamente, soprattutto quando oggetto di trattazione e decisione da parte del Plenum erano questioni riguardanti l’assetto ordinamentale della Corte di cassazione (nomine di consiglieri o presidenti di sezione, modifiche tabellari ecc.). Ricordo anzi che il Procuratore Generale ed io fummo auditi in Commissione in occasione della nomina dei presidenti di sezione e degli avvocati generali, esprimendo liberamente le nostre valutazioni, ovviamente non sui singoli concorrenti ma sui criteri generali che avrebbero dovuto presiedere la selezione, come pure partecipammo attivamente alle audizioni dei c.d. meriti insigni, per poi autonomamente determinarci in occasione delle votazioni delle relative proposte in assemblea plenaria.
11. La Prima Presidenza della Corte e le Sezioni Unite, civili e penali. La funzione nomofilattica vissuta. Ricordi particolari?
Tanti ricordi certamente, soprattutto delle persone che ho incontrato! Si dimentica spesso che quest’organo, le Sezioni unite, che s’immagina riunito in un’aulica torre, è composto in realtà da nove uomini e donne che provengono dal lavoro quotidiano in sezione e che – con il prezioso ausilio del Massimario - studiano e si confrontano sulle varie questioni prima e durante l’udienza collegiale. Il presidente ha il dovere di alimentare i dubbi e sollecitare la discussione sui temi controversi, per esplorare fino in fondo i concreti effetti della decisione sull’assetto dell’istituto e talora sull’intero sistema e quindi contribuire a portare ad unità le differenti opinioni emerse nel dibattito. Va rimarcato che la stragrande maggioranza delle decisioni viene presa all’unanimità, mentre solo raramente si provvede alla sostituzione del relatore dissenziente. Per le Sezioni unite penali vi è poi l’ulteriore onere di formulare in tempo reale le c.d. informazioni provvisorie a beneficio della comunità dei giuristi: un’operazione, questa, che pretende chiarezza, puntualità e sintesi. Insomma, come consigliere prima e presidente poi, ho sempre vissuto le Sezioni unite come un luogo ideale in cui s’intrecciano importanti relazioni umane e s’incrociano vari saperi ed esperienze giudiziarie; negli ultimi tempi anche come una straordinaria palestra di educazione alla collegialità del dialogo per i giovani tirocinanti della Corte, che invitavo di volta in volta a partecipare alle udienze.
12. I procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati e la competenza esclusiva delle Sezioni unite civili. Avevi proposto una modifica dell’attuale assetto. Ci potresti ricordare da cosa nasceva quell’idea?
La proposta di integrare la composizione delle Sezioni unite civili con (tre) consiglieri delle Sezioni unite penali - non approvata dalla maggioranza del Plenum del CSM - nasceva dall’intento di assicurare al collegio giudicante in materia di disciplina dei magistrati il proficuo apporto del sapere e dell’esperienza di un limitato numero di magistrati della giurisdizione penale, in considerazione della struttura bifasica del giudizio disciplinare di legittimità e dell’elevato numero di questioni processuali o sostanziali di natura penalistica che il giudice disciplinare è chiamato ad affrontare. E ciò - attraverso il meccanismo tabellare della coassegnazione - al solo fine di rafforzare l’autorevolezza delle Sezioni unite civili nel gravoso compito di realizzare una più larga e condivisa nomofilachia nel settore. In linea di principio, debbo peraltro rimarcare il deficit ordinamentale quanto alla previsione di un organo (distinto e di competenza superiore rispetto alle Sezioni unite civili, da un lato, ed a quelle penali, dall’altro), destinato a risolvere gli eventuali conflitti di giurisprudenza infrasezionali, non già all’interno del medesimo settore (civile o penale) bensì fra i due distinti settori, su materie o istituti di comune interesse. Il non più raro verificarsi di tale complicata situazione potrebbe suggerire la costituzione per via tabellare (ad esempio, mediante il modulo della “coassegnazione”) di un Collegio in composizione “mista”, formato da giudici civili e penali di legittimità in pari numero di quattro, i quali, con cadenza semestrale o annuale, venga convocato dal primo Presidente per risolvere le eventuali questioni controverse, nei casi in cui la soluzione offerta ab externo, seppure nell’ambito della propria competenza ratione materiae, dalla Corte civile possa incidere sull’indirizzo giurisprudenziale di quella penale e viceversa. Laddove la nomofilachia, in casi del genere, rischia di vedere pregiudicati i caratteri della dinamicità e della orizzontalità, verrebbe attivato un virtuoso ed efficace meccanismo compensativo di formazione di autorevoli “precedenti”, diretto a paralizzare l’indubbio pregiudizio recato per contro alla certezza del diritto dalla imprevedibilità e disomogeneità di quelle decisioni giudiziali.
13. Gli incarichi extragiudiziari dei magistrati. Utilità, opportunità, gratuità per un consigliere di cassazione. Cosa ne pensi alla luce della tua esperienza professionale che ti ha anche visto componente di una commissioni ministeriali per la riforma del codice penale? Esiste una risposta secca, ovvero occorre distinguere tra la tipologia degli incarichi e degli enti proponenti. Ma in ogni caso, in che misura la società civile è disposta ad accettare lo svolgimento di funzioni non giudiziarie, se remunerate, da parte di un vincitore di un concorso pubblico in magistratura?
Sono stato (con Giovanni Silvestri) componente della Commissione ministeriale “Grosso” per la riforma della parte generale del codice penale (1999-2001) e della Commissione ministeriale “Riccio” per la riforma del codice di procedura penale (2006-2008) e presidente della Commissione ministeriale “Canzio” per elaborare una proposta di interventi in tema di processo penale (2013-2014), il cui articolato ha costituito la base della legge di riforma n. 47 del 2015 in materia di misure cautelari personali e di quella n. 103 del 2017 (“Orlando”), recante significative modifiche ai codici penale e di rito, con particolare riguardo al sistema delle impugnazioni. Tali incarichi sono stati svolti a titolo gratuito e hanno costituito una straordinaria occasione di confronto fra i vari protagonisti della giurisdizione - professori universitari, avvocati, magistrati –, al fine di offrire al decisore politico una piattaforma razionale e condivisa di alcuni articolati di riforma con le rispettive relazioni illustrative. Il contributo dei magistrati al lavoro di siffatte Commissioni di studio si rivela a mio parere prezioso se non addirittura doveroso, così da mettere a fattor comune, con l’Accademia e l’Avvocatura, gli specifici saperi e le esperienze pratiche della magistratura. Come pure mi sembra che presso il Ministero della giustizia alcune funzioni ben possano essere tradizionalmente e legittimamente attribuite ai magistrati. Penso al gabinetto del Ministro, all’ufficio legislativo, all’organizzazione giudiziaria, alle direzioni generali dei settori civile e penale, al DAP. Uffici che - è bene ricordarlo - sono stati ricoperti in passato da personalità prestigiose, le quali, sia prima che dopo l’incarico ministeriale, si sono impegnate nell’esercizio della giurisdizione (mi limito a fare i nomi, fra i tanti, di Liliana Ferraro, Livia Pomodoro, Giovanni Falcone, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Vladimiro Zagrebelsky, Giorgio Fidelbo, Loris D’Ambrosio, Mimmo Carcano, Peppe Santalucia, Renato Bricchetti, Gianni Melillo, Betta Cesqui). Lo stesso è a dirsi per il contributo di conoscenze offerto dai magistrati mediante gli incarichi (peraltro molto modestamente remunerati) di insegnamento delle materie giuridiche presso Università, Scuole di specializzazione o Istituti di ricerca, purché senza scopo di lucro. Viceversa, non vi è dubbio che altri, invero non pochi, servizi di tipo meramente amministrativo (soprattutto se estranei al settore della giustizia) ben potrebbero essere affidati a funzionari dell’amministrazione anziché a magistrati. Insomma, intendo dire che anche in questo campo occorre opportunamente esercitare l’analisi critica in considerazione delle diverse tipologie di incarichi e dei diversi enti proponenti.
14. Quanto e in che misura la tua esperienza di studioso, quella al Massimario della Corte di cassazione, nonché di giudice di legittimità e di dirigente di importanti Corti d’appello ha influito sulla tua partecipazione alle Commissioni ministeriali di riforma del codice penale e di procedura penale e nella elaborazione delle proposte di modifiche legislative? Quali differenze ha riscontrato nell’approccio ai problemi da risolvere da parte degli accademici?
Nella successiva applicazione delle riforme hai riscontrato che i risultati che si erano prefissati (sia in termini di deflazione, alleggerimento e semplificazione del lavoro, soprattutto della Corte di cassazione e delle Corti d’appello, sia nella prospettiva di adeguamento alle indicazioni interpretative fornite dalle Corti sovranazionali) sono stati raggiunti?
Quanto hanno influito nell’esercizio dell’attività giurisdizionale di legittimità, in particolare di Presidente delle Sezioni Unite penali, l’esperienza del merito (in particolare la presidenza delle Corti di L’Aquila e Milano), quella di studioso e quella di partecipazione alla elaborazione delle riforme processuali da applicare? L’anticipazione di soluzioni interpretative poi recepite sotto forma di innovazioni legislative (pensiamo soprattutto all’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen. e all’introduzione dell’obbligo di rinnovazione istruttoria per il caso di riforma di sentenza di assoluzione) ha costituito motivo di difficoltà o di imbarazzo per la reciproca influenza tra i ruoli?
Come giudichi, in definitiva, il rapporto e l’interazione tra giudice di merito, giudice di legittimità, dirigente giudiziario e partecipe della elaborazione delle riforme processuali?
Credo di avere già risposto implicitamente a questo gruppo di domande. In estrema sintesi, la mia idea è che il magistrato (ancor più se di ispirazione liberaldemocratica) debba essere un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica, per poter diventare un responsabile ed efficace valutatore del fatto e interprete del diritto e un decisore di qualità. A condizione che egli rimanga libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l’etica del limite, non solo non ravviso alcuna incompatibilità fra il ruolo del giudice, di merito o di legittimità, quello dello studioso che insegna e scrive libri, note o saggi e quello del componente di una Commissione ministeriale di studio ed elaborazione di progetti di riforma della giustizia; ma anzi ritengo che l’interazione di questo tipo di esperienze, così ricche e plurali, possa influenzare positivamente la crescita umana e professionale del magistrato e contribuire al miglioramento della qualità della giustizia che egli amministra e, più in generale, al rafforzamento della legittimazione democratica dei magistrati nella società e nelle istituzioni. Inoltre, va sempre rammentato che i progetti di riforma camminano sulle gambe degli uomini e delle donne chiamati ad applicarle. Spetta a tutti i protagonisti della giurisdizione fare, ciascuno, la propria parte perché il modello processuale prescelto dal legislatore funzioni efficacemente, e nello stesso tempo sperimentarne le criticità applicative per proporne – con spirito riformista - gli aggiustamenti, le modifiche o addirittura il superamento. Per quanto riguarda, in particolare, la regola dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, che era stata suggerita nell’articolato della Commissione ministeriale “Canzio” ed è stata poi positivamente stabilita dall’art. 603, comma 3-bis c.p.p., introdotto dalla legge di riforma “Orlando” n. 103 del 2017, mi preme sottolineare che la sentenza delle Sezioni unite n. 27620/2016, Dasgupta (che – redatta da quel fine giurista che è Gianni Conti - ne aveva anticipato la portata, per essere poi seguita da SU 18620/17, Patalano, SU 14800/18, P.G. in proc. Troise e SU 14426/19, Pavan) costituiva in realtà l’ineludibile approdo di un itinerario ermeneutico risalente sia a un indirizzo giurisprudenziale già avviato dalle Sezioni unite (n. 45276/2003, Andreotti e n. 33748/2005, Mannino) che all’ormai consolidato orientamento della Corte di Strasburgo. Per questa ragione, i componenti del collegio delle Sezioni unite che decisero il caso Dasgupta nel 2016 non avvertirono alcuna difficoltà, né imbarazzo, nel fissare il principio di diritto in questione.
15. Rimpianti rispetto a qualcosa che avresti potuto fare in più o di diverso per la Corte di Cassazione?
Per la verità, il tempo a disposizione – appena due anni – non è stato molto, poiché, fra gli effetti negativi della riforma dell’età pensionabile dei magistrati, va annoverata anche quello delle presidenze di breve durata. E però, nel biennio 2016-2017 (di cui il secondo anno di “proroga”, com’è noto), ogni energia, da parte mia e del Presidente Aggiunto, insieme con i presidenti di sezione e numerosi consiglieri, con l’ausilio del segretariato generale e dell’apparato amministrativo, è stata dedicata, in una sorta di impresa collettiva: prima ad un’attenta analisi delle criticità presenti in alcuni settori (ponendo in assoluta evidenza la priorità d’intervenire sull’assetto della sezione tributaria, a causa dell’enorme peso dell’arretrato e del carico notevole delle sopravvenienze); poi alla definizione di moduli organizzativi e linee guida condivisi in merito all’avvio e al funzionamento delle due importanti riforme del giudizio civile e di quello penale di legittimità, di cui, rispettivamente, al decreto legge n. 168, conv. con legge n. 197 del 2016, e alla legge n. 103 del 2017 (“Orlando”). Riforme strutturali, queste, che hanno disegnato un’architettura più moderna ed efficace del giudizio di legittimità, civile e penale, in linea di continuità con il lavoro delle competenti Commissioni ministeriali e con le proposte avanzate dall’Assemblea generale della Corte del 23 aprile 1999 e del 25 giugno 2015. Tornando indietro nel tempo ritengo che sarebbe stata necessaria una più forte determinazione nel propugnare innovazioni ancora più radicali dei modelli organizzativi della sezione tributaria, non essendo i pur ampi interventi adottati sufficienti a sciogliere il nodo del pesante fardello accumulato negli anni passati. Ancora: oltre la pubblicazione dei decreti in tema di motivazione sintetica o semplificata delle sentenze e sui moduli di relazione fra le sezioni semplici e le sezioni unite, avrei dovuto contrastare con maggiore decisione i fenomeni – seppure non molto diffusi – delle c.d. sentenze-trattato e della inosservanza, consapevole o meno, da parte della sezione semplice del vincolo interpretativo costituito dal principio di diritto affermato dalle sezioni unite. Fenomeni, entrambi, che a mio avviso realizzano un serio vulnus all’efficacia della funzione nomofilattica di una Corte suprema “del precedente”.
16. Pietro Curzio, nelle poche parole pronunziate in occasione del suo insediamento, ha insistito sull’art. 54 della Costituzione in cui si parla delle funzioni affidate ai pubblici funzionari che devono assolverle con disciplina e onore. Che augurio ti senti di rivolgere a chi è stato chiamato, in un delicato momento come quello che tutti noi stiamo vivendo, a ricoprire il ruolo di Primo Presidente?
Ho apprezzato la scelta coraggiosa e nient’affatto scontata operata dal CSM. Com’è noto, sono da tempo un estimatore delle qualità umane e professionali di Pietro Curzio e, aggiungo, di Margherita Cassano, con i quali è già avvenuto un proficuo scambio di idee e di auguri in occasione della loro nomina ai prestigiosi incarichi di Primo Presidente e, rispettivamente, Presidente Aggiunto. Sono certo che, nonostante la non lunga durata, sarà questa una presidenza di svolta per il settore civile e tributario della Corte, i cui presidenti e consiglieri dovranno procedere con maggiore slancio e più sicura convinzione alla realizzazione dei modelli di giudizio prefigurati dalla recente riforma del giudizio civile di cassazione, tenuto conto che essi sono coerenti – quasi alla lettera - con quelli indicati nelle deliberazioni conclusive delle due assemblee generali del 1999 e del 2015.
17. Ad un giovane brillante che abbia ultimato gli studi universitari consiglieresti oggi di fare il magistrato?
Certamente! Il “mestiere” di giudice, per il connotato di indipendenza, etica e razionalità della funzione esercitata, si annovera senz’altro fra i più interessanti e ricchi di esperienze. Anzi, direi meglio: i “mestieri” del giudice. Infatti, la pluralità e la varietà delle funzioni costituiscono un antidoto sia alla pigrizia culturale e professionale, sia alla prefigurazione dell’esercizio della giurisdizione come “potere” anziché come “servizio”: un serio rischio, questo, che può annidarsi laddove esso venga svolto dal magistrato per tanti anni o addirittura per l’intera vita professionale in uno stesso ufficio e con le medesime funzioni.
Posizioni organizzative e dirigenza amministrativa: aperture di credito della Consulta per l’efficienza della P.A.
(nota a Corte Costituzionale 25 giugno 2020, n. 128 e Corte Costituzionale 24 luglio 2020, n. 164)
di Roberto Bellè
La nota esamina due recenti pronunce della Corte Costituzionale in tema di posizioni organizzative per incarichi di alta professionalità, rispettivamente presso le Regioni e le Agenzie tributarie. Il commento evidenzia come la Corte, rigettando le questioni di legittimità proposte, abbia riconosciuto l’utilità delle posizioni organizzative nel fornire alla P.A. strumenti efficaci di persecuzione del buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione. Ciò attraverso un sistema che allontana sempre più il pubblico impiego dall’istituzione della categoria dei “quadri” e che valorizza piuttosto forme temporanee di incentivo motivazionale, sotto il profilo economico e professionale, cui peraltro, almeno nella normativa sulle Agenzie fiscali, si accompagnano incentivi a favore dei dipendenti in occasione dei concorsi di accesso alla dirigenza. Incentivi ritenuti anch’essi legittimi dalla Consulta e che, risultando ragionevolmente finalizzati a valorizzare, in un assetto normativo maturo, l’imprescindibile contributo che deriva dall’assurgere alla dirigenza di personale interno, possono consentire una positiva attuazione della regola sul pubblico concorso.
Sommario: 1. Due sentenze, un’unitaria ispirazione - 2. La sentenza della Corte Cost. n. 128/2020 - 3. La sentenza della Corte Cost. n. 164/2020 - 4. Dirigenza e p.o.: profili ricostruttivi - 5. Il piano lavoristico: sempre più lontana l’ipotesi dei “quadri” nel pubblico impiego ? - 6. Corte Costituzionale e regime concorsuale della dirigenza - 7. Conclusioni.
1. Due sentenze, un’unitaria ispirazione
Le due sentenze pressoché coeve che si annotano, intervenendo in modo tra loro complessivamente coerente su questioni di fondo relative alla disciplina delle c.d. posizioni organizzative [1], anche nella delimitazione di esse rispetto alla dirigenza, tracciano un importante solco interpretativo, caratterizzato non solo dai tratti giuridico-argomentativi, di cui si dirà, ma altresì ispirato dal fine di attribuire alla P.A. margini significativi, sia per quanto attiene alle potestà organizzative, sia per quanto riguarda il transito del proprio personale migliore dalle predette posizioni di rango elevato allo status dirigenziale vero e proprio.
2. La sentenza della Corte Cost. n. 128/2020
La sentenza n. 128 riguarda la disciplina toscana (Legge Regione Toscana 7 maggio 2019, n. 22, artt. 1, 2 e 3), con la quale si è regolata la complessa vicenda del transito di personale destinatario di incarichi di alta professionalità dalle province e città metropolitane alla Regione, rispetto al quale la normativa statale (art. 1, co. 800, L. 205/2017) consentiva un incremento di fondi degli enti di destinazione, a condizione del rispetto di regole da stabilirsi, tra l’altro, con apposito d.p.c.m. Contestualmente il C.C.N.L. di comparto del 2018 aveva previsto (art. 14) una nuova regolamentazione per l’attribuzione delle posizioni organizzative, stabilendo la proroga di quelle preesistenti non oltre il 18 maggio 2019. Nelle more della definizione del citato d.p.c.m. e considerando la prossima scadenza della proroga disposta dal C.C.N.L., la legge regionale ha autonomamente disposto una propria proroga di tali posizioni, fino al completamento delle procedure di attribuzione che sarebbero conseguite allorquando il d.p.c.m. fosse entrato in vigore.
La Corte Costituzionale, raggiunta dal ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha rigettato, ritenendo - per quanto qui interessa - che la normativa regionale non avesse avuto ad oggetto la materia, riservata allo Stato, dell “ordinamento civile” (art. 117 lett. l Cost.), ovverosia delle obbligazioni e diritti derivanti da un dato rapporto di lavoro pubblico, quanto la potestà organizzativa degli enti, rientrante nell’ambito della competenza residuale regionale. L’esercizio della potestà legislativa è stato poi ritenuto non irragionevole, perché coerente con l’esigenza di disciplinare, in una prospettiva di buon andamento della P.A. ed attraverso l’assicurazione di continuità all’attività amministrativa, la necessaria transizione verso il riassetto conseguente alle citate deliberazioni centrali.
L’asse argomentativo è convincente, in quanto la possibilità per la contrattazione collettiva di destinare, nell’ambito dei comparti, «apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità» (art. 40, co. 2, d. lgs. 165/2001), da cui si desume la possibilità di costituire posizioni organizzative, non significa certamente che essa sia preclusiva rispetto alla decisione del singolo ente sul se e come istituire le medesime, la cui definizione ad opera della P.A. (e qui, anzi, direttamente ad opera della legge quanto a proroga temporale delle posizioni pregresse) è discrezionale[2], in applicazione dell’assetto delineato dal d. lgs. 165/2001 (art. 40, co. 1 [3]), esprimendo l’intenzione datoriale di perseguire un certo risultato, attraverso quella modalità, ovverosia preponendo a certi uffici di alta professionalità, con potestà esterne e corrispondenti responsabilità, le persone dei livelli impiegatizi più elevati[4].
3. La sentenza della Corte Cost. n. 164/2020
L’altra pronuncia in commento riguarda una parimenti intricata vicenda normativa, relativa agli assetti apicali delle Agenzia delle Entrate e di quella delle Dogane.
I prodromi di essa risalgono al fatto che tali Agenzie hanno provveduto, nel corso degli anni, a sopperire alla vacanza di posti dirigenziali attraverso una norma del proprio regolamento che consentiva, per inderogabili esigenze di funzionamento, la copertura mediante contratti a tempo determinato con funzionari del medesimo ente, fino all’attuazione delle procedure di accesso alla dirigenza e, comunque, entro un termine finale reiteratamente prorogato a partire dal 2006 e fino al 31.12.2012, con delibere del Comitato di gestione delle Agenzie. L’art. 8, co. 24 d.l. 16/2012, conv. con mod. in L. 44/2012, oltre a far salvi i contratti stipulati in passato con i funzionari, consentì l’ulteriore attribuzione di tali incarichi a tempo determinato[5], in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso, ma con successive proroghe normative dei contratti (art. 1, co. 14 d.l. 150/2013 conv. con mod. in L. 15/2014 e art. 1, co. 8, d.l. 192/2014) fino al 30.6.2015. Corte Costituzionale 17 marzo 2015, n. 37, chiamata dal Consiglio di Stato a valutare la predetta normativa, ne dichiarò l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 Cost., in quanto attraverso essa si era «determinato un indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura aperta e pubblica», con aggiramento della regola del concorso pubblico e della stessa legittimità di una reggenza, ammissibile per la temporanea copertura di posizioni dirigenziali in attesa di concorso, ma non compatibile con reiterare proroghe dei corrispondenti incarichi.
Il legislatore è quindi intervenuto per regolare nuovamente la medesima esigenza organizzativa, stabilendo, con l’art. 1, comma 93, L 205/2017, che le Agenzie fiscali potessero istituire posizioni organizzative di elevata professionalità (POER), da conferire a personale interno con almeno cinque anni di esperienza nella terza area, chiamato a svolgere, in esito ad apposita selezione, incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione. Tali incarichi, espressamente definiti come di natura non dirigenziale, contemplano il potere di adottare atti e provvedimenti amministrativi, anche a rilevanza esterna, poteri di spesa e di acquisizione delle entrate, con responsabilità dell’attività amministrativa, della gestione e dei risultati dei propri uffici, da perseguire mediante autonomi poteri di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, il tutto assistito dalla previsione di appositi benefici, attraverso voci retributive di posizione e di risultato. Il sistema si completa poi con la ulteriore previsione per cui l’istituzione delle POER deve avvenire nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, sicché, in sostanza, essa è complementare ad una diminuzione quantitativa della dirigenza, quale conseguenza di una rimodulazione organizzativa degli assetti apicali degli enti interessati.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 164/2020 qui in commento, ha ritenuto questa volta infondata la questione rimessa dal T.A.R. del Lazio, argomentando, da un primo punto di vista, sulla effettiva natura non dirigenziale degli incarichi inerenti le POER e rilevando, in ricostruzione della normativa di dettaglio, come, nonostante l’ampiezza dei poteri attribuiti in tal modo ai funzionari, mancasse quella responsabilità «esclusiva» (art. 4, co. 2, d. lgs. 165/2001) ed «autonoma» che caratterizza la dirigenza. Pertanto, persisteva il nesso gerarchico – e di potenziale corresponsabilità - rispetto ai dirigenti, che giustificava la classificazione giuridica delle POER in uno status non parificabile a quello apicale massimo, ma da riportare ancora, come si dirà, all’area non dirigenziale di formale inquadramento. Da ciò la conseguenza che tali incarichi non comportavano quel mutamento di status che avrebbe imposto il pubblico concorso aperto agli esterni e che aveva giustificato la pronuncia di incostituzionalità della precedente normativa.
4. Dirigenza e p.o.: profili ricostruttivi
Le due sentenze in commento convergono poi espressamente tra loro nel delineare le POER come posizioni create «per sottrazione» rispetto alle funzioni dirigenziali, cui non sono pertanto equiparabili per la fisionomia dei contenuti.
Esse aggiungono tuttavia un ulteriore importante considerazione, consistente nel fatto che le POER, per quanto soggette ad un termine, potrebbero essere oggetto di revoca («anche prima del tempo indicato» si legge nella sentenza n. 164) [6], in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di valutazione negativa della performance individuale.
Non vi è dubbio che qui la valutazione della performance viene richiamata nel suo versante oggettivo[7], ovverosia come espressione della mancata riuscita della scelta organizzativa (essendo palese che, ove si guardasse al versante soggettivo, ovverosia quello di un’eventuale responsabilità disciplinare del dipendente, essa non potrebbe costituire tratto differenziale rispetto alla dirigenza) così confluendo nell’argomentazione di fondo che ispira le due pronunce della Consulta, in quanto volte ad assicurare alla P.A. uno strumento di flessibilità organizzativa.
Le POER sono infatti intese come forme di maggior articolazione settoriale e territoriale degli uffici, con parallela riduzione quantitativa della dirigenza, cui viene però attribuito uno spessore direzionale se si vuole ancora maggiore, perché destinato ad operare attraverso il coordinamento ed il controllo di importanti unità, il cui rilievo amministrativo risulta significativamente incrementato.
La razionalità del sistema e della scelta appare evidente e la sentenza n. 164 si fa carico di precisare come essa si fondi sull’avallo istruttorio dato alla Consulta dall’audizione di esperti che ne hanno saputo sottolineare la coerenza rispetto a report e studi ufficiali di livello internazionale (OCSE e FMI).
5. Il piano lavoristico: sempre più lontana l’ipotesi dei “quadri” nel pubblico impiego ?
In tale complesso e stimolante scenario, un dato non può sfuggire.
Come sostiene ampiamente la sentenza n. 164, anche le POER non configurano una nuova area intermedia, perché i compiti ed i requisiti per esse delineati non possono ritenersi estranei a quelli propri dei funzionari dell’area non dirigenziale di appartenenza, confermando anzi espressamente, la stessa Consulta, la temporaneità ed il principio di turnazione [8] che sono ritenuti caratterizzanti e che palesemente contrastano con l’inserimento di essi in un’autonoma area.
L’impostazione normativa, sotto il profilo classificatorio, mantiene le posizioni organizzative come incarichi temporanei, revocabili o modificabili in ragione di eventuali mutamenti organizzativi, se esse risultino in concreto inidonee agli scopi per i quali siano di tempo in tempo istituite.
Il favore va dunque più verso l’elasticità organizzativa della P.A., che non verso la introduzione di nuove aree, confermando lo sfavore verso l’istituzione di figure apicali di carriera, in continuità con l’inclinazione che già accompagnò l’eliminazione della c.d. vicedirigenza [9] e che non ha mai permesso la creazione nell’ambito del pubblico impiego della figura dei quadri [10].
Il sacrificio rispetto alla stabilità di “carriera” che ne deriva, trova tuttavia un equilibrio, nel dinamismo che sottende l’intero sistema, oltre che attraverso la portata economicamente e professionalmente incentivante di tali incarichi[11], mediante regole concorsuali di favore per l’accesso alla dirigenza, coinvolte nella seconda parte della sentenza n. 164.
6. Corte Costituzionale e regime concorsuale della dirigenza.
Sostrato analogo è infatti da ravvisare allorché la Corte Costituzionale affronta la materia sotto il diverso tema, sollecitato anch’esso dall’ordinanza di rimessione, della legittimità del sistema di reclutamento della dirigenza degli enti tributari, contestualmente introdotto dalla medesima disposizione censurata.
Costituisce dato acquisito quello per cui l’accesso alla dirigenza, comportando tra l’altro l’acquisizione di uno status autonomo, soggiace anch’esso alla regola del pubblico concorso (art. 28 e 28-bis, d. lgs. 165/2001) e non avviene per mera progressione verticale dei dipendenti interni.
La questione del caso di specie si è incentrata sull’esonero dalla prova selettiva, che la norma, nel regolare i concorsi pubblici per la dirigenza, ha previsto a favore del personale interno qualificato (dipendenti che abbiano svolto negli ultimi due anni mansioni dirigenziali o incarichi di POER; personale assunto con pubblico concorso e con dieci anni di anzianità nella terza area), nonché sulla riserva del 50 % dei posti sempre a favore del personale assunto con pubblico concorso e con dieci anni di anzianità nella terza area.
La sentenza n. 164 disattende la prima questione ritenendo che l’esperienza pregressa così valorizzata, sia profilo meritevole di apprezzamento da parte del legislatore, non in contrasto con il principio di buon andamento, anche perché i beneficiari dell’esonero sono comunque tenuti poi a superare le prove concorsuali.
Quanto alla seconda questione, la pronuncia apre con l’affermazione, vera, ma assai significativa nel contesto interpretativo in cui essa si inserisce, per cui la giurisprudenza della Corte Costituzionale «non è mai pervenuta ad escludere l’ammissibilità di riserve parziali», in favore dei dipendenti, «poiché ciò comporterebbe un sostanziale disconoscimento del potere di fare eccezione alla regola attribuito al legislatore dallo stesso art. 97, quarto comma, Cost.».
Potendo la Corte poi concludere agevolmente nel senso che una riserva del 50 % dei posti [12] e non la previsione di concorsi riservati (quella sì, non legittima [13]), costituisce un ragionevole punto di equilibrio tra il principio del pubblico concorso e l’interesse a consolidare pregresse esperienze lavorative presso la stessa P.A. Ciò per la coerenza rispetto alla norma generale dell’art. 52, co. 1-bis, d. lgs. 165/2001 (secondo cui «le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso) a propria volta calibrata su precedenti indicazioni della stessa giurisprudenza costituzionale.
Da quest’ultimo punto di vista, nulla quindi di effettivamente nuovo, ma nell’insieme il sistema delineato dal legislatore ed avallato dalla Consulta appare sufficientemente elastico per consentire alla P.A. di valorizzare le proprie professionalità interne.
Se si considera l’importanza che può avere l’esperienza di settore necessaria per un efficace conduzione della dirigenza, si può anzi affermare che la soluzione non preclusiva adottata sia sintomo di un grado di maturazione più avanzato dell’ordinamento, meno condizionato da una reazione a tutti i costi verso eventuali automatismi di carriera del passato.
7. Conclusioni
Il quadro complessivo, legislativo ed interpretativo, è dunque chiaramente indirizzato nel senso di assicurare alla P.A. strumenti agili di gestione[14].
Una dirigenza ridotta, associata ad incarichi di alta professionalità al personale di maggior qualifica, ma con moduli temporalmente flessibili, esprime senza dubbio una apprezzabile duttilità organizzativa. E’ del resto chiaro che gli effetti positivi della privatizzazione del pubblico impiego non possono che esprimersi in presenza di forme elastiche e dinamiche di organizzazione datoriale[15].
D’altra parte, la necessità di non deprimere le aspettative di chi sia già dipendente va coniugata con la capacità di dare ingresso anche ad esterni muniti delle qualifiche necessarie e di dimostrata capacità. Il che ad esempio imporrà un esercizio consapevole della discrezionalità, con riferimento, ad esempio, al grado di rigore da destinare alle preselezioni degli esterni, da cui gli interni sono esonerati, onde evitare di tradurre il beneficio in una sorta di esclusiva.
Senza dubbio, al di là delle norme, comunque di portata strumentale[16], saranno quindi i fatti, i comportamenti e le persone ad essere decisivi e a permettere di verificare se l’apertura di credito del legislatore, così indubbiamente concessa, risulterà realmente funzionale all’auspicato – e sinceramente non rimandabile in un paese evoluto - buon andamento (inteso come efficiente funzionamento) del sistema amministrativo.
[1] Sulle posizioni organizzative, in generale, v. V. Tenore, Il manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2020, 218 ss., nonché A.M. Perrino, L’inquadramento, le mansioni, lo ius variandi e le progressioni, in AA.VV., Lavoro pubblico, Milano, 2018, 228 ss.
[2] V. Cass. 29 maggio 2015, n. 11198 e, più di recente, Cass. 25 ottobre 2019, n. 27384; analogamente, rispetto all’istituzione della c.d. vicedirigenza, v. Cass. 2 dicembre 2019, n. 31378 e Cass. 6 novembre 2018, n. 28247.
[3] V. G. Mammone, art. 40, in Commentario breve alle leggi sul lavoro, fondato da M Grandi e G. Pera, a cura di R. De Luca Tamajo e O. Mazzotta, 1713.
[4] Una ricostruzione del tema delle posizioni organizzative, con ampio richiamo anche ai precedenti di legittimità, è contenuta in Cass. 3 aprile 2018, n. 8141, nel cui contesto si rintraccia anche la conclusione per cui «ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento di formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa».
[5] Cass. 10 luglio 2020, n. 14814 ha recentemente chiarito che «il conferimento di un incarico dirigenziale a termine ai funzionari dell'Agenzia delle Entrate, ai sensi dell'art. 24 del regolamento di organizzazione dell'ente e poi dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 44 del 2012, si innesta su un rapporto di lavoro subordinato già esistente ed in quanto equiparabile all'ipotesi della reggenza, o dell'esercizio di mansioni superiori, non determina la costituzione di un rapporto dirigenziale a termine assimilabile a quello con i soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali della P.A. ex art.19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001».
[6] Peraltro, le regole sulla revocabilità delle posizioni organizzative dipendono anche dalle previsioni della contrattazione collettiva. V. in proposito, Cass. 2 settembre 2010, n. 19009, secondo cui «in materia di incarichi dirigenziali per le posizioni organizzative del personale degli enti locali, l'art. 9 del C.C.N.L. comparto Regioni ed autonomie locali - personale non dirigente - del 31 marzo 1999 consente la revoca dell'incarico prima della scadenza solo con atto scritto e motivato ed in relazione ad intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi; ne deriva l'illegittimità dell'atto che revochi anticipatamente l'incarico in difetto di tali presupposti, anche se non vi sia dequalificazione ma la restituzione a compiti rientranti della qualifica posseduta; analogamente, Cass. 18 aprile 2017, n. 9728 ha ritenuto che la revoca della posizione organizzativa prima della scadenza può essere disposta, ai sensi degli artt. 109 del d.lgs. n. 276 del 2000 e 9, comma 3, del c.c.n.l. del 31 marzo 1999, per casi determinati, correlati a profili disciplinari o al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, sicché è illegittima se motivata sulla base del mero mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
[7] In argomento, con riferimento alla performance dei dirigenti, v. V. Tenore, Il Manuale del pubblico impiego, cit. , 793
[8] Su tutti i predetti punti la Corte Costituzionale si allinea con l’orientamento consolidato della S.C.: v. Cass. 30 marzo 2015, n. 6367 e, poi Cass. 10 luglio 2019, n. 18561, citata anche dalla Corte Costituzionale.
[9] Per la ricostruzione dell’intera vicenda, v. ancora V. Tenore, Il Manuale del pubblico impiego, cit. , 769 ss.
[10] V. sul tema, Cass. 5 luglio 2005, n. 1089, in Lav. p.a., 2006, 1089, con nota di P. Matteini, La Cassazione e i "quadri" nel settore pubblico.
[11] Sulle posizioni organizzative quali strumenti utile alla motivazione del personale più capace, v. G. Nicosia, L’accesso alle amministrazioni e la “carriera” dei dipendenti pubblici nel prisma delle procedure selettive e concorsuali, in Lav. p.a., 2012, 139.
[12] Sui concorsi con riserva di posti, v. A.M. Perrino, L’inquadramento, cit., 222
[13] v. Corte Costituzionale 1 luglio 2013, n. 167, in Giur. Cost., 2013, 2487; Corte Costituzionale 21 aprile 2005, n. 159, in Giur. Cost., 2005, n. 1290, con annotazione di R. Alesse, Corte Costituzionale 16 maggio 2002, n. 194, in Giur. Cost., 2002, 1521, con nota di F. Giglioni; Corte Costituzionale 4 gennaio 1999, n. 1, in Giur. Cost., 1999, 1.
[14] V. A. Bianco, Gli incarichi di posizione organizzativa per la Corte Costituzionale, in www.paefficace.it, 2020.
[15] L. Zoppoli, La dirigenza pubblica tra mancata riforma e persistenti equivoci, in La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, a cura di M. Esposito, V. Luciani, A. Zoppoli, L. Zoppoli, sottolinea come dovrebbe essere la duttilità organizzativa ad esprimere oggi il significato «più autentico, per non dire corretto, della c.d. privatizzazione del pubblico impiego».
[16] V. R. Ruffini, Percorsi di innovazione dell’organizzazione pubblica, in Lavoro pubblico fuori dal tunnel, a cura di C. Dell’Aringa e G. Della Rocca, Roma, 2017, 413, che plasticamente sottolinea come il processo di cambiamento possa trovare innesco dalle riforme, generando un cambiamento dall’alto al basso, ma per effettivamente fornire risultati imponga un mutamento delle routine organizzative di base che manifestino, secondo un andamento inverso, ovverosia dal basso, l’effettiva modificazione delle strategie e degli assetti organizzativi.
Le libertà violate e i giudici in Turchia**
di Vladimiro Zagrebelsky
*Articolo pubblicato il giorno 7 settembre 2020 sul quotidiano La Stampa, su autorizzazione dell'autore.
*In allegato, in formato pdf, i discorsi pronunciati dal Presidente della Corte Europea dei diritti dell'uomo - Robert Spano - in occasione della sua visita ufficiale in Turchia, presso l'Accademia della Giustizia della Turchia il 3 settembre 2020 e presso l'Università di Istanbul il 4 settembre 2020.
I presidenti della Corte europea dei diritti umani compiono regolarmente visite in ciascuno dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Qualche volta si tratta di visite che consentono contatti con le autorità locali in una atmosfera cortese, piena di complimenti reciproci. Sono allora visite piacevoli. Altre volte la visita è organizzata per avere con quelle autorità un duro confronto sui temi che in quel Paese vedono gravi o persistenti violazioni della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In questi casi la buona educazione e certe regole protocollari, consentono lo svolgimento della visita secondo il programma. Ma il confronto è durissimo e non serve solo a mettere le cose in chiaro con governi che violano gli obblighi assunti ratificando la Convenzione, ma anche permettono al presidente della Corte di esprimersi in pubblico, raggiungendo l’opinione pubblica generale o àmbiti specifici di essa, oggetto delle violazioni. Talora la voce del presidente, che non può essere zittito, è una delle poche che risuonano liberamente per richiamare i principi e i valori che si assumono propri dell’Europa. Fin dal 1950 la Turchia è membro del Consiglio d’Europa e ha avuto una storia complessa quanto a democrazia, diritti e libertà fondamentali. Una storia che ha visto fasi in cui, anche con riforme costituzionali e mutamenti di prassi, essa ha introdotto nel suo sistema regole che altrove in Europa sono stabilmente acquisite. La fase attuale, che fa seguito al fallito colpo di stato del 2016, è di segno contrario ed è gravissima la situazione delle libertà e dei diritti individuali, condizioni essenziali della democrazia. A centinaia sono stati arrestati o destituiti giudici, avvocati, insegnanti. Con le scuole e le università, la magistratura è stata drasticamente epurata. Molti sono stati colpiti, tutti, si può pensare, sono stati intimiditi. La visita compiuta in Turchia dal presidente della Corte europea, Robert Spano, si è svolta in un simile, grave e teso contesto. Poche altre missioni sono state così difficili, ma proprio per questo anche utili. Certe perplessità che anche in Italia sono state sollevate sulla opportunità del viaggio nella attuale Turchia, si dimostrano prive di fondamento se solo si legge ciò che il presidente ha detto e si tiene conto di dove lo ha detto (il sito della Corte europea ne riporta il testo). Il tenore di ciò che ha detto in pubblico corrisponde certo a quello dei colloqui privati con Erdogan, il ministro della giustizia, i presidenti della Corte costituzionale e della Corte di cassazione. Svolgendo una lezione in una delle Università di Istanbul che gli ha offerto una laurea honoris causa, il presidente della Corte europea ha esordito dicendo di avere accettato quell’onore solo perché si trattava di un momento protocollare, mai rifiutato in nessuno Stato membro del Consiglio d’Europa, ma anche perché la cerimonia gli dava occasione di sottolineare l’importanza della libertà accademica e della libertà di espressione in una democrazia retta dallo Stato di diritto. Dopo questa non usuale apertura, Spano ha sottolineato che tra le libertà di pensiero e di espressione, quella accademica è particolarmente importante. Lo ha detto proprio in una Università che ha subìto la drastica espulsione di docenti. Ma non si è trattato di un discorso di taglio teorico, poiché ha fatto seguito la dettagliata menzione dei fatti che hanno portato ad una recente sentenza della Corte europea di condanna della Turchia per violazione della libertà di espressione di un professore, sanzionato per avere partecipato ad una trasmissione televisiva senza aver chiesto il permesso alla sua Università. Il discorso era rivolto alle autorità accademiche presenti, naturalmente, ma soprattutto ai docenti che vivono in una atmosfera di oppressione e che però hanno sentito richiamati non solo la loro libertà, ma anche l’esempio di un loro collega che, rivoltosi alla Corte europea, ha avuto soddisfazione contro le autorità turche. E alla Scuola della magistratura, Spano ha lungamente trattato della necessaria indipendenza dei giudici sollecitando la scuola a formare i giudici a quel valore. Egli ha denunciato la grave violazione costituita dagli arresti dei giudici. Esplicitamente ha menzionato la ricorrente accusa secondo la quale «l’autorità giudiziaria costituisce una minaccia per la politica e le decisioni prese democraticamente, in particolare quando i giudici applicano le garanzie dei diritti umani» e ha sollecitato i giudici ad operare in modo indipendente come argine alle prevaricazioni del potere politico. La qualità della giustizia (un giudice non indipendente non è un giudice) è essenziale nel sistema che gli Stati europei hanno creato con la Convenzione. Infatti la protezione dei diritti e libertà della Convenzione sono prima di tutto nelle mani dei giudici statali. Solo dopo può intervenire la Corte europea se vi sono state violazioni, non riparate in sede nazionale. Il ruolo della Corte europea dei diritti umani si esercita con la decisione dei vari ricorsi che le sono presentati. Ciascun ricorso è diverso dall’altro e viene deciso sulla base degli argomenti e delle prove presentati dal ricorrente e dal governo convenuto in giudizio. Ma vi è una funzione ulteriore, nella quale il presidente ha un ruolo preminente. Si tratta della continua illustrazione dei principi che hanno mosso i Paesi membri del Consiglio d’Europa a mettere in piedi, con la Convenzione europea dei diritti e della libertà fondamentali, un sistema continentale che consente alle singole persone di denunziare ad una Corte indipendente il comportamento dei governi. Nel caso della Turchia (ma non solo di essa in questi difficili tempi) non si tratta solo di svolgere discorsi di alto tenore culturale, ma anche di contestare duramente violazioni gravi e continue. Il presidente Spano ha usato della libertà di parola che la sua posizione gli garantisce, in luoghi che molto soffrono, per dar coraggio a chi merita di ricevere un messaggio libero e giusto. Con questo la Corte, con il suo presidente, ha svolto il ruolo che le è proprio per le libertà e la democrazia europee.
Figli maggiorenni e mantenimento: la Cassazione cambia orientamento?
Nota a Cass. Civ. (ord.) Sez. I, 16 luglio/14 agosto 2020, n. 17183.
di Rita Russo
Sommario: 1. Un caso (quasi) di scuola: un figlio adulto ed una madre protettiva - 2. Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne - 3. La digressione sulla automatica estinzione del diritto al mantenimento. - 4. Considerazioni conclusive.
1. Un caso (quasi) di scuola: un figlio adulto ed una madre protettiva
Lo scenario è quello consueto delle separazioni irrisolte nel contesto delle crescenti difficoltà economiche di molte fasce sociali: un padre mette in discussione il dovere di contribuire al mantenimento del figlio maggiorenne versando alla madre un assegno periodico e l’assegnazione a quest’ultima della casa familiare. La madre, di contro, ritiene applicabile al suo caso il principio, consolidato nella giurisprudenza di merito e legittimità, che l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, non abbia raggiunto la piena indipendenza economica e in tal caso il genitore già affidatario e convivente con il figlio è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio) ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne [1].
Non è un big money case: l’uomo ha sessant’anni ed ha chiuso il negozio di ferramenta, tornando a vivere con la propria anziana madre; l’assegno di mantenimento per il figlio ammontava a 300,00 euro mensili, importo che il giudice di primo grado ha ridotto alla cifra di 200,00 euro e che la Corte d’appello, su ricorso del padre, ha totalmente eleminato, revocando anche la assegnazione della casa familiare.
Il figlio lavora come insegnante precario, non essendo ancora abilitato, in una provincia diversa da quella dove vive la madre e quindi anche la coabitazione con la stessa si è rarefatta. Il reddito del giovane, nell’anno in cui ha insegnato, è pari a poco più di 20.000,00 euro e non è chiara la ragione per la quale non abbia frequentato il tirocinio abilitativo, che gli consentirebbe di ottenere l’incarico come insegnante di ruolo, posto che pare abbia scelto definitivamente la carriera dell’insegnamento, sebbene il suo ambito professionale (musica) gli consentirebbe anche di perseguire altri progetti. Ma ha passato i trent’anni (trentatré nel 2018), e la Corte d’appello gli ricorda, o meglio ricorda alla madre, che non è più il tempo delle ambizioni adolescenziali e che ad una certa età si presume che la persona sia in grado di mantenersi, salvo situazioni eccezionali che nella specie non sono però allegate.
La madre ricorre per cassazione e osserva che il figlio non può considerarsi economicamente indipendente perché conclude soltanto dei contratti a tempo determinato e pertanto non ha conseguito una appropriata collocazione lavorativa, adeguata alle sue aspirazioni e all’altezza della sua professionalità.
Il motivo, in verità, almeno così come esposto e riassunto nella ordinanza in esame, sembra già di per sé evanescente e contraddittorio. Se effettivamente il figlio ha prescelto la carriera dell’insegnamento, alla quale si è già avviato con le supplenze annuali e se per raggiungere la posizione di insegnante abilitato gli basterebbe un tirocinio formativo il cui costo non è irrisorio ma neanche proibitivo, non si vede per quale ragione debba considerarsi escluso da una collocazione del mondo del lavoro conforme alla sua formazione e quali siano le diverse e più alte aspirazioni per le quali ha (ancora) bisogno del sostegno dei genitori. Non è dato sapere se -e ai fini del giudizio di merito avrebbe avuto una sua rilevanza- egli abbia diligentemente tentato i test di accesso ai tirocini formativi (TFA) e con quale esito, e se la ragione della mancata frequenza sia stato il diniego del padre a contribuire alla spesa. Sullo sfondo, la questione della assegnazione della casa familiare: non troppo esplicitata nelle argomentazioni difensive, posto che all’età di trentatré anni e con una vita scandita dai trasferimenti lavorativi non può parlarsi di esigenze di mantenimento dell’habitat domestico, ma considerata alla stregua di un corollario della dimostrazione della non conseguita indipendenza economica [2].
Questo è probabilmente il vero motivo del contendere: in molti casi la partita si gioca non già sulle aspirazioni di carriera dei giovani adulti e sulla loro capacità di mantenersi da soli o di trattare direttamente con i genitori un contributo, ma sul diritto del genitore già convivente con i figli e quindi assegnatario della casa familiare, in proprio ma nell’interesse della prole, a mantenere un sia pur modesto contributo mensile e la casa.
Non si sa cosa ne pensi della vicenda il giovane insegnante di musica: non è infatti obbligatoria la partecipazione del figlio maggiorenne al giudizio di revisione delle condizioni di separazione o divorzio tra i genitori ma pure, in qualche caso, sembra essere opportuna[3].
Tornando alla carriera del giovane e al suo inserimento nel mondo del lavoro, delle ambizioni adolescenziali di cui parla la Corte d’appello la madre sembra tacere: nulla sappiamo di eventuali impegni di studio o di attività svolte al fine di intraprendere una diversa e più brillante carriera, ad esempio nel mondo dello spettacolo. Sicché la condizione del giovane è esattamente quella per la quale la consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità nega il diritto al mantenimento[4]: una persona decisamente adulta, che ha concluso gli studi, ha avviato il suo inserimento nel mondo del lavoro in conformità alle sue aspirazioni e che -seppure ha mancato il passaggio dell’ascensore sociale- non sembra avere peggiorato la condizione di origine, se il padre era proprietario di un negozio di ferramenta che non ha retto l’impatto della crisi economica.
Sembra quindi che la vicenda possa risolversi con un richiamo ai consolidati orientamenti sulla necessità di evitare che il diritto al mantenimento divenga rendita parassitaria, il che consentirebbe di dichiarare inammissibili i motivi, atteso che in cassazione non è consentito una revisione del giudizio di fatto e i principi invocati dalla ricorrente sono in definitiva gli stessi che la Corte di merito ha applicato per negare il diritto al mantenimento.
Così pare avviata la soluzione del caso: il provvedimento in esame è una ordinanza, resa in esito alla camera di consiglio, il che significa che prima facie non sono state ravvisate questioni a rilievo nomofilattico, tali da richiede la pubblica udienza, e, in effetti, si esordisce affermando che i motivi sono in parte inammissibili e per altra parte infondati, richiamando la consolidata giurisprudenza in materia; una parte conclusiva tuttavia è dedicata allo sviluppo di una teoria innovativa in tema di cessazione del diritto al mantenimento del figlio e di onere della prova.
2. Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne
L’ordinanza in esame richiama una ampia rassegna della giurisprudenza di legittimità sui parametri utilizzati per decidere sul diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, ovvero sul diritto del genitore convivente con il figlio maggiorenne ma non economicamente autonomo a pretendere un contributo al mantenimento da parte dell’altro genitore [5].
In particolare si sottolinea l’importanza dell’età e come la valutazione debba necessariamente essere condotta con "rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all'età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura” [6].
La questione dell’età è importante in quei contesti in cui sono scarse le possibilità di accedere al mondo del lavoro dopo la scuola dell’obbligo e dove è forte l’istanza sociale di avviarsi ad una professione intellettuale, di regola ritenuta più prestigiosa, meno faticosa e più remunerata delle attività manuali. Un bisogno sociale coerente con quella idea dei padri costituenti che hanno voluto assicurare il bene della istruzione di alto grado anche ai capaci e meritevoli privi di mezzi, e, in genere, con l’idea che la crescita dell’individuo e quindi la sua capacità di contribuire al progresso della società cui appartiene dipende anche dal grado di cultura e formazione cui gli consente di accedere la formazione sociale di origine e cioè la famiglia: anche per questo si è finora escluso l’automatismo tra raggiungimento della maggiore età e cessazione degli obblighi genitoriali, pur dovendosi trovare un punto di equilibrio tra doveri dei genitori e diritti dei figli [7].
Punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nella indipendenza economica, formula che lascia all’interprete il compito di elaborare le concrete risposte alla varietà dei casi che possono presentarsi nella realtà dei fatti. Indipendenza economica significa stesso tenore di vita dei genitori? O significa soltanto capacità di provvedere ai bisogni essenziali? E se il figlio aspira a migliorare la sua condizione di origine? Essere capaci e meritevoli impegna i genitori ad avviare il figlio verso i “gradi più alti degli studi”? e se dopo gli studi il figlio non trova lavoro? Quid iuris se l’indipendenza economica non viene raggiunta entro una certa età? E quale sarà mai questa certa età oltre la quale i desiderata dei figli non meritano più il contributo dei genitori?
L’elenco dei quesiti potrebbe continuare a lungo perché ogni vicenda è un caso a sé e in ogni vicenda si innestano variabili potenzialmente infinte oltre che indefinibili.
In linea generale può dirsi che uno dei compiti della giurisdizione è quello di assicurare la parità di trattamento, e che pertanto nell’individuare, nel singolo caso, il punto di equilibrio di cui si è detto si dovrebbe evitare di creare ingiuste discriminazioni in danno dei figli di genitori separati, posto che questi ultimi hanno i medesimi diritti dei figli di genitori non separati.
In concreto, l’accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, e nel bilanciamento degli interessi il tempo della realizzazione delle ragionevoli aspirazioni dei figli può essere il fattore decisivo: ancora oggi resta valida l’affermazione che non può colpevolizzarsi il figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, purché nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia[8].
Nella consapevolezza che ogni caso ha le sue specificità, per mettere ordine e creare delle griglie orientative, la pratica giurisprudenziale opera una distinzione tra i giovani che si fermano alla scuola dell’obbligo e coloro che intendono proseguire gli studi.
Ai primi si richiede, pur se giovanissimi, di attivarsi immediatamente nella ricerca di una occupazione lavorativa adeguata, pur tenendo conto del lasso di tempo necessario a costituirsi un curriculum di esperienze che consenta loro di trovare una occupazione adeguatamente retribuita e non occasionale, tenendo conto che il mercato del lavoro non è facilmente accessibile a chi non può vantare né formazione specifica né esperienze lavorative. Così ad esempio l’apprendistato non è, almeno di regola, ritenuto sufficiente a dimostrare il conseguimento della indipendenza economica e quindi a determinare la cessazione del diritto al mantenimento [9].
Per i giovani che studiano, l’età in cui hanno diritto a godere del mantenimento necessariamente si eleva e, di norma, è ritenuto doveroso -se c’è la possibilità economica- mantenere i figli agli studi universitari purché vi si dedichino con diligenza ed impegno[10]. Difficilmente però nella prassi giudiziale si consente il superamento del limite dei trenta anni, salvo che ricorrano situazioni eccezionali, puntualmente allegate e dimostrate[11].
I doveri di diligente impegno nel perseguimento della autonomia economica sussistono dunque in entrambi i casi, seppure acquistano diversa configurazione: nel primo caso si chiede la ricerca diligente di un lavoro, nel secondo il diligente impegno negli studi e la loro conclusione in tempi ragionevoli. In entrambi casi il progetto di vita, se da un lato deve essere rispettoso delle capacità, inclinazioni ed aspirazioni del figlio, deve essere "compatibile con le condizioni economiche dei genitori" [12].
Non sono ammesse, come sopra si diceva, le rendite parassitarie né l’ingiustificato rifiuto di occasioni lavorative una volta conclusi gli studi: ed infatti nella ordinanza in esame vi è un esplicito richiamo al principio della autoresponsabilità, che impone al figlio di non abusare del diritto ad essere mantenuto dal genitore, principio da tempo affermato nella giurisprudenza della Corte di legittimità. Le stesse sezioni unite, nel 2014[13], pronunciandosi in tema di assegnazione della casa familiare in comodato, hanno fatto riferimento a questo principio affermando che il figlio, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione degli obblighi parentali oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché "l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione". Le sezioni unite hanno confermato e fatto proprio l’orientamento fino a quel momento sviluppato dalla prima sezione della Corte secondo la quale non si può prefissare in astratto un termine finale di persistenza dell'obbligo di mantenimento e il genitore obbligato è tenuto ad allegare e, ove sia contestato, a dimostrare (anche in via presuntiva) di aver posto il figlio nelle condizioni di raggiungere l'indipendenza economica, sfruttando al meglio le capacità e le competenze acquisite a conclusione del percorso formativo compiuto in sintonia con le sue aspirazioni e attitudini, salva ovviamente la possibilità per il figlio di dimostrare le specifiche ragioni, di tipo personale o economico-sociale, che gli hanno impedito di inserirsi nel mondo del lavoro e che giustificano la sua richiesta di prolungamento dell'obbligo genitoriale [14].
La indipendenza economica è quindi intesa come inserimento del mondo del lavoro secondo le aspirazioni, il percorso scolastico, universitario e postuniversitario del soggetto, aspirazioni da bilanciare con la situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione; equivalente alla conseguita indipendenza, al fine di escludere il diritto al mantenimento è il mancato svolgimento di un’attività produttiva di reddito o il mancato compimento del corso di studi che dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato [15]; il tutto da valutarsi caso per caso e con rigore sempre crescente al progredire della età adulta[16].
L’ordinanza in esame richiama dunque, nella sua prima parte, principi già consolidati nella giurisprudenza e dei quali, in sostanza, la Corte d’appello aveva già fatto applicazione, valorizzando l’età, il conseguimento del titolo di studi e l’avviamento nella attività lavorativa. Sebbene questi argomenti siano già sufficienti a respingere il ricorso, il Collegio sviluppa però nella seconda parte del provvedimento un ulteriore ragionamento, divergente dal consolidato orientamento formatosi in tema di persistenza del diritto al mantenimento oltre la maggiore età e onere della prova.
3. La digressione sulla automatica estinzione del diritto al mantenimento
Il Collegio giudicante esamina l’art. 337 septies c.c. in tema di pagamento dell’assegno di mantenimento al figlio non economicamente indipendente, assumendolo, in sostanza, a norma centrale nel regolamento dei rapporti economici tra genitori e figli maggiorenni. Secondo la tesi sviluppata nel provvedimento, la legge si fonda sull'assunto secondo cui l'obbligo di mantenimento permane a carico dei genitori sino al momento in cui il figlio raggiunge la maggiore età; da questo momento in poi subentra la diversa disposizione di cui all’art 337 septies c.c. il cui significato sarebbe che l'obbligo non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le "circostanze" del caso concreto.
Si legge infatti nell’ordinanza in commento: “Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l'attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente….. La legge, quindi, fonda l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, in concomitanza all'acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età”. Non è pertanto necessario stabilire in via legislativa un termine finale del diritto al mantenimento (salva l’obbligazione alimentare ex art 404 c.c.) perché “sulla base del sistema positivo, tale limite è già rinvenibile e risiede nel raggiungimento della maggiore età, salva la prova (sovente raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per l'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l'indipendenza economica”.
E’ certamente innovativa la affermazione che il giudice può attribuire un diritto prima inesistente: sembra però che qui in realtà si discuta non già della inesistenza, ma della estinzione del diritto e dell’onere della prova sulle cause impeditive dell’effetto estintivo altrimenti prodotto dal conseguimento della maggiore età. L’ordinanza prosegue infatti affermando che l’onere della prova grava sul richiedente e cioè sul figlio maggiorenne, anche in virtù del principio della vicinanza alla prova, pur potendosi ricorrere a presunzioni favorevoli, in particolare quando la maggiore età è stata raggiunta da poco.
La regola che il diritto al mantenimento si estingua al sopravvenire della maggiore età, salvo che il figlio non offra la prova di essere diligentemente impegnato nella ricerca di un lavoro o in un percorso di studi compatibile con le risorse della famiglia, non è però esplicitamente affermata dall’ art. 337 septies c.c., che in verità non tratta neppure dei doveri dei genitori verso i figli maggiorenni ma solo della modalità con il quale il dovere di mantenimento si assolve – in taluni casi- nei confronti di costoro: e cioè con il pagamento di un assegno periodico, qualora non sia ancora conseguita l’autonomia economica, versato direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice.
La norma è inserita nel capo secondo (esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento del matrimonio etc..) del titolo IX (diritti e doveri dei figli) il cui capo primo esordisce con l’ormai noto statuto dei diritti del figlio (artt. 315 e 315 bis), prosegue con l’art. 316 sulla responsabilità genitoriale e con l’art. 316 bis sul dovere di mantenimento dei figli, norme che precedono quella esaminata dal Collegio giudicante e ne definiscono il significato.
La lettura sistematica orienta verso l’affermazione che non è dall’art. 337 septies c.c. che discendono i doveri dei genitori verso i figli, stabiliti invece dai precedenti artt. 315 e ss., ma piuttosto che questa norma regola le modalità di esercizio dei diritti dei figli maggiorenni e di adempimento dei doveri genitoriali in caso di separazione, divorzio, cessazione della convivenza; in altre parole quando cessa lo spontaneo e concordato adempimento dei doveri genitoriali ed è necessario rivolgersi al giudice. Se i genitori convivono in armonia, i doveri verso i figli si assolvono con la prestazione diretta del mantenimento oltre che di assistenza morale e materiale. In una situazione di conflitto, quando si ricorre al giudice, quest’ultimo, può, valutate le circostanze, attribuire al figlio maggiorenne (o al genitore con lui convivente) un assegno di mantenimento: l’unico modo per rendere quantificabile e coercibile almeno una delle prestazioni genitoriali, posto che il diritto all’ assistenza morale e materiale, nella parte in cui è espressione del “diritto all’amore” dei genitori [17] è una prestazione infungibile e incoercibile, se non, forse ed entro certi limiti, con i mezzi indiretti.
La norma centrale sui diritti del figlio, che correlativamente definisce anche i doveri dei genitori, non è l’art. 337 septies, bensì l’art. 315 bis c.c. introdotto dalla legge di riforma della filiazione 10 dicembre 2012 n. 219/2012, che non distingue tra i diritti del figlio maggiorenne e del figlio minorenne se non al comma terzo, per il diritto di ascolto, proprio solo del figlio minorenne perché quest’ultimo non ha la capacità di agire e attraverso l’ascolto è comunque ammesso ad esprimere la propria opinione e le proprie esigenze sulle questioni che lo riguardano. Analogamente né l’art. 316 né l’art. 316 bis c.c. distinguono tra figli minorenni e figli maggiorenni.
La ragione di questa mancata distinzione ben si comprende ove si consideri che la riforma della filiazione, completata con il D.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, ha sostituito l’obsoleto istituto della potestà genitoriale con quello della responsabilità genitoriale, sostituzione che non è, come la più avveduta dottrina ha osservato, meramente terminologica, ma costituisce un cambio di rotta e una innovazione che testimonia una mutata considerazione del rapporto tra genitori e figlio nella quale vengono posti in primo piano i diritti di quest’ultimo [18].
La dottrina ha infatti sin dal primo momento evidenziato un particolare elemento di differenziazione sostanziale che caratterizza la responsabilità genitoriale rispetto alla potestà e ne testimonia il carattere più ampio e che si coglie sotto il profilo dell’assenza di una limitazione temporale, che era originariamente era fissato dall'art. 316 c.c. al compimento della maggiore età dei figli o alla loro emancipazione[19]. Pertanto, pur cessando i poteri di rappresentanza, la cura che il genitore deve prestare al figlio prosegue ben oltre il raggiungimento della maggiore età e fino al conseguimento della indipendenza economica. L’adempimento degli obblighi corrispondenti ai diritti previsti dall’art. 315 bis c.c., nel rispetto – o, comunque, tenendo conto – delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni del figlio, costituisce l’oggetto principale della “responsabilità genitoriale”: per cui, come sottolinea la relazione illustrativa, la responsabilità in quanto tale non viene meno con la maggiore età, ma perdura, quantomeno nella sua componente “economica”, sino a che il figlio non abbia raggiunto l’indipendenza [20].
Nella relazione illustrativa al D.lgs. 154/2013 è infatti esplicitamente affermato che “Rispetto alla precedente nozione di potestà genitoriale si è preferito non indicare un termine finale, che invece ritroviamo nella previgente formulazione del primo comma dell'articolo 316 …… Il concetto di responsabilità genitoriale è necessariamente più ampio, in quanto nella sua "componente" economica vincola i genitori al mantenimento dei figli ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino cioè al raggiungimento della indipendenza economica, come ormai pacificamente affermato nel diritto vivente. Si è scelto, pertanto, di eliminare ogni riferimento alla "durata" della responsabilità genitoriale inserendo tale specificazione solo dove necessario”. Se la responsabilità genitoriale non si estingue automaticamente al compimento della maggiore età, non si estinguono neppure, per questa causa, i doveri ad essa connessi; il conseguimento della maggiore età determina solo la cessazione dei poteri di rappresentanza, impensabili nei confronti di un soggetto che ha acquistato la capacità di agire.
4. Considerazioni conclusive
Se le premesse sulla responsabilità genitoriale sono corrette non può che conseguirne una considerazione: dire che la legge fonda l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori all'acquisto della maggiore età, significa offrire una lettura dell’art. 337 septies c.c. non convalidata dalla lettera della norma e in contrasto con il sistema in cui essa si inserisce, poiché nessuna delle principali disposizioni che sanciscono i diritti dei figli (art. 30 Cost., artt. 315 bis e 316 c.c.) prevede limiti temporali predeterminati, e, come è stato recentemente osservato, i doveri nei confronti dei figli scaturiscono dalla filiazione e prescindono dall’esistenza di poteri nei loro confronti[21].
Del resto lo stesso principio di autoresponsabilità, cui richiamare il figlio per impedirgli di abusare del suo diritto [22], ha una valenza in quanto si giustappone al principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status[23].
Ciò che si ricava da una lettura contestuale e complessiva della norme che regolano la filiazione, illuminate dalla disposizione contenuta nell’art. 30 della Costituzione, è che il ruolo di supporto dei genitori, pur diversamente modulandosi al conseguimento della maggiore età, termina solo nel momento in cui il figlio si inserisce (o avrebbe dovuto farlo secondo i paramenti di una diligente condotta) in modo indipendente ed autonomo nella società[24]. Di conseguenza, il significato dell’art. 337 septies c.c. non è quello di costituire ex novo il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, bensì quello di prevedere al tempo stesso una causa di estinzione (l’indipendenza economica) dei doveri genitoriali che altrimenti si protraggono ex lege oltre la minore età, e le modalità con le quali questo dovere -ove non sussista la predetta causa di estinzione- può essere assolto nei confronti dei figli maggiorenni in caso di separazione, divorzio etc.
Del resto, questa è l’interpretazione finora corrente e consolidata nella giurisprudenza di legittimità che da oltre vent’anni afferma che l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro nel mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua invariato finché i genitori o il genitore interessato non diano la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, oppure finché non diano la prova che il figlio è stato da loro posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, quand'anche poi non ne abbia tratto profitto per sua colpa[25].
Anche sotto il profilo processuale la tesi oggi esposta dalla Cassazione si rivela poco soddisfacente.
E’ già stato osservato che ipotizzare una automatica estinzione del diritto al mantenimento con la maggiore età salvo che il figlio chieda (e ottenga) il mantenimento, lascerebbe il figlio, proprio in concomitanza con il periodo in cui- anche secondo la stessa ordinanza in esame- gioca in suo favore la presunzione di giustificata assenza di indipendenza economica, privo sostegno per periodi più o meno lunghi, secondo i tempi processuali[26]. Tuttavia il provvedimento non afferma che il genitore onerato possa ipso facto smettere di pagare l’assegno il giorno del diciottesimo compleanno del figlio. Sembra anzi che si richieda una previa verifica giudiziale sulla sussistenza di una ragione ostativa alla ritenuta estinzione conseguente alla maggiore età. Ma, se è pur sempre necessario il ricorso al giudice, non si può identificare il convenuto con il soggetto passivo del rapporto, posto che spetterebbe comunque al genitore onerato dell’obbligo di mantenimento chiedere la predetta verifica, anche al fine di non rischiare che gli si addebiti la violazione degli obblighi di assistenza familiare. Sarebbe anche difficile qualificare “richiedente” il figlio che nel giudizio di revisione delle condizioni di separazione e divorzio non abbia spiegato neppure un intervento, e ancora di più il figlio divenuto maggiorenne nel corso di un giudizio di separazione o divorzio già instaurato; di contro, richiedente l’assegno potrebbe essere il genitore convivente, in virtù della legittimazione concorrente di cui si è detto, che in un giudizio volto a far dichiarare la cessazione dell’obbligo di mantenimento ha di regola posizione processuale di convenuto.
Ciò contribuisce a dimostrare che non ci si può sganciare dall’idea che non è la maggiore età, ma il conseguimento dell'indipendenza economica il fatto estintivo della obbligazione legale che grava sui genitori e che, come tutti i fatti estintivi del credito, deve essere provato dal debitore; non si può, perché la riforma della filiazione ha configurato la responsabilità genitoriale come priva del limite temporale già inerente alla potestà, dando così una chiara indicazione in proposito, e quindi si introdurrebbero nel sistema elementi di incoerenza.
Inoltre, lo stesso principio di vicinanza alla prova appare un richiamo più suggestivo che effettivo, considerati i parametri con i quali si valuta la diligente condotta del figlio nell’attivarsi per trovare una occupazione. Non può dirsi che per il genitore onerato è impossibile o oltremodo difficile procurarsi la prova delle attività del figlio e del suo più o meno diligente impegno. Se il figlio è studente universitario il genitore ha diritto di accesso a tutta la documentazione universitaria (iscrizione, indicazione di data degli esami sostenuti e della relativa votazione); se lavora, o ha lavorato, l’Agenzia delle entrate deve consentire di estrarre tutta la documentazione concernente i redditi del figlio [27]. Inoltre, il fattore tempo può giocare un ruolo decisivo nel raggiungimento della prova per presunzioni, che possono formarsi in favore dell’una o dell’altra parte.
Infine, resta il dubbio sulla necessità di una ricostruzione così divergente dai principi finora consolidati, posto che nella fattispecie il risultato finale era già agevolmente argomentabile con il richiamo dei precedenti; nulla cambia per il caso in esame, ma le affermazioni contenute nella ordinanza potrebbero essere invocate in ben altri scenari e con conseguenze, anche sull’aumentare del contenzioso, che al momento è difficile prevedere.
[1] Cfr. Cass. civ. 14.12.2018 n. 32529.
[2] Cfr. Cass. civ. 24.6.2013 n. 15753.
[3] Cass. civ. 19.3.2012 n. 4296.
[4] Cfr. per tutte Cass. civ. 22.6.2016 n. 12952.
[5] Cfr. Cass. civ., 10.1.2014, n. 359.
[6] Cass. civ. 22.2.2016 n. 12952 cit; Cass. civ. 5.3.2018 n. 5088.
[7] in dottrina si veda Fortino, Diritto di famiglia. I valori, i principi, le regole, Milano, 1997, 345 ss. e 384; Di Stefano, L'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne: tra esigenze di tutela e pericolo di parassitismo sine die, in Fam. pers. succ., 2009, 68 ss.
[8] Cass. civ. 3.4.2002 n. 4765.
[9] Cass. civ. 11.1.2007, n. 407; Trib. Roma 18.5.2020.
[10] Cass. civ. 1.2.2016, n.1858; App. Catanzaro 12.05.2020, n.437; App. Catania 13.7.2017.
[11] Cass. civ. 20.8.2014 n. 18076; Trib. Milano 29.3.2016.
[12] Cass. civ. 11.01.2007, n.407; App. Roma, 14.10. 2016 n.6080.
[13] Cass. civ. sez. un., 29.09. 2014, n.20448.
[14] Cass. civ. sez. I 20.8.2014 n. 18076.
[15] Cass. civ. 26.9.2011 n. 19589; Cass. civ. 8.8. 2013 n. 18794 e la già citata Cass. 12952/2016.
[16] Cass. civ. 6.12.2013 n. 27377; Cass. civ. 05.03.2018 n. 5088; Trib. Padova, 13.6.2018 n.1296.
[17] C. M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, 775.
[18] Si veda: C. M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, V ed., Milano, 2014, 330; Id., Note introduttive, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 437; M. Bianca, Tutti i figli hanno lo stesso statuto giuridico, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 507 ss.; Berretta, Introduzione, in Filiazione. Commento al decreto attuativo, in M. Bianca (a cura di), Milano, 2014, XVII; M. Dossetti, M. Moretti, C. Moretti, La riforma della filiazione: aspetti personali, successori e processuali. L.10 dicembre 2012, n. 219, Bologna, 2013.
[19] Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari in Fam. e dir. 5, 2014, 466.
[20] In questi termini anche Salanitro, Riforma della filiazione, Treccani libro dell’anno 2015; l’A. peraltro rappresenta il dubbio se “il potere di indirizzo, consiglio ed orientamento, che costituiva il nucleo centrale dell’esercizio della potestà dei genitori, sia anch’esso limitato alla minore età, secondo la regola tradizionalmente accolta, o abbia una durata indefinita rispondente alle capacità e alle esigenze del figlio”.
[21] In questi termini, e con giudizio fortemente critico sull’ordinanza in esame v. De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso dalla recente pronuncia della S.C. in www.foroitaliano.it 24 agosto 202.
[22] sull’abuso del diritto al mantenimento v. anche Cass. 12952/2016 cit.
[23] Corte Cost. 13 maggio 1998 n. 166.
[24] Ulteriori riferimenti in Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari in Fam e dir. 3, 2013 237; si veda anche Arceri, Il mantenimento dei figli maggiorenni, in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di Sesta e Arceri, 448 ess.; Bianca C. M. La nuova disciplina separazione dei genitori e affidamento dei figli in Dir. Famiglia 2006, 679.
[25] Cass. civ. 14.12.2018 n. 32529; Cass. civ. 26.9.2011 n. 19589; Cass. civ. 2.9.1996 n. 7990; Cass. civ. 7.5.1998 n. 4616; Cass. Civ. 7.4.2006 n. 8221.
[26] De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso, cit.
[27] TAR Puglia 2.5.2017, n. 872; Cons. Stato, 16.9. 2003, n. 5240.
“Non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso decreto presidenziale monocratico
Con il decreto 628 del 25 08 2020 il Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Siciliana ha dichiarato il “non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso un decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a.
Nonostante l’appellabilità delle pronunce cautelari monocratiche sia testualmente esclusa dall’art. 56, c. 2, c.p.a., che qualifica esplicitamente come “non impugnabile” il decreto motivato con il quale il presidente o il magistrato da lui delegato provvede sulla domanda di parte ricorrente di concessione di misure cautelari provvisorie, non sono mancate pronunce che hanno ritenuto ammissibile l’appello di tali decreti (Cons Stato, Sez. IV, 7 dicembre 2018 n. 5971; Sez. III, 11 dicembre 2014 n. 5650; Id., 24 giugno 2019 n. 3246; Id., 30 marzo 2020 n. 1553. In dottrina per un primo commento v. M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione del’art 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid – 19, 31 marzo 2020).
La pronuncia del giudice di secondo grado siciliano si segnala pertanto per ribadire la chiara voluntas legis, nel senso della esclusione della possibilità di appellare il decreto cautelare monocratico.
Ma non solo.
La formulazione del dispositivo non si limita alla classica dichiarazione d’inammissibilità o irricevibilità dell’appello, ma statuisce il “non luogo a provvedere”. La motivazione ne chiarisce la ragione, sottolineando che era stato chiesto “un rimedio giuridico inesistente secondo il vigente tessuto processuale” e precisando che “sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti non vi è luogo a provvedere, perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l’affare all’esame del collegio”.
Sul piano teorico, una pronuncia d’inammissibilità dell'appello, o anche, volendo sottolineare la mancanza di un presupposto o di un requisito essenziali per poter considerare esistente l’atto processuale, di sua irricevibilità, avrebbe a ben vedere creato meno problemi sotto il profilo del rispetto del principio della domanda o del divieto di non liquet, come normalmente avviene nel giudizio di primo grado allorquando si esclude che l’atto sia impugnabile.
L'atipicità del dispositivo non sembra peraltro trovare specifica giustificazione nella circostanza, parimenti messa in evidenza nella motivazione della pronuncia, che “il ricorso risulta depositato e iscritto a ruolo mediante una “forzatura” del sistema informatico, con attribuzione della classificazione errata quale “appello avverso ordinanza cautelare”, essendo inesistente la tipologia “appello avverso decreto cautelare””. Anche sotto questo profilo, una pronuncia di semplice inammissibilità avrebbe evitato di porre il problema della rilevanza e della esatta qualificazione della difformità dal modello di deposito predisposto dal sistema informatico, ipotesi per la quale non può a priori e in assoluto escludersi la possibilità di qualificazione anche in termini di mera irregolarità.
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