Il diritto al risarcimento del militare per i danni subiti a causa dell’esposizione all’uranio impoverito (nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560).
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso di specie. – 3. La competenza del giudice amministrativo: sede di servizio o residenza del danneggiato? – 4. Il dovere del militare di esporsi al pericolo e il dovere dell’amministrazione di circoscrivere i rischi prevedibili e prevenibili. – 5. La responsabilità dell’amministrazione della difesa in qualità di ente datore di lavoro. – 6. Il nesso eziologico del “più probabile che non”. – 7. La notorietà del pericolo. – 8. La necessità del fattore causale fortuito. – 9. Il dictum della sentenza.
1. Premessa.
La sentenza in commento definisce i limiti della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dal militare nell’ambito dell’esercizio delle proprie funzioni, a causa dell’esposizione alla sostanza tossica dell’uranio impoverito[1]. La questione dei danni alla salute derivanti da tale sostanza negli ultimi decenni ha acquisito un’importanza crescente visto il moltiplicarsi di richieste di risarcimento e di indennizzo formulate all’amministrazione da militari di ritorno dalle missioni all’estero[2]. La sentenza in commento – confermando l’impostazione del giudice veneto di prime cure[3] – conferma la responsabilità della pubblica amministrazione per tali danni fornendo un interessante affresco sul complesso dei rispettivi doveri nel rapporto tra l’amministrazione della difesa e il militare impiegato nelle missioni “di pace”. Da tale analisi – si anticipa sin d’ora – viene delineata una responsabilità “da posizione” della pubblica amministrazione a cui si ricollega un preciso dovere di proteggere il cittadino-soldato da ogni forma prevedibile e prevenibile di pericolo (non strettamente dipendente da azioni belliche), garantendogli i più adeguati strumenti di tutela per la sua salute e adottando ogni misura idonea ad evitare i danni derivanti da lesioni alla sua integrità fisica e morale.
2. Il caso di specie.
Il caso di specie riguarda un militare, capitano dell’esercito italiano, che si rivolge al giudice amministrativo per ottenere il risarcimento del danno conseguente all’infermità derivata dalla sua partecipazione ad alcune missioni all’estero (in Bosnia e in Somalia) nel corso delle quali sarebbe stato esposto al contatto con sostanze contaminanti altamente tossiche, fra le quali l’uranio impoverito. La fondatezza della pretesa risarcitoria, secondo l’impostazione del ricorrente, sarebbe indirettamente confermata sia dal riconoscimento amministrativo della dipendenza della patologia da causa di servizio, sia dall’attribuzione della qualità di “vittima del dovere”, con i conseguenti benefici economici. Il T.A.R. Veneto adito, previo esperimento di apposita C.T.U. affidata ad un dirigente medico dell’I.N.A.I.L., ha dichiarato la sussistenza del nesso causale fra l’esposizione all’uranio impoverito e la neoplasia diagnosticata al militare, riconoscendogli un grado di invalidità del 30% e liquidandogli il conseguente danno non patrimoniale secondo le Tabelle di Milano per l’anno 2014[4], previa compensatio lucri cum damno[5]. Avverso tale sentenza il Ministero della difesa ha presentato appello con il quale: in rito, ha riproposto l’eccezione di incompetenza territoriale del T.A.R. Veneto e, nel merito, ha contestato la sussistenza del nesso di causalità tra neoplasia e il servizio svolto in missione dal militare sostenendo, da una parte che non «non risulta comprovato l’utilizzo di uranio impoverito in Somalia» e, dall’altra, che il Ministero resistente «fino al dicembre 2000 non era a conoscenza dell’impiego di munizionamento all’uranio impoverito in Bosnia». Il Consiglio di Stato rigetta il proposto appello confermando la responsabilità dell’amministrazione della difesa per il risarcimento del danno subito dal militare.
3. La competenza del giudice amministrativo: sede di servizio o residenza del danneggiato?
Prima di affrontare il merito della questione, il Consiglio di Stato si pronuncia sull’eccezione di difetto di competenza territoriale del T.A.R adito riproposta in appello. Secondo il Ministero appellante al caso di specie si dovrebbe applicare il disposto dell’art. 13, comma 2 c.p.a. che prevede un’ipotesi di competenza funzionale in relazione alle controversie riguardanti pubblici dipendenti per le quali sarebbe inderogabilmente competente il Tribunale nella cui circoscrizione territoriale è situata la sede di servizio del dipendente[6]. Il Giudice d’appello sul punto, però, ritiene di condividere quanto affermato dal T.A.R. Veneto (ritenutosi competente) secondo il quale la succitata ipotesi di competenza funzionale presuppone l’attualità del rapporto di servizio che, nel caso di specie, era già venuta meno all’atto del radicamento del giudizio di prime cure. Deve, pertanto, applicarsi l’ordinario criterio generale dell’estensione territoriale della res controversa, nel caso in questione limitata al Veneto, Regione di residenza del ricorrente all’epoca dell’introduzione del giudizio.
Questione non trattata dalla sentenza in commento, invece, è quella relativa alla giurisdizione su tali richieste risarcitorie che, nel recente passato, è stata spesso contesa dal giudice amministrativo e da quello ordinario. Secondo l’orientamento ormai consolidato della Corte di cassazione, il riparto della giurisdizione, rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della integrità psico-fisica proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell’amministrazione, è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta: se viene fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; se, invece, è stata dedotta la responsabilità extra-contrattuale, la giurisdizione spetta al giudice ordinario[7]. Quindi, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda proposta da un militare italiano nei confronti del Ministero della difesa per il risarcimento dei danni alla salute subiti in conseguenza dell’esposizione all'uranio impoverito «essendo stata dedotta quale condotta colposa dell’Amministrazione l’averlo fatto operare in un ambiente irreversibilmente inquinato senza fornirgli le necessarie dotazioni di sicurezza e senza averlo informato dei rischi connessi all’esposizione e perciò sulla base di una condotta che non presentava un nesso meramente occasionale con il rapporto di impiego, ma costituiva la diretta conseguenza dell’impegno del militare in un “teatro operativo”, senza adempiere, secondo l’assunto, all’obbligo di provvedere alla tutela del personale impiegato nelle operazioni»[8].
4. Il dovere del militare di esporsi al pericolo e il dovere dell’amministrazione di circoscrivere i rischi prevedibili e prevenibili.
Passando all’analisi del merito della questione, il Collegio d’appello individua quali sono i rischi rispettivamente ascrivibili in capo all’amministrazione e al singolo militare, col fine di individuare (o meno) la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni subiti dal soldato nell’ambito delle missioni svolte all’estero.
Secondo la sentenza, per evitare la propria responsabilità, l’amministrazione della difesa sarebbe giuridicamente tenuta: ad informarsi preventivamente della concreta ed effettiva situazione (militare, politica, sociale, sanitaria, ambientale) del contesto operativo; ad accertarsi della piena idoneità psico-fisica dei militari, adottando tutte le opportune profilassi; a fornire al personale tutti gli strumenti di protezione individuale ragionevolmente utili al fine di prevenire i possibili rischi, ivi inclusi quelli connotati da una bassa probabilità statistica.
Per quanto riguarda i doveri del militare, invece, esso avrebbe il dovere giuridico di esporsi ad una serie di pericoli connessi alla sua presenza in un contesto di guerra (c.d. rischio bellico), ossia: il pericolo recato dalle forze nemiche; i rischi inevitabilmente connessi con l’uso, il maneggio e la conservazione del materiale bellico; l’ontologica insidia recata dalla permanenza fisica in contesti operativi instabili e in quanto tali pericolosi, benché formalmente pacificati.
Quindi, questo dovere del militare di esporsi al c.d. rischio bellico non può essere inteso come base per affermare che sul militare gravi ogni tipo di rischio dipendente dalla sua presenza fisica nel teatro delle operazioni, poiché ad esso si contrappone il dovere della pubblica amministrazione di proteggere il cittadino-soldato dagli altri pericoli in loco, ossia quelli non strettamente dipendenti dalle azioni belliche, dotandolo dei necessari presidi sanitari e di equipaggiamenti adeguati.
Pertanto, sul militare grava il c.d. rischio bellico, mentre sull’amministrazione grava l’insieme dei diversi e ulteriori rischi connessi alla presenza del militare in tale contesto, sempre che siano rischi concretamente prevedibili (in quanto non implausibili) ed oggettivamente prevenibili.
5. La responsabilità dell’amministrazione della difesa in qualità di ente datore di lavoro.
Premesso tale riparto dei rischi tra l’amministrazione della difesa e il militare, il Collegio entra in medias res cercando di indagare se il comportamento omissivo della pubblica amministrazione possa costituire fonte di responsabilità per i danni subiti dal ricorrente. A tal riguardo viene evidenziato che l’amministrazione della difesa, quale datore di lavoro, è sottoposta agli obblighi di protezione stabiliti dall’art. 2087 c.c., che impone a quanti ricorrano all’utilizzo di energie lavorative di terzi di adottare le misure idonee, secondo un criterio di precauzione e di prevenzione, a «tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». La disposizione, secondo il Collegio, enuclea un dovere di protezione che ha valore di principio generale nell’approntare una tutela del prestatore di lavoro e, come tale, integra un referente normativo di impatto sistemico che trova applicazione anche nel caso del rapporto di impiego o, comunque, di servizio fra il militare e l’amministrazione della difesa.
La sentenza in commento, quindi, si inserisce in quel filone giurisprudenziale, divenuto maggioritario in tempi recenti, che qualifica la responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero come una responsabilità contrattuale in base all’art. 2087 c.c.[9]. Ciò non toglie, sempre secondo la pronuncia, che allafattispecie si debba applicare anche l’art. 2050 c.c., il quale, pur se dettato in punto di responsabilità extra-contrattuale, ha una potenzialità normativa “espansiva”, in quanto anch’esso costituisce l’espressione di un principio generale. Secondo questa norma le conseguenze dannose delle attività pericolose gravano in capo a colui che le pone in atto, salva la prova dell’adozione di «tutte le misure idonee ad evitare il danno».
Tali generali coordinate normative vengono poi calate nella specificità delle funzioni dell’amministrazione della difesa che invii personale militare in missione: infatti, le misure che deve adottare il datore di lavoro militare risentono della particolarità del lavoro svolto dal soldato. L’amministrazione è tenuta, prima di procedere all’esecuzione materiale della missione, ad una rigorosa analisi del contesto ambientale, ad una puntuale enucleazione dei possibili fattori di rischio e, quindi, ad una conseguente individuazione delle misure tecnico-operative concretamente disponibili e potenzialmente idonee ad eliminare o, comunque, ad attenuare il più possibile i rischi per la salute dei militari.
6. Il nesso eziologico del “più probabile che non”.
Una volta inquadrata la responsabilità della pubblica amministrazione nell’ambito del genus di quella contrattuale datoriale ex art. 2087 c.c., il Collegio svolge delle interessanti considerazioni relative al nesso eziologico, osservando che «in tema di illecito civile, il nesso causale ha veste probabilistico-statistica (“più probabile che non”) e non richiede, dunque, quella certezza di contro propria dell’accertamento penale». Tale carattere “attenuato” della prova richiesta in ordine all’elemento causale del danno civile è, se possibile, ancor più pregnante e giuridicamente necessario quando – come nel caso di specie – i danni lamentati afferiscano alla dimensione della tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, mettendone a rischio la sua incolumità fisica durante lo svolgimento di un servizio (la “difesa della Patria”) di vitale importanza per la Repubblica (“sacro dovere del cittadino” ex art. 52 cost.), anche considerando che, per evitare i danni alla salute dei militari, siano concretamente disponibili e ragionevolmente implementabili mezzi di protezione individuale[10]. Sempre in relazione alla “tenuta” del nesso causale probabilistico, il Collegio afferma che, nel caso in questione, difettano spiegazioni eziologiche alternative alla patologia o dati scientifici che consentano di escludere il rischio per la salute umana da esposizione all’uranio impoverito.
7. La notorietà del pericolo.
Analizzata la “consistenza” del nesso di causalità, viene verificato se il fattore di rischio per la salute sia conoscibile dal datore di lavoro (amministrazione della difesa) al momento dell’impiego del militare nella missione, essendo, quello psicologico, un elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Sul punto le argomentazioni svolte dalla difesa dell’amministrazione – dirette a dimostrare l’ignoranza sul munizionamento di uranio impoverito in Somalia e la conoscenza della presenza dello stesso in Bosnia solo a partire dal 2000 – vengono ritenute prive di pregio. Il Collegio sostiene che sarebbe stato tra i doveri della pubblica amministrazione informarsi (ed accertare) presso le parallele strutture della difesa degli alleati della N.A.T.O. circa il tipo di munizionamento utilizzato durante i pregressi eventi bellici, al fine di individuare l’equipaggiamento più opportuno ed indicare le migliori procedure per tutelare la sicurezza del proprio personale militare. Infatti, sulla conoscibilità del pericolo derivante alla salute umana dall’uso di uranio impoverito in determinate zone, la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che «sono state svolte diverse indagini e studi da parte di organismi internazionali sulla base dei quali sono state adottate specifiche misure di protezione dal Governo degli Stati Uniti, l’ONU e la NATO, conosciute dallo Stato Italiano sin dal 1992 (relazione di Eglin relativa alla Ricerca condotta nel 1977-78; rapporto US Army Mobility Equipmente Research and Development Command del 1979; Conferenza di Bagnoli del 1995)»[11].
Inoltre, secondo il Collegio, nel caso di specie, da una parte è circostanza nota che nell’ex Jugoslavia era stata condotta una campagna di bombardamenti con conseguente presenza di un potenziale (e non implausibile) rischio di inalazione umana di sostanze tossiche e, dall’altra, in Somalia le apposite linee guida elaborate dalle forze armate statunitensi all’indomani dell’operazione O.N.U. “Restore Hope” dimostrano, sia pure indirettamente, la presumibile presenza di uranio impoverito anche nel teatro africano.
8. La necessità del fattore causale fortuito.
Ciò premesso sul nesso di causalità e sulla conoscibilità della pericolosità dell’esposizione dei militari all’uranio impoverito nelle zone considerate, l’amministrazione della difesa, per evitare l’addebito della responsabilità, dovrebbe provare la sussistenza in concreto delle circostanze straordinarie non prevedibili che hanno causato il danno al militare. Infatti, come correttamente evidenzia il medesimo Consiglio di Stato in altra pronuncia, se all’interessato basta dimostrare l’insorgenza della malattia in termini probabilistico-statistici, la pubblica amministrazione è gravata da un onere d’istruttoria e di motivazione assai stringente circa la sussistenza in concreto delle circostanze straordinarie esimenti la propria responsabilità[12]. Nel caso di specie, infatti, il Collegio adito evidenzia come «alla luce della peculiarità dello specifico contesto operativo, del carattere contrattuale della responsabilità dell’Amministrazione, dei valori primari in gioco, della mancata adozione degli accorgimenti pur apprestati dagli Alleati a beneficio del proprio personale, dell’impegno prettamente operativo e “sul campo” svolto dall’odierno resistente, gravasse sull’Amministrazione l’onere di fornire, a contrario, un principio di prova circa l’intervento di un fattore oncogenetico alternativo e diverso rispetto all’esposizione al DU ed ai metalli pesanti». Sempre sull’onere probatorio gravante in capo alla pubblica amministrazione viene evidenziato poi che «la prova liberatoria non può consistere semplicemente nell’invocare il fattore causale ignoto, ma deve spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno».
9. Il dictum della sentenza.
Il Consiglio di Stato, nella scia della più recente giurisprudenza civile e amministrativa, fornisce un’ulteriore conferma alla risarcibilità dei danni patiti dai militari a causa della loro esposizione all’uranio impoverito. Nelle ipotesi di missioni all’estero l’amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità lato sensu di “posizione” nei confronti del militare, a cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile (giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito) ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, vengono ritenuti tali in base ad un giudizio di non implausibilità logico-razionale. Pertanto, la diligentia cui è tenuta la pubblica amministrazione nell’adottare ogni misura possibile di prevenzione per la tutela dei propri dipendenti deve porsi ad un livello molto alto. L’amministrazione della difesa, per evitare di essere responsabile, non potrà limitarsi ad eccepire il fattore causale ignoto, ma dovrà riuscire a provare il fattore causale fortuito, ossia una causa non prevedibile e, comunque, non prevenibile.
[1] Sugli aspetti generali della responsabilità della pubblica amministrazione, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si limita a segnalare i seguenti contributi: R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1939; E. CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, Milano, 1953; D. SORACE (a cura di), Le responsabilità pubbliche, Padova, 1998; F. GARRI, La responsabilità civile della pubblica amministrazione, Padova, 2000; M. CORRADINO, La responsabilità della pubblica amministrazione, Torino, 2011; M. RENNA, Responsabilità della Pubblica Amministrazione: profili sostanziali, in Enc. dir., Annali, IX, 2016, p. 800 ss.
[2] Sul punto A. CRISMANI, Le indennità nel diritto amministrativo, Torino, 2012, p. 45, ci ricorda che l’art. 603, commi 1 e 2, d.lgs. n. 66/2010 riconosce «al personale italiano entro e fuori i confini nazionali in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, nonché al personale impiegato nei poligoni di tiro e nei siti dove vengono stoccati munizionamenti, e al personale civile italiano nei teatri operativi all’estero e nelle zone adiacenti alle basi militari sul territorio nazionale, adeguati indennizzi in caso di infermità o patologie tumorali per le particolari condizioni ambientali od operative».
[3] I riferimenti della sentenza del T.A.R. Veneto di primo grado risultano oscurati nell’ambito della pronuncia di appello al pari delle generalità del ricorrente.
[4] Sulla legittimità dell’utilizzo delle Tabelle di Milano per la liquidazione del risarcimento del danno all’integrità psico-fisica subita da un militare in conseguenza all’esposizione dell’uranio impoverito si veda: T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, in Foro it., 2010, 11, III, p. 594 ss.
[5] Secondo la Corte di cassazione (vedasi ex multis: Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 31007, in www.dejure.it) dal risarcimento del danno spettante al militare che abbia contratto una patologia tumorale a seguito dell’esposizione all’uranio impoverito durante una missione internazionale va detratto, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, l’indennizzo a questi erogato ex art. 2, commi 78 e 79, l. n. 244/2007 (ratione temporis applicabile), essendo una elargizione avente finalità compensativa posta a carico del medesimo soggetto (pubblica amministrazione) obbligato al risarcimento del danno.
[6] Per un’analisi delle regole di riparto della competenza nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, tra le tante trattazioni manualistiche, si segnalano i seguenti contributi: A. POLICE, La competenza, in F.G. SCOCA (a cura di), La giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 127 ss. e M.M. FRACANZANI, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in G.P. CIRILLO (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, p. 245 ss.
[7] In tal senso si esprime: Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2014, n. 9666, in Foro Amministrativo (Il), 2014, 9, p. 2227 ss. La sentenza precisa al riguardo che: «L’accertamento del tipo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, anche attraverso il richiamo strumentale a singole norme di legge, quali l’art. 2087 c.c. o l’art. 2043 cod. civ., mentre assume rilievo decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, costituendo in tal caso il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino al ragion d’essere nel rapporto di lavoro, nel qual caso la natura contrattuale della responsabilità non può essere revocata in dubbio».
[8] Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2014, n. 9666, cit. In senso conforme si veda anche la più risalente: Cass. civ., Sez. Un. civ., 4 marzo 2008, n. 5785, in www.dejure.it. Tra le sentenze del giudice amministrativo si segnala: T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, cit.
[9] La natura della responsabilità dell’amministrazione della difesa per i danni subiti dai militari nelle missioni all’estero è stata spesso dibattuta in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento tale responsabilità deve essere ascritta alla genus della responsabilità extra-contrattuale di cui all’art. 2043 c.c. (in tal senso vedasi in primis la nota sentenza Trib. Roma, Sex., XXII, 1° dicembre 2009, n. 10431, in Foro it., 2010, 2, I, p. 676 ss., seguita da diverse altre pronunce tra cui si cita ex multis Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16456, in Foro it., Mass. 2009). Un diverso orientamento, col tempo divenuto maggioritario, inquadra detta responsabilità nell’alveo dell’art. 2087 c.c. e, quindi, nella categoria della responsabilità contrattuale del datore di lavoro (in tal senso si vedano ex multis: Trib. Roma, Sez. XIII, 15 luglio 2009, n. 16320, in www.dejure.it, T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232, T.A.R. Valle d’Aosta (Aosta), Sez. I, 20 settembre 2017, n. 56 e T.A.R. Toscana (Firenze), Sez. I, 18 aprile 2017, n. 564, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it).
[10] Il criterio del “più probabile che non” è stato posto alla base della responsabilità dell’amministrazione della difesa in diverse altre sentenze. A titolo esemplificativo si può citare T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. II, 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «a causa dell’impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto, e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei Teatri Operativi, non debba essere richiesta la dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione, in termini probabilistico-statistici…». In termini analoghi vedasi anche T.A.R. Liguria, (Genova), Sez. I, 29 settembre 2016, n. 956, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «il verificarsi dell’evento costituisce ex se un dato sufficiente, secondo il cosiddetto “criterio di probabilità”, a far sì che le vittime delle patologie abbiano diritto ai benefici previsti dalla legislazione vigente ogni qual volta, accertata l’esposizione del militare all’inquinante in parola, l’amministrazione non riesca a dimostrare che essa non abbia determinato l’insorgenza della patologia e che questa dipenda, invece, da fattori esogeni dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica». In senso conforme vedasi anche Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] T.A.R. Calabria (Catanzaro), 2 ottobre 2014, n. 1568, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo si vedano anche: T.A.R. Piemonte (Torino), Sez. I, 6 marzo 2015, n. 429, T.A.R. Emilia-Romagna (Parma), 11 ottobre 2016, n. 284, T.A.R. Friuli Venezia Giulia (Trieste), Sez. I, 19 giugno 2014 n. 308, Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4440, tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto il Collegio precisa che (par. 8.2 della sentenza in commento) «Non può, peraltro, sottacersi che, stante la pluridecennale partecipazione italiana alla NATO, alleanza organica ed integrata di carattere militare, è del tutto ragionevole presumere che i massimi vertici dell’Amministrazione della difesa ben conoscessero la tipologia di armamento anti-carro in dotazione agli Alleati, rappresentata appunto, fra l’altro, da proiettili DU».
[12] In tal senso vedasi Cons. St., Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 837, cit.