ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Verso quale riforma della magistratura onoraria? di Giulio Nicola Nardo
Sommario: 1. Premessa - 2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice - 3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro - 4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria.
1. Premessa
Da tempo si assiste ad una serie di tentativi di interventi normativi di sistemazione organica dei ruoli della magistratura c.d. onoraria che dovrebbero inserirsi nell’ottica di una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e del sistema di funzionamento dell’ufficio del Giudice.
Ciò induce chi scrive a brevi riflessioni, volutamente non tecniche, ma decisamente orientate ad unirsi al gruppo - sempre più numeroso - di chi è per nulla soddisfatto dell’“anima” che emerge dai vari testi di legge che circolano e che sono già alle prime letture dei legiferanti.
Per vero, all’occhio di un attento lettore dei testi che, dalla c.d. legge Orlando arrivano ai recenti testi di legge depositati - da ultimo quello delle senatrici di maggioranza Valente ed Evangelista - si evidenzia un legislatore (consapevolmente?) miope che naviga quasi a vista e senza una precisa rotta che abbia quale orizzonte un organico disegno riformatore, così fornendo una definitiva risposta non tanto e non solo ai magistrati onorari – che nessuno, tanto meno a seguito dell’intervento della Corte di giustizia europea del 2020 [1] si può più permettere di non qualificare come lavoratori - ma a chi della Giustizia si serve, ossia a tutti coloro che chiedono l’intervento del giudice per la tutela giurisdizionale dei propri diritti.
Ed allora una seria e scrupolosa riforma della giustizia, e con essa della esatta regolamentazione del ruolo anche della magistratura onoraria dovrebbe, da un lato, essere pensata ed attuata nel rispetto della tutela dei diritti dei medesimi quali lavoratori, con ogni connessa guarentigia previdenziale ed assistenziale; dall’altro, non ammettendo ulteriori ritardi o, ancora peggio, interventi disomogenei di chirurgia nell’organico dei ruoli della magistratura nei quali, a giusto titolo, vanno collocati i giudici onorari, che nel corso degli anni hanno dato dimostrazione di competenza, indipendenza e terzietà, in ossequio ai principi costituzionali di cui all’art. 111 Cost.
Se così è, come è evidente che sia, l’utente finale, ossia il consumatore (sia consentito il termine assolutamente atecnico, ma efficace) del servizio giustizia ha il diritto di porsi alcune domande alle quali il legislatore deve fornire risposte chiare e non ambigue, come invece avviene a causa di una legislazione fortemente tecnocratica elaborata nelle sconosciute e ombrose stanze ministeriali; ovvero ancora, come si evince dalla lettura del recente testo normativo all’esame della Commissione Giustizia del Senato, fornendo risposte di scarsa lungimiranza caratterizzate da evidente precarietà, assolutamente non idonee a licenziare una legge che segni il punto di arrivo di un sistema di organizzazione della giustizia moderno e davvero efficiente.
2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice
Vi è, allora da chiedersi: il legislatore ha veramente interesse ad una compiuta regolamentazione del rapporto di lavoro - da intendersi quale diritto al lavoro, e non (nell’accezione zaloniana) del “posto fisso” - e, più in generale, a dare adeguata soluzione alla incresciosa precarietà di una categoria alla quale ha comunque da anni delegato l’esercizio del potere giurisdizionale e che, per vero, viene esercitato con uguale dignità dei giudici togati? Oppure è intenzionato ad intervenire con il sistema del “tagli e cuci”, dunque rattoppando alla meno peggio – pur rappresentandolo magari come il meglio possibile - tale situazione? Non è questa la occasione per dare una compiuta regolamentazione a quello che si potrebbe chiamare Ufficio monocratico del Giudice di pace nel quale far confluire anche gli attuali giudici onorari?
Le domande alle quali il legislatore è chiamato a dare risposta organica e omogenea sono dunque varie e tra esse, ritengo fondamentale, la seguente: i magistrati onorari sono (ancora) magistrati o il legislatore vuole declassarli a collaboratori del giudice togato? La prima risposta che forniscono i testi normativi in esame, è tutta protesa nella direzione di non riconoscere più ai medesimi alcuna funzione giurisdizionale autonoma, per come fatto fino ad ora, ma di relegarli – quindi degradandoli quasi a mo’ di bocciatura – verso funzioni secondarie esecutive e sfruttando così una vera e propria “forza lavoro” (ci si scusa per il termine ma si precisa che lo si utilizza nel senso più nobile e vero, ossia che i magistrati onorari sono una Forza lavoro ormai imprescindibile per il (seppur ancora non efficiente) funzionamento del sistema giudiziario). Al contrario, una disciplina che abbia quale fine l’efficienza del processo e dunque una legislazione per il processo e non contro il processo[2] deve confermare la piena titolarità delle funzioni giurisdizionali dei giudici onorari, intervenendo sulla distribuzione della competenza ratione materiae e, in subordine, per valore, elevando e non, come si legge ora nei testi in esame, abbassando la soglia della competenza per valore.
Dunque la vera risposta, senza alcuna pretesa di completezza, dovrebbe essere quella di mantenere la piena titolarità in capo ai magistrati onorari di una serie di materie, specificamente individuate e peraltro da sempre dagli stessi trattate anche a volte in via esclusiva, nell’ottica di un loro accorpamento nell’istituendo Ufficio monocratico di Pace, che tratterebbe una serie di cause rispetto alle quali viene mantenuta una competenza per materia (si pensi alle cause già di competenza del giudice di pace, alle quali potrebbero essere assegnate altre cause da individuare), ed altre in ragione del valore delle medesime, da quantificarsi in misura non inferiore ad almeno centomila euro.
Nell’ottica, poi, di una completa riorganizzazione della magistratura onoraria nell’Ufficio del giudice monocratico di pace (o “minore”, o come lo si vorrà battezzare, visto che, tale progetto era già parte della legge delega n.57/2016 art. 1 comma 1 lett a), non va dimenticato che vi sono Ddl[3] attualmente depositati in commissione giustizia Senato che prevedono espressamente un accorpamento dei magistrati onorari con i giudici di pace: in tal modo si potrebbe concretamente assicurare un adeguato funzionamento di un servizio giustizia, per così dire “minore” (inteso non in ragione della tipologia dei diritti in sé, ma per il loro riflesso sulla collettività in generale). Infatti, si creerebbe così un “Ufficio del giudice di pace” ben strutturato che unisca le ormai consolidate competenze dei magistrati laici (di pace e onorari), con piena dignità giurisdizionale degli stessi e sgravio per il Tribunale. Si valorizzerebbe l’ufficio del giudice minore (laico) monocratico di prima istanza per la tutela giurisdizionale di diritti (non lo si dimentichi) in modo ben strutturato nel territorio nazionale.
Non sarebbe forse più efficiente questa collocazione dei ruoli della magistratura monocratica laica, piuttosto che collocare i non più giovani – nel senso però di più esperti – magistrati onorari nell’ufficio del processo o nell’ufficio di collaborazione del procuratore così come ad oggi strutturato, diretto dal solo magistrato togato? Non sarebbe più corretto qualificarli come giudici monocratici laici piuttosto che inquadrarli quasi come stagisti, ossia quella nota categoria (che storicamente riguarda i giovani laureati) grigia e assolutamente precaria di chi viene collocato in un qualsiasi ufficio con poche competenze, con incerto futuro e soprattutto con un non definito ruolo, se non quello di ricerca e di collaborazione con il titolare, con assoluta confusione riguardo ai rapporti (gerarchici?) tra gli stessi?
In conclusione, la riforma della già recente ed ahimè fallimentare “riforma Orlando”, che attualmente emerge dai testi normativi al vaglio della Commissione giustizia del Senato, non soddisfa nessuno, perché non funziona e non darà adeguate risposte. Non modifica affatto, in particolare, il fantomatico ufficio del processo, o meglio l’ufficio del Giudice, il quale meriterebbe per esempio una struttura che preveda sempre presente - per davvero - un assistente di cancelleria, un segretario, un tecnico informatico e almeno due uditori giudiziari che in un lasso di tirocinio che non dovrebbe essere inferiore a due anni, prima di una loro assegnazione autonoma ad un nuovo ufficio di cui diventeranno titolari, assicurino al giudice quel supporto nella ricerca e nello studio dell’oggetto della controversia, (essendo in ciò maggiormente proiettati in ragione dei più recenti e freschi studi) e nella prima stesura di una minuta.
Occorre, pertanto, una riforma organica della magistratura onoraria che tenga conto della vita reale nei tribunali e del ruolo concretamente svolto dalla stessa.
3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro
I magistrati onorari sono lavoratori e come tali il loro rapporto di lavoro merita una compiuta regolamentazione?
Il presente quesito, per vero, ha già tracciata la sua risposta dalla recente pronuncia della Corte di giustizia dell’unione europea[4], nuovamente adita, recentemente dal Tar Emilia-Romagna[5] e dal Tribunale di Vicenza[6]. Il primo, in particolare, chiede oltre all’accertamento dello status giuridico di pubblico dipendente, del magistrato onorario, nell’ambito del Ministero della Giustizia, “la ricostruzione della posizione giuridica, economica, assistenziale e previdenziale, in riferimento oltre che alle direttive 1999/70 e 2003/88 anche alle direttive n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4) e n. 2000/78/CE (art. 1, 2 comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento, oltre che agli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Il TAR ritiene, inoltre, necessario da parte della Corte Europea, un più approfondito esame delle funzioni concretamente esercitate dal giudice di pace nell’ambito dell’ordinamento nazionale, sussistendo altrimenti il rischio pressoché certo di determinare un margine di apprezzamento eccessivamente ampio da parte del giudice nazionale in uno con l’elusione dell’effetto utile delle direttive evidenziate. Considera, infine, l’esigenza fondamentale che “la nozione di lavoratore non possa essere interpretata in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali” (punto 88) e che siano evitate disparità di trattamento (non solo come detto con i magistrati c.d. togati ma anche con l’intera categoria dei lavoratori dipendenti pubblici) non giustificate da “ragioni oggettive” ai sensi della clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale.
È evidente, pertanto, come gli organi giurisdizionali, aditi, (Corte di Giustizia dell’unione europea, TAR e Tribunale lavoro), si siano già orientati in modo inequivocabile verso quel riconoscimento che oggi, a noi studiosi del diritto, appare improcrastinabile. Ecco proprio sulla base di tale dettato, che ha in sé il conforto della autorevolezza della pronuncia, ma ancor prima dalla primaria collocazione all’art. 1 della nostra Costituzione italiana del diritto al lavoro, occorre che il legislatore non continui a perseverare in modo diabolico immaginando una regolamentazione del rapporto di lavoro dei magistrati onorari a “macchia di leopardo”, ossia non riconoscendo i diritti di base di qualsiasi lavoratore (previdenza, assistenza, retribuzione adeguata) e, aggravando la stessa con previsione di svolgimento del lavoro entro un “monte ore”, che, peraltro, mal si concilia con lo svolgimento della funzione giurisdizionale.
Ma davvero si può immaginare, e ancora peggio sopportare, che un legislatore assegni ai magistrati onorari – finanche collocandoli nell’ufficio del processo – un limite di orario di lavoro con previsione cadenzata di giorni settimanali propri di un part-time meramente esecutivo e di svolgimento di mansioni di mera segretaria di secondaria funzione? E’questa la migliore collocazione dei magistrati onorari nei ruoli della magistratura per assicurare il più efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale che intende assicurare all’utente il nostro legislatore? O è - come è evidente - un malcelato tentativo di rattoppare all’italiana un rapporto di lavoro che diventerà sempre più ibrido e sciatto, sia sotto l’ottica giuslavoristica che di organizzazione del sistema giudiziario?
L’impressione è che il legislatore di turno opti consapevolmente per la seconda soluzione, tuttavia prospettandola come l’unica possibile in ragione del solito compromesso [per vero, al ribasso] tra le forze politiche le quali nemmeno di fronte alla generale domanda di una legislazione sulla Questione Giustizia che unisca - piuttosto che dividere - le varie anime politiche del governo e dell’opposizione, trova la soluzione più apprezzabile: quello che emerge è che in tal modo all’indomani del battesimo dell’ennesima legge di riforma della giustizia, salutata (da chi poi?) come la compiuta riforma della magistratura onoraria, i più attenti e scrupolosi interpreti e commentatori della legge, e più in generale gli operatori della giustizia, avvocati e parti, oltre che, indubbiamente la magistratura togata[7] più attenta e sensibile al buon funzionamento della giustizia – peraltro cristallizzata anche in pronunce della Cassazione [8] - che abbia avuto modo di apprezzare la fondamentale presenza dei magistrati onorari nello svolgimento della funzione e in termini più pratici nello smaltimento dei fascicoli infiniti giacenti nei tribunali, inevitabilmente qualificheranno come inutile, improduttiva e da riformare nuovamente, siccome evidentemente lacunosa (anche) nella parte riguardante il mancato riconoscimento dei diritti previdenziali ed assistenziali dei medesimi, e inevitabilmente proiettata verso censure di incostituzionalità.
A ciò va ad aggiungersi che l’attuale situazione determinata dalla pandemia, mal si concilia con la previsione del testo di maggioranza a firma delle senatrici relatrici Valente e Evangelista - ora all’esame della Commissione giustizia del Senato - posto che nel testo in questione rimane ancora la mancata previsione di qualsivoglia forma previdenziale ed assistenziale nonché il riconoscimento di una vera retribuzione da corrispondere anche in caso di assenza per malattia o altro così come riconosciuto a qualsiasi lavoratore. E allora, sorge spontaneo chiedersi dove sia lo Stato italiano per quei magistrati onorari risultati positivi al Covid-19 e privi, per volontà anche politica di qualsivoglia tutela assistenziale e sanitaria.
A ciò si aggiunga che con la legge n. 77 del 17 luglio 2020 di conversione del c.d. decreto legge Rilancio del 19 maggio 2020 n. 34, è stato prorogato il periodo emergenziale al 31 ottobre 2020 e modificato l ’ art. 83 comma 7 lett. h), riconoscendo al giudice la possibilità di disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti "siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni". E’ chiaro che tale attività non più qualificata come udienza proprio dal legislatore, forse frettoloso, forse inesperto o forse incomprensibilmente contrario alla categoria di cui si discute, non potrà essere svolta dal magistrato onorario in quanto non consentirà la corresponsione della prevista indennità a cottimo. Tale inopportuna modifica legislativa, ha obbligato ad oggi i magistrati onorari ad accettare il rischio di contagio, peraltro assai elevato nell’attuale periodo di recrudescenza della pandemia, continuando a tenere udienza in presenza, coinvolgendo nel rischio gli avvocati e le parti processuali. E’ chiaro che il legislatore non possa chiedere a qualcuno di prestare la propria attività lavorativa gratuitamente, né è ammissibile che dei lavoratori, che svolgono funzioni giurisdizionali, debbano mettere a repentaglio la propria salute e quella di chi è costretto a partecipare alle udienze in presenza, a causa di un'improvvida disposizione normativa. Essa peraltro, appare assolutamente discriminatoria rispetto ai magistrati ordinari i quali possono, infatti, svolgere le udienze cartolari da remoto, mentre ai giudici onorari viene chiesto “lo sforzo” di presenziare in udienza: evidente è dunque la inaccettabile disparità di trattamento oltre che tra i giudici – ordinari ed onorari – più in generale della gestione delle fasi del processo, a seconda se questo si svolga davanti al giudice onorario o togato.
Ciò anche nella previsione - a causa della detta pandemia la cui durata nessuno è in grado di collocare in un preciso e definitivo termine e che comunque ha già modificato l’ordinario svolgimento del processo civile - che, verosimilmente, il futuro ormai prossimo o probabile del processo civile sia quello della prevalenza della trattazione scritta piuttosto che in presenza, certamente limitata a quelle fasi in cui ciò sia possibile (esclusa all’evidenza, l’assunzione delle prove testimoniali, o le ipotesi in cui le parti o il giudice richiedano lo svolgimento della udienza in presenza per discussione).
4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria
A conclusione della presente riflessione ci si permette di fornire qualche proposta di riforma nel tentativo di dare un contribuito per una più organica riforma maggiormente orientata verso una complessiva e più ottimale strutturazione della Magistratura onoraria.
Credo che in questo momento in cui da più parti si cerca di sensibilizzare il legislatore verso una adeguata regolamentazione dei giudici onorari, si possa cogliere l’occasione per giungere ad una disciplina che appunto preveda:
a) riconoscimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017 quali magistrati appartenenti ad un Ufficio del Giudice c.d. minore, monocratico, attraverso una legislazione che ne preveda il loro inserimento a seguito di concorso per titoli e colloquio, con un numero di posti a concorso pari al numero dei magistrati onorari già in servizio;
b) inserimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, nell’Ufficio del Giudice pace, creando dunque un Ufficio monocratico minore di primo grado, con un considerevole aumento della pianta organica di tale Ufficio che nel tempo ha dato prova di adeguato funzionamento e con un miglioramento anche qualitativo, attesa la competenza e l’esperienza maturata dai giudici onorari;
c) attribuzione di specifica competenza per materia al nuovo Ufficio e determinazione della competenza per valore almeno fino a 100mila euro;
d) regolamentazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno - e non più a tempo determinato - di tutti i magistrati appartenenti al costituendo Ufficio del giudice monocratico minore con previsione di stipendio adeguato, e previsione di tutti i diritti previdenziali ed assistenziali propri di un dipendente della pubblica amministrazione appartenente al ruolo della Magistratura;
e) mantenimento all’interno del Consiglio superiore della Magistratura di una Sezione specifica e con la istituzione di una Commissione che si occupi della carriera del Giudice monocratico minore, relativamente ad ipotesi di responsabilità disciplinare, dell’obbligo di formazione ed aggiornamento professionale;
f) cancellazione da albi professionali e divieto di partecipazione a attività politiche o sindacali, se non previa collocazione in aspettativa o fuori ruolo dall’ organico della magistratura, con conseguente ricongiunzione e ricostruzione della posizione previdenziale del magistrato onorario rispetto al pregresso esercizio della funzione a carico dello Stato;
g) digitalizzazione del sistema operativo della Giustizia per la più efficiente gestione dei processi e dei servizi ausiliari di cancelleria, attingendo dai finanziamenti europei.
Queste, ben inteso, sono solo ipotesi di proposte che certo potrebbero avere una forte ricaduta in termini anche economici per lo Stato, ma ciò non può e non deve essere un freno anche in considerazione di alcuni aspetti specifici. Si valuti, infatti, la possibilità per ogni singolo magistrato onorario, anche alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’unione europea, di ricorrere giudizialmente contro lo Stato Italiano per il riconoscimento dei diritti maturati in riferimento alla propria dichiarata posizione di lavoratore subordinato. Si pensi allo tsunami giudiziario che ne deriverà. Si pensi a quanto lo Stato italiano pagherà in termini di risarcimento dei danni, differenze retributive, ferie non pagate, previdenza non corrisposta e quant’altro collegato, per 5300 magistrati onorari attualmente in servizio. Buona parte di tali ricorsi sono già al vaglio del Giudice nazionale, altri stanno per essere depositati.
Chi pagherà tali ingenti somme a cui lo Stato italiano potrebbe essere condannato? La risposta è fin troppo evidente, e per nulla accettabile: il cittadino!
Tutto ciò potrebbe essere ancora evitato grazie ad una riforma organica della magistratura onoraria maggiormente equa.
La proposta formulata ha in sé una visione più organica della riforma della magistratura onoraria e da questa potrebbe prendersi lo spunto per una complessiva regolamentazione di tale categoria: credo che le sintetiche indicazioni esposte possano esser ancor meglio valorizzate e fatte proprie dal legislatore, con una disciplina che sarebbe più completa ed efficace così favorendo un’efficiente organizzazione della Giustizia.
In conclusione ritengo che l’ipotesi di una un’unitaria collocazione dei magistrati onorari nell’ufficio del Giudice di pace (che potrebbe definirsi Giudice monocratico minore) e, come detto, con previsione di un ben definito perimetro di competenza per materia e valore, da un lato, strutturerebbe meglio l’Ufficio del Giudice di pace, e dall’altro, “libererebbe” il giudice togato da competenze (per materia e valore) riguardanti cause di impatto socio-economico più contenuto e minore, ma che, statisticamente, sono più frequenti e certamente non meno importanti e meritevoli di adeguata tutela giurisdizionale in tempi più rapidi, che il costituendo Ufficio potrebbe meglio assicurare.
Ma la amara conclusione è che così come viene prospettata, allo stato attuale, dal testo di legge di maggioranza all’esame della Commissione giustizia del Senato, questa è una riforma del ruolo della Magistratura onoraria che nessuno di Noi si attende, e che nessuno merita.
Ma, di fronte ad un legislatore che è, all’evidenza, un navigatore a vista, viene solo da concludere che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
[1] Al riguardo è fondamentale il dictum assolutamente innovativo della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, di cui si dirà meglio alla nota n. 5.
[2] Come efficacemente ha scritto, SCARSELLI, La riforma della magistratura onoraria: un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, in Quest. Giust. on line, dal 13 luglio 2015.
[3] Si veda Ddl n. 1582 a firma del senatore Balboni e Ddl n. 1516 a firma del senatore Iwobi.
[4] Cosi Corte di giustizia europea del 16 luglio 2020 [causa C-658/18], secondo cui un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di lavoratore ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. La Corte ha, inoltre, specificato che “…la nozione di lavoratore a tempo determinato contenuta in tale disposizione può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
[5] Tar Emilia-Romagna ord. n. 644 del 2020.
[6] Trib. Vicenza, ordinanza del 29.10.2019 [R.G. 1028/2017], per il quale:” “La figura del magistrato onorario, originariamente concepita, come si è illustrato, come di mero supporto al magistrato togato, si è profondamente evoluta negli anni, per sopperire ad esigenze concrete connesse alla carenza di organico nei Tribunali. Attualmente i GOT trattano circa un terzo dei dibattimenti monocratici in Tribunale e delle udienze civili, avendo la titolarità di ruoli propri ed emettendo un numero elevato di provvedimenti che contribuiscono sensibilmente all’innalzamento della produttività. Essi, inoltre, integrano il collegio nei casi di necessità, fornendo un apporto spesso indispensabile per la trattazione effettiva dei processi collegiali (come risulta dalla circolare CSM 19.01.2016).
[7] Ci si riferisce al documento firmato dai Presidenti dei Tribunali sottoscritto in data 21 febbraio 2020. “attualmente i giudici onorari di tribunale, secondo le previsioni tabellari, sia nel settore civile che in quello penale gestiscono ruoli autonomi, trattando milioni di cause che diversamente si riverserebbero sui giudici ordinari, dando un contributo importante allo smaltimento degli affari”. Concludono, quindi, “invitando le Autorità in indirizzo a perseguire ogni possibile iniziativa legislativa che: consenta, riformando l’attuale previsione normativa dell’UpP, il mantenimento delle attuali funzioni giudiziarie in capo ai giudici onorari in servizio, con possibilità di gestire ruoli autonomi, secondo le previsioni tabellari predisposte dai capi degli Uffici, in base alle specifiche esigenze degli stessi, nel contesto della unicità di categoria tra gdp (giudici di pace) e got (giudici onorari di tribunale); abroghi ogni limitazione all’impiego dei magistrati onorari nei collegi civili e penali, oggi prevista dall’art.12 e dall’art.13 d.lgs.116 del 2017 con riferimento al complessivo carico di lavoro degli uffici giudiziari o alle vacanze di organico; elimini il rigido limite (attualmente previsto nel d.lgs.n.116/2017) dei due/tre impegni settimanali, che appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti, e preveda un consequenziale adeguamento economico.
Ma si veda, anche l’A.N.M., in data 6 aprile 2019, che non ha mancato di osservare come “destano perplessità e preoccupazione le proposte avanzate dal ministero in merito ai limiti temporanei di impiego della magistratura onoraria requirente e giudicante. La proposta presentata, infatti, limita tale impiego in tre impegni settimanali, stabilendo la corrispondente retribuzione. Tuttavia, tale rigido limite appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti per l’indisponibilità di magistrati onorari impiegabili con limitazioni così anguste ed inadeguate. L’ANM rivolge un appello al Ministro della Giustizia affinché, in sede di redazione dell’articolato normativo, ampli l’oggetto delle materie delegabili in coerenza con quanto già stabilito e aumenti la soglia limite prevista per l’impiego settimanale dei magistrati onorari, prevedendo il corrispondente incremento retributivo, onde prevenire il blocco della trattazione di numerosissimi procedimenti e l’impossibilità di celebrare le udienze che conseguirebbero all’entrata in vigore della riforma così come prospettata”. Ancora, si segnala che “da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo alla giurisdizione, in assenza di un’adeguata tutela previdenziale ed assistenziale” (Associazione Nazionale Magistrati, documento GEC del 22 aprile 2017), e il loro impiego “costituisce una misura apprezzabile nell’ottica di un’efficiente amministrazione della giustizia ex artt. 97 e 111 Cost.”.
[8] (Cass. 4 dicembre 2017, n. 28937, secondo cui “i giudici onorari – sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio – possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall’art. 106 Cost.”)
Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari*
di Giuliano Scarselli
1. Ho espresso il mio pensiero sulla riforma della magistratura onoraria una prima volta a seguito del disegno di legge n. 1738/2015 poi sfociato nella legge delega 29 aprile 2016 n. 57, e successivamente all’uscita del decreto legislativo 13 luglio 2017 n. 116.
In entrambe quelle occasioni esternai il mio dissenso ad una riforma che, ancorché solennemente titolata “Riforma organica della magistratura onoraria” a mio parere dissimulava solo l’intenzione di procedere ad una organizzazione dell’ufficio del giudice, chiamato, per dar meno nell’occhio, ufficio del processo, nonché l’intenzione di ridurre il carico di lavoro della magistratura togata trasferendo una serie di compiti e competenze alla magistratura onoraria.
Coglievo, in quella riforma, anche dei profili di incostituzionalità, che emergevano a mio parere nel modo in cui i giudici onorari venivano trattati e considerati.
In particolare: - mi sembrava dubbio che l’ufficio del giudice onorario di pace potesse essere diretto dal Presidente del Tribunale, che non appartiene a quell’ufficio e che anzi è il capo dell’ufficio delle impugnazioni delle sentenze civili dei giudici di pace; - mi sembrava altresì dubbio che il Presidente del Tribunale avesse su i giudici onorari, oltre al normale potere di vigilanza, quello di direttiva e di indicazioni di prassi applicative anche in ordine ai provvedimenti da assumere o agli indirizzi giurisprudenziali da tenere; - mi sembrava ancora di dubbia costituzionalità che la formazione e l’aggiornamento della professionalità dei giudici onorari potesse darsi con incontri nei quali si discuteva delle sentenze da questi pronunciate e/o delle questioni sulle quali avevano curato la trattazione, quasi come scolaretti dinanzi ad una professoressa di liceo che corregge loro i compiti; - e ancora dubbi mi suscitava l’ampia delega che il giudice togato potesse dare al giudice onorario all’interno dell’ufficio del processo, consentendo al primo di (quasi) interamente liberarsi del fascicolo, se non per meri e successivi controlli; - il tutto con una retribuzione del giudice onorario “a cottimo”, e ancorata ai risultati raggiunti, ovvero con una retribuzione che, se data ai giudici togati, tutti avrebbero gridato allo scandalo e alla incostituzionalità.
Ora si sta discutendo in Senato dell’approvazione di alcune modifiche di quel decreto legislativo, ma dal 2017 ad oggi, a mio parere, le tematiche intorno al ruolo e alla funzione dei giudici onorari nel sistema giustizia si sono fatte sempre meno giuridiche e sempre più sindacali.
Le discussioni, attualmente, vertono infatti soprattutto sulla retribuzione, sul contratto di lavoro, sul diritto alla previdenza e all’assistenza; e ciò soprattutto dopo le pronunce Tribunale di Vicenza 29 ottobre 2019, Corte Giustizia Unione Europea causa C – 658/18 del 16 luglio 2020, TAR Emilia Romagna 20 ottobre 2020 n. 644.
Dal che, appunto, al momento, credo che la riforma della magistratura onoraria passi attraverso l’analisi di due diverse, e direi anche lontane, questioni: quella prevalente di tipo sindacale, e quella oramai sullo sfondo avente ad oggetto gli aspetti che non attengono al rapporto di lavoro tra lo Stato e il giudice onorario.
2. Quanto agli aspetti sindacali, io ebbe a scrivere che v’era da chiedersi se fosse accettabile che un giudice onorario, ancorchè privo della qualifica di pubblico impiegato, dovesse svolgere la propria attività senza alcun riconoscimento di assistenza, infortuni, gravidanza e previdenza, e con una retribuzione legata alla produttività e alla realizzazione di obiettivi fissati dal Presidente del Tribunale.
Orbene, pur non smentendo quanto scrivevo in quegli anni, ritengo però oggi di non poter andare oltre su questi temi, e solo pongo due questioni che mi sembrano centrali e semplicissime:
a) la prima è che la magistratura onoraria non può ottenere una stabilizzazione pari a quella della magistratura togata, e ciò per l’evidente questione che i giudici togati hanno vinto un concorso pubblico e i giudici onorari no.
Credo sia inevitabile ammettere che si tratti di due magistrature differenti e che la ricerca di soluzioni di equità, senz’altro auspicabili, non possono tuttavia far venir meno il principio secondo il quale agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede per concorso ex art. 97 Cost.
b) La seconda attiene alla misura della retribuzione, che molti commentatori hanno ritenuto inadeguata, se non addirittura priva di quella dignità che un compenso dato a persone che svolgano funzioni giurisdizionali deve avere.
Orbene, leggo nell’art. 10 della proposta di riforma del d. lgs. 116/2017 che la retribuzione lorda annuale per il giudice onorario che sia inserito nell’ufficio del processo, e svolga parimenti funzioni giurisdizionali, ammonterà ad € 38.000,00.
Mi permetto allora di segnalare che un professore ordinario con venti anni di anzianità ha uno stipendio lordo annuo di circa € 44.000,00 se lavora presso l’università a tempo definito, come a tempo definito lavorano i giudici onorari.
Lascio dunque ad ognuno la valutazione di queste misure per ogni possibile riflessione al riguardo.
3. Circa gli aspetti non sindacali delle modifiche che si vogliono apportare al d. lgs. 166/2017 aggiungo quanto segue:
a) l’art. 2 modifica le incompatibilità tra giudice onorario ed avvocato e le inasprisce.
Si tratta, tuttavia, di incompatibilità all’interno del circondario, e relative all’impossibilità dei giudici onorari di svolgere la funzione ove loro stessi, gli associati di studio, il coniuge, i conviventi, i parenti fino al secondo grado o gli affini fino al primo grado esercitano la professione forense.
Mi sembra un limite ragionevole, volto ad assicurare la neutralità della funzione giurisdizionale ed a evitare commistioni che potrebbero pregiudicare l’indipendenza del giudice.
b) L’art. 3 prevede che il Presidente del Tribunale, nel coordinare l’ufficio del giudice di pace, possa avvalersi di un vice coordinatore individuato tra i giudici onorari di pace che esercitano le funzioni nel medesimo ufficio, sulla base di titoli e anzianità.
Mi sembra una buona soluzione, che in parte supera i dubbi circa la scelta di aver posto a capo dell’ufficio del giudice di pace il Presidente del Tribunale.
Se era probabilmente inevitabile affidare al Presidente del Tribunale il coordinamento dell’ufficio del giudice di pace, l’idea che questi possa essere affiancato in questo compito da un giudice di pace, e quindi da un giudice del medesimo ufficio, stempera quella scelta, assegnando così un ruolo direttivo anche ad un giudice primus inter pares.
Peraltro, la collaborazione tra un giudice di pace che vive in prima persona la realtà dell’ufficio, e il Presidente del Tribunale che si presume avere altra esperienza, potrebbe dare buoni frutti nell’organizzazione dell’ufficio stesso, visto che consente di mettere insieme professionalità diverse tra loro.
c) L’art. 6 pone talune modificazioni al sistema disciplinare, prevedendo che le sanzioni disciplinari siano il richiamo, la sospensione, la revoca.
Seppur sia da condividere l’idea di una graduazione delle sanzioni, inesistente nell’attuale testo dell’art. 21 del d. lgs 166/2017, che incentra al contrario il procedimento disciplinare sulla sola sanzione della revoca dall’incarico, taluni dubbi sulle proposte di modifica possono essere egualmente sollevati.
In particolare mi sembra eccessivo immaginare un intero procedimento disciplinare, che ha particolare complessità, per disporre un semplice richiamo.
Ricordo che il procedimento disciplinare in questione coinvolge, oltre normalmente il presidente del Tribunale, altresì il Presidente della Corte di appello, la sezione autonoma del Consiglio giudiziario e poi lo stesso CSM, con un procedimento che deve avvenire nel contraddittorio delle parti e fatta la dovuta istruttoria, e con provvedimento finale che è del Ministro della Giustizia.
Che tutto questo possa avere ad oggetto un semplice richiamo mi sembra veramente fuori proporzione.
Peraltro, nemmeno scorgo così grandi differenze di gravità nei comportamenti che prevedono il richiamo rispetto a quelli che riguardano la sospensione.
La grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni di servizio, l’indebito affidamento ad altri dei propri compiti, la violazione del dovere di riservatezza con divulgazioni di procedimenti coperti da segreto, fatti tutti che comportano, se commessi, il richiamo del giudice onorario, non mi sembrano di così forte minore intensità rispetto a quelli che comportano una sospensione da tre a sei mesi, quali, ad esempio, comportamenti gravemente scorretti nei confronti delle parti, omessa comunicazione al capo dell’ufficio di interferenze ricevute, fino, se si vuole, all’inosservanza all’obbligo di astensione o all’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti.
Ritengo, dunque, che l’idea di introdurre una sanzione avente ad oggetto il semplice richiamo possa essere abbandonata, e la graduazione delle sanzioni possa essere individuata, a mio sommesso parere, solo nella sospensione e nella revoca dell’incarico e nient’altro.
d) L’art. 8 provvede infine alla soppressione dell’intero capo X del d. lgs. 116/2017, ovvero pone rinuncia all’ampliamento delle competenze per valore e materia che l’art. 27 d. lgs. 116/2017 aveva in un primo momento attribuito ai giudici di pace.
Su questo mi permetto di avere dei dubbi, poiché seppur sia vero che molte di quelle norme si presentavano come oscure o passibili di interpretazioni fra loro divergenti, con rischi di impugnazione fino in cassazione, il disegno riformatore era finalizzato ad un obiettivo condivisibile, quale quello di attribuire ai giudici di pace gran parte del contenzioso minore, così consentendo ai giudici togati di tribunale di occuparsi solo e/o principalmente del contenzioso più rilevante.
Poiché credo sia importante consentire ai giudici togati di occuparsi in tempi ragionevoli, e con il dovuto approfondimento, del contenzioso più rilevante, l’idea di ampliare la competenza dei giudici onorari, trasferendo ad essi gran parte del contenzioso minore, non mi sembra debba essere abbandonata ma, se del caso, solo riformulata in forme migliori di quelle che si leggevano nel testo dell’art. 27 d. lgs. 116/2017 del quale oggi si chiede la soppressione.
*Forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria:
"Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia*
di Bruno Caruso e Giuseppe Minutoli
Sommario: 1. Premessa. La Legge Orlando e il dibattito sulla riforma della magistratura onoraria - 2. La sentenza UX e la sua vincolatività nel contesto dei principi del diritto euro unitario - 3. Il d.d.l. Valente Evangelista - 4. Conclusioni. Dalla critica alle proposte.
1. Premessa. La Legge Orlando e il dibattito sulla riforma della magistratura onoraria
Da anni si discute in varie sedi, anche parlamentari, delle criticità riscontrate - ancor prima della sua entrata in vigore – nella c.d. Legge Orlando (d. lgs. n. 116/2017) in tema di riforma organica della magistratura onoraria. Si è palesata sin da subito una evidente inidoneità di tale pur recente normativa a conciliare, da un lato, l’esigenza, ormai insopprimibile, del riconoscimento di un dignitoso status dei magistrati onorari (che svolgono da decenni le loro funzioni giurisdizionali, nel contesto di un sostanziale precariato e con evidenti deficit di tutele[1]), dall’altro, l’essenziale raggiungimento di obiettivi di efficienza del sistema giudiziario, che dovrebbe costituire l’obiettivo di ogni intervento legislativo in materia di Giustizia.
Si è parlato in maniera icastica di un “legislatore furbo, che fa tutto indirettamente”, nel contesto di una legge che “non è la riforma per i giudici onorari”[2]. E per il vero questa non è neanche la riforma che serve in definitiva ai magistrati ordinari (in quanto, come si vedrà, è concreto il rischio di aumentare a dismisura i loro già gravosi ruoli) e agli utenti della giustizia (ai quali interessa una risposta giurisdizionale rapida ed efficiente).
Come è stato evidenziato, oggetto di motivata critica è l’intero impianto del d. lgs. n. 116/2017 e delle proposte di riforma in discussione, che presentano palesi criticità rispetto ai principi del diritto euro unitario[3] e destano serissime preoccupazioni per l’impatto che la struttura organizzativa dell’Ufficio del processo, così come strutturato, avrà sulla funzionalità della Giustizia; così come restano irrisolti i nodi legati alla dignità dello status della magistratura onoraria, alla indennità prevista con il c.d. fisso[4] (ove mai entrerà a regime) e ai nuovi carichi di lavoro (con la previsione, per il vero atecnica e per nulla chiara, del massimo di tre “impegni” settimanali).
Più in particolare, tra le varie questioni, la istituzione dell’Ufficio del processo in astratto potrebbe avere il suo fascino e potrebbe essere utile, ma invece, così come è strutturata nelle attuali previsioni normative, manifesta tutta la sua inadeguatezza, con ricadute pregiudizievoli sulla funzionalità del sistema. In esso invero potranno (rectius: dovranno, nella maggior parte dei casi) confluire i giudici onorari, cui verranno affidati compiti giurisdizionali in limitati casi, posto che la loro attività principale sarà invece quella di adiuvare i giudici professionali, trasformandosi in loro assistenti e collaboratori[5]. Ma, tenuto conto del fatto che nella maggior parte dei Tribunali il carico di lavoro dei giudici ordinari è già gravosissimo, evidenziamo da un lato la pericolosità dei nuovi limiti decisionali previsti dall’art. 10, co. 12, d. lgs. n. 116/2017, con devoluzione ai primi di materie oggi trattate dai gop[6], dall’altro l’insopprimibile esigenza di avere il massimo numero di giudici onorari con piene funzioni giurisdizionali (e non con compiti ausiliari e con gli stringenti limiti decisionali previsti), a pena di pregiudicare la funzionalità dell’attività giurisdizionale.
L’Ufficio per il processo, come evidenziato in un appello sottoscritto da numerosi presidenti di Tribunale nel gennaio 2020, “rischia di integrare una struttura organizzativa inefficace, peraltro inutile nel settore penale, determinando uno “spreco” di professionalità già qualificate, formate e sperimentate, che la Giustizia non può permettersi: infatti i giudici onorari attualmente in servizio (salvo casi eccezionali indicati nell’art. 11 e salva la possibilità di delegare specifiche attività, come l’assunzione di prove testimoniali) non eserciterebbero più le attuali funzioni giudiziarie in sede civile, anche con gestione di ruoli autonomi, e non sarebbero più utilizzati in sede penale (funzioni indispensabili, come detto prima, per l’efficienza della giurisdizione), ma svolgerebbero meri compiti per così dire ancillari al giudice ordinario (studio dei fascicoli, approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, predisposizione delle minute dei provvedimenti): attività di supporto del giudice togato che ben più utilmente vengono oggi demandate agli stagisti o ai tirocinanti, cioè a profili professionali in formazione”.
Si tratta di preoccupazioni fatte in parte proprie anche dal Consiglio Superiore della Magistratura[7] e oggetto di un allarmato documento firmato dal oltre cento Procuratori della Repubblica nel maggio 2017[8].
Ebbene, dopo l’esperienza fallimentare di un tavolo tecnico ministeriale che ha partorito un progetto di riforma sganciato dalle istanze avanzate dalla magistratura onoraria associata e per le quali era stata declamata una particolare attenzione a livello governativo, negli ultimi dodici mesi si sono succedute audizioni alla Commissione Giustizia del Senato[9], riunioni, dibattiti e articoli[10], prese di posizione anche di alcuni presidenti di Tribunale[11], predisposizioni di varie bozze di riforma, in un contesto che, apparentemente, sembrava maturo per una equilibrata disciplina di un settore in cui permane una situazione di sfruttamento e di deficit di tutela, assolutamente inammissibile in uno Stato di diritto[12]. Questo perché dovrebbe essere chiaro a tutti che qualsiasi normativa di settore che incida sulla giurisdizione deve tendere a migliorare (o almeno a non peggiorare) l’efficienza della stessa, anche limitando i danni arrecati alle finanze dello Stato dalle continue condanne ex legge Pinto n. 89/2001 e in sede di Corte europea dei diritti dell’Uomo ed evitando le procedure di infrazione già preannunciate o in corso.
E tuttavia il dibattito sembrava ormai scivolare in una palude inconsistente quando il 16 luglio 2020 ha fatto irruzione l’attesa sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-658/18 (procedimento UX contro Governo della Repubblica italiana), che, come si vedrà, ha statuito come “un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di lavoratore ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” e che “la nozione di lavoratore a tempo determinato contenuta in tale disposizione può includere un giudice di pace , nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
A fronte di tale autorevolissimo arresto giurisprudenziale, che nell’ambito della giurisdizione nazionale introduce un principio a cui occorre attenersi, ha stupito non poco coloro che, con approccio “laico” e rispettoso delle regole e dei principi euro unitari, si occupano da anni della questione, il deposito in commissione giustizia del Senato del ddl. Valente – Evangelista S1438[13]: si tratta infatti di un elaborato normativo che non solo non elimina alcuna delle denunciate criticità della Legge Orlando, non solo peggiora alcuni aspetti della stessa, sia dal punto di vista della tutela dei diritti dei magistrati onorari e delle (nefaste) ricadute di tali scelte sulla organizzazione e sulla funzionalità dell’attività giurisdizionale, ma che addirittura ignora totalmente il punto (non di arrivo, ma di partenza) costituito dalla citata sentenza della Corte di giustizia.
Partiamo, allora, da subito dall’esame di questa importantissima pronuncia.
2. La sentenza UX e la sua vincolatività nel contesto dei principi del diritto euro unitario
La vicenda della magistratura onoraria italiana, come era prevedibile, cambia di segno con la sentenza Ux. La Corte di giustizia si era già pronunciata su una vicenda riguardante un’analoga categoria di magistratura non togata nel Regno Unito, i c.d. recorders (la sentenza O’Brien causa C-393/10). Anche in quel caso si trattava di giudici non togati retribuiti in base a tariffe giornaliere ed esclusi dalla quasi totalità delle tutele lavoristiche e previdenziali. Già, allora, il pronunciamento della Corte non ha lasciato spazio a equivoco alcuno, riconoscendo la tutela connessa al lavoro subordinato (nella specie si trattava di diritti pensionistici). Questo precedente, avrebbe dovuto costituire un monito per il legislatore italiano, ma anche per le Alti Corti domestiche attestate sulla posizione giusta la quale la qualificazione come ‘onoraria’ della carriera della magistratura non togata italiana, costituiva un impedimento istituzionale (e addirittura costituzionale) al riconoscimento della natura di lavoratore pubblico del magistrato onorario, con conseguente disapplicazione delle tutele lavoristiche (da ultimo Consiglio di stato sent. n.1326/2020) .
La sentenza Ux, pertanto, lungi dal costituire un fulmine a ciel sereno, o un’indebita intrusione nei confini nazionali di un giudice dell’ordinamento sovranazionale, costituisce una scontata presa d’atto dello stato dell’arte di consolidati principi di civiltà giuridica, che in Italia si è fatto fatica ad applicare alla magistratura non togata.
Il principio, vale ricordarlo, si declina in tal senso:
se un rapporto di lavoro, anche nei confronti dello stato, si svolge, in via di fatto, secondo i caratteri, tipici e topici, della prestazione di lavoro subordinato, a prescindere dalla qualificazione che ne fa il legislatore nazionale, il rapporto va qualificato come tale, con tutti gli effetti giuridici che ne conseguono[14].
In verità, in Italia, non sarebbe stato necessario interrogare il giudice europeo per arrivare a un simile risultato.
A prescindere dai principi generali ai quali si è fatto riferimento, è altrettanto noto che la Corte costituzionale italiana, a più riprese, ha fissato l’ormai indelebile principio della indisponibilità del tipo contrattuale (sentenze n. 121/1993 e n. 115/1994; principio poi sempre ribadito, a esempio anche dalla sentenza n. 76/2015).
In tal caso il principio va declinato, sinteticamente, nel seguente modo:
neppure il legislatore può qualificare un rapporto di lavoro – per intrinseca natura, rectius, per modalità di svolgimento – subordinato, in altro modo.
Nel caso del magistrato onorario la pretesa del legislatore, avallata dalla giurisprudenza delle alte Corti nazionali, almeno sino al chiarimento della Corte di giustizia, è stata invece di rendere “invisibile” questa figura sotto il profilo della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, considerando la prestazione come onoraria, che, letteralmente, significa una qualifica il cui conferimento è puramente onorifico, ed esclude pertanto gli obblighi e i diritti inerenti.
E’ fatto, invece, ampiamente noto a tutti gli operatori di giustizia che il magistrato onorario presta, a tempo pieno o parziale, di fatto a tempo indeterminato, attività giurisdizionale in via professionale (in modo reale ed effettivo secondo il lessico della sentenza UX) e non occasionalmente (in modo marginale e accessorio sempre secondo il lessico della Corte). Se così è, ne consegue che, per il diritto euro unitario, tale figura costituisce un/a lavoratore/trice e non può essere considerato/a, invece, secondo l’artificiosa narrativa delle Alte corti italiane, una sorta di servitore volontario della amministrazione della giustizia (si è invocato a sproposito l’art. 54 della Cost.) al quale, al più, corrispondere graziosamente una qualche indennità satisfattiva[15].
A questo vero e proprio vulnus dei basici principi del diritto sociale europeo (ma anche di rilevanza costituzionale) ha posto, dunque, definitivamente rimedio il giudice europeo, non allocato, questa volta, a Berlino, ma in Lussemburgo.
Qual è, allora, l’inequivocabile messaggio che il giudice europeo invia al legislatore e alle Alte corti italiane? E’ bene declinarlo, soffermandosi diffusamente su alcuni passaggi della motivazione della sentenza Ux; ciò anche per evitare il rischio di ri-letture nazionali artatamente opache ed elusive di tale decisione.
Il messaggio consta di due principi , molto chiari e ineludibili, e di un rinvio al giudice italiano nel ruolo di giudice di base dell’ordinamento europeo.
Primo principio:
a) l’attività della magistratura onoraria italiana appartiene alla funzione giurisdizionale, ed è assistita dai corollari di autonomia e di indipendenza propri di questa funzione: punti 40 e seguenti della motivazione, punto 1 del dispositivo e punto 106 che si riporta per esteso in nota[16] .
Secondo principio:
b) Lo svolgimento di tale funzione, secondo i moduli ricorrenti e tipici del lavoro dipendente, fa rientrare il magistrato onorario nella definizione europea di lavoratore. La Corte non afferma tale principio in astratto, ma lo enuclea dallo accertamento empirico dell’attività della giudice ricorrente: punto 120[17]. La disamina empirica effettuata nel corso del giudizio conduce la Corte ad affermare, infatti, con sicurezza, che si tratta di una prestazione non inquadrabile nella fattispecie del lavoro autonomo ma in quella del lavoro subordinato[18].
Segue
c) il rinvio al giudice nazionale - secondo il modulo tipico delle sentenze della Corte di giustizia - per quel che deve fare per dare attuazione ai principi enunciati: spetterà al giudice nazionale, quale giudice di base dell’ordinamento europeo, stabilire in concreto il trattamento normativo e retributivo da attribuire al magistrato onorario parametrandolo a quello in atto per la magistratura togata (punto 148[19]) ; ciò per non violare il principio di non discriminazione (clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul contratto a termine). Spetta, inoltre, all’ordinamento nazionale esplicitare, in modo trasparente, ragionevole e controllabile se esistono ragioni oggettive (per esempio la selezione tramite concorso pubblico e i compiti più complessi affidati ai togati: punti 147 e ss. in particolare punto 159[20]) per giustificare un diverso trattamento delle due figure di lavoratori subordinati comparabili[21].
In sintesi dalla sentenza Ux si trae, con certezza, il seguente quadro.
Il magistrato onorario:
a) E’ una figura inserita nell’ordinamento giudiziario italiano che svolge la sua funzione giudiziaria in posizione di autonomia e indipendenza, ancorché diversa da quella del magistrato togato (es. limiti di competenza).
b) E’ qualificabile, dal punto di vista lavoristico, come un lavoratore subordinato, dipendente dallo stato (un impiegato pubblico a tempo determinato, di fatto con la legge Orlando, per i magistrati in servizio prima della entrata in vigore della legge, a tempo indeterminato, in ragione del sistema delle quattro proroghe), e non come un lavoratore autonomo; certamente non svolge una funzione onoraria meramente indennizzabile (a prescindere dalla qualità e dalla quantità dell’indennizzo). Sia detto per inciso: al di là dalla sentenza UX, costituisce un ossimoro pensare - cosa su cui invece insiste il legislatore italiano (infra par. successivo) – che la funzione giurisdizionale organizzata, con inserimento pieno e strutturale del magistrato onorario nella organizzazione funzionale degli uffici giudiziari, possa essere svolta secondo i moduli del lavoro autonomo: il che implicherebbe, come è noto, l’autorganizzazione dell’attività e l’autodeterminazione del lavoratore persino dell’an della singola prestazione.
c) Ha diritto a condizioni di impiego (il trattamento economico e normativo) non del magistrato togato, ma “parametrabili” a quest’ultimo, con operazione accertativa assegnata alla magistratura italiana, considerata come giudice di base dell’ordinamento europeo. In Italia esiste un principio costituzionale guida per tale operazione: quello della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 primo comma); norma, si ricorda, considerata storicamente, dalla giurisprudenza italiana, precettiva e non meramente programmatica.
3. Il d.d.l. Valente Evangelista
Come accennato prima, a fronte di tale autorevolissima pronuncia, peraltro espressione di principi vincolanti per lo Stato Italiano, ci si aspettava un dibattito parlamentare che, nel prendere spunto da questa sentenza, rispettandone la sostanza innovativa, costruisse una riforma idonea a disciplinare lo status dei giudici onorari, avendo come obiettivi il rispetto delle garanzie costituzionali, l’efficienza del sistema Giustizia, la soddisfazione dei lavoratori coinvolti e degli utenti della Giustizia: in una parola, una riforma per e non contro.
Invece, il d.d.l. Valente - Evangelista non solo ignora palesemente quanto affermato dalla Corte di Giustizia europea, ma non consente il raggiungimento di nessuno dei detti obiettivi, peggiorando lo stato attuale derivante dalla Legge Orlando.
Infatti, il testo normativo, nonostante le innumerevoli critiche provenienti e dal mondo accademico e da quello giudiziario, nonché dalla stessa magistratura onoraria, innanzitutto non modifica la lettera a) del comma 1 dell’art. 30 d.lgs 116/2017. Si mantiene pertanto il discrimine tra l’obbligatorietà d’ingresso nell’Ufficio per il processo per i GOT e la facoltatività per i Giudici di pace. Invero, non si comprende la logica di tale previsione, posto che appare evidente la necessità di superare le differenze ordinamentali (ed economiche) tra G.O.T. e G.D.P., trattandosi figure già confluite per espressa scelta legislativa nell’unica categoria del giudice onorario di pace (gop), prevista dalla Legge Delega 28 aprile 2016, n. 57 all’art. 2, co. 1, che ha indicato alcune differenze tra le due figure solo in via transitoria.
Occorrerebbe, quindi, rendere effettiva e completa la unificazione dei giudici onorari nella categoria dei gop, pur nella distinzione tra magistrati inseriti nell’Ufficio del giudice di pace e quelli che operano nel Tribunale, anche attraverso le necessarie modifiche alla legge delega, consentendo che gli stessi, come avviene da decenni, svolgano piene funzioni giurisdizionali. In tale contesto, si ritiene ad esempio necessario rivedere i limiti decisionali, irragionevolmente ampliati con l’art. 10, co. 12, d. lgs. n. 116/2017 (laddove, ad esempio, quelli previsti dall’art. 11, co. 6, appaiono coerenti con finalità di equilibrio istituzionale): tali limitazioni, come prima denunciato, comporteranno un inevitabile incremento dei ruoli della magistratura togata, con devoluzione di materie normalmente trattate dai giudici onorari e con correlato aumento dei ritardi nelle definizioni dei processi.
Occorrerebbe anche rivedere gli altri divieti e previsioni introdotti agli artt. 10, 11, 12, 30 commi da 2 a 8 (essendo già proposta dal d.d.l. Valente Evangelista l’abrogazione dei co. da 9 a 11). Ciò anche a beneficio dell’intero sistema giudiziario.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla discrezionalità nella individuazione di alcune materie che possono trattare i giudici onorari, in relazione al concetto (che rischia di essere fumoso se non arbitrario) di complessità o meno della controversia. Tutto ciò può dirsi coerente con i principi costituzionali e con il principio del giudice naturale precostituito per legge e con il riparto della competenza, che deve operare in base all’oggetto del contenzioso e non ad altri criteri non determinabili?
Si pensi ancora alla disciplina della delega dei procedimenti da parte del giudice togato al magistrato onorario (art. 10, co. 11-15, Legge Orlando). Può ritenersi che tale previsione superi il vaglio di costituzionalità, nella misura in cui vincola ed ingabbia ben oltre il consentito l’attività giurisdizionale che, per previsione costituzionale, deve essere indipendente ed autonoma? Non si rischia in tal modo di far debordare il rapporto tra magistratura togata ed onoraria, improntato fino ad ora su concetti di collaborazione e partecipazione, in un eccesso di vigilanza e controllo?[22]
Ma v’è di più.
Il legislatore introduce la nozione, che possiamo dire descrittiva e fantasiosa ma che non ha una connotazione processuale effettiva, di “impegni” settimanali. Secondo quanto previsto, infatti, l’attività dei magistrati onorari dovrà essere svolta per un massimo di tre impegni settimanali, ai quali vengono parametrate le indennità dovute. Ora, cosa si intenda per “impegni” non è ben chiaro. Il magistrato, sia esso onorario che ordinario, non solo tiene udienza, ma gestisce ruoli, studia fascicoli, effettua ricerche giurisprudenziali, redige ordinanze e sentenze, organizzando il proprio lavoro sulla base di una tempistica che non è individuabile a priori in maniera rigida. Come si può vincolare tale attività entro un arco temporale definito e ristretto? Ove si indentifichi l’ “impegno” con la giornata lavorativa, come ritenere ad esempio che tenendo due udienze settimanali sia sufficiente un terzo “impegno” per svolgere tutte le attività, a volte complesse, pre e post udienza, a pena di reiterare l’attuale situazione che vede i got - e non anche i giudici di pace - pagati solo per udienza e non per i provvedimenti depositati?
Sul punto già la stessa magistratura togata si è espressa in modo critico. Ad esempio, l’ANM, in data 6 aprile 2019, non ha mancato di osservare come “destano perplessità e preoccupazione le proposte avanzate dal ministero in merito ai limiti temporanei di impiego della magistratura onoraria requirente e giudicante. La proposta presentata, infatti, limita tale impiego in tre impegni settimanali, stabilendo la corrispondente retribuzione. Tuttavia, tale rigido limite appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti per l’indisponibilità di magistrati onorari impiegabili con limitazioni così anguste ed inadeguate. L’ANM rivolge un appello al Ministro della Giustizia affinché, in sede di redazione dell’articolato normativo, ampli l’oggetto delle materie delegabili in coerenza con quanto già stabilito e aumenti la soglia limite prevista per l’impiego settimanale dei magistrati onorari, prevedendo il corrispondente incremento retributivo, onde prevenire il blocco della trattazione di numerosissimi procedimenti e l’impossibilità di celebrare le udienze che conseguirebbero all’entrata in vigore della riforma così come prospettata”.
Altro profilo critico è quello del regime sanzionatorio, previsto nell’art. 21 Legge Orlando, che nel d.d.l. in esame viene novellato con profili di palese irragionevolezza, tali da esporre al rischio di censura di incostituzionalità. Se, infatti, può condividersi la scelta di tipizzare le fattispecie che espongono il magistrato onorario a sanzioni disciplinari (richiamo, sospensione dal servizio da tre a sei mesi e la revoca dall’incarico), pur se si sarebbe potuto più opportunamente far richiamo al regime previsto per i magistrati ordinari, suscita perplessità la tipologia di condotte collegate ad alcune delle sanzioni stesse.
La sospensione (sanzione temporanea), infatti, è prevista per fatti anche assai gravi che potrebbero avere rilevanza penale, quali, ad esempio, “l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti; comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori; ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato, consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge”. Invece, la revoca (che importa la cessazione definitiva dell’incarico) sanziona, tra l’altro, “l’avere, senza giustificato motivo, conseguito risultati che si discostano gravemente dagli obiettivi prestabiliti dal presidente del tribunale o dal procuratore della Repubblica a norma dell'articolo 23 ovvero, nel caso di assegnazione di procedimenti civili o penali a norma dell'articolo 11, la mancata definizione, nel termine di tre anni dall'assegnazione, un numero significativo di procedimenti, secondo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura”. In sostanza, il magistrato onorario rischia di essere definitivamente revocato per il mancato ingiustificato raggiungimento degli obiettivi prefissati dal capo dell’ufficio e semplicemente sospeso – salvo l’accertata sua responsabilità penale - se commetta condotte abusive della sua qualità. Intelligenti pauca.
Quanto poi ai profili economici, è noto che (a differenza dei giudici di pace, che vengono pagati non solo per ogni udienza tenuta ma anche per ogni provvedimento emesso, ai sensi dell'articolo 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374), i giudici onorari di tribunale sono attualmente pagati con una indennità di euro 98,00 lordi per udienza, raddoppiabili in caso di superamento delle cinque ore (art. 4 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273), mentre tutta l’attività preparatoria e quella successiva, anche per la stesura e il deposito dei provvedimenti, è di fatto fuori da ogni remunerazione.
La Legge Orlando del 2017 ha modificato tale regime, prevedendo a decorrere dal quarto anno successivo alla sua entrata in vigore (e quindi dal 16 agosto 2021) per i magistrati in servizio da prima della stessa legge una indennità fissa annua di euro 24.210,00, ove si mantengano le piene funzioni giurisdizionali, ridotta all’80 % in caso di inserimento nell’Ufficio del processo.
Orbene, senza tener conto delle sollecitazioni da più parti rivolte al legislatore, il d.d.l. in esame, novellando l’art. 31 d. lgs. n. 116/2017, introduce un meccanismo che collega l’entità delle indennità alla tipologia di lavoro da svolgere[23], ma che impone, senza una logica dal punto di vista dell’efficienza, che lo svolgimento dell’attività giudiziaria e di quella nell’Ufficio del processo debba avvenire nello stesso giorno per ottenere un fisso leggermente più alto, precisando, poi, che le mansioni all’interno dell’UdP debbano essere svolte per almeno per 3 ore e, in riferimento al pagamento a cottimo, in orario pomeridiano.
Premesso che sia l’ANM che i presidenti dei Tribunali nell’appello del 21 gennaio 2020 avevano chiesto la possibilità di un impiego maggiore e non limitato ai tre “impieghi” settimanali, sfugge a chi scrive il senso logico di tale previsione. Invero, la concentrazione delle varie attività (udienza autonoma, mansioni ancillari nell’ambito dell’UdP) in un unico giorno lavorativo appare sganciata dalla realtà del lavoro giurisdizionale, non tenendo conto dell’attività concreta svolta dal magistrato onorario, al pari di quello ordinario: questi, infatti, prima dell’udienza dovrà organizzare il ruolo e studiare i fascicoli, dopo l’udienza dovrà svolgere i compiti alla stessa collegati e quelli relativi al ruolo in generale. Dovrà quindi, scrivere decreti o ordinanze o sentenze e, quindi, prestare attività nell’UdP (studio di fascicoli, ricerche giurisprudenziali, stesura di minute di provvedimenti delegategli dal giudice togato), ma tutto ciò peraltro in orario pomeridiano. Insomma, una previsione che tende, nel cercare di confermare non più di tre impegni settimanali, a gravare ulteriormente il giudice onorario, che dovrà con tutta evidenza svolgere poi ulteriore lavoro in altri giorni settimanali, senza alcuna “copertura” economica.
Ma non è tutto.
Infatti, il d.d.l. non prevede, come dovrebbe secondo logica, una data certa di entrata in vigore dell’indennità fissa, così come invece faceva il d.lgs. Orlando (febbraio 2021): l’art. 31, co. 3 bis, come da proposta di riforma, rimanda, per la operatività di tale criterio di calcolo, alla pubblicazione di un futuro decreto del Ministro della Giustizia, che ne definisce la modalità e i limiti, e che verrà adottato successivamente alla emanazione dei decreti che, ai sensi dell’art. 32, co. 2, potranno rivisitare la dotazione organica dei magistrati onorari: in parole semplici, l’indennità fissa è rinviata alle calende greche, perché è di tutta evidenza che, se il d.d.l. ha previsto la riduzione di detta dotazione organica rispetto alle previsioni della Legge Orlando, sarà inverosimile che a distanza di poco tempo sia necessario rivedere la stessa dotazione. Insomma, una normazione che non dà alcuna certezza dal punto di vista temporale rispetto ad una apparentemente allettante previsione economica, rinviata sine die.
Occorre chiedersi se il sistema giustizia non abbia invece bisogno di magistrati onorari incentivati e responsabilizzati, sicché, a tutto voler concedere e a tacere delle conseguenze della sentenza della Corte di Giustizia prima evocata, sarebbe più opportuno ritornare alle previsioni della Legge Orlando in riferimento ai tempi di entrata in vigore del pagamento di indennità fissa.
Da ultimo è stata rilevata l’assenza di qualsiasi tutela assistenziale (peraltro prevista in alcuni d.d.l. depositati alla Commissione Giustizia del Senato): e ciò è tanto più grave nel presente periodo di emergenza sanitaria: in sostanza, il magistrato onorario (che, come detto, va qualificato come lavoratore, secondo la giurisprudenza comunitaria, vincolante nel diritto interno) ove si ammali o risulti positivo al Covid-19, è totalmente privo di qualsiasi copertura di tipo assistenziale, ciò aggiungendosi alla mancata percezione di alcuna indennità, perché collegata solo allo svolgimento delle udienze.
4. Conclusioni. Dalla critica alle proposte
Al di là di qualsiasi opinione che si possa avere sul ruolo della magistratura onoraria, non può non convenirsi con la considerazione secondo cui “da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo alla giurisdizione, in assenza di un’adeguata tutela previdenziale ed assistenziale” (Associazione Nazionale Magistrati, documento GEC del 22 aprile 2017), e il loro impiego “costituisce una misura apprezzabile nell’ottica di un’efficiente amministrazione della giustizia ex artt. 97 e 111 Cost.” (Cass. 4 dicembre 2017, n. 28937, secondo cui “i giudici onorari – sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio – possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall’art. 106 Cost.”).
Occorre, allora, che il legislatore prenda atto dell’evoluzione della funzione di questa magistratura e assuma un’ottica regolativa consequenziale, anche sotto il profilo delle condizioni di impiego.
Il progetto di riforma potrebbe essere costruito intorno ai seguenti punti fermi:
- Occorre confermare che l’ordinamento giudiziario italiano è basato su un duplice pilastro: la magistratura togata e la magistratura onoraria, per la quale sarebbe già importante utilizzare una nomenclatura diversa, anche in ragione dei fraintendimenti che tale predicato ha sinora sortito. Si tratta, infatti, non di una magistratura volontaria o di servizio (come il predicato lascia intendere); ma di una magistratura professionale che può essere impiegata, in astratto, in regime di tempo parziale, ma che di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi, ha lavorato e continua a lavorare in regime di tempo pieno. Una magistratura professionale, quindi, diversa da quella togata, con compiti ausiliari rispetto a quest’ultima ma, come si è detto, altrettanto fondamentale e ormai insostituibile, perché stabile componente dell’ordinamento giudiziario italiano.
- La magistratura ausiliaria e di prossimità, nell’intenzione del legislatore del 2016, svolge funzioni di affiancamento alla magistratura togata; funzioni di affiancamento alle funzioni proprie della magistratura togata con riguardo all’attività propriamente giurisdizionale e requirente (in tal caso con piena autonomia e indipendenza da quest’ultima), ma anche con riguardo all’assistenza e alla collaborazione, di alto profilo tecnico.
- A tale scopo, la legge Orlando, in questo caso condivisibilmente, prevede precisi obblighi e diritti di formazione presso la Scuola superiore della Magistratura (ulteriori a quelli della fase di tirocinio nell’ assunzione), oltre che attività di aggiornamento professionale.
- L’appartenenza all’ordine giudiziario è ormai garantita anche dalle modalità di selezione pubblica all’ingresso; modalità diverse da quelle del concorso di reclutamento della magistratura ordinaria e che tuttavia rinviano a un procedimento di selezione pubblica in linea con i principi, di merito e di imparzialità, previsti dall’art. 97 della Costituzione.
- Poiché da sempre il legislatore ha riconosciuto l’appartenenza della magistratura onoraria italiana, di fatto professionale, all’ordinamento giudiziario, non sono mai sorti dubbi circa la garanzia, in astratto almeno, delle prerogative di indipendenza e di inamovibilità, sia nell’esercizio delle funzioni decidente e requirente, ma anche con riguardo alla rappresentanza negli organi di autogoverno (consigli giudiziari in primo luogo).
- Sulla base di queste premesse pare del tutto logico far seguire una regolamentazione conseguenziale con riguardo al rapporto di impiego. Di fronte a questo ormai inevitabile snodo, sorgono i problemi, anche perché la soluzione non è certamente semplice sul piano della tecnica regolativa.
- È opinione di chi scrive che il punto di partenza di ogni coerente regolamentazione non può che essere il riconoscimento dallo status giuridico di lavoratore. Dopo la sentenza Ux, si tratta di un dato ormai acquisito: il legislatore italiano non può disconoscerlo, ma non possono farlo neppure le decine di Tribunali che, in ogni parte d’Italia, stanno vagliando i ricorsi presentati dai magistrati onorari, pena una palese violazione dello ius superveniens europeo e l’innesco di un grave conflitto ordinamentale (la saga Taricco docet).
È bene allora eliminare ogni equivoco circa il fatto che garantire non soltanto condizioni di impiego dignitose, ma l’allineamento tendenziale (non l’equiparazione meccanica) del trattamento economico normativo dei magistrati onorari a quello della magistratura togata: a) non comporta alcun sbrego costituzionale; b) non mette in discussione le distinte prerogative di accesso, di status, di carriera e di trattamento della magistratura togata.
A) Con riguardo al primo punto, la magistratura ausiliaria, definita onoraria, non costituisce né una magistratura speciale, né straordinaria (art. 102 Cost.), altrimenti non si sarebbe potuto, di già, tollerarla neppure nell’attuale configurazione. Essa, notoriamente, presuppone l’affidamento di stabili e piene funzioni giurisdizionali a soggetti con uno statuto professionale tuttora, a dir poco, debole. Il fatto che, in via di costituzione materiale, si sia prodotta una professionalizzazione di una magistratura ausiliaria di supporto alla magistratura togata (necessaria a far funzionare l’amministrazione della giustizia), non significa che si debba ovviare, a tale situazione di fatto, con una mostruosità giuridica: nient’altro sarebbe, infatti, una legge che suggellasse l’anomalia, tutta italiana, ormai più volte stigmatizzata dalle istituzioni europee, di una magistratura funzionalmente stabile, ma strutturalmente precaria per il profilo delle condizioni di impiego. In disparte la constatazione, di senso comune, che un lavoratore precario, per ovvi motivi, non può essere indipendente e autonomo: il che è particolarmente intollerabile nell’esercizio di una funzione che prevede, per definizione costituzionale, indipendenza e autonomia di giudizio.
A parte questa ovvia constatazione, vale richiamare, a tal proposito, un principio fondamentale dell’ordinamento lavoristico europeo, ma anche nazionale, giusto il quale non è legittimo, né lecito, ricoprire, in un’organizzazione, pubblica o privata che sia, una posizione di impiego, funzionalmente stabile e duratura, con un operatore instabile e precario, o addirittura, come si pretende nel caso della magistratura onoraria, con un “non lavoratore”. Né, tantomeno, è legittimo affidare servizi delicati come quello della giustizia (ove il principio di buon andamento si incrocia con altri, per esempio del giusto processo o della sua ragionevole durata), a lavoratori autonomi che è, in fondo, il retropensiero del ddl in discussione. Si tratterebbe di un vero e proprio ossimoro dal punto di vista giuslavoristico e organizzativistico, ma anche di un vero e proprio vulnus al principio costituzionale del buon andamento (con ricadute in termini di probabile violazione dell’art. 97 della Cost.).
Oltretutto se passasse il principio che esigenze di funzionamento stabile - implicanti inserimento forte del lavoro nell’organizzazione datoriale - si possano risolvere ricorrendo a lavoro instabile, autonomo o volontario, sarebbe molto difficile giustificare questa soluzione con pretese specificità dell’amministrazione dalla Giustizia: ma perché non nella scuola (ove, non a caso, il legislatore intende ovviare alla piaga del precariato diffuso), nell’esercito, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri?
A questo punto, gli ideatori del ddl in discussione, forse senza esserne consapevoli, non farebbero altro che realizzare il sogno dei cultori della ideologia dello Stato minimo: esternalizzare anche le funzioni pubbliche essenziali!
Ma neanche l’art. 106 della Cost. potrebbe essere richiamato contro la professionalizzazione (intesa quale riconoscimento di un rapporto di lavoro pubblico) della magistratura onoraria. Una lettura evolutiva e costituzionalmente orientata di questa norma, deve tener conto anche dell’evoluzione sociale: e cioè, che la risposta alla estesa domanda di giustizia di una società complessa come quella italiana, ha prodotto il ricorso a (e l’utilizzo di) un esteso corpo di magistratura ausiliaria professionale, che affianca, in posizione di autonomia, quella togata, e che ciò è ormai indispensabile per il funzionamento dell’amministrazione della giustizia italiana.
B) Come si accennava, questo riconoscimento (la sentenza Ux potrebbe definirsi, per questo profilo, dichiarativa, non costitutiva, della condizione di lavoratore) non mette affatto in discussione le distinte prerogative di status e di carriera della magistratura togata. Questa errata percezione di gran parte della magistratura togata italiana è stata certamente un fattore, anche culturalmente e subliminalmente, ostativo allorché i Tribunali sono stati chiamati, prima della UX, a riconoscere i diritti del lavoro a tale categoria di lavoratori pubblici. Come spiega la Corte di giustizia, le condizioni di impiego del giudice non togato non possono che essere parametrate a quelle del lavoratore comparabile che è certamente il magistrato togato. Ma qui occorre intendersi: utilizzare il trattamento economico normativo del magistrato togato come parametro, non significa affatto parificare, sia con riguardo allo status professionale, sia con riguardo alle concrete condizioni di impiego (carriera, retribuzione, orario, durata delle ferie e quant’altro) la magistratura ausiliaria e la magistratura togata. Si tratta infatti, di due carriere diverse a cui possono corrispondere condizioni di accesso, di impiego e status professionale diversi e tale diversità trova giustificazione, come ricorda la sentenza Ux, nell’art. 106 della Costituzione. Ma il fatto che siano diverse non significa riconoscere alla categoria comparata un ‘no status’ o la condizione di lavoratore stabilmente precario o addirittura autonomo e imprenditore di sé stesso. Un lavoratore con rapporto “onorario”, o al più autonomo, non è per definizione comparabile a un lavoratore subordinato stabile, in questo caso il magistrato togato. Il magistrato togato è il lavoratore di riferimento per applicare il principio di parità di trattamento che assiste il lavoratore subordinato a termine, vale a dire il magistrato onorario (ammesso che non ci sia stato abuso del contratto a termine, ma questo è un altro discorso): questo dice la Sentenza Ux.
Ma comparabilità non significa meccanica parificazione; significa che per determinare lo standard economico normativo del lavoratore a termine, si assume il trattamento economico normativo del lavoratore stabile comparabile come parametro di riferimento. Nel caso della ricorrente UX, considerata lavoratrice subordinata con 15 anni di servizio, la Corte ha fatto esplicitamente riferimento al magistrato togato che ha ricevuto la terza valutazione: ma questo non significa affatto che il giudice onorario Ux debba essere incardinata tra i ranghi della magistratura togata a quel livello di carriera; significa soltanto corrisponderle un trattamento economico parametrato a quel livello di carriera, secondo criteri affidati alla competenza del giudice nazionale.
Spetta poi a un legislatore nazionale, avveduto e saggio, intervenire sulla materia regolando funzioni e trattamenti in modo da tener conto di similarità e differenziazioni. Spetta a un legislatore, consapevole e tecnicamente attrezzato, non fare confusione e regolare le condizioni di impiego della magistratura ausiliaria determinando, anche al suo interno, cosa debba rilevare in termini di differenza di compiti, ma anche di trattamento per anzianità e di carriera, e individuando gli istituti che si applicano a tutti (per esempio le ferie, il trattamento di malattia, previdenziale ecc.). Spetta a un legislatore che abbia una vision di sistema, per esempio, decidere se regolare direttamente per legge le condizioni di impiego di questi lavoratori, come avviene con i magistrati, i professori universitari, la polizia, i funzionari delle prefetture, i vigili del fuoco ecc. (come nel caso dell’art. 3 d.lgs. n.165/2001, individuando in tal caso uno specifico trattamento di questa categoria, distinto da quello dalla magistratura togata); ovvero rinviare a un qualche meccanismo negoziale ad hoc (come i dipendenti della Banca d’Italia il cui contratto è recepito da un regolamento dal Consiglio superiore della Banca); ovvero inserendoli, in qualche modo[24], nel sistema di contrattazione collettiva generale dei lavoratori pubblici con contratto privatistico.
Di tutto questo si può discutere con calma e ponderazione, cercando di individuare la soluzione più adeguata e anche dando un occhio alle soluzioni legislative escogitate in altri ordinamenti. Ma una sola cosa appare disdicevole: sfuggire il problema del riconoscimento delle adeguate condizioni di impiego della magistratura onoraria, inventandosi regole e concetti non solo confusi, ma forieri soltanto di conflitti permanenti e di reprimende delle istituzioni europee, oltre che di possibile condanne dello Stato italiano, nelle sue diverse componenti, per danno comunitario da Francovich.
[1] In data 16 novembre 2016 il Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS), nel decidere il reclamo n. 102/2013 presentato da alcuni Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale e Vice Procuratori Onorari, ha concluso, all’unanimità, che la normativa ed i comportamenti concreti posti in essere fino a quella data dalla Repubblica italiana nei confronti di queste figure professionali qualificate come magistrati onorari non sono conformi alle norme ed ai principi della Carta sociale europea e dei suoi Protocolli, quale il principio di non discriminazione dei lavoratori. In particolare, il Comitato ha rilevato che, rispetto all’applicazione dei Trattati, la denominazione di “onorario” fatta dalla legislazione italiana, non assume alcun rilievo, dato che le funzioni di fatto svolte dagli indicati magistrati onorari italiani sono pienamente equiparabili a quelle svolte dai magistrati professionali, a prescindere da come li definisca il diritto nazionale. Il Comitato ha, pertanto, ritenuto applicabile la Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 nella parte in cui ingiunge agli Stati aderenti di assicurare ai giudici una remunerazione ragionevole in caso di malattia, di maternità o paternità, così come il pagamento di una pensione correlata al livello di remunerazione
[2] Scarselli, La riforma della magistratura onoraria: un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, 2015, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-della-magistratura-onoraria_un-ddl-che-mira-ad-altri-obiettivi-e-va-interamente-ripensato_13-07-2015.php.
[3] Va ricordato che con la comunicazione DG EMPL/B2/DA-MAT/sk (2016), la Commissione Ue ha chiuso con esito negativo il caso EU Pilot 7779/15/EMPL, preannunciando l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano sulla compatibilità con il diritto UE della disciplina nazionale che regola il servizio prestato dai magistrati onorari, in materia di a) reiterazione abusiva di contratti a termine (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), b) disparità di trattamento in materia di retribuzione (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), c) ferie (art.7, Direttiva 2003/88, in combinato disposto con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 97/81/CE e con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE) e d) di maternità (art.8 Direttiva 92/85 e art.8 Direttiva 2010/41). Inoltre, con la comunicazione del 23 marzo 2017 prot. D 304831, la Presidente della Commissione per le Petizioni del Parlamento Ue, all’esito della riunione del 28 febbraio 2017 in cui sono state discusse le petizioni nn. 1328/2015, 1376/2015, 0028/2016, 0044/2016, 0177/2016, 0214/2016, 0333/2016 e 0889/2016 sullo statuto dei giudici di pace in Italia, ha invitato il Ministro della Giustizia a trovare un equo compromesso sulla situazione lavorativa dei Giudici di Pace, per eliminare la «palese disparità di trattamento sul piano giuridico, economico e sociale tra Magistrati togati e onorari».
[4] Aloi T., La protesta della magistratura onoraria italiana arriva in Europa, in http://www.foroeuropa.it/index.php?option=com_content&view=article&id=454:rivista-2017-n1-art-10-aloit&catid=85:rivista-2018-n1&Itemid=101: “Sul piano della retribuzione, l’Eurispes registra diseguaglianze, scarse tutele e precariato. Mentre i Giudici di Pace percepiscono un’indennità mensile (258,23 euro), un’indennità di udienza (36,15 euro) ed un’indennità per sentenza o altro provvedimento di definizione del giudizio (56,81 euro), i GOT percepiscono solo un’indennità di udienza anche quando sono estensori di sentenza (98,00 euro se l’impegno lavorativo di udienza ha una durata di cinque ore, 196,00 euro se, invece, l’impegno supera le cinque ore); la medesima indennità di udienza è attribuita anche ai VPO e non è prevista una tutela previdenziale”.
[5] Scarselli, op. cit.
[6] Si pensi al fatto, prendendo ad esempio il Tribunale di Messina, che andrebbero a gravare sui giudici togati tutte le esecuzioni mobiliari presso il debitore, i procedimenti di obblighi di fare, i decreti ex art. 611 e 614 c.p.c., la fase cautelare dell’opposizione al pignoramento, nonché, quando il valore del credito pignorato supera gli € 50.000,00, anche quelle presso terzi, con aggravamento inaccettabile dei ruoli ordinari, laddove le attuali Tabelle prevedono che queste materie siano tutte trattate dai giudici onorari sino ad € 100.000,00.
[7] Parere CSM del 24 febbraio 2016 sul ddl Orlando: “Appare incongrua la previsione della assegnazione di coloro che attualmente siano investiti delle funzioni di Magistrato onorario all’ufficio del processo, atteso che tale disposizione non appare compatibile con la, invero correttamente ipotizzata, prospettiva di una progressiva formazione e della acquisizione graduale di esperienza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinata dal passaggio dalla posizione di diretta collaborazione col giudice professionale alla assunzione di autonome funzioni giurisdizionali, seppur onorarie”
[8] Lettera, con primo firmatario il dott. Armando Spataro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, di 110 procuratori della Repubblica in data 23 maggio 2017 che, commentando il (futuro) D. Lgs.n. 116/2017, hanno denunciato, tra l’altro, “la non conformità di alcune scelte ai principi costituzionali, dopo approfondita consultazione di valenti costituzionalisti e con il loro diretto contributo), auspicando “il superamento, ad opera del legislatore delegato, di alcuni dei confini tracciati dalla Legge n.57/2016”.
[9] Si vedano i documenti depositati da soggetti istituzionali e da associazioni di categoria auditi dalla Commissione Giustizia del Senato il 26 novembre 2019, in www.senato.it/ http://www.senato.it/3649?current_page_40381=2,
[10] Si veda, tra i tanti, Costanzo A., La disorganica riforma della magistratura onoraria, in https://www.giustiziainsieme.it/en/magistratura-onoraria/666-la-disorganica-riforma-della-magistratura-onoraria; Aghina E., “L’utilizzazione dei giudici onorari in Tribunale dopo la riforma”, in www.giustiziainsieme, 17.11.2018; mi permetto di rinviare anche a Minutoli G., La (necessaria) riforma della magistratura onoraria e l’efficienza della giurisdizione, in https://www.unicost.eu/la-necessaria-riforma-della-magistratura-onoraria-e-efficienza-della-giurisdizione/, 2019.
[11] Appello di Presidenti di Tribunale, inviati agli Organi governativi e parlamentari, del 21 gennaio 2020.
[12] Si ricorda che i magistrati onorari affetti da Covid o che sono stati costretti in isolamento durante il lockdown, o che lo saranno nel corso della seconda ondata, non solo non usufruiscono del trattamento di malattia e infortuno sul lavoro spettante agli altri dipendenti pubblici e privati colpiti dalla pandemia, ma non potendosi recare in udienza non potranno ricevere alcun compenso da lavoro.
[13] http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/52128.pdf
[14] Come è noto, alla qualificazione di una fattispecie come di lavoro subordinato segue l’applicazione automatica di tutti gli effetti della legislazione lavoristica in ragione del principio di tassatività che assiste tale legislazione.
[15] Su questo inequivocabilmente la sentenza UX, punti 100 e 101: “Pertanto, la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come «onorarie» dalla normativa nazionale non significa che le prestazioni finanziarie percepite da un giudice di pace debbano essere considerate prive di carattere remunerativo.
Peraltro, anche se è certo che la retribuzione delle prestazioni svolte costituisce un elemento fondamentale del rapporto di lavoro, resta comunque il fatto che né il livello limitato di tale retribuzione né l’origine delle risorse per quest’ultima possono avere alcuna conseguenza sulla qualità di «lavoratore» ai sensi del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 30 marzo 2006, Mattern e Cikotic, C 10/05, EU:C:2006:220, punto 22, nonché del 4 giugno 2009, Vatsouras e Koupatantze, C 22/08 e C 23/08, EU:C:2009:344, punto 27)”.
[16] “A tale riguardo, dalla giurisprudenza risulta che la circostanza che i giudici siano soggetti a condizioni di servizio e possano essere considerati lavoratori non pregiudica minimamente il principio di indipendenza del potere giudiziario e la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esistenza di uno statuto particolare che disciplini l’ordine della magistratura (v., in tal senso, sentenza del 1° marzo 2012, O’Brien, C 393/10, EU:C:2012:110, punto 47)”.
[17] “Ebbene, come emerge in particolare dai punti 95, 98 e 99 della presente sentenza, nonché dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, risulta che un giudice di pace come la ricorrente nel procedimento principale effettua a tale titolo prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e che comportano, come corrispettivo, indennità per ciascuna prestazione e indennità mensili, di cui non può dirsi che non abbiano carattere remunerativo”
[18]Punto 112 “In tali circostanze, risulta che i giudici di pace svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. pure 109: “ A tale riguardo, dall’ordinanza di rinvio risulta che, sebbene possano organizzare il loro lavoro in modo più flessibile rispetto a chi esercita altre professioni, i giudici di pace sono tenuti a rispettare tabelle che indicano la composizione del loro ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del loro lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza”: si tratta di un esempio oltremodo chiaro di come la Corte di giustizia utilizzi il metodo tipologico e non sussuntivo di individuazione della fattispecie di lavoro subordinato. Si v. pure il punto 110 sul requisito della eterodirezione : “Dalla decisione di rinvio risulta altresì che i giudici di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio. Tali giudici sono inoltre tenuti all’osservanza dei provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM”, e il punto 111 sull’assoggettamento: “Il giudice del rinvio aggiunge che detti giudici devono essere costantemente reperibili e sono soggetti, sotto il profilo disciplinare, ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati professionali”
[19] “In tali circostanze spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare, in ultima analisi, se un giudice di pace come la ricorrente nel procedimento principale si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario che, nel corso del medesimo periodo, abbia superato la terza valutazione di idoneità professionale e maturato un’anzianità di servizio di almeno quattordici anni (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C 677/16, EU:C:2018:393, punto 52 e giurisprudenza ivi citata)”. Con la precisazione di cui al punto 150 “ A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C 677/16, EU:C:2018:393, punto 56 e giurisprudenza ivi citata). E punto 161” In tali circostanze, sebbene le differenze tra le procedure di assunzione dei giudici di pace e dei magistrati ordinari non impongano necessariamente di privare i giudici di pace di ferie annuali retribuite corrispondenti a quelle previste per i magistrati ordinari, resta comunque il fatto che tali differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale e, più specificamente, dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni. In ogni caso, spetta al giudice del rinvio valutare, a tal fine, gli elementi qualitativi e quantitativi disponibili riguardanti le funzioni svolte dai giudici di pace e dai magistrati professionali, i vincoli di orario e le sanzioni cui sono soggetti nonché, in generale, l’insieme delle circostanze e dei fatti pertinenti”
[20] “A tale riguardo, occorre considerare che talune disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all’esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità (v., in tal senso, sentenza del 20 settembre 2018, Motter, C 466/17, EU:C:2018:758, punto 46)”.
[21] Punto 157: “Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale (sentenza del 20 settembre 2018, Motter, C 466/17, EU:C:2018:758, punto 44)”.
[22] La denuncia è ancora di Scarselli, op. cit.: “non si valorizza una categoria che fino ad oggi ha svolto funzioni giurisdizionali inserendola nell’ufficio del processo a compenso ridotto; nè la si valorizza prevedendo che ogni sua attività sia sottoposta alle direttive dei giudici professionali, che avranno il controllo pieno dell’operato dei giudici onorari in seno all’ufficio del processo, e avranno egualmente il potere di indirizzo, di controllo e di vigilanza della funzione giurisdizionale dei giudici onorari anche fuori dall’ufficio del processo, prima con le riunioni trimestrali per l’esame delle questioni giuridiche e per la discussione delle soluzioni adottate, e poi con le “specifiche direttive anche in merito alle prassi applicative” e con la vigilanza “sull’attività dei giudici onorari di pace”, così come espressamente previsto dal comma 15 dell’art. 2 del disegno di legge. Disposizione, quest’ultima, che appare palesemente incostituzionale, perché anche i giudici onorari sono soggetti solo alla legge ex art. 101 Cost., cosicché è impensabile che “Il presidente del tribunale attribuisce ad uno o più giudici professionali il compito di impartire specifiche direttive anche in merito alle prassi applicative e di vigilare sull’attività dei giudici onorari di pace” (così, espressamente, art. 2, comma 15, ultima parte).
[23] Indennità annuale di € 31.473,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali per i magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie, € 25.178,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali, per i magistrati onorari inseriti nell’UPP o nell’ufficio di collaborazione del Procuratore della Repubblica e per chi volesse svolgere entrambe le attività, infine, è previsto un importo di € 38.000,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali.
[24] Per esempio una parte speciale e dedicata del contratto dell’area della dirigenza ministeriale come di recente avvenuto con la dirigenza medica ministeriale.
* Forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria:
"Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari" del Prof. Giualiano Scarselli, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1374-brevissime-note-sulle-ultime-proposte-di-riforma-della-normativa-sui-giudici-onorari
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
Maternità surrogata e status dei figli
Intervista di Rita Russo a Gabriella Luccioli, Marco Gattuso, Mauro Paladini e Stefania Stefanelli
Il tema della maternità surrogata e dello status dei figli nati con il ricorso a tale pratica crea due differenti ordini di questioni cui non è semplice dare una risposta netta in termini di pro e contro.
La prima questione è quella della liceità o meno della pratica, che consente molte risposte. Vi sono ordinamenti, come quello italiano, ove la pratica è illecita e considerata contraria all’ordine pubblico. Altre e più variegate risposte sono date da altri ordinamenti: si va dalla neutralità, negli Stati che non vietano ma neppure tutelano giuridicamente il ricorso a queste pratiche, alla legalità piena, ma con regolamentazione rigorosa, fino alla commercializzazione dell’attività. La Corte costituzionale italiana la stigmatizza in quanto “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Se tutti tendiamo a dichiararci contrari a una pratica offensiva della dignità della donna, che ne sfrutti commercialmente la funzione procreativa, quid iuris se la pratica fosse invece diretta a realizzare i principi di solidarietà previsti dall’art. 2 Cost.?
La seconda questione è quale tutela accordare al
minore nato all’estero tramite ricorso a queste pratiche, ma da genitori
italiani che vivono abitualmente in Italia. Anche
in questo caso, se tutti siamo pronti ad indignarci per
la natura fortemente discriminatoria del “turismo procreativo” che
consente solo ai più abbienti di ottenere il sospirato bambino, non siamo
al tempo stesso ugualmente pronti a chiedere che il minore sia comunque
tutelato? E con che mezzo? È accettabile un mezzo, come l’adozione in casi
particolari, che pur tutelando il minore lo pone comunque in una
posizione diversa e meno garantita rispetto allo status pieno di figlio, per
esempio con riferimento alla parentela? E ancora, il diverso
trattamento giuridico della procreazione medicalmente assistita nei singoli
paesi europei è un ostacolo alla libera circolazione delle persone?
In che termini si può lavorare – come di recente ha promesso Ursula von der
Leyen- per il riconoscimento reciproco delle relazioni familiari nella Unione
Europea?
Rivolgiamo queste domande a: Gabriella Luccioli, Stefania Stefanelli, Marco Gattuso, Mauro Paladini
Gabriella Luccioli Come è noto, con ordinanza n. 8325 del 2020 la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione del riconoscimento in Italia del provvedimento straniero relativo allo stato di un minore nato all’ estero da maternità surrogata. Spetta ora alla Corte delle leggi pronunciare sulla conformità a Costituzione, ed in particolare, tra gli altri, all’ art. 117, comma 1, Cost., degli artt. 12, comma 6, della legge n. 40, 18 del d.p.r. n. 396/2000 e 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 /1995, della quale ha dubitato la Corte remittente.
Ho già espresso in questa Rivista (Il parere preventivo della CEDU e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto) le mie perplessità circa l’ipotizzato contrasto tra il diritto vivente ed il Parere emesso dalla Grande Camera della Corte EDU nell’ aprile 2020, al quale la Suprema Corte ha ancorato la sua eccezione di illegittimità costituzionale, e a quello scritto per esigenze di sintesi mi riporto. Indubbiamente la questione di costituzionalità proposta apre a nuove prospettive e a nuove problematiche, anche con riguardo al ruolo che possono rivestire nel nostro ordinamento i pareri resi dalla Grande Camera in base al Protocollo n. 16. Considerato peraltro che le domande che ora mi vengono poste sembrano voler prescindere dal giudizio in corso dinanzi alla Consulta, richiedendo una valutazione sulla maternità surrogata come fenomeno in sé e sulla tutela da accordare al minore nato all’ estero da tale pratica, mi limiterò a dare ad esse risposta senza tener conto dell’eccepita incostituzionalità e dei possibili esiti del relativo giudizio.
1. Come mi è capitato in più occasioni di scrivere, sono decisamente contraria alla maternità surrogata perché si tratta di una pratica che offende la dignità delle persone.
Se le parole hanno un senso, se vogliamo restituire un significato e un valore alla parola dignità, troppo spesso invocata solo per denunciarne la violazione, se non vogliamo ridurla ad un vessillo da sbandierare ad ogni buona occasione, ad una formula vuota, dobbiamo riacquisire la consapevolezza della rilevanza primaria di essa, del suo essere un supervalore dal quale discendono tutti i diritti fondamentali. La dignità afferisce all’eguale valore delle persone, soprattutto quando sono più esposte e vulnerabili, in ogni loro contesto di vita.
La sanzione penale comminata dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 esprime con chiarezza (significativo è il suo incipit: Chiunque, in qualsiasi forma…, volto a punire chiunque svolga qualsiasi ruolo attivo nella realizzazione dell’ illecito) l’ elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento attribuisce a tale pratica e la funzione della norma di tutela di interessi di rilevanza costituzionale.
E non vi è retorica nel ritenere lesiva della dignità una pratica in forza della quale una donna, che per tutto il periodo della gravidanza è stata corpo di sè e del bambino, consegna la creatura messa al mondo ad un’altra donna per esaudire il desiderio altrimenti irrealizzabile di questa, e non il suo.
Non vi è retorica nel sostenere che la surrogacy riduce la donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata a non appartenerle mai, privando la maternità del suo senso umano e trasformandola in mera tecnica riproduttiva.
Non è fondata l’accusa di dogmatismo nei confronti di tale posizione, atteso che la dignità non è un dogma, ma un valore che permea l’intero patto costituzionale.
La gestazione per altri lede la dignità della donna e la sua libertà anche perché durante la gravidanza essa è sottoposta ad una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall’ alcool, e subito dopo il parto è oggetto di limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell’ allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino.
Lede anche la dignità del bambino, che non solo è ridotto ad oggetto di scambio secondo una logica meramente proprietaria, a strumento passivo per la soddisfazione di quel desiderio di genitorialità di terze persone, non solo subisce l’interruzione in modo netto e definitivo del legame simbiotico con colei che lo ha generato, ma vede anche alterati alla nascita i suoi dati anagrafici e resta deprivato del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica.
Rifiuto la distinzione tra surrogazione a scopo commerciale e surrogazione altruistica o solidale. A chi invoca l’idea del sacrificio, del gesto d’ amore, dell’oblazione in favore di soggetti meno fortunati, anche all’ interno della cerchia familiare, vorrei replicare che i bambini non solo non si vendono, ma neppure si donano e che nulla cambia né per la madre né per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Si tratta in ogni caso di uno schiavismo mal camuffato dalle parole dell’ altruismo, come dono e amore, che dimentica che l’ atto oblativo e l’ amore non si rivolgono all’ individuo che sta per nascere, e tanto meno a chi lo metterà al mondo, ma solo ai committenti, i cui desideri si vorrebbe trasformare in diritti. Ed è chiaramente improponibile l’accostamento formulato da qualche commentatore alla donazione degli organi tra viventi.
Si sostiene da alcuni che la gestazione per altri costituisce espressione di libertà procreativa, in nome di quel neoliberismo culturale che postula la totale disponibilità da parte delle donne del proprio corpo. A tale posizione obbietto che qui viene in gioco la dignità nella sua dimensione oggettiva, ossia la dignità di tutte le donne, che non è rinunciabile, e che la contrattualizzazione della gravidanza e del parto, con la rinuncia preventiva ai diritti materni, è un fenomeno contrario alla libertà e alla dignità di tutte le donne.
Torna allora impellente il richiamo sopra formulato alla necessità di ritrovare il senso smarrito delle parole, sottraendoci al rischio di pensare che far nascere un bambino con la surrogata sia un gesto di libertà e di progresso, mentre il rifiutare una pratica siffatta sia segno di bigottismo reazionario.
2. La seconda domanda, relativa allo status del bambino nato all’ estero da maternità surrogata commissionata da una coppia di italiani, pone una questione indubbiamente delicata, che coinvolge la sensibilità e interpella la coscienza dell’interprete.
Nell’estrema sintesi imposta in questa sede osservo che la soluzione del quesito va ancorata a plurime e convergenti considerazioni: la filiazione è uno status che si fonda sulla sussistenza di determinate condizioni di legge, e la sua fonte non può avere natura negoziale; l’interesse del minore va valutato sempre in concreto, e non in astratto; è arbitrario ed illogico conferire alla mera trascrizione in Italia dell’atto di nascita ottenuto all’ estero l’ intrinseca capacità di realizzare in concreto il miglior interesse del minore; ancora, addurre l’interesse superiore del minore come controlimite nella valutazione del contrasto con l’ ordine pubblico o come canone interpretativo del concetto stesso di ordine pubblico, così da attribuirgli una funzione integratrice e di conformazione di esso, vuol dire seguire una linea di pensiero errata in diritto. Come ha ricordato la sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, la tutela dell’interesse superiore del minore, da identificare - in tesi - nella acquisizione o conservazione dello status già conseguito all’ estero, non può considerarsi prevalente rispetto ad una violazione dell’ordine pubblico internazionale, né comunque condizionante la portata di tale concetto, così da porre sostanzialmente nel nulla la sua efficacia interdittiva. Ed invero l’interesse del minore, pur prevalente rispetto ad altri interessi, può costituire oggetto di contemperamento con altri valori considerati essenziali e irrinunciabili dall’ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull’ individuazione delle modalità più opportune da adottare per la sua realizzazione: in alcuni casi detta comparazione è svolta direttamente dal legislatore, in altri è rimessa al giudice del merito, chiamato a tener conto delle peculiarità della vicenda al suo esame. Nella specie è stato il legislatore ad operare in via generale tale bilanciamento, escludendo con la previsione dell’illecito penale di cui all’art.12, comma 6, della legge n. 40 la possibilità di dare pieno riconoscimento giuridico al rapporto tra il minore nato da surrogazione ed il soggetto committente a lui non legato da alcun rapporto genetico. In presenza di una violazione di quel disposto (pur non integrante reato ove commessa in uno Stato in cui la pratica in discorso è consentita) l’interesse del minore, cui i giudici nazionali sono sempre tenuti ad aver riguardo, deve trovare altre strade di tutela, che lascino integra la portata del divieto penale e non si risolvano in un suo aggiramento.
Nel nostro ordinamento lo strumento legale di tutela è offerto dall’ adozione in casi particolari, come clausola di chiusura del sistema, che pur attribuendo al bambino una posizione meno garantita rispetto allo status di figlio affida al controllo del giudice la sussistenza dei requisiti per la costituzione di un legame giuridico con il genitore di intenzione non biologico, evitando quell’automatismo chiaramente incompatibile con la valutazione in concreto dell’interesse del minore.
Non credo infine che l’ auspicio formulato di recente dalla presidente Ursula von der Leyen che gli Stati riconoscano tutti i tipi di famiglia e che l’ essere genitore in un Paese comporti essere genitore in ogni altro Paese possa essere declinato in direzione di una apertura generalizzata alla gestazione per altri: al contrario, considerato che, come ricorda il parere della Grande Camera della Corte Edu del 10 aprile 2019, ben 25 Stati, tra quelli che sono parti della Convenzione, vietano ogni forma di maternità surrogata, che lo stesso Parlamento Europeo, con la Risoluzione del 17 dicembre 2015, ha condannato la pratica in discorso in quanto compromette la dignità umana della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce, che è in atto a livello mondiale una seria riduzione dei margini di operatività della surrogacy, sembra lecito auspicare che l’ armonizzazione si realizzi nella direzione opposta, nel senso cioè di una esclusione da tutti gli ordinamenti di una pratica che, in quanto offensiva della dignità dell’ essere umano, è incompatibile con ogni sistema giuridico fondato sul valore della persona e della sua dignità. E non è un caso che da molti movimenti di opinione, non solo in Italia, si invochi il bando universale della gestazione per altri.
Stefania Stefanelli I principi enunciati dalle S.U. laddove, sulla base dei limiti previsti dalla normativa interna, indicano nell’adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184 del 1983, l’unico strumento compatibile con l’ordine pubblico e idoneo ad instaurare un legame giuridico tra il nato all’estero da gestazione per altri e il genitore intenzionale, sono tutt’altro che acquisiti. La stessa prima sezione della S.C. che aveva promosso l’intervento delle S.U. ha sollevato infatti, come noto, questione di legittimità costituzionale (Cass., ord. 29 aprile 2020, n. 8325), in quanto parrebbe violare il diritto fondamentale del minore ad acquisire lo stato di figlio verso i partecipanti al progetto procreativo, non assicurandogli una tutela effettiva. Di conseguenza, l’ordinanza denuncia il contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU e all’art. 24 della Carta di Nizza.
La rilevanza della questione è evidente alla luce del profondo mutamento che ha interessato, negli ultimi anni, il contesto socio-culturale, di cui è testimonianza nell’evoluzione normativa, e la circolazione delle persone all’interno dello spazio comune europeo, anche allo scopo di realizzare all’estero un progetto di genitorialità attraverso tecniche medicali proibite dal diritto domestico, ha costretto diverse Corti nazionali ad occuparsi del dilemma di riconoscere o meno al nato all’estero, attraverso la gestazione per altri vietata dall’ordinamento nazionale, lo status di figlio dei genitori intenzionali e, in sostanza, l’adempimento dei doveri che, in forza di tale statuto, potrebbe pretendere da chi ha deciso di metterlo al mondo (Corte federale tedesca Corte federale 5 settembre 2018 XII-ZB 224/17; Corte di cassazione francese 6 luglio 2017; Corte EDU, G.C., Avis consultif 10 aprile 2019; Corte di cassazione francese, Ass. Pl., 4 ottobre 2019, resa nel noto caso Mennesson c. Francia, la quale ha ritenuto che una procedura di adozione sarebbe da privilegiare in astratto, in quanto permette ai giudici nazionali di verificare la validità del titolo estero e di esaminare le circostanze particolari in cui si trova il fanciullo, e tuttavia ha disposto la trascrizione dell’atto straniero, in quanto, nel caso concreto, l’adozione avrebbe arrecato una lesione sproporzionata alla vita privata dei figli, nati da più di 18 anni, i cui atti di nascita erano stati formati legalmente all’estero, e che non potrebbero prendere l’iniziativa di una adozione, cui sono legittimati solo i genitori).
Nell’ordinamento italiano, l’accertamento della filiazione prescinde dalla rigida dicotomia – che per decenni ha costituito il fondamento del sistema e che viene richiamata anche dalle S.U. – tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sull’affettività e sulla necessità per il minore di crescere in un ambiente familiare sano. Oggi, infatti, la verità biologica, sebbene sia il preminente, non è più il criterio esclusivo per l’accertamento diretto della filiazione, alla luce del modificato quadro normativo e dei fondamentali arresti del giudice delle leggi e di quello di legittimità.
Sotto il profilo delle fonti, da un lato, l’introduzione della l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita (artt. 8 e 9) ha dato ingresso alla possibilità di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione, e, dall’altro, la “scelta” nella costituzione dello stato di filiazione è attribuita al genitore soltanto in prima battuta (e soprattutto alla madre, attraverso l’esercizio del diritto all’anonimato o, se coniugata, attraverso la possibilità di dichiarare il figlio come matrimoniale o meno, impedendo in quest’ultimo caso il funzionamento del sistema di matrimonialità di cui agli artt. 231 e 232 c.c.), mentre è soltanto il figlio che, a tutela della sua affettività e della propria identità, rimane l’unico legittimato senza limiti di tempo all’accertamento della verità biologica, diretto o indiretto, ai fini del mantenimento.
Sul piano ermeneutico, il ruolo della Consulta ha condotto nell’ultimo lustro al riconoscimento di un diritto alla genitorialità a tutto tondo, sia nella prospettiva filiale che in quella genitoriale, fondato sulla tutela del benessere e dell’identità personale, espressione generale del diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo, diritto che trova esplicazione in talune precipue direzioni: a) conoscenza delle origini e ricerca della verità biologica; b) sviluppo della propria personalità, che nei confronti del genitore si risolve anche nella possibilità di avere una discendenza biologica o affettiva a prescindere dalla effettiva capacità di generare e dall’instaurazione di legami giuridici con chi, eventualmente, ha scelto di condividerne il progetto procreativo.
Nel richiamato contesto, sembra fondato il dubbio che l’interpretazione delle citate norme di legge fornita dalle S.U., nella parte in cui non prevede che il limite dell’ordine pubblico derivante da applicazione di norme di diritto interno, contenenti limitazioni dovute a discrezionalità del legislatore (che abbiamo definito ordine pubblico discrezionale), non possa comprimere diritti fondamentali del figlio, quale quello a vedersi riconosciuto lo status in maniera effettiva ed immediata (integrante invece l’ordine pubblico costituzionale: cfr. A. Sassi, S. Stefanelli, Nascita da gestazione per altri e diritto allo status, in Diritto e processo, 2019, 481 ss., http://rivistadirittoeprocesso.eu/upload/Articoli/16-OV-SASSI-STEFANELLI.pdf).
Ciò in quanto nell’assetto costituzionale è chiara la distinzione tra piano delle sanzioni, anche penali, conseguenti alla violazione di divieti quali quello di surrogazione di maternità, ed effetti sullo status e sui diritti dei figli, e di questa distinzione è intessuta la giurisprudenza costituzionale.
Da ultimo si rammenti la dichiarata incostituzionalità dell’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale in caso di sottrazione internazionale di minori, ex art. 574-bis, terzo comma, c.p., e l’introdotta necessità di una valutazione giudiziale in concreto e attualizzata della rispondenza di detto provvedimento all’interesse del minore (Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102). Altrettanto era stato deciso rispetto all’art. 569 c.p., in relazione agli artt. 566 e 567 c.p., che in caso di alterazione e soppressione di stato disponeva l’automatica perdita della responsabilità genitoriale (Corte cost. 15 febbraio 2012 n. 31, Corte cost. 23 gennaio 2013, n. 7). Rileva soprattutto ricordare Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494, resa proprio con riguardo alla incostituzionalità della preclusione dell’accertamento giudiziale della genitorialità conseguente ad una condotta potenzialmente integrante il reato di incesto, a garanzia dell’effettiva realizzazione del diritto fondamentale del figlio allo status, che rileva anche in funzione della realizzazione di quello che, nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e nell’ dell’art. 24 C.d.f.U.E. ha la sfumatura dell’«interesse migliore» del figlio, anche alla effettività e rapidità della tutela da garantirgli, rispetto all’assunzione della responsabilità da parte del genitore intenzionale. Rispetto ai figli di genitori “essi sì incestuosi” era dunque incostituzionale escludere l’azione diretta a realizzare, a prescindere e perfino in contrasto con l’intenzione dei genitori, i diritti presidiati dall’art. 30 Cost., e il vaglio giudiziale introdotto dalla riforma del 2012 rispetto alla volontaria assunzione di responsabilità dei genitori, con il riconoscimento, è funzionale esclusivamente alla realizzazione, in concreto, dell’interesse del minore.
Riservare oggi ai nati all’estero da gestazione per altri unicamente la strada dell’adozione in casi particolari finisce dunque per creare una categoria di figli “di serie b”, i quali potranno ottenere cura, educazione, istruzione e mantenimento dal genitore intenzionale, ma non legato da vincolo genetico, che ne ha voluto la nascita, solo se costui o costei decida di proporre domanda ex art. 44 ss. l. adozione, e subordinatamente all’altrettanto discrezionale decisione del genitore biologico e, egli sì, legale, di prestare l’assenso all’adozione, come ha evidenziato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata Tribunale di Padova con ordinanza del 3 novembre 2019.
E, anche ove si verifichino tali condizioni, l’adozione in casi particolari non attribuisce lo stesso status che deriverebbe invece, con effetto immediato, dal riconoscimento dell’atto di nascita estero o dalla formazione in Italia di uno da due madri, ma uno analogo, che non costituisce il vincolo di parentela con la famiglia dell’adottante (in quanto l’art. 55 l. cit. richiama art. 300, 304 c.c. sull’adozione di maggiorenni), del che è testimonianza anche nella disciplina del cognome; dipende, anche nei tempi, dall’accertamento giudiziale della realizzazione dell’interesse del minore (art. 57), in quanto tutela la stabilità affettiva; ed è revocabile per attentato alla vita o reati gravi (artt. 51 s.)
Ancora in considerazione della distinzione tra sanzioni e status del nato, non rileva che la nascita sia avvenuta grazie l’applicazione di tecniche vietate e sanzionate dalla l. n. 40/2004, ancora mente della più recente giurisprudenza di legittimità, in tema di applicazione della garanzia offerta al nato dagli artt. 8 e 9 della l. 40/2004, dettati a questo scopo nella vigenza del divieto di procreazione eterologa: «è chiaro, infatti, che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di p.m.a. in precedenza specificamente richiamata, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l'accesso o l'applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull'intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all'estero a p.m.a. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l'applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all'esito di tale percorso» (Cass. 15 maggio 2019, n. 13000).
Neppure può dirsi che il principio di discendenza genetica tuteli in ogni caso la dignità della donna e le relazioni umane, secondo gli auspici della Corte Costituzionale, ove si osservi che, in applicazione di quel principio, la nascita attraverso gestazione per altri di un bambino nato dall’incontro in vitro tra il gamete maschile e quello femminile dei genitori intenzionali finirebbe per rendere incontestabile il titolo della filiazione, obliterando completamente il ruolo fondamentale della donna che ha condotto la gravidanza.
Marco Gattuso Le modalità di questo dialogo mi sollevano, credo, da una dettagliata ricostruzione sistematica (per cui mi sia consentito rinviare a GATTUSO, Dignità della donna, qualità delle relazioni familiari e identità personale del bambino in Questione Giustizia, 2/2019), sicché proverò ad affrontare in modo conciso i due temi che sono stati posti nella stimolante introduzione a questo forum, riservando qualche precisazione nella replica. Posto che è pacifico che la dignità della donna, la sua salute e la sua autodeterminazione, così come il benessere psicofisico dei bambini, debbono essere al centro di ogni ragionamento del giudice, bisogna chiedersi, a mio avviso, se, al di là dei buoni propositi, l’attuale approdo del legislatore e della giurisprudenza italiana centri l’obiettivo o se, piuttosto, se ne stia progressivamente allontanando.
1. Riguardo alla scelta proibizionista del nostro legislatore e alle possibili alternative, pare legittimo interrogarsi se siano più tutelanti, per le donne coinvolte e per i nati, quegli ordinamenti, come quello canadese, inglese, californiano o israeliano, che contemplano regole a protezione dei soggetti deboli, oppure se lo sia il nostro che, disponendo un divieto assoluto, sconta il fenomeno di centinaia, negli anni migliaia, di cittadine e cittadini italiani che si recano anche in paesi - del secondo o del terzo mondo - dove le condizioni di protezione delle donne ci sono spesso ignote, quando non sono notoriamente deteriori.
Non è questa la sede per una ricostruzione dei diversi strumenti giuridici offerti nei paesi di common law dove la surrogacy è ammessa, ma ciò che rivela, a mio avviso, è che alla regolamentazione possono corrispondere livelli più o meno soddisfacenti di protezione, mentre il divieto assoluto conduce, in buona sostanza, a un atteggiamento di disinteresse rispetto al concreto svolgimento del percorso riproduttivo all’estero e al concreto dipanarsi delle relazioni fra i soggetti coinvolti: una gravidanza per un’altra donna, che per ragioni di salute non è in grado di mettere al mondo il proprio bambino, o per una coppia dello stesso sesso, realizzata nel Regno Unito o in Canada nel pieno rispetto della legge e con relazioni fra i genitori, la gestante e il bambino che spesso si consolidano e restano salde per tutta una vita, incontra nel nostro ordinamento la stessa identica reazione giuridica riservata a vicende in cui emergono pericoli di sfruttamento, in paesi che non offrono alcuna garanzia o addirittura in violazione delle stesse leggi locali.
Sono convinto, allora, che in questo come in altri settori, il diritto non possa rinunciare alla sua funzione regolatrice, che la sua essenza sia nella difficile ricerca di una soluzione che contemperi libertà e esigenze di protezione, senza facili scappatoie nell’illusione che basti proclamare divieti assoluti per risolvere problemi complessi, perché i divieti sovente mettono i problemi sotto il tappeto oppure semplicemente li respingono, come nel nostro caso, fuori dai confini nazionali. Sono convinto che occorra invece “sporcarsi le mani”, tentando di dialogare, anche in modo serrato, e di immaginare quali siano le condizioni e i presupposti che riteniamo indispensabili per una piena protezione dei soggetti coinvolti, partendo dallo studio dei modelli giuridici esteri (che hanno superato l’esame di corti con un approccio non superficiale ai diritti umani) e delle ricerche scientifiche condotte ormai da decenni nel Regno unito e negli Stati uniti (in una recente rassegna condotta su ben 55 studi scientifici sulla salute psico-fisica delle gestanti, dei genitori e dei bambini, in verità in molti ormai adulti, non sono emerse differenze significative in aspetti sia medici sia psicologici fra surrogacy e concepimento naturale o assistito: cfr. CARONE, In origine è il dono, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 97) e, soprattutto, muovendo dall’ascolto di chi ha vissuto questa esperienza, innanzitutto delle donne che hanno portato in grembo bambini di altre donne (segnalo le belle interviste raccolte in MARCHI, Mio, tuo, suo, loro, Donne che partoriscono per altri, 2017, Fandango libri, che ci parlano della dignità di una scelta, che non è necessario condividere, ma capire). Non si tratta di negare la relazione straordinaria che lega una donna al bambino che porta in grembo. Si tratta di dare valore a questa relazione tenendo conto della volontà della donna, delle sue scelte, del suo benessere e del benessere del bambino. È mia convinzione che non ci sia dignità senza autodeterminazione: il tema non è quello di salvare le donne dalle loro scelte, ma di assicurare che le loro scelte siano libere da condizionamenti.
La distinzione fra concezione soggettiva e oggettiva di dignità non mi convince: anche chi assume la necessità di una nozione oggettiva, che consentirebbe di imporre un divieto anche a fronte di scelte consapevoli, muove sovente dalla soggettiva convinzione che non sia possibile che una donna possa scegliere liberamente di aiutare un’altra donna a mettere al mondo il suo bambino. Si tratta, tuttavia, di una convinzione smentita dai fatti e da una fondata conoscenza delle condizioni in cui si svolge una relazione di surrogacy nei paesi, a noi affini, in cui è ammessa. È spesso in gioco, qui, un pregiudizio soggettivo (“siccome non lo farei mai, non posso credere che altre lo vogliano fare”), inconsapevolmente mascherato, come capita sovente, da una parvenza di oggettività (con il richiamo alla natura, alla tradizione, alla coscienza sociale, al comune sentire). Come scrissero i giudici californiani nella nota sentenza che quasi trent’anni fa riconobbe la legittimità della surrogacy, per una donna libera da condizionamenti il divieto di portare avanti una gravidanza per un’altra donna rappresenta il «retaggio di quella impostazione giuridica e culturale che per secoli ha impedito alle donne di esercitare gli stessi diritti economici e di assumere gli stessi status degli uomini» (Corte suprema della California, Johnson c. Calvert, 20/5/1993).
Pur non negando i rischi e la difficoltà di un corretto equilibrio fra libertà e protezione, l’affermazione, in un obiter dictum della nostra Corte costituzionale, che la maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272/2017) andrebbe dunque corretta, seguendo, invece, la più prudente affermazione della Corte di Strasburgo per cui vanno evidenziati i «rischi di abuso che comporta la GPA» (parere - Advisory Opinion - del 10/4/2019, par. 41), così facendo intendere che l’abuso non è in re ipsa, ma eventuale.
Dunque, questa realtà richiede una disciplina che preveda condizioni e presupposti certi, una vigilanza e un supporto continuo lungo tutto il percorso, la definizione giuridica e la protezione delle relazioni familiari nuove e non tradizionali che inevitabilmente si instaurano (fra i genitori e la gestante, fra questa e il bambino che nascerà e che è poi nato). In questo senso, com’è forse noto, abbiamo elaborato una “proposta di legge”, assai dettagliata nel prevedere un insieme di regole, certo non una proposta “chiusa” da condividere, ma una occasione, uno stimolo, per aprire finalmente un dialogo sui concreti e irrinunciabili presupposti giuridici dell’autodeterminazione (GATTUSO, SCHILLACI Uno schema di disegno di legge per la regolamentazione della surrogazione di maternità, in Articolo29, 2018).
2. Venendo al secondo ordine di questioni (cosa fare, in costanza del divieto interno, dei tanti bambini nati all’estero), credo che sia necessario trovare una risposta a un interrogativo tutto sommato semplice: è consentito, nel nostro ordinamento, privare il bambino di uno status e dei conseguenti diritti, non per il suo interesse ma a fini di prevenzione generale? L’obiettivo proclamato di combattere il fenomeno della surrogacy, anche in Paesi a noi affini che la consentono e regolano, è legittimamente perseguibile partendo da un approccio che punisce i bambini nati in questo modo?
La Corte costituzionale, ai tempi del quesito sullo status dei figli incestuosi, aveva già sciolto, a me pare, il nodo, dando una risposta ragionevole: «l’adozione di misure sanzionatorie … che coinvolga soggetti totalmente privi di responsabilità – come sono i figli di genitori incestuosi, meri portatori delle conseguenze del comportamento dei loro genitori e designati dalla sorte a essere involontariamente, con la loro stessa esistenza, segni di contraddizione dell’ordine familiare – non sarebbe giustificabile se non in base a una concezione "totalitaria" della famiglia» (sentenza n. 494/2002, § 6.1.). Parafrasando le Scritture (Deuteronomio 24.16; Ezechiele 18.20) potremmo dire, nel nostro caso, le colpe delle madri non ricadano sui figli, ma già il principio personalistico, che in fondo discende da quella tradizione e che informa la nostra Costituzione, preclude ogni strumentalizzazione della persona umana, men che meno, direi, dei bambini.
La soluzione italiana svela a mio avviso un approccio adultocentrico, in quanto è tutto teso a giudicare e “sanzionare” gli adulti, così scontando e ammettendo un esito negativo e stigmatizzante nei confronti dei bambini. Da questo punto di vista, a me pare che la soluzione italiana dell’adozione in casi particolari ex art. 44, lett. d) della L. adoz., patrocinata tanto dalla Consulta che dalle Sezioni unite, sia del tutto insoddisfacente. Tale adozione impone infatti l’accertamento di una relazione genitoriale di fatto consolidatasi in un tempo non breve (sicché non può essere proposta subito dopo la nascita) e necessita di una istanza proposta dallo stesso genitore intenzionale, mentre in sua carenza non è proponibile nell’esclusivo interesse del minore, sicché non appare affatto garantita, de iure condito, la «effectivité et la célérité» richiesti dalla Corte di Strasburgo nel menzionato parere del 10/4/2019. Non è un caso che la Cassazione francese, che aveva richiesto il parere della Cedu, avendolo letto ha ritenuto insufficiente l’adozione (che peraltro in Francia è piena), ammettendo la trascrizione dell’atto di nascita.
La dura reazione della giurisprudenza italiana non è imposta da alcuna disposizione di legge, posto che l’art. 12, VI comma L. 40/2004 nulla dice a proposito dello status dei nati, ma è motivata con una rivisitazione del concetto, per sua natura indeterminato, di ordine pubblico internazionale. Si tratta di una costruzione tutta giurisprudenziale, in questo caso in vistoso contrasto con l’interpretazione data alla stessa clausola dalle equivalenti corti tedesca e francese, le quali, pur in presenza di divieti interni analoghi al nostro e in un quadro di valori costituzionali identico al nostro, negano che il divieto interno possa avere nocive ripercussioni sui bambini [Bundesgerichtshof, 10/12/2014 e 5/9/2018; Cass. francese, 4/10/2019].
Fra gli effetti di tale approccio radicale delle nostre Sezioni unite, quello forse più paradossale è che un bambino europeo la cui famiglia debba trasferirsi in Italia, perde, giunto ai nostri confini, uno dei suoi genitori. Varcato il confine, sua mamma diviene un’estranea per il paese, il nostro, in cui dovrà vivere. Questa non potrà visitarlo in ospedale, parlare con gli insegnanti, prenderlo da scuola (salvo delega del padre). Quanto questo esito aiuti la sacrosanta difesa della dignità della donna e la verità delle relazioni umane, resta a mio avviso del tutto inspiegato.
Mi pare pure evidente il contrasto con il principio di libera circolazione dei cittadini europei, giustamente stigmatizzato dalla Presidente della Commissione europea Von der Leyen, con l’accorata dichiarazione, nel recente discorso avanti al Parlamento europeo, in favore del «mutuo riconoscimento delle relazioni familiari nell’U.E., perché se sei genitore in un paese, naturalmente sei genitore in ogni paese». Parole, quelle della democristiana presidente europea, che (seppure non riferite esplicitamente alla surrogacy, ma alla omogenitorialità in genere, che pure evidentemente la comprende) vanno ascoltate (il breve estratto video - 90 secondi - qui) perché segnalano con nettezza l’orizzonte dei comuni valori giuridici e umani dell’Unione.
Anche in seguito alla sollecitazione che ci viene dalle istituzioni europee, sarebbe allora utile, a mio avviso, riprendere il filo del dialogo giuridico, che meritoriamente questa Rivista promuove e sollecita, ripensando per un verso l’approccio delle Sezioni unite e provando per altro verso a individuare in concreto, in un confronto franco e serrato, con pazienza, quali sono a nostro avviso i presupposti, quali le condizioni, quali le regole, quali le forme di controllo e di vigilanza che riteniamo indispensabili perché le scelte di ogni donna siano veramente libere. Non c’è, infatti, dignità senza possibilità di scegliere.
Mauro Paladini La Presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell'Unione al Parlamento europeo, ha auspicato una “Unione dell'uguaglianza”, chiedendo il mutuo riconoscimento delle relazioni familiari tra i vari Paesi membri.
È difficile pensare che in questo auspicio fosse implicitamente contenuto il riferimento a un’eventuale diffusione del modello della c.d. GPA (gestazione per altri), considerato che il divieto di maternità surrogata è ancora prevalente in Europa, sicché una “Unione dell’uguaglianza” dovrebbe ragionevolmente condurre all’esportazione del modello sanzionatorio e non certo di quello permissivo. In Italia tale divieto è addirittura penalmente sanzionato, ma da più parti si sono sollevate voci critiche, fino al punto che la norma incriminatrice (art. 12, legge n. 40/2004) è ora stata rimessa dalla Corte di Cassazione (Ord. 29 aprile 2020 n. 8325) all’attenzione del giudice delle leggi, nella parte in cui – in combinato disposto con l’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 e l’art. 65 co. 1° lett. g) L. n. 218/1995 – non consente, per contrasto con l’ordine pubblico italiano, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento, nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri, del genitore d’intenzione non biologico, per asserito contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31, 117 co. 1° Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite sui diritti dei minori e dell’art. 24 della Carta di Nizza. Tuttavia, è noto come tale ordinanza di rimessione al Giudice delle leggi si collochi in un più ampio dibattito culturale e in un contesto di pronunciamenti dei supremi organi giurisdizionali italiani ed europei, spesso tra loro in contrasto.
Sul piano delle ragioni etiche, religiose e culturali, che hanno condotto la maggior parte degli Stati a sancire il divieto di maternità surrogata, registra un largo consenso il condivisibile argomento relativo alla necessità di evitare odiose speculazioni volte alla mercificazione del corpo della donna. In molti paesi poveri del mondo la surrogazione di maternità è praticata da donne in condizioni di assoluta indigenza, disposte a vendere le proprie capacità riproduttive soltanto per beneficiare di un corrispettivo in denaro. Della gravità del fenomeno hanno preso coscienza anche alcuni Stati stranieri nei quali la surrogazione di maternità aveva assunto dimensioni preoccupanti: ad es., il Parlamento Indiano, nell’agosto del 2019, ha finalmente vietato la pratica commerciale della maternità surrogata che, negli anni precedenti, aveva raggiunto un giro d’affari addirittura pari a 400 milioni di dollari. Ma, oltre all’aspetto della mercificazione del corpo umano – che ha indotto opportunamente, nel recente passato, la Corte Costituzionale (sent. 272/2017) a qualificare la surrogazione di maternità come una pratica offensiva della dignità della donna – il fenomeno ha dato luogo a vicende raccapriccianti, come il rifiuto del neonato da parte dei committenti a causa della presenza di malformazioni fisiche o in seguito alla rottura, medio tempore intervenuta, dell’unione di coppia: tutte vicende che dimostrano come, in questi casi, l’interesse del minore ceda il passo all’egoismo e al cinismo dei committenti che non ritengano di vedere soddisfatto il loro asserito “diritto ad avere un figlio” nelle modalità e con le caratteristiche che si erano prefissate.
Tuttavia, i sostenitori della liceità de iure condendo della maternità surrogata invocano il diverso (e apparentemente meno fragile) argomento della gestazione solidale e gratuita, prestata, ad esempio, da una sorella o da una madre per sopperire all’infertilità della donna parente. In realtà, anche tale argomento si pone in radicale contrapposizione col principio di dignità della persona – principio cardine della Costituzione italiana (art. 2), delle maggior parte delle costituzioni europee, oltre che delle Carte e Convenzioni sovranazionali – e smentisce che la surrogazione gratuita possa mai agganciarsi, sia pure latamente, al principio costituzionale di solidarietà. Anche nella surrogazione c.d. solidale, infatti, il corpo della donna è strumento di realizzazione di un interesse altrui e ben poco rileva che questo interesse appartenga a persona alla quale la gestante sia affettivamente legata, ove si consideri che l’accordo “negoziale” di surrogazione solidale verrebbe inevitabilmente a frustrare ogni legame biologico e affettivo tra la gestante e il nato. Considerato, infatti, che, nonostante l’estraneità dell’ovocita, appare scientificamente dimostrata l’instaurazione di una interazione biologica tra la gestante e il feto durante la gravidanza, la ritenuta liceità del contratto di maternità surrogata dovrebbe comunque ammettere la coercibilità dell’obbligazione di consegna del neonato: approdo giuridico che risulterebbe a dir poco censurabile in ordinamenti fondati sul valore primario della persona umana.
Se quelle in precedenza sintetizzate sono le ragioni principali che devono indurre a confermare l’illiceità della pratica della maternità surrogata, tuttavia, la sanzione penale contenuta nel nostro ordinamento non ha impedito il fenomeno del turismo riproduttivo e il conseguente problema dell’eventuale trascrivibilità dell’atto di nascita formato in un paese straniero in cui tale pratica sia lecita. In primo luogo, constate le dimensioni crescenti del fenomeno, un contenimento tanto indispensabile quanto urgente può derivare dall’approvazione del Disegno di legge n. 519 (presentato in Senato) per l’estensione del reato previsto dall’art. 12, comma 6, legge n. 40/2004 anche ai fatti commessi all’estero. Peraltro, ove il divieto risulti comunque violato, appare condivisibile quanto finora affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 272/2017) e dalle Sezioni Unite (sent. n. 12193/2019), secondo cui, sia nel caso di atto di nascita formato all’estero sia a fronte di provvedimento giurisdizionale straniero attestante lo status, il riconoscimento interno del rapporto di filiazione tra committenti e figlio è impedito dal divieto della surrogazione di maternità, qualificabile alla stregua di principio di ordine pubblico, perché posto a presidio di valori fondamentali dell’ordinamento. Per impedire che, nonostante la violazione della norma penale, il prolungamento della relazione di fatto tra i committenti e il nato conduca al trauma del distacco e a un grave pregiudizio per l’interesse del minore, la stessa giurisprudenza sopra citata ha indicato la possibile via dell’adozione in casi particolari, che rischia tuttavia di trasformarsi – per effetto di un fraintendimento giurisprudenziale del requisito dell’impossibilità di affidamento preadottivo (art. 44, lett. D, legge n. 184/1983) – in una sorta di scorciatoia per l’instaurazione di relazioni di filiazione in assenza dei presupposti indicati dalla legge e, nel caso della surrogazione di maternità, addirittura in aperta violazione di precetti penali. Attendendo, quindi, il prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale, si può auspicare che l’Unione dell’uguaglianza – invocata dalla Presidente Von Der Leyen – non alludesse alla diffusione in Europa di una pratica riproduttiva fondata sulla mercificazione e strumentalizzazione del corpo femminile e, perciò, giustamente respinta o sanzionata dalla maggior parte degli Stati.
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Ciascuno dei virtual discussant ha espresso la sua opinione senza sapere cosa avrebbero scritto gli altri: adesso però le opinioni sono sul tappeto e sono chiare e nette. La surrogacy divide le coscienze ed è pur vero che in uno Stato democratico non basta formulare un “divieto assoluto”, ma occorre spiegare le ragioni del divieto e le ragioni di chi ritiene che il divieto sia ormai obsoleto. Soltanto così può formarsi nella coscienza sociale un movimento di opinione che conduca a delle scelte democratiche: se le istanze sociali, che possono in ipotesi determinare il legislatore a cambiare orientamento, provengono solo da lobby più o meno agguerrite o più o meno potenti, il risultato sarà una legge che non rispecchia quel comune sentire che in un dato luogo e in un dato momento coagula il consenso intorno ai valori di cui si vuole che l’ordinamento si faccia portatore. Ecco perché la questione interessa tutti ed ecco perché il confronto ragionato e non per spot pubblicitari è necessario. Ciascuno dei discussant è stato quindi invitato, dopo la lettura delle opinioni altrui, ad una breve replica.
Gabriella Luccioli A me pare che questo breve scambio di idee riproponga in modo netto la questione cruciale se la maternità surrogata costituisca una pratica lesiva della dignità della gestante e di tutte le donne o vada intesa come legittima espressione di libertà procreativa della donna che intende mettere a disposizione il suo corpo e quello del nascituro per aderire ad un interesse altrui.
E’ evidente che coloro che, come chi scrive, sono convintamente schierati per la prima posizione fanno riferimento ad una nozione di dignità in senso oggettivo, che trova solido fondamento nel principio personalistico che informa la nostra Costituzione e che non giustifica le perplessità ventilate da Gattuso sulla duplice declinazione - soggettiva ed oggettiva - del concetto. Un esempio per tutti, tratto dalla giurisprudenza costituzionale: se nella nota sentenza n. 242 del 2019 la Consulta ha riconosciuto alle persone che si trovano in determinate e ben delineate condizioni il diritto di morire con dignità, così assumendo una accezione soggettiva del concetto, in quanto ha configurato un diritto del malato ormai esausto al rispetto della propria personale concezione della dignità e della scelta di liberarsi da sofferenze divenute intollerabili accelerando con l’ aiuto di altri la propria fine, nella sentenza di poco anteriore n. 141 del 2019 la stessa Corte, nell’ affermare la legittimità costituzionale delle disposizioni che puniscono il reclutamento e lo sfruttamento della prostituzione, perchè mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana, ha recepito - e lo ha espressamente dichiarato - un concetto di dignità in termini oggettivi e assoluti, a prescindere dalla percezione che ne abbiano i soggetti coinvolti, rilevando che è lo stesso legislatore che - facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico - ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’ attività che degrada e svilisce l’ individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente.
Ed allora, assumere nel caso di gestazione per altri la dignità come valore assoluto vuol dire identificare il bene tutelato nella dignità di ogni essere umano, con evidente preclusione di ogni possibilità di rinuncia da parte della persona coinvolta e con altrettanto evidente smentita della tesi che non vi sia dignità senza autodeterminazione.
Si tratta di una posizione adultocentrica, come sostiene il mio contraddittore? Non lo credo, perché la dignità appartiene ad ogni essere umano, ed appartiene anche al bambino nato da surrogazione, in quanto reso oggetto di scambio e repentinamente privato, come ho già osservato, del suo rapporto simbiotico con la madre e della sua identità anagrafica e per il futuro del diritto fondamentale di conoscere le sue origini.
Quanto al concetto di ordine pubblico internazionale, che si afferma da Gattuso essere stato oggetto di una errata rivisitazione giurisprudenziale, osservo che è acquisizione ormai pacifica, suffragata dalle Sezioni Unite (n. 12193 del 2019), che il controllo di compatibilità con l’ ordine pubblico, ai sensi degli art. 64, 65 e 66 della legge n. 218 del 1995, di sentenze e provvedimenti stranieri deve svolgersi avendo riguardo non solo ai parametri costituzionali e sovranazionali, ma anche alla legislazione ordinaria che di detti parametri costituisce puntuale traduzione normativa, indicando il modo in cui essi trovano attuazione nella disciplina dei singoli istituti: ne deriva che il giudice chiamato a detta verifica è tenuto a prendere atto dell’ esistenza nel nostro ordinamento di una norma che non ha soltanto carattere imperativo e punitivo, ma esprime una posizione costituzionale di rifiuto di una pratica lesiva del principio fondamentale di dignità, così da integrare un principio di ordine pubblico.
Ritengo infine non pertinente il richiamo, svolto sia da Gattuso che da Stefanelli, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 494 del 2002 in materia di figli incestuosi, atteso che tale pronuncia, sulla indiscutibile premessa della non responsabilità del soggetto che viene al mondo, mero portatore delle conseguenze del comportamento dei genitori, e sul presupposto che il sistema non può disinteressarsi della sua posizione, nel dichiarare l’ incostituzionalità dell’ art. 278, comma 1, c.c. ha riconosciuto a quel soggetto lo status filiationis che gli spetta quale discendente biologico di chi lo ha generato, secondo una logica di doverosa imputazione agli adulti della responsabilità per la loro condotta: logica che è del tutto estranea all’ ipotesi di gestazione per altri.
Stefania Stefanelli La scelta di riservare a questa replica la questione circa la liceità o meno della pratica della surrogazione consegue alla necessità di distinguerla nettamente dall’altra, circa la tutela da accordare al nato all’estero attraverso il ricorso a questa pratica.
Distinzione che è ontologica, prima che giuridica, e corre tra il piano dei limiti e dei divieti, imposti agli adulti a vario titolo coinvolti nell’applicazione di tecniche di p.m.a., da quello della tutela del diritto fondamentale allo status del nato, ed è evidente anche in ragione della collocazione dei primi, nel Capo II della l. 40/2004, dedicato all’accesso alle tecniche, mentre gli artt. 8 e 9, a presidio del nascituro, sono collocati nel Capo III, significativamente intitolato alla «tutela del nascituro».
L’obiter dictum della più volte richiamata pronuncia della Consulta, per il quale «la maternità surrogata (…) offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», ha avuto senz’altro un ruolo determinante per la decisione delle Sezioni Unite circa la non trascrivibilità, in ragione della contrarietà all’ordine pubblico, dell’atto di nascita formato all’estero per il nato attraverso tali tecniche, ma sembra non avere avuto altrettanta eco la pur decisamente più diffusa motivazione circa la distinzione tra qualificazione dell’accordo di surrogazione – estranea all’oggetto del giudizio – e presidio costituzionale del diritto fondamentale del nato al proprio status di figlio dei genitori intenzionali.
Condivido appieno quanto sintetizza efficacemente Marco Gattuso a proposito dell’opportunità di una regolamentazione della gestazione per altri, proprio in funzione di garanzia della autodeterminazione della gestante, che esprime e realizza la sua dignità e trova protezione nell’art. 8 della Convenzione EDU, sebbene spesso si utilizzi il concetto di dignità della donna allo scopo di limitarne l’autodeterminazione (cfr. Borrillo, Disposer de son corp: un droit encore a conquérir, Paris, 2018, 21). Fatico, per questa ragione, ad applicare alla gestazione per altri il concetto di schiavismo e al bambino quello di oggetto di uno scambio, anche in quanto per costui l’alternativa alla realizzazione del progetto comune agli adulti coinvolti sarebbe quella di non nascere affatto, e la non vita non è certo un valore tutelato dall’ordinamento, ma semmai è negazione del diritto fondamentale all’esistenza. Ritengo, invece, necessario dettare le condizioni – e le modalità di accertamento della loro sussistenza – che garantiscano l’assoluta libertà (anche dal bisogno), la revocabilità in ogni momento e anche dopo il parto, e la piena consapevolezza della donna, condizioni che devono tutelare, al tempo stesso, il diritto del nato a conoscere le proprie origini e le circostanze della propria nascita, i quali finirebbero per essere irrimediabilmente pregiudicati dalla previsione di un reato universale. In ciò starebbe la piena garanzia della dignità della donna, e non invece nell’assumere la stessa come madre del nato, essendo estraneo al nostro ordine pubblico un concetto di maternità per il solo fatto del parto, giacché «l’art. 269, comma 3, c.c. è una norma riguardante la prova della maternità (che) trova conferma nel secondo comma del medesimo articolo» (Cass., 30 settembre 2016, n. 19599).
2. Con riguardo all’interesse del figlio all’accertamento dello stato nei confronti dei genitori intenzionali, rileva ricordare che lo stesso, ai sensi dell’art. 8, comma 1 della Convenzione di New York e con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, rileva sotto il profilo della garanzia della sua identità personale, e non riguardo alla conservazione dell’affettività, in quanto la certezza giuridica della propria situazione soggettiva e familiare è determinante per la costruzione del proprio sé. A tale certezza conseguono, tra l’altro, la cittadinanza, i diritti ereditari, la libertà di circolazione nel territorio nazionale ed in quello europeo, ed in questo senso si dirigono, condivisibilmente, le parole spese dalla Presidente della Commissione Europea Von der Leyen, in favore del «mutuo riconoscimento delle relazioni familiari nell’U.E.».
Se rispetto allo status del figlio sono indifferenti le scelte procreative dei genitori, in ossequio al principio di pari trattamento di cui all’art. 3 Cost. (cfr. Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166), a nulla varrebbe l’eventuale opzione contraria del legislatore nazionale, posto che «nessuna discrezionalità delle scelte legislative, con riferimento al quarto comma dell’art. 30 della Costituzione, che abilita la legge a dettare norme e limiti per la ricerca della paternità, può essere invocata in contrario: non è il principio di uguaglianza a dover cedere di fronte alla discrezionalità del legislatore, ma l’opposto» (Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494).
Non ritengo, in ogni caso, che una tale opzione sia espressa dalla sanzione di cui all’art. 12, comma 4 l. n. 40 del 2004, né che questa disposizione esprima la comparazione tra questo diritto fondamentale del figlio e altri interessi, attenendo invece esclusivamente al comportamento degli adulti. Non si spiegherebbe, altrimenti, per quale ragione dovrebbe conservarsi lo status nei confronti del genitore intenzionale che sia anche genitore genetico, visto che anch’egli avrebbe tenuto, alla pari dell’altro genitore solo intenzionale, la condotta penalmente sanzionata. Inoltre, se questa comparazione si compendiasse nel ritorno al principio codicistico di verità genetica della procreazione (la cui tutela non è peraltro assoluta nemmeno nel sistema della procreazione secondo natura) in caso di gestazione per altri, non si spiegherebbe per quale ragione la Corte Costituzionale – chiamata a pronunciarsi sull’impossibilità di tenere conto, nel giudizio di impugnazione del riconoscimento materno per difetto di veridicità genetica, di aspetti dell’interesse del minore diversi da quello in cui si esprime il favor veritatis – non abbia dichiarato la questione infondata ma, al contrario, abbia deciso che «non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore» e che «va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro» (Corte Cost. n. 272/2017). In altri termini, anche ove fosse pronunciata una sentenza di adozione coparentale – funzionale alla tutela del diritto alla vita familiare, nella sua continuità affettiva, e non alla garanzia dell’identità del figlio, che fonda invece il suo diritto all’accertamento dello status per atto di autoresponsabilità dei genitori, o per dichiarazione giudiziale di paternità e/o maternità – ad essere pregiudicato sarebbe il diritto del minore all’identità personale, che si nutre dell’accertamento giuridico della discendenza, e di ciò si ha evidenza anche nella disciplina del cognome, come specificato dalla Consulta sull’attribuzione del doppio cognome al momento della formazione dell’atto di nascita (Corte cost. n. 286/2016).
Escludere «il riconoscimento automatico o almeno obbligatorio della genitorialità» (App. Napoli, 4 luglio 2018) che deriva dall’art. 8 l. 40/2004, confinando la tutela del diritto del figlio allo status alla sentenza di adozione coparentale, significa negare il diritto stesso, che resterebbe orfano di azione in giudizio, e dunque non più tale, in violazione dell’art. 24 Cost., se è vero che nell’ordinamento moderno diritto e azione non sono due concetti a sé stanti, ma un tutt’uno inscindibile (cfr. Fadda, Intorno a un preteso effetto delle obbligazioni naturali nel diritto attuale, in Arch. giur., 36 [1886], 211).
Nella l. 40 il consenso, costitutivo della responsabilità genitoriale nella p.m.a., realizza l’interesse del nato in quanto non è revocabile, dopo la fecondazione dell’ovocita, ed in tal guisa vincola ai doveri di cui agli artt. 30 Cost. e 24, par. 3, Carta di Nizza (in termini di diritto alla bigenitorialità) proprio attraverso la costituzione obbligatoria dello status filiationis tra chi è venuto alla vita e l’adulto dalla cui determinazione consapevole ha preso avvio il processo di fecondazione e la gestazione, a prescindere ed anzi in dispetto dell’assenza di discendenza genetica.
Accettare che la tutela del soggetto massimamente debole sia limitata all’adozione genitoriale significherebbe, invece, consentire al genitore intenzionale, per il mezzo della mancata proposizione della domanda, di revocare quel consenso (oltre a permettere al genitore biologico – e per questo legale – di impedire la realizzazione del diritto del minore opponendo il proprio rifiuto; a dovere, nella migliore ipotesi, attendere la costituzione di uno stabile legame affettivo per interessare il tribunale per i minorenni della valutazione, ex art. 57, comma 1, n. 2, della realizzazione dell’interesse del minore; ad attendere ulteriormente i tempi dell’accertamento giudiziale; e, infine, ad ottenere in ogni caso la costituzione di uno status diverso, deteriore e claudicante).
Marco Gattuso Il presupposto per cui la surrogacy sia sempre “imposta” (dal bisogno; da condizionamenti sociali), sino a essere qualificata come una sorta di “schiavismo”, non corrisponde all’esito delle ricerche empiriche che dimostrano che, in alcuni paesi di common law, la stessa è realizzata da donne che la scelgono in modo libero e consapevole (certo, anche qui non possono escludersi abusi, ma la scarsa conflittualità e i pochi ricorsi al giudice suggeriscono una certa tenuta di quei sistemi). Chi ha avuto modo di frequentare alcune di queste donne, che siano americane, inglesi o canadesi, sa che si tratta spesso di donne pienamente consapevoli e molto orgogliose della loro libera scelta.
Quando la scelta è libera, la donna non è oggetto, ma soggetto. Non basta fare appello alle proprie intime convinzioni sulla sua dignità, o sulla dignità di tutte le donne, per vietare loro di decidere per se stesse. L’appello a nozioni “oggettive” nel campo dell’etica indebolisce a mio avviso la nostra comune nozione di Stato laico di fronte a chi vieta alle donne di lavorare, divorziare o di circolare senza velo, assumendo a propria volta che si tratti di condotte contrarie alla dignità della donna e di salvare le donne da se stesse. Compito dello Stato non è dettare una propria etica, ma contribuire alla “rimozione degli ostacoli, di ordine economico e sociale”, che limitando di fatto la libertà, impediscono il pieno sviluppo della personalità di ognuno e ognuna. Dunque compito di uno Stato laico non è sindacare le scelte secondo un preteso ordine naturale (niente è più relativo), ma assicurarsi che le scelte siano veramente libere e che non danneggino il prossimo.
La contrarietà a “limiti e controlli” (sul fumo, sull’abuso di alcool, sulla alimentazione ecc..) dovrebbe condurre ad una discussione sulle modalità di realizzazione della GPA e non, con un salto logico, alla contrarietà alla stessa GPA. Nel “progetto di legge” cui abbiamo lavorato (rinvio al link) è vietato qualsiasi vincolo per la gestante. Parimenti, nei Paesi di common law più volte menzionati (e nella detta “proposta”) la gestante resta unica titolare del diritto di interrompere la gravidanza. Ancora, nel Regno unito e in Canada, come anche nella nostra “proposta”, è previsto un diritto al “ripensamento” della donna gestante, sull’assunto del carattere straordinario della relazione di gravidanza tale da incidere in profondità sulle sue motivazioni. Seguendo la Corte di Strasburgo, un conto è affermare il rischio di abusi, altro che si tratti sempre di un abuso.
Non è condivisibile che vi sia lesione della dignità e del benessere del bambino. Una corretta descrizione della fattispecie deve dare atto che questi non è oggetto di un accordo di “scambio”, perché il bambino viene concepito dai suoi genitori (quasi sempre suoi genitori genetici) e, a causa di una patologia della madre (asportazione dell’utero; patologie trasmissibili al feto...), un’altra donna si offre a sostenerne la gravidanza. Qui è in gioco un patto in forza del quale due donne, due persone, due famiglie si incontrano per mettere al mondo un bambino: qui si crea un fascio di relazioni di natura familiare, che meritano ascolto e, soprattutto, richiedono regole. È necessario muovere dunque dal riconoscimento che qui sono in gioco relazioni di natura familiare e che questa è materia non per contratti, ma per patti di diritto di famiglia. Il bambino non è “oggetto” della volontà degli adulti più di quanto lo sia in qualsiasi percorso di procreazione, naturale o artificiale, e non ci sono “egoismi” contrapposti all’interesse del bambino più di quanto si possano rinvenire in ogni scelta di dare al mondo un figlio. Le questioni che si pongono rispetto al diritto del nato di conoscere la verità della sua nascita sono analoghe a quelle che si pongono nell’ipotesi della pma eterologa: il suo diritto di conoscere come e grazie a chi è venuto al mondo (ed eventualmente chi sia il donatore/donatrice, ove vi sia stata una donazione) si tutelano dando regole, non nascondendo la sua nascita sotto il tappeto del divieto. Il benessere di questi bambini, infine, non è in gioco, perché le ricerche condotte da decenni informano delle condizioni di benessere, tanto delle gestanti che dei bambini, i quali, nei paesi in cui non vi è divieto, sono in genere perfettamente consapevoli del modo in cui sono nati (cfr. ex multis, V. Söderström-Antila - U.B. Romundstad - C. Bergh, Surrogacy: Outcomes for Surrogate Mothers, Children and the Resulting Families - A Systematic Review, in Human Reproduction Update, n. 2/2016, pp. 260 ss. , V. Jadva - L. Blake - P. Casey - S. Golombok, Surrogacy Families 10 Years On: Relationship with the Surrogate, Decisions over Disclosure and Children Understanding of Their Surrogacy Origins, in Human Reproduction, n. 10/2012, p. 3008). Questi bambini sono mortificati dallo stigma giuridico e, quindi, sociale; non dalla storia, spesso rispettabile e per loro facilmente comprensibile, che li ha portati in vita.
Poiché è stato sollevato il tema di recenti proposte di criminalizzazione delle condotte realizzate all’estero, credo doveroso segnalare come questa strada, percorsa a quanto mi risulta solo da due paesi al mondo (la Turchia e la Malesia, entrambi regimi assai sospetti in materia di diritti umani), porrebbe problemi non sottovalutabili: un conto è attestare al proprio interno la barriera al livello più alto (quello della repressione penale), altro è giudicare le diverse scelte compiute dagli altri (che hanno ritenuto che non il divieto ma la regolamentazione tuteli maggiormente i propri cittadini). Una tale scelta può essere giustificata solo affermando la volontà dell’Italia di proteggere le donne inglesi, canadesi, americane, israeliane sul presupposto che non lo sarebbero nei loro sistemi giuridici. Una affermazione che dovrebbe essere preceduta, credo, da una accurata indagine, acquisendo dati e informazioni, e chiedendo conto, a quei paesi, della loro capacità di proteggere le loro cittadine. Temo, inoltre, che la criminalizzazione condurrebbe il nostro paese in un pantano, anche di natura diplomatica, posto che l’Italia vanta milioni di cittadini all’estero (spesso con doppia cittadinanza), che diverrebbero perseguibili per condotte legittimamente tenute nei paesi di residenza.
Riguardo alla tutela dei minori “comunque nati”, non può negarsi che il loro interesse coincida con la permanenza del riconoscimento legale della loro famiglia. Sostenere che possano avere interesse a perdere un genitore (dunque a perdere il diritto ad essere mantenuto, educato, a ereditare..), salvo successiva ed eventuale adozione, è francamente paradossale, posto che non v’è peraltro alcuna possibilità di riconoscere una relazione genitoriale con la partoriente (avendo esercitato il diritto di non riconoscere il bambino alla nascita). L’approccio delle Sezioni unite è dunque sicuramente in danno del bambino e finisce, paradossalmente, col favorire condotte giustamente ritenute abominevoli: i casi di «rifiuto del neonato da parte dei committenti a causa della presenza di malformazioni fisiche» riferiti nel contributo di Paladini (un caso è avvenuto in Tailandia nel 2013) sono resi possibili proprio dall’assenza di regole. L’indirizzo delle Sezione unite, muovendo da un intento punitivo nei confronti dei genitori, incredibilmente non li inchioda alla loro responsabilità, consentendo loro di scomparire dalla vita del bambino, non proponendo la domanda di adozione. Tale indirizzo non è imposto da alcuna disposizione di legge, poiché l’art. 12 comma sesto della l. 40/2004 nulla dice a proposito dello status dei nati. I principi generali ricavabili dalla stessa l. 40/2004 ci dovrebbero condurre, invece, proprio alla soluzione opposta, posto che lo stesso legislatore che aveva imposto il divieto (incostituzionale) di pma eterologa faceva comunque salvo lo status dei bimbi nati in sua violazione. La ratio, già allora, si fondava su una distinzione fra giudizio, a monte, sulle condotte degli adulti e salvaguardia, a valle, del concreto interesse del bambino. La stessa sentenza 272/2017 della Corte costituzionale non conduce affatto, come ritenuto dalle Sezioni unite, ad un divieto generale e astratto, ma dichiara che la norma (nella specie l’art. 263 c.c.) è legittima soltanto nella misura in cui consente la valutazione in concreto dell’interesse del minore a mantenere i due genitori indicati nell’atto di nascita.
Mauro Paladini La gradita opportunità di partecipazione a questo forum mi consente di offrire il mio umile contributo critico rispetto ai più importanti argomenti solitamente addotti in favore dell’opportunità di regolamentazione legislativa della gestazione per altri e dell’automatico riconoscimento della relazione di status tra genitori intenzionali e figli non biologici.
A) In primo luogo, ritengo di dover dissentire, rispettosamente ma fermamente, dalla tesi secondo cui il nostro ordinamento riconoscerebbe un presunto “diritto alla genitorialità, …espressione del diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo”, il cui inevitabile corollario consisterebbe nella “possibilità di avere una discendenza biologica o affettiva a prescindere dalla effettiva capacità di generare e dall’instaurazione di legami affettivi con chi, eventualmente, ha scelto di condividerne il progetto procreativo”.
Non riesco a rinvenire, invero, nella giurisprudenza costituzionale affermazioni tanto assolute quanto perentorie: basti richiamare, tra le altre, le argomentazioni della sentenza n. 221 del 2019, nella quale la scelta “restrittiva” della legge n. 40/2004 nei riguardi dell’accesso alle tecniche di PMA è ritenuta costituzionalmente legittima, escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità”, alternativa ed equivalente al concepimento naturale e lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. Ed anche con riferimento al parametro dell’art. 32 Cost., chiaramente il Giudice delle leggi afferma che «La tutela costituzionale della “salute” non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione» (C. Cost. n. 221/19).
Del resto, se davvero l’aspirazione alla genitorialità trovasse il proprio fondamento nel diritto allo sviluppo della personalità (art. 2 Cost.), non soltanto l’intera gamma delle previsioni della legge n. 40/2004 – che disciplinano l’accesso alle tecniche di PMA esclusivamente come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile – ma anche larga parte della disciplina dell’adozione (a partire dalla valutazione di idoneità degli aspiranti genitori fino alla previsione di un limite alla differenza di età tra adottanti e adottato) dovrebbe patire l’inesorabile scure dell’incostituzionalità.
B) Ciò posto, si tratta di valutare se la GPA possa essere ammessa sia pur nel ristretto ambito dei rimedi alla sterilità o all’infertilità, che aveva condotto a suo tempo la Corte Costituzionale a ritenere illegittimo il divieto di fecondazione eterologa (sent. n. 162/2014), oppure se comunque tale tecnica si ponga in irrimediabile contrasto – come ho tentato di argomentare nella prima opinion – con il principio di dignità della donna.
Sul punto, non credo che possano spendersi parole più appassionate e persuasive di quelle espresse dalla Presidente Luccioli, che mi sento personalmente di sottoscrivere integralmente e alle quali mi permetterei di rinviare. Invece, non condivido l’affermazione del Giudice Gattuso, secondo cui non vi è dignità senza autodeterminazione: l’esperienza ci propone innumerevoli esempi di relazioni umane, nelle quali il valore della persona prescinde da una scelta, e lo stesso soggetto umano – come ha affermato un filosofo laico come Pietro Piovani – è un “volente non volutosi”. Senza indulgere, tuttavia, al piano della filosofia morale o alla contrapposizione tra concezione oggettiva e soggettiva della dignità, resta il fatto che, nella surrogazione di maternità, si è costretti a constatare l’obiettiva strumentalizzazione del corpo della donna alla realizzazione di un desiderio altrui e nessuna norma di legge potrà mai garantire che – anche in difetto di mercificazione onerosa della gestazione (sulla quale il dissenso pressoché unanime di questi discussant si contrappone all’orrendo dilagare del fenomeno in gran parte del mondo) – la rete dei condizionamenti familiari e i sensi di colpa verso persone a cui la donna è affettivamente legata in modo profondo rendano davvero “libera” e consapevolmente autodeterminata la scelta della gravidanza per conto altrui.
Della difficoltà di tutelare la libertà di scelta della donna si fa carico, peraltro, la stessa proposta di legge di Articolo 29, nella quale – oltre ad ammettersi la GPA onerosa nella parte in cui si prevede, nel contenuto del “patto di gravidanza”, il diritto della gestante a “compensi” – si riconosce il “diritto di ripensamento” da parte della donna in gravidanza, ma si tace, invece, sull’eventuale ripensamento successivo alla nascita e sul problema, che mi permettevo di sollevare nel mio primo intervento, della possibile (e terribile) “esecuzione forzata per consegna” del neonato in favore dei committenti.
Altro aspetto (tra i tanti, invero) che lascia notevolmente perplessi nella proposta di legge è il difficile coordinamento tra i diritti dei genitori “intenzionali”, come tali riconosciuti per effetto del “patto di gravidanza”, e il diritto della madre biologica a «instaurare e conservare una relazione significativa di natura familiare, ivi compreso il reciproco diritto di visita», con il conseguente potere del giudice di adottare, in caso di conflitti, «i provvedimenti opportuni nell’interesse del minore, applicando, in quanto compatibile, l’art. 337 ter cod. civ.»: l’applicazione di tale norma, si traduce, infatti, nel riconoscimento legislativo della potenziale proliferazione di figure genitoriali aventi ciascuna diritto a un’innaturale e affettivamente deleteria parcellizzazione dei tempi di permanenza e di relazione col minore.
C) Si tratta di valutare, poi, se l’esigenza o la necessità di legiferare in materia di GPA costituisca un’alternativa preferibile al “disinteresse” verso la scelta per siffatta modalità riproduttiva, che sia compiuta all’estero in quei paesi nei quali la GPA, in tutto o in parte, è ammessa. Invero, l’opzione proibitiva, compiuta dall’ordinamento italiano, non equivale a disinteresse, ma rappresenta l’adesione a una concezione della famiglia e delle relazioni genitoriali che, oltre a trovare fondamento nella Carta Costituzionale, è del tutto diversa, per tradizione storica e culturale, da quella degli ordinamenti che hanno preferito una soluzione liberale e permissiva. Inoltre, la scientificità degli studi sull’assenza di effetti negativi sulla salute psico-fisica delle gestanti, dei genitori committenti e dei bambini è oggetto di accesa critica nell’ambito della comunità scientifica, sicché l’adozione di un principio di precauzione in una materia così delicata è maggiormente funzionale all’interesse delle future generazioni.
D) Infine, vi è il problema di difficile soluzione della tutela dei diritti dei bambini nati all’estero mediante GPA. Non mi sento di condividere l’argomento (che definirei rispettosamente “suggestivo”) della similitudine coi figli incestuosi, utilizzato al fine di giustificare, anche nel caso di maternità surrogata, l’automatico riconoscimento dello status di filiazione in nome del presunto interesse del minore. Si tratta di situazioni, invero, del tutto diverse: nella relazione genitoriale incestuosa è presente un legame biologico, che nella maternità surrogata è, invece, assente. Inoltre, pur trattandosi in entrambi i casi di violazione di divieti penalmente sanzionati, credo che si possa convenire sul fatto che la condotta di chi commette incesto – spesso in contesti socialmente degradati, con un atto sessuale compulsivo od occasionale – non possa essere paragonata a quella del turista procreativo, che decide di trasgredire, forte delle proprie risorse economiche, per soddisfare un’aspirazione genitoriale che, come si è visto, è del tutto priva di fondamento costituzionale.
Al contrario, possono sorgere fondati dubbi sull’idoneità genitoriale di chi si sottragga scientemente al rispetto della norma penale, specie ove si ponga il raffronto – in tal caso, direi, del tutto opportuno – con chi intraprenda il difficile percorso dell’adozione interna o estera. Occorre chiedersi, cioè, per quale motivo la filiazione adottiva richieda una scrupolosa valutazione dell’idoneità psico-affettiva dei futuri genitori, mentre la filiazione per gestazione surrogata, per quanto frutto di una condotta penalmente sanzionata, dovrebbe condurre al riconoscimento automatico dello status. Non vi è, in definitiva, alcuna certezza che l’interesse del minore coincida in ogni caso con l’instaurazione di un rapporto genitoriale legale con i committenti della gestazione surrogata.
Non v’è dubbio che, rispetto a questo problema, non si possa fornire una soluzione unica e netta, e che certamente occorra distinguere tra le molteplici ipotesi di violazione del divieto: (a) quella caratterizzata da totale estraneità genetica dei committenti da quella in cui sia presente la componente genetica di uno o di entrambi; (b) l’ipotesi della gestazione onerosa (invero, quella di gran lunga prevalente, nel caso di turismo procreativo) dal caso della gestazione “solidale” condotta da parente di uno dei committenti che risieda all’estero; (c) l’ipotesi, infine, della consolidazione temporale del rapporto di genitorialità “di fatto” da quella dell’accertamento precoce della condotta penalmente rilevante.
Personalmente ritengo che la disciplina di tali differenti situazioni debba spettare unicamente al legislatore e non possa essere in alcun modo soddisfacente il ricorso suppletivo all’art. 44, lett. d, legge n. 184/1983, che si presta – oltre che a una tecnicamente inesatta applicazione della norma – anche all’indiscriminata varietà delle soluzioni giurisprudenziali dei casi concreti. Un richiamo in tal senso proviene dalla stessa Corte Costituzionale, la quale – nel comunicato del 20 ottobre 2020 – ha annunciato la decisione sulla questione di legittimità costituzionale riguardante la possibilità di riconoscere il rapporto di filiazione nei confronti di due donne unite civilmente rispetto al figlio concepito all’estero, mediante tecniche di fecondazione eterologa, e poi nato in Italia da una di esse, stabilendo espressamente che «il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta madre intenzionale - all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente - non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale».
***
E’ molto difficile fare una sintesi della ricchezza dei contenuti che ci sono stati offerti ed è doveroso ringraziare i nostri discussant per l’impegno nella ricostruzione e nell’accurata analisi di un problema così complesso. Alcune considerazioni possono però farsi. Sono state ben illustrate le ragioni per le quali la tutela dell’interesse del minore dovrebbe tener conto delle modalità irregolari che hanno portato alla sua nascita; secondo questa tesi sarebbe più opportuno che vi sia il vaglio preventivo del giudice e quindi una richiesta di adozione da parte del genitore intenzionale che non ha legame biologico con il minore. Tuttavia resta l’impressione che questa sia una sanzione indiretta per gli adulti che ricorrono a questa pratica. A me pare che l’art. 8 della legge 40/2004, letto unitamente all’art. 9 della stessa legge e nel contesto delle norme sulla filiazione, non possa lasciare dubbi sulla scelta di fondo già operata dal legislatore e che non può esser rinnegata: chi con il proprio comportamento, volontario o meno, sia esso un atto procreativo che un contratto, lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”. Il legame biologico potrebbe essere un falso mito: se l’adulto non è un buon genitore, sia esso biologico, adottivo o intenzionale, la legge prevede la limitazione o la decadenza dalla responsabilità genitoriale. Il comportamento di chi ricorre ad una pratica illecita per assicurarsi un bambino ad ogni costo potrebbe essere indicativo di scarsa capacità genitoriale: ma in tal caso si può immaginare un controllo mirato da parte da parte del Tribunale per i minorenni, non una limitazione dei diritti del bambino. Sul divieto di surrogacy mi pare invece che la scelta sia meno giuridica e più etica: e ciò dipende anche dalla fiducia che ciascuno di noi ripone nella capacità dei sistemi liberali o liberistici di autoregolarsi in maniera virtuosa; ciò ammettendo che un sistema liberistico sia finalizzato al perseguimento del bene comune. Da questo punto di vista mi sembra che il nostro sistema sia invece fortemente improntato all’idea che l’ordinamento deve promuovere comportamenti virtuosi o assiologici, in particolare quelli che tutelano i più deboli. E quindi pur immaginando che ci possano essere scelte “virtuose” anche in tema di surrogacy, si deve realisticamente ammettere che le fasce deboli, peraltro in uno scenario economico in questo momento particolarmente critico, soccomberebbero a pratiche meno degne e che, per tutelare loro, al momento non c’è altra scelta che quella del divieto. E infine il bambino: esiste un diritto a non subire la scissione tra la propria identità biologica e l’identità giuridica? Sembra di no, almeno se la pratica da cui origina questa scissione è lecita. Ma esiste pur sempre un diritto alla ricerca delle proprie origini, il che è impossibile da attuare se la pratica a cui si è fatto ricorso non è lecita o non consente di ricostruire i passaggi della propria identità biologica.
Decreto legge Ristori. Cosa cambia nei processi civili.
di Franco Caroleo
È passato meno di un mese (il d.l. n. 125/2020 è del 7 ottobre) ed ecco un altro decreto-legge (n. 137/2020) che interviene sul comparto giustizia.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”. (20G00166) (GU Serie Generale n. 269 del 28 ottobre 2020)
Le norme riguardanti il processo civile
- art. 4;
- art. 23, co. 3;
- art. 23, co. 6;
- art. 23, co. 7;
- art. 23, co. 9.
La sospensione delle procedure esecutive immobiliari nella prima casa
L’art. 4 prevede una proroga della sospensione delle procedure esecutive per il pignoramento immobiliare, prevista all’articolo 54-ter, comma 1, d.l. n. 18/2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), fino al 31 dicembre 2020.
La norma dispone inoltre l’inefficacia di ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare, di cui all’articolo 555 c.p.c., che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore, effettuata dal 25 ottobre 2020 alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 137.
Udienze a porte chiuse
L’art. 23, co. 3 consente di disporre che le udienze pubbliche dei procedimenti civili si celebrino a porte chiuse, ai sensi dell’art. 128 c.p.c.
La norma si pone in stretta continuità con la precedenti disposizioni emergenziali di cui agli artt. 2, comma 2, lettera e), d.l. n. 11/2020 e 83, comma 7, lett. e), d.l. n. 18/2020.
Le separazioni consensuali e i divorzi congiunti a trattazione scritta
L’art. 23, co. 6, consente al giudice di disporre che le udienze civili in materia di separazione consensuale ex art. 711 c.p.c. e di divorzio congiunto ex art. 9 l. n. 898/1970 siano sostituite dal deposito telematico di note scritte di cui all’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77), nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente con comunicazione, depositata almeno quindici giorni prima dell’udienza, nella quale dichiarano di essere a conoscenza delle norme processuali che prevedono la partecipazione all’udienza, di aver aderito liberamente alla possibilità di rinunciare alla partecipazione all’udienza, di confermare le conclusioni rassegnate nel ricorso e, nei giudizi di separazione e divorzio, di non volersi conciliare.
La norma in commento prevede quindi un’evidente deroga alla disciplina della trattazione scritta regolata dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020 (ma solo per le cause che non richiedono la presenza necessaria, per legge o ordine del giudice, di soggetti diversi dai difensori delle parti), ammettendo che possa farsi ricorso a tale modalità alternativa di trattazione anche nei procedimenti di separazione consensuale e divorzio congiunto (per i quali è richiesta dalla legge la comparizione personale delle parti, e che senza deroga non sarebbero potuto rientrare nello spettro applicativo dell’art. 221, co. 4).
A questo fine, è però necessario che le parti esprimano una rinuncia espressa al diritto a partecipare all’udienza nelle forme e nei termini prescritti dal menzionato art. 23, co. 6.
L’udienza da remoto e il giudice collegato anche fuori dall’ufficio giudiziario
L’art. 23, co. 7, prevede che, in deroga al disposto 221, co. 7, d.l. n. 34/2020, il giudice possa partecipare all’udienza con collegamento a distanza (cd. “udienza Teams”) anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario.
La norma sembra riportare una certa armonia regolamentare sia in relazione al regime dell’udienza trattazione scritta (per il quale non è prescritto alcun obbligo per il magistrato di iurisdicere presso gli uffici del tribunale) sia in relazione a quanto previsto per l’udienza da remoto nel processo amministrativo (in cui, in base all’art. 4, co. 1, d.l. n. 28/2020, tuttora in vigore e prorogato dal d.l. in commento, “Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge”).
La camera di consiglio collegiale da remoto
L’art. 23, co. 9, prevede che nei procedimenti civili davanti ad organi collegiali le deliberazioni in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia.
In questo caso, il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge.
La proroga delle disposizioni dell’art. 221 d.l. n. 34/2020 (trattazione scritta e udienza da remoto)
L’art. 23, co. 1, del d.l. n. 137/2020 dispone che “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9. Resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”.
La formulazione della norma lascia parecchio a desiderare.
Il solo tenore letterale impedisce di comprendere se si sia voluto prospettare una proroga al 31 gennaio 2021 (termine previsto dall’art. 1 d.l. n. 19/2020) anche per le disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020, in particolare quelle riguardanti l’udienza a trattazione scritta e l’udienza con collegamento da remoto.
Qui di seguito proviamo ad offrire alcuni spunti a favore della tesi di questa proroga allargata:
a) i commi 6 (trattazione scritta per separazioni consensuali e divorzi congiunti) e 7 (udienza con collegamento da remoto per il giudice connesso anche da luogo diverso dall’ufficio giudiziario) dell’art. 23 d.l. n. 137/2020 prevedono delle deroghe ai commi 4 e 7 dell’art. 221 d.l. n. 34/2020; dette deroghe, per espressa previsione dell’art. 23, co. 1, primo periodo, sono applicabili fino al 31.1.2021; ora, come potrebbe ammettersi l’operatività di una norma derogante oltre il tempo di vigenza della norma derogata? Ragionando altrimenti: a partire dall’1.1.2021, quali regole dovrebbero seguirsi se per la trattazione scritta delle separazioni consensuali se il comma 6 dell’art. 23 rimanda alla disciplina dell’art. 221, co. 4, la cui validità a quel tempo risulterebbe spirata? Allo stesso modo, a gennaio 2021, a quale udienza da remoto potrebbe partecipare il giudice del comma 7 dell’art. 23 se già il 31.12.2020 l’udienza ex art. 221, co. 7, perdesse operatività? Se ne dovrebbe dedurre, dunque, che anche le norme derogate (ossia le disposizioni di cui all’art. 221) rimangano in vigore fino al nuovo termine del 31.1.2020;
b) che le deroghe alle disposizioni dell’art. 221 sottendano una proroga delle medesime disposizioni lo si può evincere anche dalla formulazione del successivo art. 24, co. 1, d.l. n. 137/2020 riguardante il deposito telematico di memorie, documenti, richieste ed istanze indicate dall’articolo 415-bis, comma 3, c.p.p., il quale dispone espressamente: “In deroga a quanto prevista dall'articolo 221, comma 11, del decreto-legge n. 34 del 2020 convertito con modificazioni dalla legge 77 del 2020, fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19”; dunque, il riferimento al termine finale del 31.1.2020 non può che valere anche per la norma interessata dalla deroga;
c) non può sottacersi poi la stretta correlazione del secondo periodo del primo comma (“Resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221 ...”) con il primo (“Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla scadenza del termine di cui all'articolo 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 …”); il legislatore specifica come “Resta ferma” la disciplina del predetto art. 221, immediatamente dopo aver sancito la proroga al 31.1.2020; in questo senso, l’applicazione delle disposizioni dell’art. 221, ove non derogate dal d.l. n. 137/2020, resta ferma ma troverebbe nuova linfa temporale in quanto previsto nel primo periodo (che si aggancia al termine emergenziale del 31.1.2021);
d) il secondo periodo del primo comma dell’art. 23 (“Resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 …”), per come è formulato, disvela uno scopo di sistema volto a prevenire eventuali conflitti (anche solo interpretativi) tra normative emergenziali; l’intenzione del legislatore sembra essere quella di chiarire che le misure prese in forza dell’art. 23, salvo per le deroghe espresse, non travolgono l’efficacia della disciplina scaturente dall’art. 221: l’attività giurisdizionale nella vigenza dell’emergenza epidemiologica (così è rubricato l’art. 23 in commento) prosegue in base ai dettami dell’art. 221, ma con l’aggiunta degli accorgimenti di cui al nuovo art. 23; a riprova di ciò, nella relazione illustrativa al d.l. n. 137/2020 si evidenzia che con l’art. 23 “si è, in primo luogo, definito l'ambito temporale dell'intervento, raccordandolo a quello fissato dall'articolo 1 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, per lo stato di emergenza. Inoltre, nello stesso articolo 1 si è precisato che l'intervento in esame non sostituisce, ma si coordina con quello previsto dall'articolo 221, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77”; in tal senso, l’art. 221 (che non viene intaccato nelle sue disposizioni processuali) vedrebbe la sua cogenza temporale attratta (per effetto di “trascinamento”) in quella elaborata nel primo periodo del primo comma dell’art. 23;
e) a rimarcare che con l’art. 23 si intenda riunire tutte le norme processuali dell’emergenza in un unico corpus, soggiacente quindi alla medesima disciplina temporale, c’è il comma 10 che estende ai procedimenti relativi agli arbitrati rituali e alla magistratura militare le disposizioni dei commi precedenti “nonché quelle di cui all’articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34”;
f) i successivi articoli del d.l. n. 137/2020, attinenti al processo amministrativo (art. 25), al processo contabile (art. 26) e al processo tributario (art. 27) prevedono tutti una proroga delle disposizioni processuali emergenziali al 31.1.2021 o, comunque, “fino alla cessazione degli effetti della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale da Covid-19”; emerge così palesemente la ratio del nuovo decreto-legge di ancorare al termine dello stato di emergenza l’operatività di tutte le misure processuali fin qui elaborate per far fronte alla pandemia; che solo il processo civile dell’emergenza sia stato escluso da questo regime prorogativo convince poco.
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