ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contraddittorio endoprocedimentale e obbligo di invito ex d.l. Crescita[1]
di Pierpaolo Gori
Sommario: 1. Il diritto al rispetto del contraddittorio endoprocedimentale tributario: ambito di applicazione - 2. Il termine dilatorio del 7°comma, art.12 legge 27 luglio del 2000 n.212 (Statuto del contribuente) e il suo assestamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione - 3. Corte di Giustizia e ricostruzione del “right to be heard” quale diritto fondamentale: sua rilevanza nei tributi armonizzati - 4. Sviluppi recenti eurounitari sul diritto di difesa e di accesso al fascicolo - 5. Coordinamento dal 1° luglio 2020 tra “invito obbligatorio” al contraddittorio ex art.5 ter del d.lgs. n. 218/1997 e art.12 7°comma dello Statuto.
1. Il diritto al rispetto del contraddittorio endoprocedimentale tributario: ambito di applicazione
Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale tributario è stato ricostruito da una parte della dottrina italiana[2] come un diritto immanente nel nostro sistema, ricavabile da numerose anche se circoscritte disposizioni che lo disciplinano, un’interpretazione che ha avuto limitati seguiti nella giurisprudenza di legittimità sino ad ora.[3] La giurisprudenza consolidata è nel senso contrario, ossia che esso opera solo ove la legge espressamente lo preveda.[4]
Tra le più importanti disposizioni che disciplinano specifiche tipologie di contraddittorio anteriore alla notifica dell’avviso di accertamento vi sono l’art.38, comma 7, del d.P.R. n.600 del 1973 sugli accertamenti sintetici[5], l’art.10, comma 3 bis della legge n.146 del 1998 in riferimento agli studi di settore[6], l’art.9 bis comma 16 del d.l. 24 aprile 2017 n.50 per gli accertamenti sintetici ai fini delle imposte sui redditi, IRAP e IVA ex artt.39 del d.P.R. n.600 del 1973 e 55 del d.P.R. n.633 del 1972[7].
Ancora, a titolo di esempio di specifica disciplina del contraddittorio endoprocedimentale, vi è il caso degli avvisi di rettifica in materia doganale precedenti all'entrata in vigore del d.l. n. 1 del 2012,[8] per i quali opera lo ius speciale di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990 circa la contestazione di fattispecie abusive;[9] in tema di accertamenti condotti dall'OLAF, il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale è disciplinato per le “indagini interne” dall'art. 9, par. 4, del reg. n. 883 del 2013;[10] in tema di riscossione coattiva delle imposte, l'Amministrazione finanziaria prima di iscrivere l'ipoteca su beni immobili ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1972, deve comunicare al contribuente che procederà alla suddetta iscrizione, concedendo al medesimo un termine per l'attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, a pena di nullità dell’iscrizione ipotecaria.[11]
Almeno sino al 1° luglio 2020 e al dispiegarsi dell’efficacia dell’obbligo di invito al contraddittorio nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione, su cui si opererà una riflessione infra all’ultimo paragrafo del presente scritto, la previsione più “generale” contenuta nel nostro ordinamento è certamente quella dall’art.12 dello Statuto del contribuente, la quale trova applicazione ogni qual volta occorra il caso di accesso, ispezione o verifica nei locali aziendali finalizzato all’emissione di un avviso di accertamento.[12]
Il cuore della tutela contenuta nella previsione da ultimo citata è racchiusa nel settimo comma, che ha passato indenne ben tre volte il vaglio di costituzionalità, censurato da questioni sempre dichiarate inammissibili,[13] il quale fissa in 60 giorni il termine dilatorio per consentire al contribuente di eventualmente contraddire.
Il contribuente può così sottoporre «osservazioni e richieste» all’Amministrazione tempestivamente e la violazione del termine - salvo casi di particolare e motivata urgenza[14] - determina la nullità del provvedimento dell'Amministrazione finanziaria, con cui è stato disposto ante tempus il recupero ad imposta.[15]
La decorrenza inizia dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, nozione da intendersi in senso lato indipendentemente dal loro contenuto e definizione formale, ed è sufficiente anche un verbale meramente istruttorio e descrittivo a tal fine.[16]
2. Il termine dilatorio del 7°comma, art.12 legge 27 luglio del 2000 n.212 (Statuto del contribuente) e il suo assestamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Nella cospicua giurisprudenza della S.C. in materia di contraddittorio endoprocedimentale, sono due le sentenze che costituiscono il punto di riferimento ermeneutico della previsione, sia in quanto rese dalle Sezioni unite, sia in quanto non successivamente superate.
Con una prima decisione, la 29 luglio 2013 n. 18184, le Sez. unite hanno statuito che con riferimento ai diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il mancato rispetto del termine di 60 giorni determina di per sé l’illegittimità dell’avviso:[17] «Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio».
Ulteriore chiave interpretativa è stata poi fornita per i controlli c.d. a tavolino dalla sentenza 9 dicembre 2015 n. 24823, secondo la quale: «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l'Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. "a tavolino"».
La medesima decisione ha inoltre sancito la necessità di operare, per i tributi armonizzati, una "prova di resistenza" ai fini della valutazione del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, in determinati casi.[18]
Di queste due autorevoli interpretazioni la Corte di cassazione a sezioni semplici non ha fatto sempre applicazione omogenea. Secondo una prima interpretazione dell'art. 12 comma 7 dello Statuto, il diritto nazionale riserverebbe ai tributi armonizzati una protezione inferiore a quella assicurata ai tributi non armonizzati. Ciò sarebbe dovuto al fatto che, per questi ultimi, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica, il mancato rispetto del termine di 60 giorni determinerebbe necessariamente la nullità del provvedimento per violazione del contraddittorio endoprocedimentale. Al contrario, per gli armonizzati, questo effetto conseguirebbe solo eventualmente, all'esito della necessaria valutazione da parte del giudice della c.d. prova di resistenza.[19]
Diversa è la posizione espressa da altre pronunce, tra le quali si distingue l'ordinanza Cass. 17 gennaio 2017 n. 1007, secondo cui in caso di «accesso, ancorché finalizzato ad un’acquisizione documentale immediata, comunque la c.d. "prova di non resistenza" non può trovare ingresso in virtù della obbligatorietà generalizzata del contraddittorio preventivo sancito per legge dall'art. 12, comma 7, I. 212/2000».
Più di recente, la Corte ha valorizzato il fatto che non vi è alcun contrasto tra le due decisioni delle Sezioni unite, in particolare in merito all’operatività della prova di resistenza, pienamente compatibili con il diritto eurounitario, in quanto nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali aziendali, opera una valutazione ex ante in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l'atto impositivo emesso ante tempus, anche nell'ipotesi di tributi “armonizzati”. Non vi è dunque alcuna necessità di prova di “resistenza", la quale invece deve essere compiuta dal giudice, per i tributi "armonizzati", ove la normativa interna non preveda l'obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa, come nel caso di accertamenti cd. a tavolino.[20] Tale orientamento, frutto di un confronto nomofilattico interno al gruppo IVA e dogane della Sezione Tributaria della Corte, ha ricevuto significativi consensi in dottrina[21] ed appare in via di consolidamento.[22]
3. Corte di Giustizia e ricostruzione del “right to be heard” quale diritto fondamentale: sua rilevanza nei tributi armonizzati
L’art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (la Carta) eleva a diritto fondamentale il right to be heard nell’ambito del giusto processo già nella fase amministrativa procedimentale, a differenza della corrispondente disciplina CEDU applicabile alla materia tributaria, in particolare gli articoli 13 e 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui ambito di applicazione è limitato al processo.[23]
La Carta invece tutela espressamente il diritto al contraddittorio in modo ampio, non solo in sede di processo giurisdizionale, all'art. 47,[24] nel contesto del rispetto del diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, ma anche nella fase anteriore del procedimento amministrativo. Infatti, l'art. 41 della Carta, rubricato "diritto ad una buona amministrazione", al § 2, lettera a), consacra «il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio».
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha applicato il diritto al contraddittorio, coerentemente con la sua natura di diritto fondamentale, affrontando anche il caso in cui il diritto comunitario non disciplini espressamente le modalità di esercizio di tale fondamentale diritto di difesa.
Una prima decisione fondamentale a riguardo è la sentenza Kamino[25] che individua i corni della questione nei duplici principi di equivalenza e di effettività.[26] Tuttavia, essa è resa in relazione alla disciplina olandese che al tempo non prevedeva ai fini del contraddittorio un termine, ed ha affermato in tal caso la necessità di una "prova di resistenza", secondo un pragmatico canone che ricorre spesso nella giurisprudenza unionale. Infatti, la violazione del principio del rispetto dei diritti della difesa «comporta l'annullamento della decisione di cui trattasi soltanto quando, senza tale violazione, il procedimento avrebbe potuto condurre ad un risultato differente».[27]
Più simile alla previsione del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, è la disciplina nazionale portoghese, la quale ha originato il rinvio pregiudiziale deciso dalla sentenza Sopropé.[28] In quel caso, il diritto interno prevedeva un termine per osservazioni, e si discuteva in particolare della congruità del termine per il contraddittorio, compreso in una forbice tra 8 e 15 giorni, e la Corte di Giustizia chiarisce le condizioni alle quali il diritto nazionale possa essere ritenuto rispettoso del diritto comunitario, nel disciplinare condizioni ed effetti del contraddittorio endoprocedimentale, un obbligo che incombe sugli Stati membri quando vengono adottate decisioni che rientrano nella sfera d'applicazione del diritto comunitario, quand'anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità.
In tale ultimo caso, è richiesto che «da un lato, siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall'altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti della difesa conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario.».[29] L'insegnamento è riaffermato anche di recente da diverse ulteriori decisioni della Corte.[30]
Particolare importanza, per la sua valenza riassuntiva dei principi giurisprudenziali precedentemente espressi in materia di contraddittorio endoprocedimentale in applicazione della Carta dei diritti fondamentali, è la sentenza della Corte del Lussemburgo Ispas, la quale ha affermato che, in mancanza di una disciplina specifica del diritto unionale in materia di garanzie procedimentali, spetta all'ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in virtù del principio di autonomia di cui ciascuno di essi dispone in tale materia, stabilire le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti riconosciuti ai contribuenti in forza dei principi generali del diritto dell'Unione, primo tra tutti il diritto di difesa, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.[31] Tuttavia, il principio del rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti.[32]
4. Sviluppi recenti eurounitari sul diritto di difesa e di accesso al fascicolo
Tra i recenti sviluppi giurisprudenziali in materia di rispetto del principio di parità delle armi in fase procedimentale, particolare attenzione merita la sentenza della Corte di Giustizia Glencore.[33] La società lamentava che l’amministrazione finanziaria avesse violato il suo diritto a un processo equo garantito dall’articolo 47[34] della Carta, il principio della parità delle armi e il rispetto dei diritti della difesa ad un duplice titolo. Da un lato, solamente l’amministrazione avrebbe avuto accesso all’intero fascicolo relativo ad un processo penale in cui erano implicati determinati fornitori e cui la società non aveva accesso non essendo parte processuale, nel quale elementi di prova sarebbero stati raccolti e utilizzati contro la contribuente. D’altro canto, l’amministrazione non avrebbe messo a disposizione della stessa il fascicolo relativo ai controlli effettuati presso i fornitori, in particolare i documenti fondanti le contestazioni, né il processo verbale, e neppure le decisioni amministrative da essa adottate, limitandosi a comunicargliene una parte secondo un criterio discrezionale.[35]
I giudici del Lussemburgo hanno osservato che il destinatario di una decisione che arreca pregiudizio deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata, affinché l’autorità competente sia messa nelle condizioni di tenere utilmente conto di tutti gli elementi pertinenti e che, eventualmente, tale destinatario possa correggere un errore e far valere utilmente gli elementi rilevanti per la propria posizione, l’accesso al fascicolo deve essere autorizzato nel corso della fase endoprocedimentale. Quindi, una violazione del diritto di accesso al fascicolo intervenuta durante tale fase non è sanata dal semplice fatto che l’accesso a quest’ultimo è poi stato reso possibile nel corso del procedimento giurisdizionale in forza di un eventuale ricorso diretto ad impugnare il provvedimento adottato.[36]
Da ultimo, il 4 giugno 2020 è intervenuta in materia di rispetto dei diritti della difesa (right to be heard) e di accesso al fascicolo amministrativo un’altra importante pronuncia, la SCCF,[37] la quale in misura considerevole richiama i principi giurisprudenziali fissati dalla Glencore.
Tale giurisprudenza non ha ancora trovato applicazione da parte della Corte di cassazione.
5. Coordinamento dal 1° luglio 2020 tra “invito obbligatorio” al contraddittorio ex art.5 ter del d.lgs. n. 218/1997 e art.12 7°comma dello Statuto
Alla luce del quadro sopra delineato, si può infine valutare quale sia l’impatto sul contraddittorio endoprocedimentale dell’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dall’art. 5-ter del d.lgs. n. 218/1997,[38] il quale si applica agli avvisi di accertamento emessi dal 1° luglio 2020[39] e la cui formulazione non ha mancato di incontrare penetranti critiche in dottrina.[40] L'accertamento può ben essere definito con adesione del contribuente ai sensi del d.lgs. n.218 del 1997 e, nell’accertamento con adesione, l’ufficio valuta gli elementi forniti dal contribuente al fine di determinare compiutamente la pretesa tributaria.[41]
Orbene, la previsione dell’art. 5-ter ha introdotto, in determinate ipotesi, l’obbligo di notificare al contribuente, prima dell’emissione di un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’imposta sul valore aggiunto, un invito di cui all’articolo 5, comma 1, del medesimo decreto al fine di avviare il procedimento di accertamento con adesione, a scopo deflattivo.[42] L’art. 5-ter è applicabile esclusivamente in relazione alle imposte sui redditi, contributi previdenziali ritenute e sostitutive, imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), imposta sul valore degli immobili all’estero (IVIE), imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero (IVAF), IVA. Non trova perciò applicazione per i tributi indiretti residuali e per i tributi locali.
La sanzione per il mancato rispetto dell’invito obbligatorio è l’invalidità dell’atto impositivo, ma non automatica, bensì previa dimostrazione avanti al giudice della “prova di resistenza”, come elaborata dalla giurisprudenza eurounitaria e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione di cui si è supra dato conto. Si tratta di un’innovazione di rilievo, in quanto la prova di resistenza viene ora accolta anche dal legislatore come strumento di logica interna del sistema.
L’introduzione dell’ “invito obbligatorio” non comporta in ogni caso l’affermazione di un generale obbligo di contraddittorio endoprocedimentale nel nostro ordinamento, come si evince sin dalla lettura delle prime righe della disposizione, che esclude dalla propria applicazione i «casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni», con evidente riferimento alla previsione dell’art.12 7°comma dello Statuto. Inoltre, sono esclusi dal campo di applicazione i casi degli accertamenti parziali per le imposte dirette e per l’IVA basati su elementi “certi e diretti”, situazioni che in concreto occorrono sovente.
La mancanza di universalismo è d’altro canto confermata anche dall’ultimo comma dell’art.5-ter, il quale espressamente prevede che «Restano ferme le disposizioni che prevedono la partecipazione del contribuente prima dell'emissione di un avviso di accertamento.». Il fatto che siano escluse le altre ipotesi già espressamente previste dalla legge ai fini della partecipazione al contraddittorio endoprocedimentale, perpetua un gioco di incastri secondo deroga da parte della legge speciale a quella generale. Il quadro che ne risulta appare frammentario e, se è vero che in astratto l’obbligo di invito al contraddittorio sostanzialmente completa la tutela al Right to be heard in sede procedimentale, d’altro canto contribuisce ad aumentare l’entropia del sistema e porrà verosimilmente una questione di coordinamento con le previsioni esistenti in materia non sempre facilmente risolvibile alla luce del criterio di specialità.
Al di fuori del tracciato perimetro, continua ad applicarsi il più generale (o “speciale intermedio”) art.12 comma 7 dello Statuto, attraverso i criteri giurisprudenziali fissati dalla Cassazione. La conseguenza invalidante del mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale si produce, nella triplice ipotesi di accesso ispezione e verifica e senza distinzione tra tributi armonizzati e non, ex se per effetto del mancato rispetto del termine, senza che il contribuente debba fornire altra prova, mentre per i tributi armonizzati, al di fuori della triplice ipotesi, è necessario “vestire” la doglianza in ricorso con la deduzione di non aver potuto far valere ragioni sostanziali nell’ambito del procedimento, supportandola attraverso elementi di prova adeguati, anche solo presuntivi.
[1] Il presente contributo è una rielaborazione dell’intervento al webinar organizzato il 29 giugno 2020 da Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, Consorzio universitario di Ragusa, Camera Tributaria, Consiglio Nazionale Forense sul tema “Dal contraddittorio endoprocedimentale preventivo alla notifica dell’avviso di accertamento”. L’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dall’art.4-octies del d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (decreto c.d. crescita), convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, si applica agli avvisi di accertamento emessi successivamente al 1° luglio 2020.
[2] Interessanti riflessioni sulla questione sono svolte, tra altri Autori, da F. Tundo, Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa, GT-Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 12/2014, pag. 937 ss.; M. Beghin, L’obbligo della previa consegna del processo verbale di constatazione e il problema delle ‘leggi-fantasma’, Corriere Tributario, n. 3/2014, pag. 167 ss.; R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell'ordinamento dell'unione europea. riflessi nel diritto nazionale, Dir. e Prat. Trib., 1/2016, 10055.
[3] Di questa posizione vi è eco anche in una non recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la n. 19667 del 18/09/2014 secondo la quale l'omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale comporta la nullità dell'iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, interpretazione ormai non più diritto vivente, v. infra.
[4] L. Tricomi, Accertamento e contraddittorio endoprocedimentale, Libro dell’anno del Diritto 2017, su Treccani on line, ultimo accesso 28 giugno 2020; B. Virgilio, Contraddittorio e giusto procedimento, in Libro dell’anno del Diritto 2015, ibidem; A. M. Perrino, Tributi in genere, tributi non armonizzati, avviso di accertamento, in Foro it., 2016, 103.
[5] «L'ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l'obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento (…)».
[6] «3-bis. Nelle ipotesi di cui al comma 1 l'ufficio, prima della notifica dell'avviso di accertamento, invita il contribuente a comparire, ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.».
[7] «(…) L’Agenzia delle entrate, prima della contestazione della violazione, mette a disposizione del contribuente, con le modalità di cui all'articolo 1, commi da 634 a 636, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, le informazioni in proprio possesso, invitando lo stesso ad eseguire la comunicazione dei dati o a correggere spontaneamente gli errori commessi. (…)».
[8] Conv., con modif., in l. n. 27 del 2012. Nella fattispecie dunque non si applica l'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, “legge generale” (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 2175 del 25/01/2019).
[9] In materia di accise, fino all'entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2016, conv., con modif., in l. n. 225 del 2016, non trova applicazione il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, bensì l'art. 11, comma 4-bis, del d.lgs. n. 374 del 1990 concernente gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto diritti doganali, la cui disciplina è assimilata a quella delle accise stante l'espresso rinvio contenuto nell'art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 504 del 1995. Per l’effetto, è stato statuito che in caso di violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, ai fini della nullità dell'atto impositivo emesso "ante tempus", non è necessario che il giudice proceda alla cd. prova di “resistenza" (Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 28344 del 05/11/2019).
[10] Esso è assicurato solo per le informazioni trasmesse agli Stati membri nel corso di indagini interne allorché vi sia il riferimento nominativo ad una persona interessata, ovvero per l'atto di chiusura delle indagini recante tale riferimento soggettivo, Cass Sez. 5 - , Ordinanza n. 28359 del 05/11/2019.
[11] Nella formulazione vigente "ratione temporis” dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1972, Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 5577 del 26/02/2019.
[12] Quanto alle cartelle di pagamento, è necessario distinguere. La notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non preceduta dalla comunicazione del c.d. "avviso bonario" ex art. 36 bis, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; nè il contraddittorio endoprocedimentale è invariabilmente imposto dall'art. 6, comma 5, l. n. 212 del 2000, il quale lo prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest'ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36 bis, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo. (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 33344 del 17/12/2019).
[13] Corte costituzionale, ord. 16 - 24 luglio 2009, n. 244, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost.; ord. 5 - 13 luglio 2017, nn. 187 e 188 in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma Cost..
[14] Che non possono identificarsi nell'imminente spirare del termine di decadenza in cui incorrerebbe l’Amministrazione, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2592 del 05/02/2014 (Rv. 629300 - 01).
[15] Art.12, comma 7, legge 27 luglio 2000, n. 212, ultimo lemma: «Per gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all'articolo 34 del testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, si applicano le disposizioni dell'articolo 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374».
[16] «Il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo.» (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 1497 del 23/01/2020, Rv. 656674 - 01)
[17] Ciò in quanto il diritto al contraddittorio «costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.», Cass. Sez. unite 29 luglio 2013 n. 18184.
[18] «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi "armonizzati", mentre, per quelli "non armonizzati", non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito», Cass. Sez. unite 9 dicembre 2015 n. 24823.
[19] Cass. 25 gennaio 2017 n. 1969.
[20] Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 701 del 15/01/2019 (Rv. 652456 - 01). Il contenuto della prova di resistenza non è tipizzato dalla giurisprudenza della Corte, ma è certo che deve essere una valutazione "ex post" sul rispetto del contraddittorio sulla base di allegazioni del contribuente vestite di elementi di prova anche solo presuntivi, cfr. G. Palumbo, Senza una vera “prova di resistenza” il mancato dialogo non “mina” l’atto, in Fiscooggi on line, 2020, ultimo accesso 28 giugno 2020.
[21] F. Tundo, Contraddittorio: la Cassazione recupera la funzione nomofilattica e supera la ‘‘riforma’’ in itinere, Corriere Trib., 7/2019: «La sentenza della Corte di cassazione n. 701/2019 costituisce un elemento di rilevante novita`. Con essa la Suprema Corte riesce, con uno sforzo particolarmente apprezzabile, a ricomporre i divergenti orientamenti che si sono succeduti dal 2013 in poi, restituendo una prospettiva unitaria alle prerogative del contribuente in corso di procedimento e segna l’avvio di un nuovo indirizzo giurisprudenziale.»; L. Ferrajoli, Il contraddittorio negli accertamenti tributari, EuroconferenceNews, 2019; A. Colli Vignarelli, La Cassazione torna a pronunciarsi in tema di violazione del contraddittorio endoprocedimentale in assenza di motivi di urgenza, Riv. Dir. Trib., 2019; F. Di Marcantonio, Fisco, Omesso contraddittorio con il contribuente: quando occorre la prova di resistenza, nota a Cass. n.701/2019, in www.altalex.com, ultimo accesso 28 giugno 2020.
[22] Conforme Sez. 5 - , Sentenza n. 22644 del 11/09/2019 (Rv. 655048 - 01).
[23] Sentenza 23 novembre 2006, Jussila c Finlandia, CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, par. 41; M. Glendi, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della Cedu (il caso «Jussila»), Rass. trib., 2007, pag. 208 e ss..
[24] Il primo comma dell’art.47 della Carta si basa sull'articolo 13 della CEDU, il secondo comma corrisponde all'articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione, cfr. Spiegazioni relative alla Carta dei Diritti Fondamentali (2007/C 303/02).
[25] CGUE 3 luglio 2014, C-129 e 130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financién, ECLI:EU:C:2014:2041, § 75.
[26] Quando né le condizioni in cui dev’essere garantito il rispetto dei diritti della difesa né le conseguenze della violazione di tali diritti sono stabilite dal diritto dell’Unione, tali condizioni e conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purché le misure adottate in tal senso siano dello stesso tipo di quelle di cui beneficiano le persone in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività).
[27] CGUE, ibidem, § 80.
[28] CGUE il 18 dicembre 2008, nella causa C-349/07, Sopropé - Organizagtes de Calgado Lda contro Fazenda Pública, ECLI:EU:C:2008:746.
[29] CGUE, Ibid., § 38.
[30] CGUE 8 marzo 2017, C-14/16, Euro Park Service, ECLI:EU:C:2017:177, § 36, in materia di rimborsi; CGUE 20 dicembre 2017, C-276/16, Preqù Italia srl, ECLI:EU:C:2017:1010, § 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale
[31] CGUE 9 novembre 2017, C-298/16, Ispas, ECLI:EU:C:2017:843, §§ 26, 28 e 29 e ss..
[32] CGUE, ibid. § 35.
[33] CGUE 16 ottobre 2019, C-189/18 - Glencore Agriculture Hungary, ECLI:EU:C:2019:861.
[34] E’ nondimeno interessante il fatto che, pur dolendosi di un vulnus al proprio diritto di difesa subito in fase procedimentale, nondimeno la contribuente non invoca l’art.41 della Carta, ma il 47 relativo al processo.
[35] La Corte ha concluso nel senso che il soggetto passivo deve poter «avere accesso durante tale procedimento a tutti gli elementi raccolti nel corso di detti procedimenti amministrativi connessi o di ogni altro procedimento sul quale l’amministrazione intende fondare la sua decisione o che possono essere utili per l’esercizio dei diritti della difesa, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione di tale accesso». CGUE, ibid., § 69.
[36] CGUE, ibid., § 52.
[37] CGUE, 4 giugno 2020 C-430/19, SCCF Srl, ECLI:EU:C:2020:429, al momento del presente intervento ancora pubblicata in versione provvisoria, ultimo accesso su Curia on line il 28 giugno 2020.
[38] Cfr. l’art.4-octies del d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (decreto c.d. crescita), il d.l. è stato convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, e l’Invito obbligatorio è disciplinato nei seguenti termini: «1. L'ufficio, fuori dei casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, prima di emettere un avviso di accertamento, notifica l'invito a comparire di cui all'articolo 5 per l'avvio del procedimento di definizione dell'accertamento.
2. Sono esclusi dall'applicazione dell'invito obbligatorio di cui al comma 1 gli avvisi di accertamento parziale previsti dall’articolo 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e gli avvisi di rettifica parziale previsti dall'articolo 54, terzo e quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
3. In caso di mancata adesione, l'avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente nel corso del contraddittorio.
4. In tutti i casi di particolare urgenza, specificamente motivata, o nelle ipotesi di fondato pericolo per la riscossione, l’ufficio puo' notificare direttamente l'avviso di accertamento non preceduto dall'invito di cui al comma 1.
5. Fuori dei casi di cui al comma 4, il mancato avvio del contraddittorio mediante l'invito di cui al comma 1 comporta l'invalidità dell'avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato.
6. Restano ferme le disposizioni che prevedono la partecipazione
del contribuente prima dell'emissione di un avviso di accertamento.»
[39] Cfr. Circolare 22 giugno 2020 n.17/E Agenzia delle Entrate, recante chiarimenti relativamente all’obbligo di invito al contraddittorio.
[40] F. Farri, Considerazioni “a caldo” circa l’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dal decreto crescita, Riv. Dir. Trib, 2019; G. Infranca, P. Semeraro, Contraddittorio preventivo quasi sempre obbligatorio, in Eutekne on-line; S. Capolupo, Obbligo di invito al contraddittorio: esclusioni ingiustificate e penalizzazioni per i contribuenti, Ipsoa on line, ultimi accessi 28 giugno 2020.
[41] A proposito del rapporto tra contraddittorio endoprocedimentale ex art.12 Statuto e contraddittorio finalizzato all’adesione in presenza di studio di settore va rammentato che: «La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è "ex lege" determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli "standards" in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest'ultimo ha la facoltà di contestare l'applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l'ufficio - ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte - ad integrare la motivazione dell'atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento. Tuttavia, ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l'ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri.» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15859 del 12/11/2002, Rv. 558424 - 01; principio accolto da Cass. Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009 e, più di recente, reiterato da Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 9484 del 12/04/2017).
[42] Cfr. relazione tecnica del c.d. decreto crescita, reperibile in www.senato.it. L’ adesione per il contribuente è possibile anche successivamente alla notifica dell’avviso di accertamento, molto importante per la prevenzione e deflazione del contenzioso, ma precluso in caso di invito al contraddittorio già esperito ex art.6 comma 2 d.lgs. n.218 del 1997, aspetto che può nuocere non poco all’intento deflattivo perseguito. Questo il testo della previsione normativa da ultimo citata, in vigore dal 1 luglio 2020: «2. Il contribuente nei cui confronti sia stato notificato avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall'invito di cui agli articoli 5 e 5-ter(1), puo' formulare anteriormente all'impugnazione dell'atto innanzi la commissione tributaria provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito, anche telefonico.».
Repetita iuvant: il “Rilancio dell’Italia 2020-2022” e le questioni di genere
Di Valentina Cardinali[1]
Sommario: 1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso - 2. La parità di genere come driver del cambiamento - 2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere - 2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro - 2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali - 2.4. I differenziali retributivi di genere - 2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità - 2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza - 3. Riflessioni conclusive.
1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso
Premetto che ci sono pochi termini che inducono fraintendimenti, interpretazioni ideologiche e contrapposizioni dialettiche, anche accese, quanto il termine “genere”. Una parola utilizzata troppo spesso come un’etichetta e non come una chiave di lettura, con la complicità di una comunicazione frettolosa, ambiziosa e, a volte, inutilmente audace. Ma cosa si intende esattamente per genere? Innanzitutto “genere” non è sinonimo di “femminile”. Quando si parla di “genere” si fa riferimento alla dimensione sociale e culturale dell’essere maschio o femmina, ai modelli di riferimento, ai ruoli sociali, a come la società stessa pensa e di conseguenza valuta e tratta la sua popolazione di uomini e donne. E di contro, anche cosa la società stessa “si aspetta” dalla sua popolazione di uomini e donne. Non c’è nulla di trasgressivo o rivoluzionario in ciò, ma semplicemente l’affermazione, che raccomanda l’UE dal 2002, che quando si mettono in atto un set di politiche bisogna considerare che si rivolgono a uomini e donne, che sono diversi per fattori biologici, ma anche per il contesto socioculturale complessivo in cui vivono e proprio per questo possono essere oggetto di problematiche specifiche e portatori di istanze diverse. Se essere uomo o donna in Francia è diverso che in Iran, vuol dire che il modello di vita, di cultura, le aspettative sociali che ne derivano sono diverse. Al pari di quanto possa esser diversa la condizione di donna lavoratrice o padre single in una piccola comunità montana o in una grande metropoli. Parlare di genere, quindi, significa far attenzione a tutto questo. A come le persone, essendo uomini e donne, sono inseriti in un contesto che può favorire la maggiore uguaglianza possibile sul piano formale e sostanziale, oppure può trasformare le differenze di “genere” in elementi di discriminazione. Se i tassi di occupazione di uomini e donne sono distanti è un problema di genere; se dopo la maternità 1 donna su 6 lascia il lavoro è un problema di genere; se i redditi da lavoro di uomini e donne a parità di mansione sono diversi è un problema di genere e si potrebbe continuare oltre. Non si tratta di questioni “personali” o ideologiche che riguardano una parte della cultura femminista. Si tratta di un problema del Paese, che convive con disuguaglianze strutturali (contrarie allo spirito della Costituzione e al concetto di sviluppo economico) e le perpetua, ma che è abituato a condirle con quel tanto di politically correct che non nuoce a nessuno e che allo stesso tempo non aiuta nessuno. Eppure, tranne i seguaci della cd. Teoria gender[2], nessuno si schiera apertamente contro le dichiarazioni di riduzione dei divari di genere nella società, ma nella pratica, le politiche che dovrebbero esservi dedicate sono quelle in cui i tagli di bilancio arrivano per primi e nei dibattiti parlamentari e mediatici, la questione è percepita come “importante” ma “di parte”, perché lo svantaggio delle donne non è tema del paese ma delle donne, al massimo delle famiglie, mentre le cassa integrazioni di operai maschi portatori di reddito in famiglia sono un tema del Paese. Ecco, su questo bisogna fare attenzione. Che l’ottica di genere non crei contrapposizioni all’interno dello stesso spazio sociale tra chi dovrebbe condividerlo. Il tema della parità di genere non può e non deve diventare uno strumento di competizione e di “lotta tra poveri”. Le disuguaglianze ingiustificate, a partire da quelle tra uomini e donne, non possono essere tollerate. Ma anche questa affermazione, che appare quasi banale, non è scontata. Si può essere in un contesto che assume come valore positivo l’inesistenza di rapporti gerarchici e di potere fondati sul sesso (di carattere economico, sociale, culturale), oppure in un contesto in cui il fattore sesso è ritenuto un giustificativo alla persistenza di differenze tra due categorie di persone. Pensiamo solamente al percorso faticoso che sta scontando la proposta di riforma del congedo di paternità, che affronta una disparità nel campo della gestione della genitorialità a danno degli uomini, ma è oggetto di fortissime resistenze da parte di tradizionalisti (dichiarati o inconsapevoli), convinti della necessaria primazia della figura maschile in campo economico e della “naturale” e quindi primaria posizione della donna come madre ed angelo del focolare (da cui ne discende che il suo lavoro di cura familiare, non retribuito dal mercato, la rende dipendente dal produttore maschio di reddito familiare, cd. modello male breadwinner). Resistenze che provengono anche da parte di una certa cultura organizzativa che trae linfa da quel modello culturale appena citato, ma che si alimenta anche di una struttura contrattuale e simbolica che, pur a scapito delle competenze, premia il tempo in presenza, la dedizione al lavoro come fedeltà esclusiva e valuta diversamente l’aspetto extralavorativo: se familiare, come “sfera privata” ossia una potenziale interferenza sulla produttività; se invece non legato ad obblighi familiari, come occasione di lobbying - prevalentemente maschile. Un esempio per tutti, tratto dal repertorio di casi denunciati alle Consigliere di parità, è dato dalle diffidenze che riscuote un uomo che richiede un giorno di congedo parentale, che non trova l’uomo che richiede un giorno di permesso per gare sportive, esami e motivi personali. In questo modo, senza prevederlo, la cultura manageriale contribuisce a rafforzare la divisione del lavoro tra uomini e donne e un modello di struttura sociale dicotomico e anacronistico rispetto alla sfida dei tempi.
2. La parità di genere come driver del cambiamento
Fatta questa lunga premessa, necessaria per capire cosa significhi, ancora oggi, parlare di questioni di genere in termini di proposta politica, veniamo al documento Iniziative per il rilancio "Italia 2020-2022" (c.d. Piano Colao) redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale coordinato da Vittorio Colao[3]. Il documento ha come slogan l’obiettivo di "Un'Italia più forte, resiliente ed equa" si fonda su 3 “assi di rafforzamento”: Digitalizzazione e innovazione di processi, prodotti e servizi, pubblici e privati, e di organizzazione della vita collettiva; Rivoluzione verde, Sostenibilità ambientale e benessere economico; Parità di genere e inclusione[4]. Le proposte si articolano in 6 macrosettori[5], (vedi fig.1) in ciascuno dei quali si dettagliano misure specifiche. Per ogni gruppo di proposte si evidenzia la matrice pubblica, privata o mista che ne deve fornire il finanziamento o l’attuazione e l’indicazione in termini di priorità (da attuare subito, finalizzare o strutturare). Il documento è stato consegnato al Governo come insieme di indicazioni a carattere consultivo non vincolante. Pertanto, mi soffermerò non sulla valenza generale del Piano o nel dettaglio delle singole misure, che saranno superate dagli eventi e dal favore che incontreranno a livello istituzionale, ma su quello che per i temi di genere, significa questo documento.
Indipendentemente dalla valutazione complessiva del Piano, stante quanto delineato in premessa, il fatto che la “parità di genere” sia inserita in uno dei tre driver prioritari per il rilancio del paese è sicuramente un punto importante a forte valenza simbolica - e di questo sicuramente va dato atto al lavoro della componente femminile della task force, inserita in corsa dopo una forte protesta della società civile contro la composizione maschile del comitato. Non che gli estensori dei documenti politici e gli esperti di tecnica legislativa non siano avvezzi a inserire il tema della parità di genere tra le premesse, tra i vari “visto” introduttivi, per assicurare dignità e coerenza con un poltically correct di stampo europeo. Ma in questo caso, si è introdotto un elemento più importante dell’omaggio dovuto: un vincolo espresso, che svela e nomina quello che solitamente non si esplicita in termini di causa ed effetto. E così, afferma che la ripresa non potrà essere tale se tutte le politiche che si mettono in atto e che si rivolgono al paese intero, composto di maschi e femmine, non garantiranno condizioni di eguaglianza formale e sostanziale, trattando le criticità specifiche dei rapporti di genere e affrontando i temi del riequilibrio di una disparità a tutti i livelli della partecipazione economica e sociale. Per questo trova spazio nel complesso del Piano l’attenzione specifica alla componente femminile, perché su tutti i piani menzionati essa rappresenta il termine debole del rapporto di genere. Sembra un’affermazione quasi banale per quanto coerente con l’art 3 della nostra Costituzione, eppure proprio questa affermazione di “principio” ha dato vita ad una serie di polemiche, luoghi comuni e facili ironie, che gli altri due temi prioritari (sostenibilità ambientale e digitalizzazione) non hanno affatto sollevato. E che dimostra ancora come sia arduo il percorso che porterà il nostro Paese ad essere una società inclusiva ed equa, che rispetti le diversità e rimuova tutti gli ostacoli che comportano differenze non giustificabili, ossia discriminazioni.
Nel dettaglio Per quanto riguarda la parità di genere, il Comitato propone azioni in quattro diversi ambiti:
a) il contrasto agli stereotipi di genere tramite azioni diversificate sul piano culturale, che agiscano fin dalle scuole primarie, riguardanti la pubblicità, i libri di testo, e l’educazione finanziaria.
b) il sostegno e lo sviluppo della partecipazione delle donne al lavoro, promuovendo la trasparenza sui livelli di impiego e retributivi tipici di uomini e donne, adottando quote di genere che garantiscano la partecipazione a organi apicali e consultivi e integrando la valutazione di impatto di genere (c.d. VIG) nei processi decisionali.
c) la conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità, lanciando un piano nazionale per lo sviluppo dei nidi pubblici e privati, incentivando gli strumenti di welfare aziendale e lo sviluppo di professionalità dedicate al work-life balance, operando la riforma dei congedi parentali e di paternità, e quella delle detrazioni fiscali per i figli e i bonus verso un assegno unico.
d) il sostegno per le donne vittime di violenza, quale ad esempio l’istituzione del reddito di libertà, l’accompagnamento all’inserimento nel mondo del lavoro e il rafforzamento dei centri anti-violenza, delle case rifugio.
Esaminiamo sinteticamente i 4 ambiti, nella consapevolezza, che - qui non abbiamo spazio di trattarla - all’interno di tutti gli altri ambiti del Piano è possibile ravvisare alcuni elementi utili a orientare le azioni in termini di riduzione dei differenziali tra uomini e donne (es: il tema dello smartworking, istruzione, formazione, competenze, imprenditoria ecc..)
2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere
Il lavoro sugli stereotipi di genere è il primo tassello auspicabile e necessario. La costruzione del genere, dei ruoli e delle aspettative sociali, parte sin dalla prima infanzia e si veicola per tutto il corso della vita. Ma, sempre per stare agli esempi concreti, sino a che nei libri di testo e nelle pubblicità saranno rappresentate le donne come mamme o casalinghe e i padri come coloro che arrivano con la ventiquattrore quando la cena è pronta o leggono il giornale a tavola mentre la moglie cucina, sarà difficile ipotizzare una crescita delle nuove generazioni pienamente consapevole del senso della parità di genere e della condivisione dei ruoli in famiglia. Fino a che la bambola resterà un gioco da “femminucce” e il camion da “maschietti”, il bambino non potrà mai sperimentare quell’esercizio dei ruoli di cura e accudimento che poi gli sarà richiesto da padre. E non percepirà come normale farlo, mentre le bambine sono da sempre autorizzate a simulare nel gioco il loro futuro di madri, anche se poi non lo saranno[6]. La reiterazione dei messaggi porta alla costruzione di etichette che diventano prima stereotipi, poi pregiudizi. E il percorso è breve. Arriva sino al mondo del lavoro in cui la maternità viene considerata come un fatto personale di intralcio all’organizzazione del lavoro e quindi si preferisce assumere o promuovere un uomo perché, in quanto uomo, non si assenterà dal lavoro o non comprometterà la fedeltà al lavoro con altre distrazioni. Se poi, per caso, quell’uomo decidesse di assumere un ruolo genitoriale paritario, rischierebbe anche mediaticamente la derisione, trasformandosi da padre in “mammo”. E potremmo continuare oltre, a partire dall’uso del linguaggio in cui il maschile diventa anche neutro e ricomprende e sostituisce il femminile in tutti quei casi in cui, invece, l’italiano lo consentirebbe. Per poi arrivare all’aspetto più doloroso dello squilibrio di genere: la violenza maschile sulle donne, molto più facile in un contesto in cui la donna è percepita da sempre come anello debole di un rapporto non paritario, anche economicamente. Lo squilibrio diventa rappresentazione di una relazione di potere ed il potere viene esercitato nei modi in cui l’uomo sa e l’uomo può.
2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro
Secondo aspetto, il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro, questione non solo di equità di genere ma anche di sviluppo economico, stante il livello di occupazione femminile che non raggiunge il 48%, con il record negativo al Sud di una sola donna su tre al lavoro. Più della metà dei talenti del nostro paese sono lasciati in panchina determinando una fetta di PIL che potrebbe essere attivata e che invece giace inerme. Da almeno venti anni questa sfida è persa, e di certo gli strumenti già sperimentati (incentivi economici, contributivi, piani di welfare ecc.) non sono stati adeguati. La sfida o la convenienza per le imprese non è stata evidentemente all’altezza della portata del cambiamento richiesto. Il Piano cerca di forzare la mano sostenendo la crescita dell’occupazione femminile soprattutto nelle funzioni di cura e assistenza di cui il paese ha bisogno, ma dimenticando alcune controindicazioni: con questa proposta si rafforza la segregazione professionale femminile, si ripropone il modello di donna care giver (a casa e al lavoro) e lo stereotipo della cura come ambito esclusivamente femminile, ma ancor più si dimentica che il settore di cura e assistenza è caratterizzato da bassi livelli retributivi e stagnazione professionale. Quindi se la direttrice primaria dell’incremento dell’occupazione femminile è associata a questa ipotesi, senza correttivi, significa automaticamente produrre più occupazione a basso reddito e contribuire all’aumento dei differenziali retributivi di genere. La chance di creazione di nuova occupazione non dovrebbe essere “a qualunque costo”, ossia non può essere accettabile scindere la quantità dalla qualità nella creazione di occupazione, altrimenti se bastasse solo la quantità potremmo essere comodamente un popolo di voucheristi o stagionali.
2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali
Circa la presenza delle donne nei luoghi decisionali, accessibili non per merito ma per cooptazione, il tema dello scarso appeal del lobbying femminile è noto e radicato. C’è voluto un obbligo di norma con associata sanzione per aumentare la presenza femminile nei Cda, ma anche in questo caso non senza battaglie e polemiche sia da parte degli uomini fuori quota, sia da parte di un certo femminismo che rivendica senza compromessi la propria autonomia al di fuori di ogni meccanismo di quota. Personalmente faccio parte della schiera delle pro quota pentite, perché passata la stagione giovanile di fiducia nel merito e nelle competenze, a fronte delle insormontabili rigidità del sistema Italia, ad ampio spettro, mi sono convinta che a volte uno scossone serve, anche per via impopolare. D’altronde le quote, come ogni meccanismo di azione positiva, nella loro eccezionalità sono state pensate dal legislatore proprio per conseguire attraverso un’operazione di shock la finalità socialmente rilevante che per vie ordinarie non si è potuta raggiungere. Ovviamente si confida nella adeguata capacità di selezione delle donne in quota, pena ottenere l’effetto opposto a quanto progettato.
2.4. I differenziali retributivi di genere
E’ solo accennato nel Piano, perché oramai appartiene alla moda e alla retorica, ma è talmente complesso da un punto di vista tecnico da non far accettare la sfida di entrare nel merito, il tema dei differenziali retributivi di genere. Probabilmente su questo aspetto ci voleva più coraggio perché la questione è la spia definitiva di come le politiche e le culture organizzative delle imprese determinano i loro effetti di genere, ossia le ricadute su uomini e donne. Il tema è complesso e non è questa la sede per sviscerarlo, basti solo accennare che, al di là della parità retributiva sancita per norma, il differenziale si misura nella variabilità e discrezionalità della valutazione della produttività delle risorse umane. E di qui torna forte il tema di genere, ossia come sono percepite e remunerate le caratteristiche di uomini e donne che lavorano. E un tema come questo necessita non di strumenti di sotf law come linee guida e codici di condotta, ma di un presidio istituzionale di garanzia e di un ruolo concordato della contrattazione collettiva.
2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità
Ultima considerazione sul tema della conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità. Premesso che sulla scelta del termine “conciliazione dei tempi di vita” sussiste un ampio dibattito, concordo con una sua riformulazione più aderente agli obiettivi delle politiche. I tempi di vita comprendono anche il lavoro, quindi il lavoro non ne è escluso. Inoltre proprio per la finalità importante di riduzione degli stereotipi e del mutamento culturale in ottica di genere, accanto a “conciliazione” va espresso il termine di “condivisione”, perché specifica come la funzione di riequilibrio tra lavoro ed esigenze di cura ampiamente intese debba essere svolta. A conciliare semplicemente, in modo equilibristico possono – e lo fanno da sempre – anche solo le donne. La condivisione invece implica che questa operazione di scelte valoriali e organizzative debba avvenire in condizione di parità nella coppia e nella famiglia. Proprio perché uomini e donne hanno uguali diritti e devono avere uguagli opportunità.
Il Piano affronta il tema delle compatibilità tra lavoro per il mercato e lavoro di cura, nei suoi diversi aspetti: aumento delle strutture dedicate alla fascia di figli 0-3 e misure di carattere promozionale e fiscale sulle famiglie già in dibattito nel cd. Family act. Prevede inoltre la creazione di un’apposita figura professionale del “Work life balancer” che in assenza di uno specifico dettaglio rischia di sovrapporsi alle funzioni già presidiate a livello istituzionale dai CUG, Comitati pari opportunità e Consigliere di parità territoriali, oltreché dagli organismi sindacali per quanto riguarda gli specifici luoghi di lavoro. Si tratterebbe, a mio avviso, di un’ennesima etichetta, un brand che ammanta un tema che ha già troppi proclami e poca operatività. Sono comunque, queste, tutte misure “da finalizzare” attraverso l’intervento pubblico. L’unica considerata come attuabile da subito con interventi privati è il sostegno al welfare aziendale, come era prevedibile stante il background dei componenti il Comitato. Anche questo, un tema importante da non poter liquidare in due righe. Da tenere presente solo un rischio di cui non si intravede argine: non affidare al welfare aziendale, proprio di contesti attrezzati per dimensione e budget, una funzione di sostegno al welfare che deve essere universale. Qui il tema di genere è forte. Così come la conciliazione non è “un problema delle donne”, così la sua “risoluzione” non è competenza esclusiva dell’azienda. Il welfare aziendale non può e non deve sostituire la funzione inclusiva del welfare universale e la politica non può prendersi la responsabilità di tagliare la spesa sociale facendo affidamento sulla capacità di sviluppo del welfare aziendale che per sua natura è privatistico e integrativo. Ultima notazione a questo proposito. Attenzione agli effetti di genere del welfare aziendale. Perché laddove il servizio offerto venga a sostituire parte del salario di produttività e laddove questi servizi vengano usufruiti principalmente da donne, avremmo sì la risoluzione di un problema di conciliazione, ma ancora una volta a carico delle donne e a detrimento del salario femminile. Quindi l’utilizzo del welfare aziendale ha profonde connotazioni di genere e può rischiare di aumentare il differenziale salariale tra uomini e donne.
2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza
Mi soffermo su questo ultimo punto non per commentare le misure, che purtroppo non sono mai adeguate e mai sufficienti, né per la fase di recupero né tanto meno per la fase di prevenzione su cui il nostro paese giace vergognoso e silente.
Questo tema ha una dimensione e una portata talmente grande che connotarlo come “parità di genere” appare quasi offensivo. La violenza di genere attiene alla dimensione dei diritti umani e ai presupposti di una società civile. Quindi stona parecchio vederlo come ultimo punto dopo un set di misure fiscali. E probabilmente questa scelta è una di quelle che fa gioco ai detrattori delle questioni di genere, intese come “roba da donne”. Essere oggetto di violenza non è questione di donne. Non essere più picchiate, abusate e violentate fisicamente e moralmente non è una questione di parità tra uomini e donne. Non lo sarebbe nemmeno se agli uomini maltrattanti fosse restituito il pari trattamento che hanno inferto. Quindi su questo punto la mia opposizione al guardare questo tema come parità di genere è totale ed etica, da donna e da cittadina di uno Stato demcratico.
3. Riflessioni conclusive
In conclusione, il Piano aveva come obiettivo fornire un set di indicazioni al Governo per orientare la ripresa nei prossimi due anni. Stante il suo mandato consultivo non vincolante la strada scelta è stata quella di non presentare una riflessione strategica e una progettazione esecutiva orientata alla fattibilità, ma un ventaglio di opzioni più o meno percorribili per tempi, risorse e vision politiche. In questo senso, il Piano, più che un documento di indirizzo politico, appare più simile un ampio brainstorming che ha accolto, evidentemente, input provenienti dall’ampia fascia di stakeholdier consultati dai componenti il Comitato, con la conseguenza di riflettere la matrice culturale ed aziendale anche propria del suo coordinamento. Era inevitabile che fosse così e non è opinabile, in quanto è il risultato di una scelta a monte – non a caso Mariangela Mazzuccato, economista e teorica de “Lo Stato Innovatore” non lo ha avallato. Ma non è nel merito del complesso lavoro del Comitato che si innesta questa riflessione, quanto invece sulla valutazione del ruolo che può esercitare per la definizione in chiave politica dei temi di genere. Assolutamente negativo il trattare il tema della violenza maschile sulle donne nella cornice della parità di genere e inclusione. Positivo, invece, il mettere sul tavolo la questione di genere come un aspetto da cui la ripresa del Paese non può prescindere, tanto da declinarlo in obiettivo e misure specifiche e inviarlo al Governo come piattaforma di lavoro. Tuttavia, al di là di quello che il Piano dice, è importante anche quello che non dice, ossia il messaggio che questa impostazione necessariamente implica e che va inviato al policy making. Ossia quello che si deve fare e quello che di conseguenza… NON si deve fare. La parità di genere non essendo “una questione di parte”, un “problema delle donne” ha un elemento di trasversalità che contamina il modo di progettare e attuare tutte le politiche, perché i target di beneficiari sono comunque composti da uomini e donne. E quindi ne consegue che nella fase di ripresa tutte le azioni da mettere in campo, non solo quelle orientate formalmente alla parità, NON devono contribuire – anche in modo non voluto ed inconsapevole - al rafforzamento dei fattori che attualmente determinano la disparità di genere nella vita politica economica e sociale. E questo è probabilmente l’aspetto più difficile rispetto alla declaratoria di buone intenzioni, perché significa assumere il problema del riequilibrio come “proprio” e dotarsi della visione con cui analizzare la situazione. La previsione tra le misure proposte non solo di statistiche di genere ma di un’attività di Valutazione ex ante dell’Impatto di genere (VIG) può essere un ottimo strumento di partenza per rendere stabile e istituzionale questo approccio. Quanto ai contenuti, ho anticipato già la sintesi: Repetita iuvant. Significa che non c’è nulla di straordinario o particolarmente innovativo nelle misure proposte. Nessuno shock del sistema per la ripresa. Le direzioni indicate non sono esaustive, ma sono adeguate, in linea con le indicazioni fornite da tempo dalla ricerca, dagli operatori e dagli stakeholder che operano su questi temi. Manca forse un po’ di coraggio su alcuni aspetti e un po’ di consapevolezza degli effetti anche non voluti degli slogan proposti. Ma l’insistenza constante sui temi che ancora non sono adeguatamente presidiati dalla politica attraverso misure incisive e soprattutto stabili nel tempo, serve e va apprezzata. Perciò Repetita iuvant e speriamo che questa sia la volta buona.
[1] Esperta di mercato del lavoro e politiche di genere. Ricercatrice INAPP e Consigliera regionale di parità del Lazio. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo gli Istituti di appartenenza.
[2] La cd. Teoria gender di derivazione anglosassone, sorta a fine XX secolo e sostenuta da ambienti tradizionalisti cattolici, afferma che gli studi di genere sottendano un progetto predefinito mirante alla distruzione della famiglia e di un supposto «ordine naturale» su cui fondare la società. Lo studio di genere viene imputato di propagandare l'inesistenza di qualsivoglia differenza tra i sessi biologici, da ciò discendendo la variabilità del proprio sesso a piacimento, nelle diverse fasce della vita degli individui (scuola, educazione, lavoro ecc.). Tra i molti commenti al Piano Colao, la sola presenza del termine “genere” ha fatto levare gli scudi di una parte dell’opinione pubblica, molto attiva anche sui social, che ha denunciato da l’aspetto di “deviazione” delle proposte, riferibili alla cd. teoria gender che, nonostante le smentite fondate ed argomentate, per diversi anni ha sollevato dibattiti ideologici circa la presunta deviazione delle menti apportata da un’educazione ed una comunicazione orientata ai ruoli sessuali e al concetto di parità legata ai ruoli.
[3] Il Comitato di esperti in materia economica e sociale istituito con DPCM del 10 aprile 2020 è composto da Enrica Amaturo, Donatella Bianchi, Marina Calloni, Elisabetta Camussi, Roberto Cingolani, Vittorio Colao, Riccardo Cristadoro, Giuseppe Falco, Franco Focareta, Enrico Giovannini, Giovanni Gorno Tempini, Giampiero Griffo, Maurizia Iachino, Filomena Maggino, Enrico Moretti, Riccardo Ranalli, Marino Regini, Linda Laura Sabbadini, Raffaella Sadun, Stefano Simontacchi, Fabrizio Starace.
[4] Si legge a pag. 6 del documento “per consentire alle donne, ai giovani, alle persone con disabilità, a chi appartiene a classi sociali e territori più svantaggiati e a tutte le minoranze di contribuire appieno allo sviluppo della vita economica e sociale, nel rispetto del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. La parità di genere – Obiettivo 5 dell'Agenda 2030 – è fondamentale per la crescita e deve diventare, per la prima volta, una priorità del Paese, anche grazie a valutazioni ex-ante delle diverse politiche economiche e sociali. Altrettanto cruciale è una drastica riduzione delle disuguaglianze economiche, territoriali e generazionali, che sono cresciute negli ultimi anni e che costituiscono un grave problema, oltre che di equità, anche di freno allo sviluppo economico e sociale del Paese”.
[5] 1. Le Imprese e il Lavoro, riconosciuti come motore della ripresa, da sostenere e facilitare per generare profonde innovazioni dei sistemi produttivi; 2. Le Infrastrutture e l’Ambiente, che devono diventare il volano del rilancio, grazie alla rapida attivazione di investimenti rilevanti per accelerare la velocità e la qualità della ripresa economica; 3. Il Turismo, l’Arte e la Cultura, che devono essere elevati a brand iconico dell’Italia, attraverso cui rafforzare sistematicamente l’immagine del Paese sia verso chi risiede in Italia, sia verso i cittadini di altri paesi;4. La Pubblica Amministrazione, che deve trasformarsi in alleata di cittadini e imprese, per facilitare la creazione di lavoro e l’innovazione e migliorare la qualità di vita di tutte le persone; 5. L’Istruzione, la Ricerca e le Competenze, fattori chiave per lo sviluppo; 6. Gli Individui e le Famiglie, da porre al centro di una società equa e inclusiva, perché siano attori del cambiamento e partecipi dei processi di innovazione sociale
[6] Su questo tema una breve fiaba per bambini (e adulti) è illuminante: La bambola di Alberto di Clothilde Delacroix, Charlotte Zolotow (trad.it Isabella Maria) EDT - Giralangolo, 2014
La forza del precedente delle Sezioni Unite alla prova della “revocatoria tra fallimenti”(nota a Cass.S.U. n.12476/2020)
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. La “revocatoria tra fallimenti” - 2. Il primo tentativo: la Sezioni Unite del 2018 - 3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019 - 4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020 - 5. A mo’ di conclusioni.
1. La “revocatoria tra fallimenti”.
Il tema che si intende affrontare in queste brevi note concerne un classico del diritto fallimentare: l’ammissibilità della revocatoria degli atti traslativi, nel caso di fallimento dell’accipiens intervenuto prima della domanda del creditore.
Si tratta di una problematica certo non di grandissimo impatto in termini numerici negli uffici giudiziari italiani e spesso caratterizzata dalla presenza di una curatela fallimentare – quella del cedente – (chè è difficile immaginare un creditore che si muova autonomamente per la revocatoria di un atto traslativo contro una procedura fallimentare), la quale agisce in giudizio contro altra curatela fallimentare, quella del cessionario, al fine di ottenere, previa declaratoria di inefficacia dell’atto traslativo, la restituzione del bene ceduto: da qui nel linguaggio corrente la definizione, forse sbrigativa ma efficace, della tematica come “revocatoria tra fallimenti”.
Ora, durante i primi settant’anni dall’entrata in vigore della legge fallimentare del ’42, la Cassazione assai di rado si era occupata ex professo della revocatoria tra fallimenti; e tuttavia, all’inizio del decennio scorso, in due precedenti l’uno in rapida successione all’altro, la S.C. affermò seccamente che non è ammissibile promuovere l'azione revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento, stante, da un lato, il principio della c.d. “cristallizzazione” del passivo alla data di apertura del concorso e, dall’altro, la natura costitutiva della detta azione revocatoria (Cass. 12 maggio 2011, n. 10486; Cass. 8 marzo 2012, n. 3672).
Questa soluzione, tuttavia, come evidenziato in dottrina (De Santis, in Fall., 2019), lascia nell’interprete la spiacevole sensazione di un vero e proprio vuoto di tutela, perché i creditori del venditore vengono ineluttabilmente a trovarsi privati della garanzia patrimoniale generica costituita dal bene venduto, e ciò solo a causa di un accidente del tutto estraneo alla loro sfera di volontà: la dichiarazione di fallimento del cessionario intervenuta prima della notifica dell’atto di citazione.
Da questa evidente disarmonia del sistema nascono gli sforzi – che definirei pervicaci – messi in atto negli ultimi anni dalla Prima sezione civile della S.C. nel dialogo diretto con le sue Sezioni Unite, tesi ad individuare un rimedio giuridico che, superando la barriera dell’inammissibilità, consentisse di accordare tutela anche alle ragioni dei creditori del cedente.
2. Il primo tentativo: le Sezioni Unite del 2018
Le vicende processuali che andiamo in prosieguo di questo scritto a raccontare, prendono le mosse appunto da una ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile (Cass. 25 gennaio 2018, n. 1894), che nel caso concernente una azione revocatoria ordinaria dell’atto di cessione di azienda in favore di una società – successivamente dichiarata fallita –, avviata dal curatore del cedente dopo l’apertura del concorso del cessionario, dispose la trasmissione degli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, segnalando l’esistenza di un contrasto sull’ammissibilità o meno dell'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento e valutando, comunque, la questione come di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, c.p.c.
Chiamate allora a pronunciarsi per la prima volta sul quesito dell’ammissibilità della revocatoria tra fallimenti, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 23 novembre 2018, n. 30416), anzitutto, chiarirono che non si rinveniva alcun contrasto tra le decisioni delle sezioni semplici, atteso che le pronunce indicate dall'ordinanza interlocutoria, come espressive di un difforme orientamento rispetto a quello più recente (rappresentato dalle citate Cass. n. 10486 del 2011 e Cass. n. 3672 del 2012), avevano deciso su quesiti estranei a quello in esame.
Difettavano dunque i presupposti di un intervento di ricomposizione dell'ipotizzato (ma, in realtà, inesistente) contrasto di giurisprudenza; trattandosi peraltro di questione sottoposta come «di massima di particolare importanza», le Sezioni Unite affrontarono i tre principali argomenti prescelti dall’ordinanza interlocutoria, così riassunti:
a) la ritenuta efficacia retroattiva dell’azione revocatoria, corroborata dalla circostanza che il debito restitutorio è un debito di valore e che gli interessi sulla somma da restituire decorrono dalla data di costituzione in mora, con la conseguente incidenza di tali regole sul c.d. principio di cristallizzazione della massa passiva;
b) l'affermazione che l'azione revocatoria, «secondo una convincente opinione, emersa in dottrina», costituirebbe una «azione di accertamento con effetti costitutivi» diretta a ricostituire la garanzia patrimoniale del debitore che, quindi, non incontrerebbe il divieto dell'art. 51 l.fall., che impone di realizzare il credito con le forme e nell’osservanza del rito fallimentare;
c) la rilevanza, sul piano sistematico, dell’art. 91 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, che disciplina la c.d. revocatoria aggravata infragruppo.
Orbene, a parere delle Sezioni Unite del ‘18, tutti gli argomenti compendiati sub a) e b) non risultavano persuasivi.
Invero, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la S.C. ebbe ad affermare il principio secondo cui l’azione revocatoria fallimentare, spiegata ai sensi dell'art 67 l.fall., dà luogo ad una sentenza con effetti costitutivi.
E le Sezioni Unite, nel 1996, dettarono il principio secondo cui «la sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943, ultimo comma, c.c.)».
Simili affermazioni vennero poi ribadite e argomentate da molte altre decisioni, a proposito della natura del debito da restituirsi e degli interessi da calcolarsi sullo stesso (tra le tante, Cass. 30 luglio 2012, n. 13560).
In forza dei ridetti richiami, le Sezioni Unite del ’18 possono affermare come «pacifico e stabilizzato», l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura costitutiva della sentenza in esame.
Dalla natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda revocatoria, poi, consegue che, poiché gli effetti tipici della stessa sono quelli della creazione di una situazione giuridica nuova, l’inammissibilità dell'azione de qua appare saldamente fondata sulla regola della c.d. “cristallizzazione” della massa passiva alla data del fallimento.
È infatti proprio la regola della cristallizzazione della massa passiva, secondo le Sezioni Unite del ’18, che impedisce di invocare nei confronti del fallimento una pretesa giuridica che si produce soltanto a seguito della sentenza di accoglimento della domanda. L'effetto dell'inefficacia dell'atto revocando, che è propriamente il centro della pronuncia di accoglimento dell'azione revocatoria, si costituisce esclusivamente con la pronuncia giudiziale di revoca, sicché si può parlare di “diritto quesito” alla revoca solo se la causa sia stata promossa prima del fallimento e se la domanda sia stata trascritta anteriormente al fallimento del terzo che subisce l’azione revocatoria ordinaria.
Quanto all’argomento sub c), quello che evocava la previsione dell'art. 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, secondo la sentenza di cui si discorre il richiamo non appariva pertinente, poiché riguardava una procedura “speciale”, ancorata a presupposti specifici – con i connessi problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare –, che non consentivano di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della detta regola anche alle procedure fallimentari, oltre il caso dalla stessa disciplinato (che è quello del compimento di atti tra imprese facenti parte di uno stesso gruppo di imprese).
Alla luce dei ragionamenti sopra esposti, il principio di diritto che conclusivamente intese esprimere Cass. S.U. n. 30416 del 2018 appare netto: «È inammissibile l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, esperita nei confronti di un fallimento, trattandosi di un'azione costitutiva che modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente ed operando il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori».
3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019
Ma ecco che a distanza di pochi mesi dall’arresto delle Sezioni Unite, la Prima sezione civile (Cass. 23 luglio 2019, n. 19881) ci riprova, anche sulla spinta delle reazioni alla decisione della S.C., invero assai tiepide, registratesi nella dottrina (Campione, in Dir. Fall., 2019; Fabiani, in Riv. dir. proc., 2019).
Pure nel nuovo caso all’esame della S.C. si era in presenza di una cessione d’azienda in favore di società poi fallita, oggetto tuttavia di una domanda di rivendica di beni mobili ex art. 103 l.fall., sull’assunto dell’inefficacia dell’atto traslativo, promossa dopo la dichiarazione di fallimento del cessionario; con la citata ordinanza interlocutoria, mostrando di non ritenersi appagata dalle conclusioni cui erano giunte assai di recente le S.U., la Prima sezione civile rimette gli atti al Primo presidente della S.C. per sollecitare una rimeditazione del detto orientamento.
L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, stavolta, enuclea ben quattro argomenti a sostegno del suo secondo tentativo di rimettere in discussione la tesi dell’inammissibilità della revocatoria tra fallimenti.
i) Anzitutto, il provvedimento in esame segnala le novità introdotte dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito breviter c.c.i.), la cui disciplina, sebbene pacificamente non applicabile ratione temporis, avrebbe «fini interpretativi e ricostruttivi, perché, da un lato, la stessa fa ora parte integrante dell'ordinamento positivo (nonostante la lunga vacatio legis prevista) e perché, dall'altro, segna un'evidente incrinatura nelle argomentazioni spese dalle Sezioni Unite nel precedente arresto».
In particolare, il collegio richiama l’art. 290, comma 3, c.c.i. che ha fissato la regola a tenore della quale Il curatore della procedura di liquidazione giudiziaria aperta nei confronti delle altre società del gruppo può esercitare, «nei confronti delle altre società del gruppo», l'azione revocatoria.
ii) Ancora, l’ordinanza interlocutoria sottolinea come la giurisprudenza di legittimità richiamata nella sentenza delle Sezioni Unite del ‘18, si fosse occupata esclusivamente di revocatorie fallimentari aventi a oggetto pagamenti del fallito e, lungi dal confrontarsi con il fallimento dell'accipiens, era stata chiamata a risolvere sempre problemi quali la decorrenza della prescrizione dell’azione e la natura “di valore” o “di valuta” dell'obbligazione restitutoria gravante sul terzo in bonis.
iii) Inoltre, secondo il Collegio della sezione semplice è vero che le Sezioni Unite nella sentenza del ‘18, precisano che la revocatoria è consentita nell'ipotesi in cui la relativa domanda sia stata trascritta anteriormente alla trascrizione della sentenza che ha aperto il fallimento. Tuttavia, non tutte le domande giudiziali sono trascrivibili, laddove tutti gli atti dispositivi (a prescindere dal loro oggetto) sono astrattamente revocabili, ai sensi degli artt. 2901 c.c., 66 e 67 l.fall.; ciò significa, secondo il provvedimento in esame, che per i beni – in relazione ai quali non è prevista la trascrizione della domanda giudiziale in pubblici registri – mancherebbe la possibilità di rendere opponibile al fallimento dell'acquirente una domanda revocatoria.
iv) Infine, dubbi sorgerebbero con riferimento al concetto di “cristallizzazione” del patrimonio adottato dalle S.U. del ’18. Cristallizzazione significa fissazione della massa passiva al momento della dichiarazione, nel senso di irrilevanza di nuove obbligazioni, o di aggravio di preesistenti, in capo al fallito, cioè di sopravvenienze: sopravvenienza non potrebbe, tuttavia, considerarsi la soggezione a revoca di preesistenti acquisti.
Non sarebbe infatti vero – come invece avrebbero l’anno prima sostenuto le Sezioni Unite – che la sentenza d'accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, limiti la sua retroattività alla data della domanda, perché la revoca ha ad oggetto l’atto alla data del suo compimento. Al riguardo, sarebbe sufficiente considerare che la norma dell'art. 2652, n. 5), c.c. – quella che sottrae all'effetto revocatorio l’acquisto dei sub acquirenti di buona fede –, ha un senso solo quale eccezione alla regola per cui il successivo acquirente dall’avente causa acquista cum onere, evenienza quest'ultima che, a sua volta, postula che l'accoglimento della revocatoria retroagisca alla data di acquisto del suo dante causa.
4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020
Dunque, a distanza di meno di due anni dal precedente arresto, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 24 giugno 2020, n. 12476), tornano a pronunciarsi sul tema della “revocatoria tra fallimenti”.
La linea motivazionale della sentenza in commento è chiaramente ispirata dall’esigenza di tenere fermi gli insegnamenti della Cassazione, che erano stati acclarati come consolidati dal recentissimo precedente del 2018.
Anzitutto, non persuade il Collegio la tesi fondata sulle novità in tema di revocatorie infragruppo contenute nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, trattandosi del frutto di una scelta legislativa – completamente nuova e distinta – di disciplinare in modo specifico l’insolvenza del gruppo societario in sé considerato; «scelta nuova e distinta che corrisponde a un inedito dettame della legge delega, e quindi non tale da poter essere utilmente richiamata col fine di incidere sull’esegesi di inesistenti norme anteriori».
Quanto ai dubbi avanzati dall’ordinanza interlocutoria in ordine alla natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, sempre le Sezioni Unite ricordano che essa costituisce espressione di un insegnamento «sedimentato, logico e assolutamente coerente», basato sulla considerazione che la sentenza modifica ex post una situazione giuridica preesistente e che risulta avallato da ben tre sentenze della S.C. a Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5443 del 1996, Cass. S.U. n. 437 del 2000 e, infine, appunto, Cass. S.U. n. 30416 del 2018).
Pure mostrando di volersi muovere in maniera rigorosa lungo il solco tracciato dal precedente del ’18, le Sezioni Unite del ‘20, ambiscono, tuttavia, a superarne le conclusioni in termini di radicale inammissibilità dell’azione revocatoria.
Invero, secondo la sentenza in parola, è anzitutto opportuno chiarire che in tema di revocatoria dell’atto di trasferimento di un bene, la sopravvenienza del fallimento dell’accipiens assume rilevanza a causa del principio di “cristallizzazione” non del passivo – come aveva sostenuto la sentenza del ’18 e, sulla sua scia, pure l’interlocutoria del ’19 –, bensì, esattamente al contrario, per il principio di “cristallizzazione” dell’attivo o del cd. asse fallimentare.
In altre parole, nel sistema della legge fallimentare l’apertura della procedura apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito “per titolo anteriore alla sentenza”; ora, se la domanda revocatoria è successiva al fallimento dell'acquirente, ove potesse essere in thesi accolta, essa finirebbe per recuperare il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell’alienante e quindi, specularmente, per determinare la sottrazione del bene medesimo alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente, sulla base di un titolo giudiziale formatosi dopo la sentenza dichiarativa del fallimento di costui: tutto ciò, chiaramente, non è consentito dall’ordinamento, perché contrasta col complesso di regole desumibili dagli artt. 42, 44, 45, 51 e 52 l.fall.
E allora, secondo la pronuncia in esame, occorre partire da un elemento che può dirsi pacifico nella giurisprudenza della S.C.: oggetto della domanda di revocatoria (sia essa ordinaria che fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità del bene a esecuzione (tra le tante, Cass. 8 novembre 2017, n. 26425).
Dunque, il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all'interesse di quei creditori, soltanto per il suo valore; ciò consente agevolmente di affermare che il fallimento dell’accipiens, dichiarato dopo l’atto di alienazione, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, «non anche di quella restitutoria per equivalente, parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale».
Ne discende, secondo le Sezioni Unite del ‘20, che, in maniera non dissimile da quanto accade quando il bene sottratto ai creditori sia stato già ceduto ad un terzo sub acquirente (purché con atto già trascritto), il fatto storico del fallimento dell’acquirente impedisce al creditore di recuperare il bene onde esercitare su questo l’azione esecutiva, ma non certo di insinuarsi al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore.
Così argomentando, finalmente, il massimo organo della nomofilachia può giungere alla conclusione che l’azione revocatoria di un atto di trasferimento di un bene in favore dell’accipiens poi fallito deve ritenersi ammissibile, alla sola condizione che essa venga esercitata non mediante una ordinaria azione costitutiva tesa alla declaratoria di inefficacia dell’atto di cessione del bene venduto onde recuperarlo in vista della sua liquidazione forzata, bensì con una «domanda restitutoria per equivalente», che stante l’indefettibilità del procedimento di insinuazione al passivo dovrà manifestarsi nella forme della domanda ex art. 93 l.fall.; e sempre che naturalmente il creditore del cedente (ovvero, in caso di fallimento di quest’ultimo, il curatore che ne rappresenta la massa) chieda al giudice delegato del fallimento del cessionario «la delibazione della pregiudiziale costitutiva».
5. A mo' di conclusioni
L’aspetto apparentemente singolare che accumuna entrambe le vicende processuali sin qui narrate è che, sia nel 2018 come nel 2020, le curatele dell’alienante ricorrenti in cassazione – poiché ancora una volta si trattava di casi in cui erano stati dichiarati falliti entrambi i contraenti – rimangono alla fine del lungo iter giudiziario entrambe soccombenti: la prima volta perché la revocatoria ordinaria nei confronti del fallimento del cessionario venne dichiarata tout court inammissibile e la seconda, essendo stata proposta una domanda di rivendica dei beni oggetto dell’azienda ceduta e non quella – l’unica ritenuta ammissibile – di insinuazione al passivo per il loro controvalore.
Credo, tuttavia, che al di là del comune esito infausto per le procedure ricorrenti, possa tranquillamente affermarsi che nella progressione dall’arresto del ’18 a quello del ’20, pure mostrando un formale ossequio alla tesi della natura costitutiva dell’azione revocatoria, le Sezioni Unite – a costo di sottoporre ad una certa torsione il c.d. principio della stabilità del precedente, viuppiù degno di considerazione quando si tratta di rimeditare un arresto delle Sezioni Unite (come si coglie appieno dalla lettura dell’art. 374 c.p.c.) – abbiano inteso manifestare l’apprezzabile tentativo di individuare una strada per assicurare l’effettività della tutela alle ragioni del creditore dell’alienante.
Insomma, se la n. 30416 del 2018 si era fermata di fronte all’ostacolo ritenuto insormontabile della natura costitutiva dell’azione, la n. 12476 del 2020 che qui si commenta, ha certamente il merito di avere sagacemente individuato, sollecitata dalla seconda ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, nell’insinuazione al passivo per il controvalore del bene trasferito, la chiave giuridica che consente di aprire la porta alla massa dei creditori del cedente che invocano la tutela delle loro ragioni.
C’è da sperare, allora, che il descritto revirement delle Sezioni Unite della S.C., consenta finalmente in futuro ai curatori dei falliti che ha posto in essere atti di dismissione del proprio patrimonio nel c.d. periodo sospetto, di imbroccare la strada giusta per la tutela degli interessi della massa, nel giusto bilanciamento con gli interessi dell’altra massa, quella dei creditori dell’accipiens.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte Prima: inquadramento storico ed eurounitario.
La valutazione d’idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie.[1]
di Pasquale Serrao d’Aquino
“Les juges de la nation ne sont que… des êtres inanimés, qui n’en peuvent modérer ni la force ni la rigueur” Montesquieu
“Il giudice è il diritto fatto uomo; solo da questo uomo io posso attendermi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge mi promette: solo questo uomo saprà pronuciare a mio favore la parola della giustizia, potrò accorgermi che il diritto non è un'ombra vana.” P. Calamandrei
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il procedimento di valutazione secondo il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei - 3. Cenni storici - 4 La riforma del sistema delle valutazioni di professionalità - 5. L’idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT - 5.1. L’esito della valutazione - 5.2. Un caso di proroga del tirocinio di MOT e successiva deliberazione di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
1. Introduzione
Sono trascorsi tredici anni dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007 nel corso dei quali si sono costantemente analizzate le ricadute pratiche e i problemi sollevati dal nuovo sistema delle valutazioni di professionalità, lasciando in soffitta, però, lo stimolante dibattito che l’ha preceduta.
Nella quotidianità le valutazioni di professionali ordinariamente sono vissute dai molti dirigenti come un defatigante adempimento burocratico e dalla maggioranza dei magistrati come un inutile aggravio di adempimenti alla loro progressione in carriera ed economica, almeno da quelli che non sono incorsi in incidenti di carriera o che non sono concentrati sulle <
Non può negarsi, se si guardano le statistiche quasi bulgare di valutazioni positive (infra) che lo cose in buona parte stiano così, ma è altrettanto indiscutibile che il sistema di valutazione di professionalità occupi, invece, uno dei posti centrali nell’ordinamento giudiziario. Esso, infatti, dal punto di vista procedimentale investe l’intera articolazione dell’organizzazione giudiziaria: il presidente di sezione, il dirigente, il consiglio giudiziario, il CSM.
Inoltre, se si guarda all’oggetto del giudizio e alle sue interferenze con altri aspetti ordinamentali, risulta evidente come lo stesso investa tematiche sensibili quali il giudizio disciplinare, il trasferimento per incompatibilità ambientale, la sospensione dal servizio, il conferimento di incarichi direttivi, l’accesso alle funzioni di legittimità, ecc.
Ancora, se si considerano le fonti a cui attingere, l’iter procedimentale finisce con il coinvolgere potenzialmente, quanto al ruolo dei consigli giudiziari, il rapporto tra uffici giudiziari (si pensi alle proposte di acquisizione della valutazione espressa dagli uffici cd. “dirimpettai”, giudicante e requirente) e con l’Avvocatura (il ruolo dei Consigli dell’Ordine nelle valutazioni è respinto o auspicato, con dovizia di argomenti contrapposti, nonché proposto nella riforma della Commissione Vietti del 2016), oltre che, in parte, con l’intera collettività.
Soprattutto, l’estensione, la natura del giudizio, il tipo di garanzie, la centralità assegnata alla funzione giudiziaria, il peso specifico di alcuni indicatori (si pensi al rapporto tra qualità e quantità), la previsione dei cd. prerequisiti assumono un ruolo decisivo nel delineare il modello di magistratura voluto, finendo con l’interessare non solo l’ordine giudiziario, ma anche l’intera collettività.
Fissare il baricentro della valutazione del magistrato è una operazione che presuppone e che al tempo stesso definisce una idea ben precisa del ruolo della giurisdizione nella Comunità. Non è questione tecnica, ma valoriale attribuire o meno rilevanza alla sua attività complessiva oppure a singoli provvedimenti; scegliere se questi ultimi devono prodotti dall’interessato o, invece, estratti a campione; privilegiare l’originalità dell’elaborazione o la sua conformità agli orientamenti dominanti; imperniare tutto sul lavoro giudiziario oppure dare spazio ad attività “parallele” come le pubblicazioni scientifiche e le funzioni svolte fuori ruolo; dare la giusta rilevanza alla sua capacità di organizzazione del lavoro, alle sue capacità relazionali con altri magistrati, col personale amministrativo e con i colleghi; selezionare la tipologia di risultati conseguiti, qualitativi, quantitativi, individuali, globali dell’intero ufficio, etc..
Si tratta, pertanto, di un tema di natura politica, e appartenente alla sfera di indirizzo politico-costituzionale, perché presuppone cosa debba o non debba fare il Giudice, quale sia il modello di giurisdizione e di giudice delineato dalla Costituzione materiale e al quale contribuisce il CSM e, in parte, l’autogoverno locale[2].
Valutare la professionalità, inoltre, non è solo giudicare la capacità, laboriosità, impegno e diligenza nell’esercizio della funzione giudiziaria ma anche verificare il rispetto di regole deontologiche, dell’accertamento di indipendenza, imparzialità ed equilibrio; per tale motivo la sua disciplina incide sensibilmente sullo status costituzionale dei magistrati.
È questa la ragione per la quale “Spettano al C.S.M., secondo le norme di ordinamento giudiziario”, tra le altre materie, “le promozioni dei magistrati” (art. 105 Cost.). La legge 24.3.1958, n. 195 istitutiva del Consiglio Superiore, all’art. 10 ribadisce tale attribuzione: “Spetta al Consiglio Superiore deliberare: 1) sulle assunzioni in Magistratura, assegnazioni di sede e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento sullo stato dei magistrati…”.
Del resto, il procedimento di verifica della professionalità non può non essere modellato tenendo conto delle irrinunciabili guarentigie di indipendenza della giurisdizione e non potrebbe, quindi, pretermettere il tema dei limiti da porre al suo ambito, al suo oggetto, alla procedura di verifica.[3]
La prima parte di questo studio sulle valutazioni di professionalità dei magistrati riporta gli orientamenti eurounitari circa la metodologie di valutazione e i rischi per l’indipendenza del giudice e opera, inoltre, un sintetico inquadramento storico; successivamente esso affronta specificamente il tema della valutazione di idoneità alle funzioni giudiziarie dei magistrati ordinari in tirocinio.
La seconda parte ricostruisce invece, il quadro generale delle valutazioni di professionalità previste dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007 in base agli atti consiliari e alla giurisprudenza amministrativa e disciplinare, per poi esaminarne i nodi problematici.
2. Il procedimento di valutazione secondo il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei
Anche gli organi eurounitari sono pienamente consapevoli della rilevanza delle valutazioni per l’indipendenza della magistratura.
La Raccomandazione CM/Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli stati membri sui giudici[4], premettendo che <
La Magna Carta dei giudici del 2010, approvata dal Consiglio consultivo dei giudici europei, al punto 5, sulle garanzie di indipendenza, prevede che «le decisioni sulla selezione, la nomina e la carriera debbono essere basate su criteri obiettivi determinati dall’organo di tutela dell’indipendenza».
Già nel 2006 la relazione generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati (UMI), basata su una complessa e articolata attività di studio e comparazione tra i diversi sistemi ordinamentali, indica che la procedura valutativa deve applicare criteri chiari e definiti in precedenza, la motivazione o la fondatezza del giudizio non possono far parte della valutazione del giudice, a meno che non risulti chiaramente che sia arrivato a conclusioni di diritto errate in casi così numerosi da rendere ciò inaccettabile. La riforma delle decisioni, di per sé, non indica che il giudice non sia competente.[5] La citata Raccomandazione 12/2020 (par. 70) indica sul punto, quanto alla responsabilità, anche disciplinare dei magistrati che<< I giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione.>>.
Il 24 ottobre 2014 il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei, organo consultivo del Consiglio d'Europa in materia di indipendenza, imparzialità e competenza dei giudici, ha adottato l'Opinione n. 17, sulla valutazione del lavoro dei giudici, la qualità della giustizia e il rispetto per l'indipendenza giudiziaria[6].
Con tale documento si rappresenta come la valutazione del lavoro individuale del giudice possa migliorare la qualità della giustizia senza incidere sull'indipendenza, per poi procedere all'analisi delle prassi in atto negli Stati membri nonché dei problemi e soluzioni emersi e adottati nei diversi Stati.
Nella Opinione si afferma che le valutazioni di professionalità devono avere per fondamento previsioni normative chiare e dettagliate, eventualmente integrate dalla normativa secondaria dei Consigli di Giustizia e devono basarsi, per evitare personalismi, favoritismi, raccomandazioni e influenze politiche, su criteri oggettivi di merito, che tengano conto della qualificazione, integrità, abilità, efficacia del singolo magistrato.
Inoltre, richiamando i principi elaborati in materia dalla Rete dei Consigli di Giustizia e le Raccomandazioni di Kiev del 2010, si afferma che le valutazioni devono essere condotte sulla base sia di criteri qualitativi che quantitativi.
Quanto al parametro qualitativo bisogna prendere in considerazione la competenza professionale (la conoscenza del diritto, la capacità di condurre procedimenti giudiziari, la capacità di scrivere decisioni motivate), le competenze personali (la capacità di far fronte al carico di lavoro, la capacità di decidere, l’apertura alle nuove tecnologie), le competenze sociali, vale a dire la capacità di mediare, il rispetto per le parti; inoltre, la capacità di dirigere per coloro le cui posizioni lo richiedono.
Quanto, invece, al parametro quantitativo, si afferma che una valutazione del magistrato non dovrebbe essere mai il risultato della considerazione di soli dati statistico-quantitativi né essere incentrata solo sulla produttività. Quest'ultima può essere infatti influenzata da più fattori, quali le risorse a disposizione del giudice, per la messa a disposizione delle quali in modo adeguato ed efficiente sussiste una precisa responsabilità dello Stato.
Già nell’Opinione n. 11 del 2008 il CCGE aveva considerato che “la qualità, e non solo la quantità, delle decisioni giudiziarie deve essere al cuore della valutazione”. A tal fine i valutatori devono concentrarsi sul metodo adottato dal giudice nel suo lavoro piuttosto che sul merito delle decisioni individuali, considerando tutti gli aspetti che costituiscono “una buona prestazione giudiziaria, in particolare le conoscenze giuridiche, la capacità di comunicazione, la diligenza, l’efficienza e l’integrità.” [7].
È opportuno anche ricordare che la citata Opinione del 2014 raccomanda che le fonti di informazione siano affidabili e messe a disposizione dell’interessato.
Inoltre, essa chiarisce che, benché valutazione e ispezione debbano rimanere distinte, i fatti scoperti nel corso di un’attività ispettiva possono essere utilizzati a fini valutativi.
Ancora, aggiunge che il giudice sotto valutazione ha il diritto di esprimere il suo punto di vista; può essere eventualmente sentito; ha diritto ad impugnare la valutazione davanti ad una autorità indipendente o ad una corte.
I risultati della valutazione, seppur non debbano portare ad una sorta di graduatoria tra i giudici, possono essere utilizzati a fini di promozione, individuazione di bisogni normativi o attribuzione di risorse aggiuntive.
Il CCGE è ben consapevole anche del rapporto tra valutazione della professionalità e indipendenza del giudice: “È di cruciale importanza trovare il corretto bilanciamento tra tutela dell’indipendenza e necessità di valutazione; trasparenza delle regole, criteri oggettivi, diritto al contraddittorio, valutazione qualitativa del lavoro giudiziale nel suo insieme, eccezionalità di soluzioni estreme quali la destituzione costituiscono garanzie di un buon bilanciamento”. I criteri devono essere pubblici, ma le singole valutazioni devono restare confidenziali, per evitare di rendere vulnerabile il giudice ed esporlo ad attacchi verbali o di altro tipo. Inoltre, non può essere tenuto in considerazione il giudizio della pubblica opinione su un giudice in quanto esso può basarsi su “informazioni incomplete o persino su un completo fraintendimento del lavoro del giudice”. I risultati della valutazione in principio devono rimanere confidenziali e non resi pubblici. Ciò potrebbe infatti mettere a rischio l’indipendenza per l’ovvia ragione che tale pubblicazione potrebbe screditare il giudice agli occhi della collettività.
3. Cenni storici
“La magistratura ha una costituzione rigorosamente gerarchica”, affermava nel 1909 il guardasigilli in carica Vittorio Emanuele Orlando, in una intervista al Corriere d’Italia. Era consolidata, inoltre, la distinzione tra “alta” magistratura, composta dai giudici della Cassazione e dai vertici degli uffici distrettuali (presidenti di Corte di appello, procuratori generali, procuratori del re), e “bassa” magistratura, della quale faceva parte un nutrito numero di pretori, giudici di tribunale e sostituti procuratori del re. A quella distinzione corrispondevano, oltre a differenze di trattamento economico e di censo, due statuti diversi per guarentigie e percorsi di carriera[8].
Su iniziativa dei “giudici di sott’ordine”, venne fondata nel 1909 l’Associazione generale dei magistrati italiani (Agmi). Costoro richiedevano non solo un più adeguato trattamento economico, ma anche semplificazione della carriera e ruoli aperti, eleggibilità del C.s.m. da parte di tutti i gradi della magistratura ed estensione delle guarentigie della magistratura giudicante anche al pubblico ministero. Nel 1921 fu ottenuta l’estensione della inamovibilità ai pretori e l’elettività del C.s.m. da parte di tutto il corpo giudiziario. Ma con il fascismo tutto cambiò e la gerarchizzazione e il controllo politico divennero molto più intensi.
Il disegno di una magistratura fortemente gerarchizzata trovò il suo coronamento con l’ordinamento giudiziario del 1941, cd. ordinamento Grandi dal nome del Ministro Guardasigilli all’epoca dell’emanazione del R.D. 30.1.1941, n. 12.
Caduto il Regime, nonostante la Costituzione repubblicana distingua i magistrati solo per le funzioni, organizzazione piramidale e differenziazione di livelli retributivi rimasero, perpetuandosi un corpo della magistratura con dinamiche interne, aspettative personali e orizzonti culturali profondamente diversi. Spesso, del resto, furono le stesse persone, parte di una elite culturale e politica, a conservare le loro posizioni al vertice della magistratura e del Ministero durante queste fasi storiche ed i regimi politici profondamente diversi.
La magistratura italiana fino agli anni ‘60 era connotata da un sistema cd. “a ruolo chiuso”, in quanto il grado di appello o di consigliere della corte di cassazione veniva raggiunto mediante concorso e non per il maturare dell’anzianità.
L’asse dell’organizzazione, quindi, era costituito dalla progressione in carriera necessariamente fondata sulla coincidenza tra qualifiche e funzioni svolte, tra qualifiche e posti messi a concorso per “promozioni” e relativi trasferimenti. Carriera e avanzamento stipendiale erano, in altri termini, possibili solo all’interno di un sistema di concorsi per soli titoli a determinati e specifici uffici di magistrato di tribunale, di consigliere di Corte di Appello e di consigliere di Corte di Cassazione resisi in concreto vacanti, concorsi solo vinti i quali si raggiungeva, con il posto, la qualifica e la relativa progressione economica.
Le nomine, come del resto testualmente indicato dall’art. 105 Cost. erano definite come “promozioni” ed erano decise da Commissioni di concorso composte esclusivamente da magistrati della Corte di Cassazione, sulla base dell’esame dei provvedimenti giudiziari dei concorrenti. Superato il concorso, allora come ora improntato alla teoria e al nozionismo, si svolgeva un tirocinio di pochi mesi, al quale faceva seguito un periodo di prova di due anni, con assegnazione sostanzialmente discrezionale (e, quindi, spesso clientelare), al termine del quale si doveva sostenere l’esame ad aggiunto giudiziario, ostacolo che suggeriva di farsi destinare ad una grande sede dove poter continuare a studiare, rispetto ad uffici più problematici e impegnativi[9].
Le nomine-promozioni a magistrato di tribunale e a consigliere di corte d’appello venivano conferite a seguito di concorso per titoli, valutati da una commissione giudicatrice composta da alti magistrati.
La necessità di poter studiare, il timore di non essere invisi alle alte sfere, dalle quali dipendeva il superamento del concorso e, quindi, il trattamento economico, inducevano al conformismo e consolidavano il sistema della gerarchia interna[10].
La disciplina contenuta nell’ordinamento giudiziario del 1941, attraverso l’inquadramento dei magistrati in due ruoli (pretore e giudice di tribunale) ed in otto gradi (dall’uditore giudiziario al primo presidente della Corte di Cassazione) e la progressione in carriera incentrata, com’e` noto, essenzialmente sul sistema dei concorsi interni, <
Ha scritto Franco Cordero[12]:“…influiva sulla sintonia con il potere il fatto che ogni magistrato in qualche nodo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l’“imprinting” escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla bienseance filogovernativa; ed essendo una sciagura essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico …”.
Era un sistema piramidale, che induceva a lavorare in un certo modo, e con un certo stile che potesse essere approvato dalle gerarchie e dalla Cassazione, con un effetto gravemente discorsivo di u dilagante conformismo delle decisioni.[13] Un sistema di carriera di fatto fondato sulla cooptazione, culturalmente asfittico, idoneo ad ingenerare, con le oscillazioni del potere politico e con il recepimento di tali oscillazioni dalla cinghia di trasmissione della gerarchia, incertezza del diritto, ed un sistema gravemente lesivo dell’indipendenza “interna” del singolo magistrato.[14]
Si trattava di un sistema non in linea con il modello di magistratura tratteggiato dalla Costituzione. Si è affermato con nettezza che <<il modello gerarchico non e` compatibile con i fini fondamentali della giurisdizione negli ordinamenti contemporanei: l’applicazione imparziale della legge nelle situazioni controverse e la tutela dei diritti dei cittadini.>>[15].
In quel periodo, tuttavia, inizia una battaglia culturale contro la gerarchia nell’ordine giudiziario.
La legge Piccioni (24 maggio 1951, n. 392) unificò il ruolo dei pretori con quello dei magistrati di tribunale ed eliminò i “gradi”, sostituendoli con le qualifiche di magistrato di tribunale (con le sottocategorie di uditore e aggiunto giudiziario), appello e cassazione.
L’accesso alle categorie di appello e di cassazione, con il relativo trattamento economico, restava collegato al conferimento delle funzioni corrispondenti ai posti disponibili; restava intatto, peraltro, il sistema del concorso-cooptazione, tanto da giudicarsi tali innovazioni come esclusivamente nominalistiche[16].
I criteri erano molto selettivi. Nel periodo 1952-1962 il 52% dei magistrati era giunto alla pensione ancora con il primo livello retributivo della selezione “competitiva”, ovvero il grado di appello[17].
Con la legge n. 1 del 1963 venne abolito il concorso per titoli per l’appello e la cassazione; il concorso per esami venne ripristinato per un numero limitato di posti e venne ampliato il numero delle promozioni per scrutinio.
L’introduzione dei ruoli aperti avvenne con la legge 25 luglio 1966, n. 570 (cd. legge Breganze) sulle nomine a magistrato di Corte di appello, che introduceva una valutazione del Consiglio giudiziario e del CSM dopo undici anni di anzianità nelle funzioni di magistrato di tribunale; sistema esteso dalla legge 20 dicembre 1973, n. 831 (cd. “Breganzone”) anche alle promozioni in Cassazione.
La legge 25 maggio 1970, n. 357 abolì l’esame pratico per divenire aggiunto giudiziario, livello intermedio tra uditore giudiziario e magistrato di tribunale scomparso soltanto nel 1979 (L. 97/79).
Nel frattempo, il primo CSM di nomina elettiva indicò espressamente come la selezione in base ai titoli giudiziari, non solo fosse lesiva dell’indipendenza dei magistrati, ma costituisse anche un causa di inefficienza della giustizia[18], in quanto, ovviamente, focalizzava l’attenzione dei magistrati alla redazione di alcuni provvedimenti utili alla carriera.
In seguito a tali riforme furono eliminati i concorsi ed esami di merito interni, e si introdusse l’automatismo nel passaggio da una qualifica all’altra (con i conseguenti effetti giuridici ed economici) a seguito del raggiungimento di un certo livello di anzianità e di una apposita valutazione di professionalità, scollegandolo completamente dall’effettivo conferimento delle funzioni.
È in questo periodo e anche, per effetto di queste riforme, che si incomincia a concepire il lavoro giurisdizionale quale “potere diffuso” e a maturarsi una visione della Magistratura quale corpo professionale nel quale le funzioni di primo grado (requirenti e giudicanti) necessitino di un grado di professionalità non inferiore – e molto spesso certamente superore - a quello richiesto da quelle di secondo grado e di legittimità. Viene ad essere considerato del tutto anacronistico un sistema concorsuale fondato sull’idea che i magistrati più professionali (“più bravi”, “vincitori di concorso”) debbano necessariamente migrare verso le “superiori” funzioni di secondo grado e di legittimità.
Il sistema a ‘‘ruolo aperto’’, consentendo a ciascun magistrato idoneo di conseguire la qualifica superiore ed il corrispondente trattamento economico, pur continuando a svolgere le funzioni alle quali era in precedenza destinato, rappresenta il risultato finale del percorso legislativo rivolto all’attuazione del precetto costituzionale (art. 107 Cost.), secondo cui i magistrati si distinguono fra di loro soltanto per la diversità delle funzioni esercitate. Questo sistema ha consentito di assicurare l’indipendenza interna ed esterna dei magistrati, che rappresenta non un privilegio corporativo, ma una garanzia per l’intera collettività.[19]
Si assiste progressivamente ad un mutamento culturale del magistrato, favorito anche dall’introduzione di forze nuove, con ricadute enormi sul modo di svolgimento delle funzioni giudiziarie e, con un rapporto di reciproca causa-effetto su tutto il contesto socio-economico. Si pensi alle stagioni del terrorismo, delle riforme sociali, nel diritto del lavoro, alla stagione di Tangentopoli, possibili grazie alla a seguito della potente liberazione di energie intellettuali dovuta alla sottrazione del magistrato alle ansie del giudizio professionale e alle aspettative di carriera[20].
Non vi è dubbio che in questo modo, la sostanziale irrilevanza delle valutazioni dei dirigenti e dello stesso autogoverno e l’assenza di una meritocrazia che in passato era, come si è visto, una forma di controllo indiretto sul loro operato, mettesse al riparo i magistrati da qualsiasi forma di pressione interna rispetto all’ordine giudiziario. Una ricerca empirica ha dimostrato che i casi di valutazioni negative si contavano sulla punta delle dita e, comunque, avevano determinato solo un ritardo nel conseguimento dell’anzianità massima.[21]
Non si può nascondere, però, che gli automatismi di carriera, accanto a queste ricadute virtuose, determinarono anche un non isolato “lassismo”, dovuto alla scarsa rilevanza del merito per la carriera, nonché alla difficoltà di controlli incisivi sulla laboriosità e diligenza nello svolgimento del lavoro giudiziario.
All’avanzamento a ruoli aperti, infatti, si accompagnava anche il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi con il criterio prevalente della anzianità senza demerito, peraltro, ancora in uso presso altre magistrature, come quella amministrativa.
Non fu, quindi, solo una indubbia ostilità politica alla Magistratura a condurre alla riforma dell’ordinamento giudiziario, ma anche l’intenzione, comune alle diverse forze politiche, di introdurre una meritocrazia in magistratura che costituisse uno stimolo per migliorare quantità e qualità del lavoro giudiziario.
I tentativi di riforma iniziarono con il Ministero Castelli già nel 2002, per poi attraversare la famosa vicenda della Commissione Bicamerale sulla Giustizia presieduta da D’Alema, fasi politiche caratterizzatesi anche per il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi con un messaggio a tutela dell’indipendenza della magistratura, del disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario definitivamente approvato alla Camera il 1° dicembre 2004.
Senza dubbio, dal punto di vista delle “priorità costituzionali”, il quadro di riferimento politico e costituzionale della riforma del 2006-2007, originata dall’approvazione definitiva della legge delega n. 150 del 2005, è senza dubbio è quello degli artt. 107, comma 3 e 97, comma 1 Cost. L’idea di fondo «è quella secondo cui l’esistenza di magistrati neghittosi, impreparati, privi del necessario equilibrio – pochi o molti che siano – mina gravemente l’efficienza del servizio e richiede, conseguentemente, interventi puntuali e drastici»[22].
La stessa Associazione Nazionale Magistrati, nel dibattito sulle riforme affermò che <<si deve riconoscere la necessità di adeguare il sistema c.d. a ruolo aperto alle esigenze di un vaglio più profondo delle attitudini del singolo magistrato, in considerazione anche del fatto che il sostanziale automatismo della progressione nella carriera può aver favorito situazioni di negligenza. (…) In particolare, l’Associazione nazionale magistrati sostiene che: 1) siano necessarie più valutazioni, più ravvicinate nel tempo e durante tutto l’arco della carriera; 2) la valutazione sia collegata principalmente al lavoro che svolgiamo quotidianamente. (…) Una nuova carriera, con un sistema valutativo più articolato dell’attuale, dovrebbe essere caratterizzata dalla scomparsa delle attuali qualifiche e dal permanere della crescita automatica dello stipendio, che costituisce una delle garanzie dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati; tuttavia siamo noi magistrati a riconoscere l’opportunità della sospensione di detta crescita automatica nel caso di negative valutazioni della professionalità.>>[23]
4. La riforma del sistema delle valutazioni di professionalità
Dopo la legge delega n. 150 del 2005, con il d.lgs. 160 del 2006 (Decreto Castelli), fu reintrodotto un sistema di concorsi, alcuni per esame e titoli (art. 21 e 23) ed altri solo per titoli, mentre la legge n. 111 del 2007 (la cd. controriforma Mastella) , modificando il d.lgs. 160 del 2006, abrogò, prima che divenissero operativi i concorsi per esame, nonché il sistema di valutazione che, anche per i magistrati ai quali erano state già conferite le funzioni, vedeva coinvolta la Scuola Superiore della Magistratura.
Nel decreto legislativo Castelli era anche previsto che i magistrati che superavano il concorso di secondo grado maturassero la quinta classe di anzianità (da 13 a 20 anni) e quelli che superavano, invece, il concorso per le funzioni di legittimità, acquisissero la sesta classe, da 20 a 28 anni di anzianità (art. 51 d.lgs. 160/2006).
Questo collegamento tra funzioni e classi stipendiali venne meno, invece, con la legge n. 111 del 2007. Tale svincolo costituisce il pilastro di un sistema di progressione in carriera che non alteri il principio costituzionale della distinzione dei magistrati solo per le funzioni. Si consideri, ad esempio che anche coloro che superano il concorso juniores per le funzioni di legittimità, riservato nella misura del 10% a coloro che non hanno ancora acquisito la quarta valutazione, conservano il medesimo livello stipendiale dei loro colleghi di concorso (art. 12, comma 14 d.lgs. n. 160 del 2006, come riformato dalla legge n. 111/2007), senza acquisire quello dei loro colleghi che abbiano maturato la quinta valutazione.
Il sistema che deriva dalla riforma prevede, come noto, dopo la verifica della idoneità dei magistrati in tirocinio alle funzioni giurisdizionali, sette valutazioni quadriennali di professionalità fino al 28° anno, coincidente con l’idoneità alle funzioni direttive superiori e a partire dal quale il magistrato acquisisce il massimo livello stipendiale.
Al conseguimento delle positive valutazioni di professionalità sono state poi collegate la progressione retributiva del magistrato (a sua volta organizzata per classi stipendiali) e l’astratta idoneità del predetto ad accedere a funzioni di grado superiore.
Con riguardo al primo profilo, è a dirsi che l’art. 2, 11° comma, L. n. 111/2007 ha sostituito la tabella relativa alla magistratura ordinaria, allegata alla L. n. 27/81.
Nella nuova tabella la progressione stipendiale dei magistrati è collegata direttamente al conseguimento di positive valutazioni di professionalità.
Con riguardo al secondo, va evidenziato che il D.L.vo n. 160/2006, dopo avere enumerato, all’art. 10, le funzioni esercitabili dal magistrato e aver disciplinato, all’art. 11, il sistema periodico di valutazione della professionalità, ha posto, all’art. 12 la regola secondo cui il conferimento delle funzioni di cui all’articolo 10 avviene “a domanda degli interessati, mediante una procedura concorsuale per soli titoli” alla quale possono partecipare coloro che abbiano conseguito almeno la valutazione di professionalità richiesta.
La regola, nei successivi commi della norma, è declinata attraverso l’analitica indicazione dei livelli di anzianità – conseguiti mediante le valutazioni di professionalità di cui s’è detto – necessari per l’accesso alle funzioni di merito di primo grado e di secondo grado, alle funzioni di legittimità, nonché alle funzioni direttive e semidirettive di merito e di legittimità (anche direttive superiori e apicali), giudicanti e requirenti.
Il superamento della valutazione di professionalità, pertanto costituisce, dal punto di vista procedimentale, solo una condizione di legittimazione del singolo partecipante ai concorsi banditi dal Consiglio Superiore della Magistratura per il tramutamento a funzioni diverse, per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi di ogni ordine e grado, di legittimità, per il collocamento fuori ruolo, etc.
Coniugandosi il sistema dei ruoli aperti con quello dei concorsi per titoli, si è creato, pertanto, un percorso professionale unitario e omogeneo, scandito da periodiche valutazioni. In tal modo si è realizzato un sistema più stringente di verifica dell’adeguatezza professionale dei magistrati. Al tempo stesso si è riservata l’assegnazione di determinate funzioni alla formula concorsuale, in alcuni casi con prevalenza degli aspetti di anzianità (tramutamenti orizzontali e di secondo grado) e per altri (funzioni semidirettive e direttive, funzioni di legittimità e DNAA), invece, ferma restando la necessità di maturare una determinata anzianità, con prevalenza di requisiti attitudinali specifici.
In ogni caso le disposizioni contenute nell’art 11 non hanno contenuto particolarmente analitico. Si tratta di normativa appunto “quadro” che presuppone l’esercizio del potere paranormativo del Consiglio , al quale il comma 3 espressamente demanda il compito elaborare la normativa di dettaglio.
5. L’idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT
Partendo da quella che, in sostanza, è la prima verifica sul lavoro del magistrati, deve ricordarsi che i magistrati ordinari in tirocinio, a distanza di 18 mesi dal suo inizio, sono valutati nella loro idoneità a svolgere le funzioni giurisdizionali, secondo un procedimento che nei contenuti e nel tipo di giudizio è modellato secondo le valutazioni di professionalità dei magistrati, adattato alle peculiarità e alle finalità del tirocinio e al ruolo rilevante svolto durante lo stesso dalla Scuola della Magistratura.
Il Regolamento per la formazione iniziale dei magistrati ordinari (delibera 13 giugno 2012, modificato nel marzo 2019), approvato con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, individua le finalità del tirocinio e ne regola lo svolgimento.
Le finalità del tirocinio, della durata di 18 mesi[24] sono volte a consentire la maturazione e la verifica di quei parametri sui quali varrà basato sia il giudizio di idoneità alle funzioni giurisdizionali sia le successive valutazioni di professionalità. Come indica il regolamento, le funzioni del tirocinio sono “la formazione professionale teorica, pratica e deontologica dei magistrati ordinari entrati in servizio e la verifica della loro idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Il processo di formazione iniziale dei magistrati è altresì orientato all’affinamento delle necessarie doti di impegno, correttezza, equilibrio, indipendenza e imparzialità, nonché dell’attitudine all’aggiornamento permanente della propria preparazione professionale e alla maturazione di un atteggiamento corretto e proficuo nei rapporti con i colleghi, gli avvocati, il personale amministrativo, la polizia giudiziaria, i cittadini ed i mezzi di comunicazione” .
La sessione presso la Scuola è finalizzata al perfezionamento della cultura, delle capacità operative e professionali, delle doti di equilibrio, nonché alla formazione deontologica del magistrato ordinario in tirocinio. Essa dura sei mesi e si articola in un periodo non inferiore a quattro mesi, anche non consecutivi, da svolgersi prima della scelta della sede di prima destinazione, ed in un periodo di almeno due mesi, anche non consecutivi, da svolgersi successivamente (nel corso del c.d. tirocinio mirato) nel corso dei quali i magistrati in tirocinio sono affiancati, per tutta la durata della sessione, dai tutori.
Quanto alle fonti di tale valutazione, il Consiglio Giudiziario forma per ciascun magistrato in tirocinio un fascicolo nel quale sono inclusi il piano di tirocinio, le schede valutative dei magistrati affidatari, le autorelazioni e la copia dei provvedimenti redatti dal magistrato (art. 9).[25]
Allo stesso modo, il Comitato Direttivo della Scuola forma per ciascun magistrato in tirocinio un fascicolo, nel quale sono inclusi i documenti relativi al tirocinio e in ogni caso la relazione del Comitato Direttivo, le eventuali osservazioni del magistrato in tirocinio e gli elaborati scritti redatti nel corso della sessione presso la Scuola. Al termine delle sessioni presso la Scuola, il Comitato direttivo trasmette al CSM una relazione di sintesi concernente ciascun magistrato (art. 8).
La relazione viene comunicata al magistrato in tirocinio interessato, che ha la facoltà di far pervenire alla Scuola, entro dieci giorni, osservazioni scritte, che la Scuola trasmette, con i propri rilievi al CSM.
L’Assemblea Plenaria, su proposta della quarta commissione, formula il giudizio di idoneità al conferimento delle funzioni giudiziarie, tenendo conto delle relazioni redatte all’esito delle sessioni, trasmesse dal Comitato direttivo, della relazione di sintesi dal medesimo predisposta, del parere del Consiglio giudiziario, delle eventuali osservazioni dell’interessato e di ogni altro elemento rilevante ed oggettivamente verificabile.
La valutazione di idoneità ha riguardo alla preparazione giuridica e culturale, alla capacità professionale, alla laboriosità, all’impegno, alle doti di equilibrio e correttezza. Il giudizio di idoneità, se positivo, contiene uno specifico riferimento all’attitudine del magistrato allo svolgimento delle funzioni giudicanti e requirenti (art. 13 Reg. tirocinio).
La loro declinazione analitica, per l’assenza di funzioni giurisdizionali e per le caratteristiche intrinseche dell’attività lavorativa espletata durante tale periodo, è in parte diversa da quella delle valutazioni di professionalità ed è contenuta nel modello della scheda valutativa per i magistrati in tirocinio allegata al Regolamento.
I cd. prerequisiti della indipendenza, imparzialità ed equilibrio (v. infra), consistono per i MOT nel “formarsi un autonomo giudizio sulle fattispecie sottopostegli, dopo l’ascolto delle opposte ragioni delle parti e l’esame delle diverse argomentazioni; nel sostenere le proprie conclusioni con efficacia argomentativa, pur dimostrando disponibilità a mutare il proprio convincimento a seguito della discussione; nel rapportarsi con maturità e serenità personali nella collaborazione con i colleghi, il personale amministrativo, gli avvocati.”
Il parametro della capacità è prevalentemente orientato – e non potrebbe essere altrimenti - sulla redazione dei provvedimenti: si tratta infatti di apprezzare “a) la preparazione giuridica e la padronanza degli strumenti anche informatici di ricerca giurisprudenziale e normativa; b) la capacità di individuare i punti essenziali delle questioni e di risolverne gli eventuali aspetti critici; c) la tecnica di redazione dei provvedimenti, con particolare riferimento alla padronanza della terminologia giuridica e alla capacità di esposizione delle motivazioni; d) l’efficienza nell’organizzare il proprio lavoro.”
Nella valutazione della “laboriosità”, non si prendono in esame dati statistici, ma (a) l’entità della collaborazione prestata per il buon andamento del tirocinio e la disponibilità ad assumerne gli oneri; (b) l’intensità della partecipazione alle attività giudiziarie e di approfondimento proposte.
5.1. L’esito della valutazione.
Il giudizio di idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT può avere esito positivo o negativo.
Nel primo caso, contiene uno specifico riferimento all’attitudine del magistrato allo svolgimento delle funzioni giudicanti e requirenti.
Nel caso sia di carattere negativo, il CSM comunica la propria decisione al Comitato direttivo.
Il magistrato in tirocinio negativamente valutato viene ammesso a un nuovo periodo di tirocinio della durata di un anno, secondo le scansioni temporali indicate dall’art. 22, comma 4, del decreto istitutivo della Scuola.
Il Comitato direttivo approva il nuovo programma del tirocinio da svolgersi presso gli uffici giudiziari e presso la Scuola, curando un approfondimento della formazione nei settori specifici in cui si è evidenziata la carenza.
Al termine dei periodi di nuovo tirocinio ordinario e mirato e della sessione presso la Scuola, il Consiglio giudiziario e il Comitato direttivo predispongono rispettivamente i pareri e le relazioni di cui al comma 2 dell’art. 22, e li trasmettono al Consiglio Superiore della Magistratura, che delibera nuovamente sull’idoneità del magistrato in tirocinio all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Nel caso in cui la valutazione della Commissione sia prognosticamente negativa, la procedura assume, a garanzia del magistrato in tirocinio, carattere partecipato.
Se, infatti, essa ritiene che ricorrano le condizioni per un giudizio definitivo di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ne dà comunicazione all’interessato, invitandolo a comparire personalmente. Sentito il magistrato in tirocinio, con l’eventuale assistenza di un altro magistrato, la Commissione può svolgere ogni attività che ritenga utile per verificare la validità delle valutazioni espresse e per accertare l’idoneità professionale del magistrato. Completata l’istruttoria, la Commissione comunica al magistrato in tirocinio il deposito degli atti e assegna allo stesso un termine per esporre per iscritto le proprie ragioni.
Nel caso ritenga di proporre al Consiglio di dichiarare in via definitiva la cessazione dal servizio, comunica all’interessato la data della seduta plenaria con un anticipo di almeno 15 giorni liberi.
La seconda deliberazione negativa determina la cessazione del rapporto di impiego del magistrato in tirocinio.
Se per qualsiasi motivo il magistrato ordinario non completa il tirocinio nella durata indicata dalle precedenti disposizioni, il Comitato Direttivo, su proposta del responsabile di settore, ovvero il Consiglio Giudiziario, su proposta del magistrato collaboratore, individuano le modalità di recupero mediante partecipazione a successive attività formative, rispettivamente, presso la Scuola o le strutture della formazione decentrata ovvero presso gli uffici giudiziari per quanto di rispettiva competenza (art. 13, comma 9 Reg. tirocinio).
5.2. Un caso di proroga del tirocinio di MOT e successiva deliberazione di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie
Quale ipotesi di giudizio negativo può citarsi il caso di un magistrato ordinario in tirocinio. Terminato il periodo prescritto di tirocinio, svolto nel settore civile, penale requirente e nel penale giudicante, il C.S.M., su conforme parere espresso dal Consiglio giudiziario presso una determinata corte d’appello, dispose la proroga di sei mesi di tirocinio del MOT, da svolgersi sempre presso il Tribunale. All'esito, il Consiglio giudiziario, in ragione del permanere di alcune criticità, propose al C.S.M. l'adozione di un'ulteriore proroga di sei mesi del tirocinio, da quest'ultimo deliberata. Concluso tale periodo, il magistrato collaboratore, sulla base delle relazioni dei magistrati affidatari, espresse il giudizio che il MOT fosse "idoneo allo svolgimento di funzioni penali requirenti", mentre "per il settore penale giudicante e per quello civile, malgrado l'impegno profuso, permangono lacune nella ricostruzione del fatto nonché nel collegamento tra il fatto e la relativa disciplina". Il Consiglio giudiziario dunque espresse il parere di "inidoneità al conferimento delle funzioni giudiziarie"; la Quarta Commissione del C.S.M. formulò la conseguente proposta di inidoneità, accolta dal Plenum.
Impugnata davanti al giudice amministrativo la delibera, il T.A.R. respinse il ricorso nell'assunto che da una valutazione globale dell'attività svolta dall'appellante trovassero riscontro le conclusioni del C.S.M., fondate sulle relazioni dei magistrati affidatari e collaboratori, circa le persistenti criticità in relazione ai parametri della "capacità professionale", della "laboriosità ed impegno", ed anche dell'"equilibrio", nonostante le ripetute proroghe del tirocinio riconosciutegli.
Il Consiglio di Stato, respingendo l’appello ha affermato una serie di principi importanti.
I. Ha confermato la tesi consiliare per la quale secondo il sistema disegnato dai commi 5-10 dell'art. 14 del Regolamento sul tirocinio e, soprattutto in base all'art. 4, che indica le finalità del tirocinio ordinario, la sola valutazione positiva della capacità professionale nel settore requirente penale non è sufficiente a sorreggere un giudizio di idoneità all'esercizio delle funzioni giudiziarie in quanto la stessa deve essere complessivamente intesa.
II. Ha valorizzato la legittimità del provvedimento consiliare nel quale, richiamando il verbale del CG si indica che il magistrato è “stato puntuale e rispettoso degli orari, ma scarsamente disponibile alle esigenze dell'ufficio, con la sottolineatura aggiuntiva che non ha provveduto alla redazione della motivazione di una sentenza penale ed è incorso in inadempienze nel settore civile, in particolare nella correzione dei provvedimenti o nella lettura dei verbali di udienza”.
III. Ha ritenuto legittimo anche il riferimento ad alcune note caratteriali ed atteggiamenti del MOT. Ritenendo che correttamente la sentenza impugnata ha confermato la valutazione negativa del parametro dell'equilibrio discendente “da una pluralità di elementi concreti, obiettivi e verificabili, posti in evidenza dai magistrati affidatari e collaboratori (quali l'esternazione di giudizi al di fuori delle sedi consone, le manifestazioni gestuali o verbali di impazienza ed insofferenza durante le udienze), e che hanno trovato conferma anche nell'atteggiamento tenuto dall'appellante nel corso delle audizioni, dinanzi alla Commissione ed al Plenum con affermazioni inappropriate, espressioni irriguardose, rigidità del pensiero. Elementi, questi, incompatibili con l'equidistanza, l'autorevolezza e la sobrietà che devono ispirare ed improntare la condotta di ogni magistrato.”.
[1] Prima parte della Relazione tenuta all’incontro del 21-24 aprile organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 18.7.2019 (Bolzano) e 3.1.2020; già pubblicata su Diritto Pubblico Europeo - Rassegna Online,. https://doi.org/10.6092/2421-0528/6865, 2020, Serrao d’Aquino, P., Le valutazioni di idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni di professionalità.
[2] In questi termini C. Galoppi, Il sistema attuale delle valutazioni di professionalità, Relazione all’incontro di studi del CSM, Roma 6-8 giugno 2011.
[3] Su tale tematica vedano, tra gli altri: D. Cavallini, Le valutazioni di professionalità dei magistrati: prime riflessioni tratte da una ricerca empirica sui verbali del Csm, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1226; P. Filippi, La valutazione di professionalità, in AA.VV. a cura di E. Albamonte, P. Filippi, Ordinamento giudiziario. Leggi, regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 351 ss.; M. Frasca, La valutazione della professionalità: l’art. 11 del d.lgs. 160/2006 e le circolari del Consiglio Superiore; l’autorelazione; la funzione dei capi degli uffici, dei Consigli Giudiziari; il Giudizio del CSM, in
[4] Raccomandazione CM/Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli stati membri sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, adottata dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010, (par. 42) 4.
[5] G. Grasso, Relazione cit.
[6] Su tale opinione si veda G. Civinini, Valutazioni di professionalità e qualità della giustizia. Il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei adotta la sua 17° Opinione, in www.questionegiustizia.it, 2015.
[7] A tal fine, l’Opinione n. 17 prevede che i valutatori devono considerare il lavoro del giudice in tutta la sua ampiezza e nel contesto in cui quel lavoro è realizzato. Pertanto il CCGE continua a ritenere problematico basare la valutazione dei risultati sul numero o la percentuale di casi riformati in appello, a meno che il numero e il modo delle riforme dimostri chiaramente che il giudice difetta della necessaria conoscenza della legge e della procedura. Da notarsi che le Raccomandazioni di Kiev e il Rapporto della RECG pervengono al medesimo risultato.
[8] P. Morosini, O. Monaco e P. Serrao d’Aquino, “La Magistratura nel Ventennio: l’involuzione ordinamentale e i suoi protagonisti”, unitamente, in “RazzaeIngiustizia”, a cura di A. Meniconi e M. Pezzetti, Senato della Repubblica, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Nazionale Forense e UCEI, IPZS, 2018, p. 54.
[9] Si veda per una storia di questo periodo E. Bruti Liberati, Magistrati e società nell’Italia repubblicana, Laterza, 2018; A. Meniconi, Storia della magistratura, il Mulino, 2013.
[10] E. Bruti Liberati, G. Pera, Magistrati o funzionari?, a cura di G. Maranini, Milano, Ed. Comunità, 1962, p.p. 59-60.
[11] R. Romboli, La professione del magistrato tra legislazione attuale e le possibili riforme, in AAVV., a cura di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, 2003, pp. 9 e 10, il quale continua: << Lo specchio di quella legislazione e delle scelte operate in merito dal legislatore del 1941 riflettevano l’immagine di un giudice meccanico applicatore della legge e quindi sostanzialmente fungibile (…). Per questo, semplificando, i giudici ‘‘superiori’’, cui e` assegnato il compito di controllare se quella soluzione sia stata o meno raggiunta, debbono essere i piu` ‘‘bravi’’, selezionati attraverso concorsi per titoli o esami che assicurino circa la loro ‘‘professionalita”.>>
[12] F. Cordero, I poteri del magistrato, in L’indice penale n. 1, 1986 , p. 31.
[13] G. Silvestri, Verifica di professionalità versus indipendenza dei magistrati: una falsa contrapposizione, in AAVV., a cura di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 88.
[14] In tal senso C. Galoppi, op. cit.
[15] G. Silvestri, op. cit.,, p. 87 s.
[16] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, Einaudi, 1982, p. 46.
[17] D. Cavallini, op. cit, in Riv. Trim. dir. proc. civile, 2012, p. 1223.
[18] D. Cavallini, op. cit., p. 1223.
[19] E. Bruti Liberati, Introduzione a AAVV., a cura del medesimo autore, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 10
[20] E. Bruti Liberati, Magistratura e società repubblicana, cit.
[21] D. Cavallini, op.cit., p. 1223.
[22] L. Pepino, Quale giudice dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario?, in Questione Giustizia, n. 4, 2007, p. 13.
[23] C. Fucci, Presentazione in AAVV., a di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 1.
[24] Dalla durata di diciotto mesi del tirocinio, stabilita dall’art. 18 del decreto istitutivo della Scuola, sono esclusi i periodi di congedo straordinario o aspettativa superiori ai trenta giorni, nonché i periodi feriali di cui all’art. 90 dell’ordinamento giudiziario (art. 4.3)
[25] I documenti sopra indicati possono essere prodotti in formato elettronico, su supporto analogico, anche solo come minuta con riferimento ai provvedimenti giudiziari.
Interdittive antimafia e «valori fondanti della democrazia»: il pericoloso equivoco da evitare
di Giuseppe Amarelli
Nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato le censure rivolte nei confronti delle informative antimafia sono fermamente respinte invocando il superiore interesse della «difesa dei valori fondanti della democrazia». Ma davvero un ordinamento giuridico di un sistema democratico può arrivare a legittimare anche le c.d. interdittive generiche? Davvero in uno Stato costituzionale di diritto che appartiene all’Europa dei diritti si può ammettere che il potere statale comprima dei diritti fondamentali come quelli di proprietà e di iniziativa economica in assenza di una previa determinazione dei presupposti e sulla base di una mera valutazione prognostico-possibilista? Una pluralità di argomenti sembra provare il contrario e far propendere per una opportuna rivalutazione della questione tramite un intervento del legislatore o una declaratoria di illegittimità della Corte costituzionale. Diversamente, si corre il rischio di subire un’ennesima “lezione” da parte della Corte EDU, sulla scia della recente sentenza De Tommaso del 2017.
Sommario: 1. La strenua difesa delle informative antimafia nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato. – 1.1. (Segue…) e della Corte costituzionale? – 2. Prima critica: un ordinamento democratico non legittima incondizionatamente le interdittive. – 3. Seconda critica: l’indeterminatezza della disciplina delle interdittive generiche non è sanata dalla interpretazione tassativizzante del C.d.S. – 3.1. L’improprio utilizzo come argomento contrario di C. cost. n. 24/2019. – 3.2. (Segue…) di C. cost. n. 195/2019. – 3.3. (Segue…) e di C. cost. n. 57/2020. – 4. Terza critica: la sentenza Corte EDU 2017 De Tommaso c. Italia non giustifica l’assoluta imprecisione dell’art. 84, co. 4, lett. d, ed e, d.lgs. n. 159/2011. – 5. Sintesi degli scenari possibili: declaratoria di illegittimità costituzionale, condanna Corte EDU, riforma legislativa.
1. La strenua difesa delle informative antimafia nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Come attentamente segnalato sulle colonne di questa rivista[1], nell’ultima, recentissima, decisione del Consiglio di Stato n. 3641 dell’8 giugno 2020 si trova un’ennesima, incondizionata, presa di posizione a favore delle misure interdittive antimafia che si va ad affiancare alle precedenti del medesimo tenore[2].
Nella parte motiva della sentenza, infatti, le interdittive sono nuovamente presentate come «la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata».
Più esplicitamente ancora, esse sono descritte come «una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia» messi in pericolo, secondo una logica ipotetico-prognostica del ‘più probabile che non’, da «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».
Nell’ottica univoca della Terza Sezione del massimo organo della giustizia amministrativa[3], queste misure di prevenzione non giurisdizionali assolvono una funzione di «frontiera avanzata» nelle strategie politico-criminali di contrasto «all’anti-Stato», legittimando l’esclusione dalla galassia degli appalti pubblici, teoricamente in maniera cautelare e provvisoria[4], di un’impresa non mafiosa, ma solo presumibilmente infiltrata dalla mafia sulla scorta di «elementi non meramente immaginari o aleatori». Proprio per tale destinazione funzionale, nella indicazione dei presupposti applicativi sono ragionevolmente affiancate alle situazioni tipiche di contiguità compiacente o soggiacente descritte tassativamente ex ante dal legislatore, anche altre atipiche individuabili discrezionalmente ex post dall’autorità competente.
Se le sanzioni penali implicano un pieno riconoscimento della responsabilità penale del singolo per un reato ad “ambientazione mafiosa” e le misure di prevenzione patrimoniali di tipo giurisdizionale, come il sequestro e la confisca, presuppongono il riscontro di indizi di reati analoghi attingendo, quindi, un’impresa ‘strutturalmente mafiosa’, le interdittive, invece, si fondano su molto di meno, vale a dire sulla mera verifica della possibile «persistenza del pericolo di contiguità con la mafia» di un’impresa tendenzialmente operante nell’economia legale. Queste, infatti, sono adottate discrezionalmente dall’autorità amministrativa, in assenza di un contraddittorio endo-procedimentale necessario (è prevista solo come mera eventualità l’audizione del destinatario) e di una effettiva verifica giudiziaria sui suoi presupposti fattuali, sulla scorta o di una serie di situazioni tassativamente descritte dall’art. 84, comma 4, lett. a) e ss., d.lgs. n. 159/2011 (c.d. interdittive specifiche), o di elementi eterogenei e non predeterminati dalla legge, grazie alla clausola aperta contenuta nell’art. 84, comma 4, lett. d ed e, d.lgs. n. 159/2011 che fa riferimento «agli accertamenti disposti dal prefetto» direttamente o avvalendosi dei prefetti delle altre province (c.d. interdittive generiche)[5].
Gli ampi margini di apprezzamento così riconosciuti all’organo amministrativo, titolare di contestuali ed inusuali poteri inquirenti e deliberativi, implicano la «sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010)».
Inoltre, ad avviso del Consiglio di Stato le interdittive generiche, nonostante l’assoluta indeterminatezza dei loro presupposti normativi, non si pongono in contrasto con gli artt. 117 e 3 Cost., dal momento che la stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 24/2019 relativa alle misure di prevenzione ‘giurisdizionali’, avrebbe ritenuto soddisfatta l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto al di fuori del diritto penale anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».
Le situazioni indiziarie individuate dalla Terza Sezione del C.d.S. per sviluppare e completare le indicazioni legislative costruirebbero, dunque, un sistema di «tassatività sostanziale» che individua come fattori legittimanti l’adozione di una interdittiva anche: i provvedimenti sfavorevoli del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
In questo specifico ambito, anzi, una maggiore precisione ed analiticità nella descrizione delle condizioni di applicabilità delle interdittive sarebbe controproducente, in quanto frustrerebbe nel suo «fattore di rigidità» la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale «deve affidarsi anche, e necessariamente, a ‘clausole generali’, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali. Proprio queste situazioni rischierebbero infatti, in quanto non già tipizzate dal legislatore, di sfuggire alla valutazione dell’autorità amministrativa e ciò, per le esigenze prevenzionistiche che ispirano l’intera materia, sarebbe tanto più grave al cospetto di condotte elusive o collusive poste in essere dalla stessa impresa, essendo ben noto all’esperienza giurisprudenziale che le forme più insidiose, e più sfuggenti, di pericolo infiltrativo sono proprio quelle che allignano in una contiguità compiacente, su un accordo economico cioè, più o meno tacito, tra l’imprenditore e la criminalità organizzata»[6].
Essenziale è che tale ‘integrazione’ giurisprudenziale sia in grado di porre il destinatario delle misure limitative dei diritti in gioco in condizioni di poterne ragionevolmente prevedere l’applicazione, come appunto accadrebbe in subiecta materia grazie al Consiglio di Stato che, dal 2016, ha elaborato in via ermeneutica un elenco di situazioni atipiche che possono ragionevolmente fondare l’adozione di un provvedimento di questo genere[7].
1.1. (Segue…) e della Corte costituzionale?
Da ultimo, la legittimità costituzionale delle interdittive generiche sarebbe stata implicitamente confermata anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
In primo luogo, ad avviso del Consiglio di Stato, sembrerebbe deporre in tal senso la sentenza n. 195/2019 della Consulta con cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., nella parte in cui richiede che per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale in presenza di «condotte illecite gravi e reiterate» di collegamento con la criminalità mafiosa sono sufficienti mere «situazioni sintomatiche».
Una simile decisione, infatti, per la giurisprudenza amministrativa che la richiama, confermerebbe indirettamente che le interdittive generiche sarebbero immuni da censure dal momento che, al contrario, si fondano su ben più solidi e consistenti «elementi concreti, univoci e rilevanti»[8].
In secondo luogo, una analoga conclusione parrebbe risuonare in un obiter dictum della sentenza n. 57/2020 della Consulta in cui, enfatizzando con insoliti ed inadeguati argomenti metagiuridici le esigenze di difesa sociale rispetto alle mafie, si è osservato come con le interdittive si chieda alle autorità amministrative prefettizie, non di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi dei valori costituzionali, come la libertà di iniziativa economica ed il diritto di proprietà, ma di prevenire possibili penetrazioni dei gruppi mafiosi nell’economia legale in presenza di situazioni potenzialmente sintomatiche di tali scenari[9].
La gravità del fenomeno che intendono contrastare legittimerebbe, cioè, la loro disciplina, non essendo possibile, data la cangiante e mutevole caratterizzazione delle modalità comportamentali delle associazioni di tipo mafioso nella c.d. ‘zona grigia’ di confine con la società civile e le istituzioni, una previa indicazione rigorosa di tutte le situazioni in presenza delle quali possa riscontrarsi un pericolo di infiltrazione nelle imprese inserite nell’economia legale. Al contrario, offrirebbe un solido appiglio alla tassativizzazione sostanziale da parte della giurisprudenza amministrativa delle altre ipotesi sintomatiche non descritte ex lege a cui si è fanno cenno in precedenza.
2. Prima critica: un ordinamento democratico non legittima incondizionatamente le interdittive.
Bene, una simile interpretazione teleologica e tassativizzante delle interdittive antimafia generiche, proposta in apparenza al diapason dal Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale, e volta a fornire ragioni solide a sostegno della lacunosità della loro disciplina alla luce dei valori in gioco e della gravità del fenomeno mafioso, non sembra affatto convincente, basandosi su tre premesse stipulative parziali e controvertibili.
Innanzi tutto, appare ossimorica e contraddittoria la prima piattaforma concettuale del ragionamento ‘giustificativo’ delle interdittive generiche posta dalla giurisprudenza amministrativa e (ad avviso di questa) dalla giurisprudenza costituzionale: vale a dire la considerazione di questa tipologia di misure quale istituto servente agli scopi di un ordinamento democratico.
L’anticipazione del controllo statale amministrativo praeter delictum tramite provvedimenti così afflittivi, al di fuori delle ipotesi di pericolosità generica e qualificata di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 sulle quali si fondano le misure di prevenzione personali e patrimoniali ‘giurisdizionali’, risulta invero non rispondente alle logiche di carattere democratico di uno Stato costituzionale di diritto.
Al contrario, pare ispirarsi ad una rinnovata declinazione della categoria tralatizia dello stato d’eccezione di recente riemersa nel dibattito teorico contemporaneo in materia di terrorismo internazionale, prima, e di diritto della pandemia, poi[10], in cui la gravità e l’elevato allarme sociale di un certo fenomeno consentono al legislatore di predisporre nuove basi normative per autorizzare l’adozione di provvedimenti preventivi del potere esecutivo fortemente limitativi di libertà fondamentali, in assenza di un vaglio giudiziario nel merito, ancorché ridotto.
La natura formalmente temporanea dell’istituto, unitamente alle misure mitigatrici nel frattempo affinate, come il controllo giudiziario volontario di cui all’art. 34 bis c.a.m.[11], fa, infatti, perdere di vista, anche alla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 57/2020, la sua dimensione afflittiva potenzialmente draconiana per un’impresa che operi esclusivamente nel settore degli appalti pubblici[12].
Si trascura di considerare che con l’interdittiva si determina l’ostracizzazione dell’impresa attinta dalle gare in corso di esecuzione e da quelle future, sancendone di fatto la possibile decozione a causa dell’improvviso venir meno delle sue fonti di reddito per un lasso di tempo che è quasi sempre particolarmente lungo, atteso che la giurisprudenza amministrativa non revoca quasi mai il provvedimento, bastando ai fini della sua legittimità la non manifesta illogicità, agevolmente riscontrabile in forza di una disciplina così generica come quella prevista dall’art. 84, comma 4, lett. d, ed e, e 91, comma 6, c.a.m.
Amplificando il carattere non definitivo, cioè, si tende a sottovalutare una misura che incide in modo particolarmente pervasivo – ancor più della confisca di prevenzione che può riguardare solo alcuni cespiti patrimoniali – su diritti fondamentali convenzionalmente riconosciuti come quello di proprietà e di libertà di iniziativa economica di cui agli artt. 41 e 42 Cost., nonché, in modo riflesso ed indiretto, sui diritti ed interessi giuridici altrettanto rilevanti dei lavoratori dipendenti e degli stakeholders dell’impresa interdetta[13].
L’adozione di misure così drastiche e restrittive sulla base di presupposti legislativi assolutamente indeterminati (le indagini del prefetto, sic!), ed in assenza (potenziale) di un contraddittorio endo-procedimentale e (certa) di un controllo giurisdizionale sui presupposti fattuali, sembra far affiorare logiche di matrice autoritaria, piuttosto che di ispirazione democratica, foriere anche di effetti estremi ed imprevedibili, come il tragico gesto suicidario dell’imprenditore siciliano compiuto a causa di un’interdittiva poi revocata post mortem dal T.a.r. Lazio lo scorso 8 luglio 2020[14].
In un ordinamento che voglia realmente definirsi tale, le istanze di difesa sociale non possono essere anteposte univocamente a quelle del garantismo individuale in una prospettiva neo-schmittiana, ma esattamente all’opposto devono essere con queste adeguatamente bilanciate.
Non va dimenticato che il diritto oggetto di ponderazione in questa circostanza è quello di proprietà che, nella nuova prospettiva europea dischiusa dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[15] ed, in parte, dall’art. 1, Primo Protocollo Agg. CEDU, non è più considerato in termini riduttivi come un diritto economico-sociale, bensì è innalzato al rango di diritto fondamentale di libertà dell’individuo, che deve essere posto a riparo anche dallo Stato.
In uno Stato democratico costituzionale di diritto, che appartiene a sua volta alla c.d. ‘grande Europa’ dei diritti, ogni provvedimento dell’autorità statale che incide sulle libertà dei singoli riconosciute dalla Carta fondamentale o dalle fonti europee che tramite l’art. 117 Cost. vanno ad integrarla – qualunque sia la sua natura giuridica, penale, amministrativa o latamente preventiva – deve necessariamente essere ancorato ad una disciplina sostanziale e processuale scrupolosa ed analitica e sottoposto ad un controllo giurisdizionale di merito e di logicità in un procedimento che garantisca il diritto di difesa ed il contraddittorio.
Nessuna esigenza politico-criminale, anche quella ‘massima’ di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso, può legittimare il ricorso da parte dei poteri pubblici a ‘sanzioni’ capaci di squilibrare il rapporto autorità-libertà nelle dinamiche relazionali Stato-cittadino a netto detrimento delle seconde.
Al contrario, ogni provvedimento destinato ad incidere sulla sfera dei diritti dei singoli deve sempre, inderogabilmente, rispettare le condizioni minime per consentire ai potenziali destinatari di prevederne l’applicazione e di difendersi in giudizio dinanzi ad un giudice terzo chiamato a verificarne la legittimità formale ed i presupposti di fatto.
Diversamente da quanto affermato in modo suggestivo dal Consiglio di Stato, con una forzata inversione dei termini della questione, non possono, dunque, trovare legittimazione provvedimenti statali limitativi di diritti essenziali sulla base di presupposti così labili come quelli definiti dal codice antimafia per le interdittive generiche, altrimenti si rischia di far inverare quella condizione che lo stesso Consiglio di Stato vuole scongiurare, vale a dire che «il sistema della prevenzione amministrativa antimafia (…), in uno Stato di diritto democratico, [finisca con il costituire] un ‘diritto della paura’ in cui trovano spazio ‘pene del sospetto’»[16].
Né può ritenersi consona ad un sistema democratico l’attribuzione ad un organo dell’Esecutivo qual è il Prefetto del potere di adozione di misure preventive di portata così invasiva sulla base di elementi che non siano «meramente immaginari o aleatori».
Pur convenendo con l’inquadramento giuridico delle stesse proposto dal Consiglio di Stato nel novero delle sanzioni non afferenti alla categoria europea di ‘materia penale’[17] e con la critica dal medesimo C.d.S. rivolta verso un panpenalismo incondizionato che finirebbe con l’esportare in un settore differente dell’ordinamento giuridico logiche e garanzie concepite per il solo ius criminalis in ragione delle sue specificità, non si può tralasciare che – secondo l’orientamento oramai univoco della giurisprudenza convenzionale[18] – la limitazione di un diritto fondamentale, quale appunto quello di proprietà, deve sempre essere prevedibile e agganciata ad elementi predeterminati, concreti e consistenti, pena una violazione dell’art. 1 Prot. Add. CEDU, e non possa mai essere legata a compendi indiziario-probatori così poveri e ad un procedimento che non prevede un contraddittorio obbligatorio, pena una violazione anche dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali della UE equiparato dall’art. 6 § 1 TUE al diritto primario dell’UE, che prevede il diritto del cittadino europeo a una buona amministrazione, e, dunque, anche il diritto di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento pregiudizievole[19].
3. Seconda critica: l’indeterminatezza della disciplina delle interdittive generiche non è sanata dalla interpretazione tassativizzante del C.d.S.
In secondo luogo, risulta altrettanto opinabile l’altra premessa da cui muove il ragionamento della giurisprudenza amministrativa, vale a dire la legittimità costituzionale e convenzionale delle disposizioni assolutamente indeterminate che regolano le interdittive generiche grazie all’interpretazione tassativizzante fornitane dal Consiglio di Stato, in sintonia con i principî di diritto enunciati da C. Cost. nn. 24/2019, 195/2019 e 57/2020.
3.1. L’improprio utilizzo come argomento contrario di C. cost. n. 24/2019.
Innanzi tutto, nella prima decisione richiamata, la Consulta ha sì riconosciuto (come osserva anche correttamente il C.d.S.) l’esistenza di uno spazio molto più ampio in ambito extra-penale per il diritto giurisprudenziale, capace di contribuire, quando è unanime e consolidato, a rendere prevedibili le misure di prevenzione, ma ha pure precisato che la base legale che ne fissa i presupposti e ne individua i destinatari deve sempre però avere un minimo di determinatezza tale da limitare la discrezionalità degli interpreti e da orientare i consociati.
A differenza del diritto penale, la norma che regola misure praeter delictum può, quindi, contenere clausole generali o anche formule dotate di un certo grado di imprecisione il cui contenuto può essere co-definito dalla giurisprudenza, ma ex adverso non può essere redatta in maniera completamente aperta ed indeterminata.
La stessa Corte sembra, cioè, richiedere la previa esistenza di una base legale diafana, ma pur sempre capace di indicare sommariamente i presupposti di applicabilità delle misure di prevenzione, ritenendo quindi che la giurisprudenza consolidata possa utilmente contribuire a descrivere la disciplina solo quando non risulti del tutto creativa.
Peraltro, in questo specifico caso sembrerebbe difettare anche il carattere ‘consolidato’ dell’interpretazione, registrandosi, un continuo susseguirsi di pronunce del Consiglio di Stato anche dopo il c.d. decalogo del 2016, per un verso, sul valore indiziario dei rapporti di parentela di cui già si è detto in precedenza, o sulle informative a cascata[20], e, per altro verso, sulla necessità di non ingessare in un numerus clausus le situazioni sintomatiche di contiguità mafiosa delle imprese per evitare di lasciare lacune derivate nel sistema sfruttabili dalla criminalità organizzata[21].
Se, dunque, la Corte ha decretato l’illegittimità costituzionale dell’ipotesi di pericolosità generica dell’essere abitualmente dediti a traffici delittuosi di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011, in relazione alle misure di prevenzione patrimoniali che incidono sullo stesso diritto di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, a causa della vaghezza della situazione descritta e delle oscillazioni giurisprudenziali sul suo significato[22], a fortiori dovrebbe decretare quella dell’art. 84, comma 4, lett. d, ed e, e dell’art. 91, comma 6, c.a.m., dal momento che la lettera della legge è ancor più indeterminata, non descrivendo alcuna condotta sintomatica, ma solamente un potere illimitato e discrezionale di indagine al Prefetto.
3.2. (Segue…) di C. cost. n. 195/2019.
Ancor più parziale sembra il richiamo contenuto nella giurisprudenza amministrativa alla sentenza della Corte costituzionale n. 195/2019 per dimostrare la compatibilità costituzionale della disciplina in materia di interdittive generiche.
Pur essendo molto diversi i parametri alla cui stregua è stata ravvisata l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., la censura ha però ugualmente riguardato una disposizione normativa che fissava i poteri discrezionali del Prefetto in materia di scioglimento ed amministrazione controllata degli enti locali in modo assolutamente generico.
Ora, se si confronta sinotticamente la trama legale di quella norma con quella degli artt. 84, c. 4, e 91, c. 6, c.a.m., quest’ultima risulta ancora più manifestamente indeterminata; mentre la prima consentiva l’adozione della nuova misura di ‘controllo’ degli enti locali in presenza di «situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate, tali da determinare un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati», quella del codice antimafia autorizza l’interdittiva sulla base di imprecisate indagini del prefetto, senza alcun’altra specificazione se non quelle vaghissime dell’art. 91, comma 6, c.a.m. che si riferiscono ad elementi concreti da cui risulti che l’attività di impresa «possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
Peraltro, da ultimo, perplessità circa la insostenibile vaghezza di tale disposizione normativa sono state avanzate dalla già menzionata ordinanza del T.a.r. Puglia con cui è stato proposto rinvio pregiudiziale alla CGUE a causa della mancata previsione di un contraddittorio endoprocedimentale pieno per l’adozione dell’interdittiva: un argomento cruciale a sostegno della necessità di una garanzia di confronto dialettico con il proposto è costituito proprio dalla genericità della disposizione in parola, dal momento che l’ipotesi del condizionamento indiretto dell’impresa da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso può comprendere un numero di casi molto significativo e di difficile distinzione rispetto a quella dei casi di imprese che subiscono le pressioni mafiose essendone vittime.
Se è stata quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale della prima disposizione in ragione di una descrizione del presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio in termini ampiamente discrezionali e poco definiti, mutatis mutandis dovrebbe pervenirsi al medesimo esito in ordine all’art. 84, comma 4, lett. d ed e, c.a.m., a nulla bastando lo sforzo di tipizzazione operato dalla giurisprudenza amministrativa che, peraltro, nel farlo, non esclude implicitamente l’eventualità che in futuro possano essere utilizzati altri argomenti, dovendo essere considerato il giudizio del Prefetto sempre a forma libera in modo da poter far fronte a nuove modalità di infiltrazione della criminalità organizzata.
3.3. (Segue…) e di C. cost. n. 57/2020.
Altrettanto forzato, infine, pare il richiamo alla più recente pronuncia in materia della Corte costituzionale, la n. 57/2020 con cui è stata dichiarata la non fondatezza della questione di legittimità relativa agli artt. 89 bis e 92, commi 3 e 4, c.a.m.
Tale decisione, infatti, non ha affrontato nel merito il problema della indeterminatezza della base legale delle interdittive generiche, reputando inammissibile la questione di legittimità costituzionale che le riguardava perché ultronea al thema decidendum.
Nel punto n. 2 dei considerato in diritto, infatti, la Consulta si è limitata ad osservare in via preliminare «l’inammissibilità degli ulteriori profili di censura sollevati dalla parte privata, ricorrente nel giudizio a quo e costituitasi nel presente giudizio incidentale, che ha prospettato la lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217, in riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, e 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia».
Anche nel prosieguo della parte motiva non si intravede una presa di posizione netta sul punto capace di precludere un futuro sindacato della Corte su tale aspetto, qualora questa, all’interno di procedimenti a quo in cui risulti rilevante, venga nuovamente proposta da un T.a.r., essendo rinvenibile solamente un acritico avallo della interpretazione tassativizzante del Consiglio di Stato alla luce della sentenza C. cost. 24/2019.
4. Terza critica: la sentenza Corte EDU 2017 De Tommaso c. Italia non giustifica l’assoluta imprecisione dell’art. 84, co. 4, lett. d ed e, d.lgs. n. 159/2011.
Infine, appare deformata anche la terza premessa del ragionamento del Consiglio di Stato, quella che individua nella sentenza della Corte EDU del 2017 De Tommaso la fonte che facoltizza il protagonismo giurisprudenziale in questo settore sulla scorta di una opinabile nozione del ‘principio di legalità sostanziale’ rispondente a superiori esigenze di law enforcement, decisamente contrastante con quella accreditata usualmente nel diritto amministrativo. In questo ambito disciplinare, infatti, il principio di legalità sostanziale esprime l’esigenza opposta di predefinire tramite la legge o atto equiparato non solo il potere della amministrazione ed il tipo di provvedimento diretto a esplicitarlo, ma anche i suoi caratteri e confini[23].
Diversamente da quanto affermato nelle decisioni del massimo organo della giustizia amministrativa, questa sentenza dei giudici di Strasburgo non ha indirettamente riconosciuto ai legislatori nazionali il potere di formulare nella materia della prevenzione anti-mafia extra-penale norme assolutamente indeterminate in modo da garantirne una più facile adattabilità alle proteiformi modalità operative della criminalità organizzata di tipo mafioso. Anche questa, come d’altronde la giurisprudenza costituzionale in precedenza richiamata che ad essa si ispira, riconosce un margine discrezionale più ampio in questo ambito disciplinare, ma non sfociante nell’arbitrio e nella conseguente imprevedibilità di applicazione delle misure.
Vale a dire che se, per un verso, la previsione di simili misure interdittive è sicuramente rispondente al parametro della necessarietà «in una società democratica» espresso a livello convenzionale quale condizione di legittimità delle stesse, risultando indispensabili per fronteggiare tentativi di infiltrazione mafiosa nel mondo degli appalti pubblici[24], per altro verso, la definizione della loro disciplina in termini eccessivamente elastici ed indeterminati non sembra invece collimare con quello ulteriore ed altrettanto indefettibile della descrizione legale e della prevedibilità convenzionalmente garantiti.
La Corte EDU, infatti, in altri passaggi della sua densa argomentazione, ha affermato che una legge non può lasciare ai tribunali un’ampia discrezionalità senza indicare con sufficiente chiarezza la sua portata e le modalità del suo esercizio, perché ciò renderebbe altrimenti imprevedibile l’adozione della misura eventualmente disposta (§ 109). La base legale non può mai «essere espressa in termini vaghi ed eccessivamente ampi» (§ 125), dovendo invece definire con sufficiente precisione e chiarezza le persone a cui sono applicabili le misure preventive ed il loro contenuto.
Una lettura combinata dei diversi enunciati della sentenza De Tommaso sembra portare allora ad una diversa conclusione, vale a dire che le misure che incidono su diritti convenzionalmente riconosciuti – incluse quindi quelle diverse dalle misure di prevenzione ma dotate della stessa portata limitativa – possono avere una base legale più duttile per adattarsi alle diverse e sfaccettate situazioni indicative del pericolo di infiltrazione mafiosa, ma mai radicalmente imprecisa, pena la violazione del principio di prevedibilità della loro applicazione.
Diversamente da quanto sembra sostenere il Consiglio di Stato, non può ostare alla estensione di tali conclusioni giuridiche alle interdittive antimafia la similitudine solo apparente che queste mostrano con le misure di prevenzione (e, quindi, la loro differenza sostanziale), poiché nell’ottica della CEDU il profilo del nomen iuris di una misura a contenuto sanzionatorio, così come quello delle finalità da essa perseguita, sono del tutto secondari, contando soprattutto il piano concreto ed effettuale dei diritti eventualmente da essa attinti[25].
Peraltro, sotto quest’ultimo versante è la stessa pronuncia del gennaio 2019 del Consiglio di Stato nel § 8.4 ad individuare i diritti attinti dalle interdittive negli stessi diritti compressi dalle misure di prevenzione patrimoniale, riferendosi alla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[26].
Se allora entrambe le misure, quelle di prevenzione patrimoniale e quelle interdittive antimafia, incidono sui medesimi diritti fondamentali riconosciuti convenzionalmente – quelli di proprietà e di libertà di iniziativa economica – le esigenze di predeterminazione minima della base legale espresse in ordine alle prime devono necessariamente essere estese alle seconde, per evidenti ragioni di coerenza sistematica.
Essendo, quindi, risultata in contrasto con la CEDU ed i suoi Protocolli la disciplina in materia di misure di prevenzione perché priva di «disposizioni sufficientemente dettagliate in merito a quali tipi di comportamento debbano essere considerati come pericolosi per la società», a fortiori lo sarà anche quella in materia di interdittive generiche in quanto dotata di una base legale ancor più povera, consentendo l’applicazione della misura sulla base degli accertamenti di qualsivoglia aspetto sintomatico di tentativi di infiltrazione mafiosa operati dal Prefetto.
Alla esportabilità del ragionamento della CEDU in ambito di informazioni antimafia contribuisce anche un passaggio della già richiamata sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale che non ha escluso la possibilità di ritenere illegittime costituzionalmente le ipotesi di pericolosità generica indeterminate di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 anche in relazione alle altre misure di prevenzione meno invasive di competenza dell’autorità di polizia e non dell’autorità giudiziaria (in particolare, foglio di via obbligatorio e avviso orale). Presentando tali provvedimenti affinità ancor più spiccate con le informazioni antimafia, essendo anch’essi affidati ad organi amministrativi e non alla competenza del Tribunale di prevenzione, laddove la Corte dovesse pronunciarsi affermativamente su un’eventuale futura questione di legittimità costituzionale sugli stessi, sembrerebbe ancor più difficile ritenere legittimo l’art. 84, comma 4, lett. d ed e del codice antimafia.
Inoltre, tale sentenza della Corte EDU, non essendo incentrata su argomenti penalistici e sul previo riconoscimento della appartenenza alla materia sostanzialmente penale delle misure di prevenzione, bensì sul rango dei diritti attinti dalle misure sanzionatorie di un ordinamento nazionale, appare agevolmente adattabile alla materia delle interdittive, consentendo di proporre un’eventuale questione di legittimità costituzionale per contrasto con interessi e diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione tramite il parametro interposto della CEDU e dei suoi Protocolli, piuttosto che con i principi penalistici.
5. Sintesi degli scenari possibili: declaratoria di illegittimità costituzionale, condanna Corte EDU o riforma legislativa.
Alla luce di quanto osservato, ed in considerazione della totale chiusura dimostrata dal Consiglio di Stato sul punto tutte le volte in cui gli è chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale per le interdittive generiche, si prospettano oggi due strade alternative per evitare l’ennesima pronuncia della Corte EDU che apra gli occhi su situazioni tollerate dal diritto giurisprudenziale interno, pur essendo palesemente incompatibili con i principî fondanti dell’ordinamento nazionale.
Nel breve periodo, l’unica possibilità che potrebbe schiudere scenari diversi all’orizzonte può essere rappresentata da una coraggiosa decisione di qualche T.a.r., analoga a quella che ha portato al rinvio pregiudiziale alla CGUE sul difetto di contraddittorio endoprocedimentale, di sollevare direttamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 1, Protocollo 1 add. CEDU e all’art. 6 CEDU.
Se infatti qualche tribunale regionale aggirasse le forche caudine della Terza Sezione del Consiglio di Stato, l’attuale Corte costituzionale – già protagonista di coraggiose e storiche decisioni anche in materia di misure di prevenzione, oltreché di ergastolo ostativo, istigazione al suicidio e diffamazione a mezzo stampa – potrebbe finalmente pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disciplina delle interdittive generiche, rilevandone la sua insanabile indeterminatezza.
Diversamente, non resta che auspicare un nuovo intervento della Corte di Strasburgo che, in sintonia con la decisione pregressa della Grande Chambre del 2017 sulle misure di prevenzione giurisdizionali, condanni l’Italia in ragione della macroscopica genericità della base legale delle interdittive antimafia.
Nel lungo periodo, invece, la via maestra da percorrere per appianare ogni problema pare essere unicamente quella legislativa.
Solo colmando con una riforma organica la lacunosità della disciplina relativa ai presupposti delle interdittive generiche e modificando profondamente altri aspetti più generali, inerenti alla competenza ad adottare tali provvedimenti e alla accessibilità all’istituto complementare e ‘palliativo’ del controllo giudiziario ex art. 34 bis c.a.m. e della c.d. ‘prevenzione patrimoniale mite’, si può restituire razionalità ad un sottosistema della prevenzione in cui le garanzie ed i diritti fondamentali dei destinatari sono ancora in ombra, soprattutto nei casi dei c.d. (per usare la terminologia del Consiglio di Stato) complici soggiacenti[27].
A rendere ancor più necessaria ed impellente una revisione della disciplina delle interdittive contribuisce anche la recente decisione a livello convenzionale del Comitato dei Ministri europeo del 17 dicembre 2019 di inserire nella scheda dedicata al monitoraggio del livello di sorveglianza della attuazione delle decisioni della Corte EDU in Italia la sentenza De Tommaso in materia di misure di prevenzione tra quelle considerate di livello ‘elevato’.
Una simile qualificazione, infatti, lascia intendere che l’Europa è fortemente interessata a valutare se e come l’Italia stia dando attuazione ai principî di diritto sanciti in quell’occasione dalla Corte di Strasburgo attraverso l’adozione di misure generali di adeguamento strutturale del suo ordinamento, capaci di rimuovere quei deficit lampanti di prevedibilità segnalati dalla De Tommaso.
Infine, un ripensamento urgente della normativa in materia sembra poi essere imposto dal particolare momento storico post-pandemia che il Paese sta attraversando, in cui una eventuale adozione di un’interdittiva generica sulla base di una valutazione unilaterale prefettizia del ‘più probabile che non’ nei confronti di un’impresa occasionalmente infiltrata in forma soggiacente (non compromessa quindi stabilmente con la mafia) potrebbe decretarne la chiusura, incidendo così irreversibilmente sugli interessi personali degli imprenditori e su quelli connessi ed altrettanto rilevanti dei lavoratori, degli stakeholder e dell’intero sistema economico nazionale.
Le direttrici da seguire in una futura riforma delle interdittive dovrebbero essere quelle già tracciate dal legislatore al momento della introduzione ed affinamento delle nuove misure di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione e del controllo giudiziario di cui agli artt. 34 e 34 bis c.a.m. La nuova disciplina dovrebbe, cioè, tendere piuttosto che alla esclusione istantanea, drastica e sostanzialmente definitiva del proposto dal settore degli appalti pubblici in una prospettiva di neutralizzazione sociale, ad una bonifica prolungata, assistita e temporanea dell’impresa infiltrata in un’ottica di recupero all’economia legale.
L’auspicio è che de iure condendo si assista ad un definitivo salto di qualità nella legislazione antimafia di carattere preventivo, in cui si prenda congedo dalla stagione bellico-giuridica del rigore destruens, dove appariva ragionevole bandire dal circuito economico regolare e dagli appalti pubblici un’azienda indiziata, in maniera non meramente immaginaria, di infiltrazione mafiosa, abbracciando quella antitetica della cura construens, in cui lo Stato non espelle un’impresa legale che ha subìto tentativi di infiltrazione dalla criminalità organizzata, con detrimento anche degli interessi degli altri soggetti estranei potenzialmente coinvolti, ma al contrario si affianca ad essa, offrendole un supporto continuativo per recidere realmente ogni possibile legame mafioso presente e futuro.
In presenza di situazioni di “pericolosità qualificata attenuata” quali quelle che legittimano le informative antimafia, de lege ferenda la prima ratio dovrebbe essere quella delle misure di prevenzione patrimoniali miti dell’amministrazione o del controllo giudiziario, degradando l’interdittiva al rango di ultima ratio sottoposta ad un pieno controllo del Tribunale di prevenzione.
[1] R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’ 8 giugno 2020), in www.giustiziainsieme.it, 3 luglio 2020; C. Felicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945).
[2] Tra le decisioni della Terza Sezione di analogo tenore si vedano: Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651; Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105; Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[3] Il Consiglio di Stato si era già espresso in termini sostanzialmente analoghi nel recente passato evidenziando in Cons., Stato, Sez. III, n. 3583/2016, l’imprescindibilità di queste misure per “porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese”. In senso conforme, da ultimo, cfr. Cons. St., Sez. III, 21 aprile 2019, n. 2141, che le ha ritenute “una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia”. In argomento A. Levato, Potestà discrezionale del Prefetto e regime di impugnazione delle interdittive antimafia. Criticità e prospettive di risoluzione, in http://culturaprofessionale.interno.gov.it/FILES/docs/1260/TESTO%20INTEGRALE%20Levato.pdf, p. 17.
[4] Sottolinea la funzione cautelare e preventiva delle interdittive Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3.
[5] Sul punto, per una descrizione più analitica delle due differenti sottotipologie di interdittive antimafia, sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani, Le interdittive e le altre misure di contrasto alla infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Giappichelli, 2019, p. 207 e ss.
[6] Così Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[7] Si veda per tutte la sentenza ‘decalogo’ del Consiglio di Stato, sez. III, 6 maggio 2016, n. 1743, in cui il giudice amministrativo procede ad una tipizzazione delle situazioni ‘atipiche’ da cui desumere i tentativi di infiltrazione mafiosa in un’impresa.
[8] Consiglio di Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[9] Per un primo commento alla sentenza cfr. R. Piombino, A quali costi? L’efficacia estensiva dell’informazione interdittiva antimafia, in www.dirittodidifesa.eu; L. Delli Priscoli, https://www.ildirittoamministrativo.it/informativa-prefettizia-antimafia-e-il-diritto-della-collettivit%C3%A0-ad-un-mercato-concorrenziale-Lorenzo-Delli-Priscoli/stu594.
[10] G. Agamben, Lo stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, 2003; Id. Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, in Il manifesto, 26 febbraio 2020. Sull’origine del concetto cfr. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, tr. it., Il Mulino, 2014.
[11] Per approfondimenti su questa nuova misura di prevenzione patrimoniale si veda C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperato ria contro le infiltrazioni mafiose, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., pp. 237 e ss.; R. Cantone-B. Coccagna, L’impresa raggiunta da interdittiva antimafia tra commissariamenti prefettizi e controllo giudiziario, ivi, pp. 283 e ss.; A. Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali ad opera della l. 161/2017 tra istanze efficientiste e tentativi incompiuti di giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, in AP, 2018, pp. 368 e ss.; M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in SP, 3 marzo 2020, 5 ss.; E. Birritteri, I nuovi strumenti di bonifica aziendale nel Codice Antimafia: amministrazione e controllo giudiziario delle aziende, in RTDPE, 2019, pp. 859 e ss.; S. Finocchiaro, La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche appena introdotte, in DPC, 2017, pp. 256 e ss.; F. Balato, La nuova fisionomia delle misure di prevenzione patrimoniali: il controllo giudiziario delle aziende e delle attività economiche di cui all'art. 34-bis codice antimafia, in DPC, 12 marzo 2019, pp. 64 e ss. Spunti interessanti anche in E. Mezzetti, Codice antimafia e codice della crisi dell’insolvenza: la regolazione del traffico delle precedenze in cui la spunta sempre la confisca, in AP, 2019, pp. 11 e ss.
[12] Nell’incerto ed atecnico iter argomentativo della decisione della Consulta pare, infatti, avere un ruolo rilevante l’asserito carattere temporaneo-cautelare delle misure interdittive antimafia, tralasciando che, per un’impresa impegnata esclusivamente nel settore delle gare pubbliche l’adozione di un provvedimento di questo genere, di norma, ha natura quasi perpetua, escludendola non solo pro tempore, ma anche con grandi probabilità in futuro a causa dell’etichettamento negativo difficilmente superabile.
[13] Su tali aspetti cfr. il nostro G. Amarelli, Interdittive antimafia e controllo giudiziario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture?, in SP, 10 aprile 2020.
[14] T.a.r. Lazio, Sez. I ter, 8 luglio 2020.
[15] L’art. 17 CDFUE considera, infatti, il diritto di proprietà quale diritto del singolo prevedendo che «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporre e di lasciarli in eredità» e che «l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale».
[16] Cons. St., Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105, nonché Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[17] Sul punto si veda il lavoro di L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Giappichelli, 2018.
[18] In tal senso cfr. C. Edu, Grande Chambre, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia. Sul punto cfr. A.M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte Europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in www.penalecontemporaneo.it, 6 marzo 2017, pp. 1 e ss.; F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, ivi, 3 marzo 2017, pp. 1 e ss.; R. Magi, Per uno statuto unitario dell’apprezzamento della pericolosità sociale. Le misure di prevenzione a metà del guado, ivi, 13 marzo 2017, pp. 1 e ss.; F. Menditto, La sentenza De Tommaso contro Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, ivi, 26 aprile 2017, pp. 1 e ss.; V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione, in DPP, 2017, pp. E 1039 ss.; F.P. Lasalvia, Le misure di prevenzione dopo la Corte EDU De Tommaso, in AP, 25 maggio 2017, pp. 1 e ss.
[19] Di recente, con ordinanza del T.a.r. Puglia, Sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28, è stata rimessa alla Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale se gli artt. 91, 92 e 93 del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endoprocedimentale in favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione.
[20] Si veda sui rapporti di parentela Cons. St., Sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651, che ha chiarito che possono fondare l’applicazione di un’interdittiva antimafia anche i soli rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; nonché, Cons. St., Sez. III, 30 maggio 2017, n. 2590; Cons. St., Sez. III, 10 aprile 2017, n. 1657; Cons. St., Sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559; Cons. St., Sez. III, 27 febbraio 2017, n. 905. Sulle relazioni commerciali e le interdittive a cascata cfr. Cons. St., Sez. III, nn. 1743 e 2232 del 2016; Tar Campania, Napoli, Sez. I, 4 luglio 2018, n. 4938, decisioni in cui è compiuto anche uno sforzo di tipizzazione delle interdittive generiche.
[21] Si esprime in tal senso, tra le tante, Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[22] C. cost. n. 24/2019, in GC, 2019, con nota di V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra interpretazione tassativizzante e legalità costituzionale, pp. 343 e ss.; A.M. Maugeri-P. Pinto de Albuquerque, La confisca di prevenzione nella tutela costituzionale multilivello: tra istanze di tassatività, ragionevolezza, se ne afferma la natura ripristinatoria (Corte cost. 24/2019), in SP, 29 novembre 2019; Fr. Mazzacuva, L’uno-due della Consulta alla disciplina delle misure di prevenzione:punto di arrivo o principio di un ricollocamento su binari costituzionali?, in RIDPP, 2019, pp. 990 e ss.; F. Basile-E. Mariani, La dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie preventiva dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questioni aperte in tema di pericolosità, in DisCrimen, 10 giugno 2019; S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte Edu, in DPC, 4 marzo 2019; F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, Giappichelli, 2020, pp. 41 e ss.
[23] In questo senso cfr. anche C. cost., 7 aprile 2011, n. 115.
[24] La imprescindibilità di queste misure per “porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese” è sottolineata da Cons., Stato, Sez. III, n. 3583/2016. Da ultimo, Cons. St., Sez. III, 21 aprile 2019, n. 2141, le ha ritenute “una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia”. In argomento A. Levato, Potestà discrezionale del Prefetto e regime di impugnazione delle interdittive antimafia. Criticità e prospettive di risoluzione, in http://culturaprofessionale.interno.gov.it/FILES/docs/1260/TESTO%20INTEGRALE%20Levato.pdf, p. 17.
[25] Sulla differente prospettiva della legalità convenzionale sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale, in www.criminaljusticenetwork.it, 16 novembre 2018.
[26] Cons. St., Sez. III, sent. 5 settembre 2019, n. 6105 cit.; Cons. St., Sez. III, sent. 30 gennaio 2019, n. 758, cit.
[27] Per una trattazione più analitica dei possibili interventi de iure condendo realizzabili in materia di interdittive antimafia sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani, Le interdittive, cit., pp. 231 e ss.
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