ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Costituzione gode di ottima salute, ma occorre ancora pienamente attuarla!
Intervista di Roberto Conti a Lorenza Carlassare
Il 27 dicembre 1947 veniva promulgata la Costituzione della Repubblica italiana. A pochi giorni da quella ricorrenza abbiamo avuto l'onore di intervistare la Professoressa Lorenza Carlassare.
Risposte immediate, nette, a volte lapidarie che descrivono alcuni dei tratti della vastissima attività svolta dalla studiosa e docente accademica nelle Università, ma anche nella vita politica del nostro Paese.
Esse scolpiscono lo stato di salute della Carta costituzionale, il suo ruolo nei momenti emergenziali, il ruolo dei suoi interpreti, dell'interpretazione costituzionalmente orientata e della coscienza sociale nel processo di emersione dei diritti fondamentali, le evoluzioni anche recenti manifestatesi sulle tecniche decisorie nel giudizio di costituzionalità.
Nel quadro confortante tracciato dalla Carlassare non manca, comunque, l'invito a rendere sempre più chiara, anche alle giovani generazioni, l'importanza della Costituzione, a spiegarne in modo accessibile i contenuti e le matrici ideologiche, a proseguire l'impegno, a più di settant'anni dalla promulgazione della Costituzione, verso la piena attuazione dei valori più significativi (dignità della persona, cultura, ambiente, eguaglianza e solidarietà), solo in tal modo potendosi contrastare l'avanzata dei falsi idoli del profitto, del mercato e dei suoi "valori".
Non resta che ricordare la "invincibile contrarietà a ricoprire posizioni di potere" che anche in questa occasione Lorenza Carlassare ha inteso sottolineare come uno dei tratti significativi della sua esperienza professionale, monito ed esempio illuminato per le generazioni presenti e future.
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Professoressa Carlassare, prima donna a ricoprire una cattedra di diritto costituzionale in Italia. Ne avvertì l’eccezionalità? Il suo essere donna crede abbia inciso in qualche maniera sul suo percorso professionale? E se sì in termini positivi o negativi? E oggi la dimensione di genere nel suo mondo in che termini si può declinare?
Il fatto che, nella metà degli anni settanta, io sia stata la prima donna a ricoprire una cattedra di diritto costituzionale ben dimostra l’arretratezza e la chiusura del mondo accademico. Fu, allora, un fatto eccezionale e isolato. Infatti, poi, prima che altre donne si aggiungessero a me dovettero passare ancora molti anni durante i quali rimasi sola in un mondo esclusivamente maschile. Un mondo nel quale, in verità, mi trovavo abbastanza bene: come studiosa ero apprezzata dai colleghi con i quali ho sempre avuto rapporti cordialissimi di reciproca stima e spesso di vera amicizia. Sembra un paradosso: evidentemente l’arretratezza non era nei singoli studiosi, ma nei meccanismi del mondo accademico di allora. Essere donna ha inciso negativamente e in maniera fortissima sul mio percorso: ho vinto il concorso a cattedra con un ritardo di almeno un decennio rispetto ai colleghi! Nell’imbarazzo generale per l’anomala situazione, solo Giuseppe Ferrari, illustre studioso e giudice costituzionale, ebbe la sincerità di esporre chiaramente la ragione per cui nonostante la stima generale ero lasciata indietro: il mio ingresso avrebbe rotto un argine che reggeva da secoli, con quali conseguenze? Le conseguenza non furono immediate, però alla fine arrivarono: dopo un certo tempo il numero delle costituzionaliste crebbe velocemente tanto che oggi non sarebbe più possibile dire che nel nostro settore le donne siano discriminate.
I recenti importanti traguardi delle donne nelle istituzioni (la Professoressa Polimeni, prima donna rettrice alla Sapienza, la Prof.ssa Cartabia Presidente della Corte Costituzionale, l’Avvocata Kamala Harris appena nominata Vice Presidente degli Stati Uniti) quali trasformazioni nel funzionamento delle stesse istituzioni hanno comportato e potranno determinare nel prossimo futuro?
Sebbene i traguardi raggiunti dalle donne nelle istituzioni siano notevoli, non si può ancora parlare di parità tranne che in alcuni settori, certamente importanti come la Magistratura non nelle istituzioni politiche dove il cammino non solo è stato lungo e irto di difficoltà, ma rimane incompiuto. Ho scritto molto sul diritto delle donne ad aver una possibilità effettiva di essere elette, contro l’atteggiamento dei partiti che non le inserivano nelle liste escludendole così di fatto dalle sedi della rappresentanza. Parlavo allora di una democrazia dimidiata, difendendo fortemente le leggi emanate per facilitare una reale inclusione. La mia speranza era che la presenza delle donne avrebbe portato a un radicale mutamento della prassi politica, a novità sostanziali, a una maggior attenzione per valori fondamentali quali la pace e la solidarietà sociale. Ma non è stato proprio così: le politiche italiane, a parte qualche significativa eccezione, sembrano in qualche modo essere state assimilate e contagiate dalle logiche di potere che da sempre dominano i politici.
Lei ha notato dei cambiamenti nell’uso e nel rilievo della Costituzione durante il suo percorso professionale che la vede protagonista della scienza costituzionalistica italiana?
Il rilievo della Costituzione è sicuramente cresciuto, non tanto nelle istituzioni politiche, ma sicuramente nella coscienza dei cittadini che ne hanno ben compreso il valore concreto per le loro vite, il valore di fonte e baluardo dei loro diritti. Questo crescente rilievo si connette anche all’uso che finalmente i giudici hanno fatto della Costituzione, sia interpretando in senso ad essa maggiormente conforme le leggi che devono applicare in giudizio, sia talora applicando direttamente le norme costituzionali e, più spesso, rilevando nel corso di un giudizio il contrasto tra i principi costituzionali e la norma legislativa da applicare e sottoponendo la norma stessa al giudizio della Corte costituzionale, l’unico organo in grado di annullarla. L’importanza decisiva della Corte e delle sue decisioni non ha bisogno di essere sottolineata.
L’insegnamento universitario, il rapporto con gli studenti e con i colleghi, il desiderio di coinvolgere una platea vasta sul ruolo e significato della Costituzione hanno costituito la spinta alla scelta di dedicare una pubblicazione alle Conversazioni sulla Costituzione, preconizzando le aperture recenti della Corte costituzionale alla società civile? Che suggerimento si sentirebbe di dare ai suoi colleghi per rendere sempre viva e vitale agli occhi delle nuove generazioni la nostra Costituzione? Come attirare gli studenti ad una comprensione sempre più approfondita della Costituzione, alla luce della sua pluriennale esperienza maturata nelle aule universitarie?
In Italia, purtroppo, la Costituzione non è sufficientemente conosciuta. Persino persone di buona cultura praticamente la ignorano o ne hanno un’idea assolutamente superficiale. Conoscerla è fondamentale per il corretto funzionamento di un sistema democratico nel quale i cittadini devono partecipare in maniera cosciente. Mi piace ricordare (e lo faccio spesso) quel che diceva Giuseppe Compagnoni alla fine del ’700 nel suo “Elementi di diritto costituzionale democratico”: “ L’ignoranza è l’appannaggio del popolo schiavo, la scienza del libero” . E la scienza del popolo libero è prima di tutto quella” dei suoi Diritti, della sua Costituzione, del suo Governo, delle Funzioni de’ suoi Magistrati, delle sue relazioni con gli altri popoli”.
Cosa fare per interessare le giovani generazioni? Far comprendere loro il valore concreto della Costituzione nei rapporti quotidiani (dalla scuola, alla famiglia, all’ambiente, alla cultura, al lavoro); evocare con forza i principi e i valori della Costituzione non trascurando di collegarli alle ideologie che li hanno generati, alle speranze che muovono la storia.
Lei è stata fra l'altro co-protagonista di una stagione in cui il Parlamento aveva ritenuto opportuno pensare ad alcune modifiche del sistema costituzionale, partecipando alla commissione dei saggi dalla quale uscì traumaticamente. E di recente ha espresso posizioni nette sulle riforme costituzionali degli ultimi anni. Coma sta, dunque, a suo giudizio, in salute la Costituzione?
Mi sono sempre opposta a modifiche della Costituzione che tendevano a scardinare i principi dello Stato di diritto, in primo luogo la divisione dei poteri, intaccando il delicato sistema di equilibri tra i diversi poteri dello Stato, sacrificando la ‘rappresentanza’ alla cosiddetta ‘governabilità’ concentrando il potere nell’esecutivo. Riforme espressione di una tendenza autoritaria, diretta anche ad esaltare la figura del ‘Capo’ per farlo diventare il vero e unico centro del potere. Fortunatamente i cittadini hanno compreso il pericolo che si celava dietro quelle proposte di riforma e, per ben due volte, le hanno bocciate attraverso il referendum. In verità la Costituzione gode di ottima salute, eventualmente possono giovarle piccoli e puntuali ritocchi.
E la Costituzione in tempo di crisi pandemica? Ha dato buona prova di sé? I suoi “giudici naturali” – costituzionali e comuni – che ruolo hanno svolto o potevano – o avrebbero potuto – svolgere rispetto all’alluvionale disciplina dell’emergenza adottata? È mancato, secondo Lei, qualcosa in termini di effettività delle tutele di matrice costituzionale o era prevedibile che il controllo di legalità affidato alla giustizia non avrebbe potuto modificare in modo significativo le scelte di politica adottate in una situazione di emergenza?
L’emergenza porta inevitabilmente con sé condizioni particolari nei rapporti politico-costituzionali e incide principalmente sulle fonti di produzione del diritto. Che in questo periodo l’emergenza ci sia stata e ci sia tuttora, dovrebbe esse chiaro a tutti. Quando l’urgenza preme e si rischia di mettere in pericolo beni essenziali della comunità ritardando l’adozione di misure indispensabili, è chiaro che queste devono essere adottate con gli strumenti più celeri. E’ altrettanto ovvio che, appena le situazioni straordinarie cessano, il sistema deve immediatamente ritornare ai procedimenti ordinari: a garantirlo stanno i controlli giurisdizionali e ,in primo luogo, il controllo della Corte costituzionale.
La forte compressione che alcuni diritti hanno subito in tempo di Covid 19 è stata realizzata cercando di contemperare, da parte dei decisori politici, il diritto alla salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, con altri valori che, pur ritenuti fondamentali, hanno ceduto il passo, spesso in nome di un (supposto) primato del diritto alla vita ed alla salute. Da costituzionalista come valuta la tenuta delle istituzioni repubblicane rispetto all’uso massiccio dei DPCM (e delle ordinanze adottate in ambito locale) in questo periodo di pandemia?
Il bilanciamento fra principi costituzionali non è soltanto consentito ma è sempre indispensabile anche in periodi assolutamente normali. La giurisprudenza della Corte costituzionale è chiara in proposito.
La crisi pandemica ha, secondo Lei, messo a nudo l’esigenza di un ripensamento generale degli orientamenti giurisprudenziali incentrati sulla protezione dei diritti, magari in nome della vocazione fortemente solidaristica della Costituzione? È quest’ultimo un orientamento che condivide?
Non vedo una particolare necessità di ripensamento degli orientamenti giurisprudenziali in tema di protezione dei diritti. Tutti i diritti garantiti in Costituzione devono essere tutelati, i diritti civili e politici, così come i diritti sociali che, certamente, sono stati quelli la cui fruizione non si è mai effettivamente realizzata: sono infatti diritti che ‘costano’. La Corte costituzionale, negli ultimi tempi (2016 e 2017) si è pronunziata in modo chiaro e deciso sulla illegittimità di scelte legislative che sacrificano i diritti sociali in nome di esigenze di bilancio in un sistema come il nostro che ha tra i principi fondamentali la ‘solidarietà’: “È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” si legge nella sentenza n. 275 del dicembre 2016. Un periodo di grosso fermento sta attraversando la giustizia costituzionale. Dalle sentenze-monito alla inusuale tecnica inaugurata nel caso Cappato, risultante da una decisione in due tempi, con il conseguente passaggio dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti” (D. Tega). Cosa sta succedendo nella giustizia costituzionale? Rigurgito di riaccentramento della giustizia costituzionale – come si è fatto da molti notare –, l’affermazione di forme dapprima sconosciute di “suprematismo giudiziario” (A. Morrone) o semplicemente di nuove tecniche decisorie volte al più efficace appagamento dei diritti e principi costituzionali (G. Silvestri)?
L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale è essenziale per non chiudere il sistema: nuove tecniche decisorie per realizzare più efficacemente diritti e principi costituzionali sono un segno di vitalità.
Veniamo alla Costituzione ed i suoi giudici. Quale bilancio si sentirebbe di stilare dopo più di 70 anni dal varo della Costituzione? Guerra, cooperazione, dialogo o cos’altro?
La Costituzione e i suoi giudici: dopo 70 anni mi sembra si possa parlare di un bilancio positivo.
Tanto più la Costituzione si apre alla conoscenza di diversi interpreti, quanto più essa mostra il suo carattere plurale, con la conseguenza che sul significato delle disposizioni dedicate ai diritti ed ai principi fondamentali si riscontrano spesso orientamenti fortemente divaricati. Questo indebolisce o rafforza il ruolo della Carta?
L’esistenza di interpretazioni diverse delle disposizioni costituzionali è normale: solo l’interpretazione autentica ( che interpretazione non è perché proviene dal legislatore ) può essere ‘unica’. Non è pensabile il funzionamento di un sistema giuridico senza interpretazione. Senza interpretazione le disposizioni non vivono, non significano nulla. Il pluralismo è sempre vitale. La Corte può avere un ruolo significativo nel far prevalere l’una o l’altra delle interpretazioni possibili.
Eliminare il termine razza dalla Carta costituzionale le sembra opportuno?
Non mi sembra opportuno eliminare il termine ‘razza’ dal testo costituzionale, anzi lo ritengo pericoloso perché il suo significato si è consolidato e ci consente di comprendere con sufficiente chiarezza cosa la Costituzione vuole vietare. La modifica dell’art.3 mi è sempre sembrata velleitaria e superficiale: lasciamo un vuoto di tutela o cerchiamo un’altra parola da mettere al suo posto ? Proprio perché ha assunto nel linguaggio ‘fascista’ un significato terribile e odioso il termine ‘razza’ va lasciata con tutto il peso di cui l’ha caricato la storia.
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Mario Rosario Morelli, in una recente intervista, ha dichiarato che i diritti fondamentali sono anche quelli percepiti come tali nell’evoluzione della coscienza sociale, ricordando che sulla doppia genitorialità omosessuale la Corte costituzionale ha di recente ritenuto che non vi sia ancora nella collettività un idem sentire. Condivide questa impostazione che affida al corpo sociale ed alla “coscienza sociale” un ruolo fondamentale nella selezione dei bisogni fondamentali? Quanto questa prospettiva si coniuga con il canone tradizionale della certezza del diritto?
Siamo anche qui nel campo dell’interpretazione che – come già dicevo – può evolversi nel tempo anche in relazione all’evoluzione della coscienza sociale. È in una specifica società che le norme devono essere applicate e non possono essere del tutto estranee al contesto storico nel quale sono destinate ad operare: certezza del diritto non può significare immobilità del sistema.
Morte dignitosa e art. 32 Cost. Qual è oggi il rapporto fra diritto all’autodeterminazione e salute dopo i noti interventi della Corte costituzionale. E quali sono secondo Lei le prospettive per il legislatore?
L’art. 32 della Costituzione è estremamente chiaro sulla libertà delle cure, l’inesistenza del dovere di curarsi, il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari e l’incostituzionalità di una legge che li imponga quando non sia in gioco la salvaguardia dei terzi ( “l’interesse della comunità”). La persona, la sua dignità e libertà, sono valori non discutibili, non soltanto perché espressi nell’art. 32, ma perché costituiscono il nucleo attorno al quale l’intera Costituzione è costruita. E sono valori comuni e condivisi: vale la pena ricordare le parole di un Papa, Paolo VI ,sul dovere del medico di adoperarsi a “calmare la sofferenza invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo, e a qualunque condizione una vita che non è più pienamente umana e va naturalmente verso la conclusione”. L’autodeterminazione, quando si parla di salute, è la regola : la prospettiva del legislatore non può che essere quella di adeguarsi ai principi.
Essere socia dell’Accademia dei Lincei. Si sente di ricordare il tempo di quello straordinario riconoscimento alla sua professionalità?
Essere socia dell’Accademia dei Lincei è per me un onore; quando ne ho avuto notizia è stato un grande piacere.
Svegliarsi e sentire che un movimento politico l’aveva indicata come candidata all’elezione a Presidente della Repubblica che sensazioni le ha provocato?
Nessun piacere invece ho avuto dalla notizia di essere stata indicata come candidata all’elezione a Presidente della Repubblica. Ho chiarito subito che, a parte l’improbabilità della mia elezione, non avrei mai accettato la candidatura. E non soltanto per l’enorme responsabilità che un simile ufficio comporta e la piena coscienza di non essere adatta a ricoprirlo, ma soprattutto per la mia invincibile contrarietà a ricoprire posizioni di potere: anziché soddisfazione, mi da solo fastidio. Tanto è vero che ogni volta in cui, non essendo riuscita ad evitarle, mi sono trovata in situazioni che sfioravano anche vagamente il potere, mi sono al più presto dimessa.
Cosa possono attendersi le generazioni future dalla Costituzione? Quali valori in essa protetti richiedono, a suo avviso, di essere maggiormente considerati a beneficio delle generazioni future e dell’intera umanità?
Le generazioni future possono attendersi tutto dalla Costituzione, purché sia davvero attuata, il che dopo oltre settant’anni non è ancora avvenuto. Tra i valori che principalmente contano per una vita migliore sta certamente al primo posto il rispetto della persona umana, della sua dignità e libertà a prescindere dalla la sua condizione, dai suoi meriti e dai suoi demeriti: anche il detenuto per colpe gravissime è una persona la cui dignità va rispettata. In primo piano sta la cultura senza la quale non si può attuare il principale obiettivo della Costituzione ( art.3,comma 2) “il pieno sviluppo della persona umana”. Cultura che l’art.9 della Costituzione tutela insieme al paesaggio - nel suo valore naturale, storico e culturale - e all’ambiente dalla cui salubrità dipende la vita di tutti. L’elenco sarebbe lungo: la massima importanza, un’importanza determinante, ha l’eguaglianza non solo formale (art.3), che cambierebbe radicalmente la società, ma può essere realizzata soltanto attraverso l’attuazione dell’altro valore di fondo, la solidarietà (art.2) da porre al primo posto in sostituzione dell’ idolo orrendo che oggi tutto domina :il profitto, il mercato, i suoi cosiddetti ‘valori’.
La semplice verità di Michele Taruffo
di Andrea Apollonio e Carlo Vittorio Giabardo
In questo ultimo frammento d’anno ci ha raggiunto la notizia della scomparsa del Professor Michele Taruffo; un autentico Maestro, di quelli, per davvero, in grado di fare la differenza per chi avesse avuto l’occasione, e il privilegio, di incontrarlo sulla propria strada.
Ci lega, in particolare, un ricordo molto nitido di Michele Taruffo; lo conoscevamo, ciascuno per averlo incontrato su strade diverse: ma lo incontrammo insieme, in una fredda giornata milanese del 2015, nel suo studio, dove ci siamo messi a parlare fino a perdere la cognizione del tempo. Parlammo di diritto certo - egli stava preparando una conferenza in lingua spagnola sul ruolo della verità nella transitional justice, cioè dell’importanza sociale dell’accertamento veritiero dei fatti nei momenti successivi a una dittatura, tema poco ortodosso per un processualista, ma di fondamentale importanza nel dibattito internazionale - ma anche di vita; e discorrendo con lui ci fu evidente che, tra le due cose, non vi era opposizione, ma mutuo arricchimento. Il diritto, per Michele Taruffo, non è mai stato, nemmeno per un momento, statico formalismo, vuoto dogmatismo, ma autentica esperienza piena di complessità (declinata storicamente, comparativamente, filosoficamente, politicamente, ecc.). Poi passammo nella sua abitazione, attigua, e chiacchierammo fino a sera inoltrata assieme alla Professoressa Cristina De Maglie, moglie devota e innamorata (lo erano molto, l'uno dell'altra), incontrata tempo prima nei corridoio dell'Università di Pavia.
Lo avremmo incontrato poi altre volte (a Pavia, a Girona), ma questo piccolo grande ricordo congiunto di quella giornata, terminata con un gin-tonic, che Taruffo preparava - sotto gli occhi indulgenti della moglie - in maniera eccellente, forse troppo forte, rimane speciale.
Della figura di Michele Taruffo un aspetto in particolare non ha smesso di affascinarci: la sua enorme influenza al di fuori dai confini italiani, dall’Europa, specialmente in Spagna, all’America latina intera (dove era letteralmente osannato[1]), dagli Stati Uniti (dove aveva co-autorato, tra le altre cose, un fortunato manuale di American Civil Procedure[2]) fino, ultimamente, alla Cina (dove era stato Professore presso l’Institute of Evidence Law & Forensic Science, a Pechino), egli aveva dato un contributo fondamentale alla scienza giuridica. Cosa rarissima per un giurista italiano, e doppiamente complicata per un processualista: primo, perché già di per sé il diritto, si sa, è un campo di studio inevitabilmente connesso al proprio Paese di origine, e secondo, perché – tra tutte le materie – il diritto processuale civile, avendo a che fare (nell’immaginario collettivo, certo!) con corti nazionali e prassi giudiziali, appare quella più di altre legata al proprio contesto domestico, la meno “universalizzabile” di tutte.
Ebbene: leggere Michele Taruffo, conversare con lui, ascoltarlo, aveva la stessa funzione dell’aprire una finestra e fare entrare una ventata di aria fresca e ventosa nella stanza chiusa e appesantita del diritto (processuale civile) inteso principalmente come insieme di regole tecniche e pratiche forensi. Forse i fogli ordinati sulla scrivania ne risultano scompigliati, ma almeno si respira. I problemi ai quali egli si era dedicato erano infatti slegati dal qui e ora, ma parlavano a tutti, ai giuristi di tutte le latitudini, perché toccavano i nodi cruciali del mondo della giustizia civile. Basti pensare a un “suo” tema, tra i molti, che ci ha fatto pensare, riflettere, discutere più di altri: quello della Verità (non della verità processuale, giacché non esistono più verità, ma solo una), specialmente con riferimento al ragionamento probatorio e quindi al giudizio di fatto, alle cui infinite pieghe e ai cui infiniti risvolti epistemologici, logici, e poi anche politici, Taruffo aveva dedicato praticamente tutta la sua vita. Un tema che a noi - inizialmente, digiuni - appariva semplice, e che semplice, infatti, è – come del resto Taruffo stesso ha messo in luce nel suo assai filosofico libro La semplice verità[3]– ma che, nella sua semplicità appunto, ha aperto (e ci ha aperto) un mondo. Per noi, Taruffo era, e rimarrà, il teorico della Verità.
I temi della giustizia così trattati trascendono la dicotomia processo civile/processo penale, ed è per questo che abbiamo trovato nella Sua opera un terreno comune. Quando si parla della funzione del giudicare, del giudizio inteso come attività logica, della prova nella sua dimensione epistemica, e poi del ruolo del giudice e delle corti nella società, è chiaro che la distinzione perde di importanza (d’altronde, sia in Spagna sia in molte parti dell’America latina esiste il professore di diritto processuale senza ulteriori specificazioni, proprio a indicare l’assoluta somiglianza, se non identità, di molte delle questioni che si agitano nel processo civile e in quello penale). I suoi insegnamenti, quindi, si rivolgono tanto al processualcivilista come al processualpenalista, all’accademico tanto quanto al magistrato – anzi, forse soprattutto a quest’ultimo, chiamato direttamente a compiere quei complessissimi giudizi di fatto e di diritto, la ricostruzione dei fatti di causa e l’interpretazione e applicazione del diritto, al fine di rendere una decisione giusta (non a caso, l’ultimo libro di Taruffo, pubblicato simultaneamente nel 2020 in italiano e in spagnolo, e che tratta precisamente questi temi, si intitola Verso la decisione giusta[4]).
La sua eredità, per chi lo ha conosciuto, e certamente per noi, è quindi innanzitutto metodologica. Ci ha indicato come guardare al diritto. Fare diritto processuale (ma possiamo tranquillamente generalizzare l’affermazione: studiare qualsiasi diritto) significa guardare in alto, guardare al significato profondo delle istituzioni, della loro funzione sociale così come storicamente determinatasi alla luce di una specifica tradizione storica e all’interno di certe premesse filosofiche, che devono esser indagate, rese esplicite. Diritto, tradizione, storia, cultura, filosofia, analisi del linguaggio, scienza, epistemologia, antropologia, sociologia, sono un tutt’uno, quasi un continuum che non può, né deve, essere sminuzzato. L’ambizione enorme del Giurista (sì, con la G maiuscola) è quella di guardare sempre al tutto, e non alle singole parti (come invece fa colui che Taruffo ha polemicamente chiamato il «processualista tipico», innamorato della «microesegesi» e il cui lavoro è dominato da una «maniacale analisi del dettaglio»[5]: ed egli in questo era genuinamente, e nobilmente, a-tipico).
L’autoreferenzialità è un vizio (naturale?), forse anche una tentazione, dalla quale il giurista, nel suo lavoro quotidiano, deve però cercare di fuggire con forza. E Michele Taruffo ci ha insegnato a guardare sempre alla bigger picture, alle questioni in tutta la loro ampiezza teorica, che non conosce spazi; ad aprirsi sempre e sempre di più, non incurvarsi sulla propria confort zone, non rinchiudersi dentro lo spazio artificiale della propria disciplina, o del proprio settore, o del proprio problema: e riflettere laicamente su ciò che ci circonda, magari con un gin-tonic in mano.
[1] La grandissima e inarrestabile diffusione dell’opera di Michele Taruffo nel mondo di lingua spagnola si deve, innanzitutto, alla traduzione in castigliano, nel 2002, a cura del filosofo del diritto dell’Università di Girona Jordi Ferrer Beltrán, della sua opera La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992.
[2] G. Hazard – M. Taruffo, American Civil Procedure. An Introduction, Yale University Press, 1993.
[3] La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009.
[4] Giappichelli, 2020; la versione spagnola è Hacia la décision justa, Zela (Perù) 2020 (ma già in precedenza, ex multis, v. il suo Idee per una teoria della decisione giusta, in Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 219 ss.
[5] Taruffo, L’insegnamento accademico del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 551 ss.
Michele Taruffo
di Bruno Sassani, Bruno Capponi e Andrea Panzarola
La scomparsa di Michele Taruffo lascia un vuoto nell’ampia comunità degli studiosi del processo che si proietta ben oltre i confini italiani. La straordinaria diffusione della sua opera in tutto il mondo lo aveva infatti, col tempo, elevato alla posizione universalmente riconosciuta di Maestro di diritto e processo per i giuristi di ogni continente. Questa anima grande della cultura giuridica ha esercitato per ogni dove il suo alto magistero utilizzando tutti i mezzi coi quali si alimenta la vita dello Studioso, ora con lo scritto ora con la parola ora con entrambi, sempre con l’inconfondibile impronta della sua poliedrica personalità.
Gli incarichi di Visiting Professor presso prestigiose Università (dalla Cornell Law School allo Hastings College of the Law della University of California); l’infaticabile attività di relatore in convegni internazionali; l’appartenenza alle più importanti associazioni italiane e straniere di diritto processuale e di teoria del diritto (dall’American Law Institute al Bielefelder Kreis, dalla International Association of Procedural Law – di cui è stato pure Segretario Generale – all’Instituto Brasileiro de Direito Processual e all’Academia Brasileira de Direito Constitutional, dall’Association Henri Capitant des Amis de la Culture Juridique Française alle Associazioni italiane di Diritto Comparato e fra gli Studiosi del Processo Civile); la partecipazione ai comitati scientifici di riviste giuridiche e filosofiche; i libri dedicati a temi cruciali della esperienza processuale: tutto questo e molto altro ha concorso a diffondere il pensiero di Taruffo e a consolidarne la posizione di primazia nel panorama tanto italiano (suggellata dalla nomina nel 2005 a Socio Corrispondente della Accademia Nazionale dei Lincei) quanto internazionale.
Non a caso, il volume scritto nel 1993 con Geoffrey C. Hazard su “La giustizia civile negli Stati Uniti” è stato pubblicato, oltre che in inglese, pure in cinese e giapponese. In spagnolo è stato pubblicato nel 2002 il libro del 1992 su “La Prova dei fatti giuridici”. I volumi su “La motivazione della sentenza civile” (1975), su “Il vertice ambiguo (Saggi sulla Cassazione civile)” (1991), “Sui confini (Scritti sulla giustizia civile)” (2002) sono stati rispettivamente pubblicati in Messico, Perù e Colombia. Altrettanto significativamente, Taruffo è stato editor dell’opera fondamentale del 1999 su “Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural Fairness” (frutto dell’International Colloquium svoltosi nell’ottobre 1998 presso la Tulane Law School di New Orleans ed organizzato dalla International Association of Procedural Law). Pure le “Cinco lecciones mexicanas: Memoria del Taller de Derecho Procesal” del 2003 (in https://www.te.gob.mx/publicaciones/sites/default/files//archivos_libros/Cinco%20Lecciones%20Mexicanas-%20Memoria%20del%20Taller%20de%20Derecho.pdf) restituiscono appieno l’influenza del suo insegnamento in Messico (ed in generale nell’America latina tutta). A distanza di mezzo secolo dalle conferenze messicane di Piero Calamandrei del 1952 (poi pubblicate un paio di anni dopo sotto il titolo “Processo e democrazia”), le lezioni del marzo del 2002 – tenute da Taruffo di fronte al “Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación” e incentrate su tematiche essenziali nella riflessione del Maestro (dalla teoria generale della decisione al precedente, dalla decisione “giusta” alla funzione dimostrativa della prova, etc.) – furono precedute da una dettagliata presentazione da parte del Presidente del “Tribunal Electoral” dell’attività scientifica dell’ospite pavese, che venne al contempo descritto – e vale la pena ripeterne le parole che riassumono un sentire condiviso – come “un grande processualista e filosofo del nostro tempo”, “heredero de la tradición italiana de Chiovenda, Carnelutti, Calamandrei y Denti”.
Le specifiche competenze di diritto comparato, e la fama acquisita nel contesto internazionale, hanno aperto a Taruffo il ruolo di co-reporter del progetto dell’American Law Institute su “Principles and Rules of Transnational Civil Procedure”. Ed è grazie all’inusuale combinazione della padronanza degli strumenti teorici generali e delle conoscenze analitiche dei singoli modelli processuali, che egli ha potuto cimentarsi nell’arduo compito di organizzare il sistema dei principi e delle regole generali a portata “transnazionale” al fine di armonizzare discipline troppo spesso orgogliose della loro “municipalità”.
Michele Taruffo imboccò giovanissimo la sua strada, sulle orme del suo Maestro Vittorio Denti e nel clima culturale della Scuola pavese, particolarmente fecondo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nato nel 1943, si era laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Pavia nel 1965, nella quale ha finito per ricoprire per molti anni (a partire dal 1976) il ruolo di professore ordinario di diritto processuale civile (insegnandovi altresì diritto processuale comparato e diritto processuale generale). La vocazione comparatistica dello studioso è rispecchiata impeccabilmente nel libro del 1979 dedicato a “Il processo civile ‘adversary’ nell’esperienza americana”. A quella data Taruffo aveva già dato alle stampe due volumi: il primo – “Studi sulla rilevanza della prova” – pubblicato a soli ventisette anni, nel 1970; il secondo – “La motivazione della sentenza civile” (1975) – destinato a diventare un punto di riferimento su un tema tumultuosamente irrisolto. Da queste monografie emergono le direttive delle ricerche degli anni successivi, e prendono forma i tratti distintivi della sua opera complessiva: il marcato sincretismo metodologico che alla prediletta analisi comparatistica associa la sensibilità filosofica e quella storica. Di lì a pochi anni Michele Taruffo offrirà il suo contributo di storico pubblicando “La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi” (1980), un libro che – per la completezza della informazione, la pluralità dei punti di vista e nondimeno la nettezza delle interpretazioni – è comprensibilmente assurto a testo di riferimento per i cultori della storia del processo.
L’indagine storica fa da sottofondo anche al successivo libro del 1991 su “Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile”. Già soltanto il fatto che il titolo del volume – “Il vertice ambiguo” – sia divenuto, nella discussione pubblica sulla Corte Suprema, un vero e proprio topos argomentativo, la dice lunga sull’impatto che l’opera ha avuto su una tematica delicata e divisiva. I meriti del volume, che ha guadagnato negli anni la dignità di vero e proprio “classico” sul giudizio di cassazione, sono d’altra parte risaputi. Non è qui il caso di indugiarvi, se non per dire che rappresentazioni stereotipate da una lunga e comoda tradizione interpretativa, irrigidite nelle semplificazioni di polarità (jus constitutionis-jus litigatoris) che parevano non ammettere vie d’uscita, sono oggetto di radicale rivisitazione critica. Taruffo risale alle origini della ricezione della Cassazione in Italia (mettendo l’accento sulla vivace polemica, in larga parte rimossa, fra i fautori del modello della Cassazione, da un lato, e i sostenitori del modello della Terza Istanza della tradizione nazionale, dall’altro lato) e, ridiscutendo la lezione di Calamandrei, rilegge l’idea di un modello “puro” di Corte Suprema capace di proiettare sul presente la sua forza plasmatrice. Dall’esame delle ragioni della ibridazione nella Cassazione italiana di istituti di eterogenea ascendenza, emerge così il tema del “precedente” (tema che un suo valoroso allievo ha recentemente discusso criticamente nella chiave del “precedente impossibile”).
Michele Taruffo non ha mai smesso negli anni di sviluppare gli argomenti che formano il nucleo pulsante della sua attività speculativa e che vertono – per limitarsi a una estrema sintesi – sulla prova e sulla ricerca dei fatti in funzione di una decisione giusta. Al libro del 1992 su “La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali”, si ricongiungono, idealmente, la curatela del volume del 2012 su “La prova nel processo civile” (nel Trattato di diritto civile e commerciale di Giuffrè) e, in buona parte, il contributo del 2011 sui “Poteri del giudice” nel Commentario al codice di procedura civile di Zanichelli. Non sembra azzardato tuttavia ipotizzare che la massima diffusione delle sue idee su queste tematiche (ben al di là del recinto degli studiosi del processo civile) si sia avuta in occasione della pubblicazione, nel 2009, del volume su “La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti”. L’originale impostazione metodologica di questo volume (innestata sulla rimarcata interdipendenza di prospettive investigative le più diverse) è messa in evidenza dalla trasparenza espositiva, agevolata dalla chiarezza e fluidità di dettato.
Con l’opera di Michele Taruffo si è confrontata la comunità senza confini degli studiosi del processo. Il suo contributo investe l’esperienza integrale della tutela e la complessiva cultura del diritto che vi si accompagna.
Lascito fecondo per le generazioni future.
La questione di giurisdizione - Atti del convegno del 9 dicembre 2020 - Giornate di studio sulla giustizia amministrativa
Nell’ambito delle “Giornate di studio sulla Giustizia Amministrativa – Modanella 2020” il 9 dicembre 2020 si è tenuto il convegno sul tema “La questione di giurisdizione” al quale hanno partecipato come relatori la Prof.ssa Chiara Cacciavillani, dell’Università di Padova, il Presidente Claudio Contessa, del Consiglio di Stato, il Consigliere Antonio Scarpa, della Corte di Cassazione e il Prof. Romano Vaccarella, emerito de La Sapienza. I lavori, introdotti dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, sono stati presieduti da Filippo Patroni Griffi, Presidente del Consiglio di Stato e conclusi dal Prof. Fabio Francario dell’Università di Siena.
Giustiziainsieme mette a disposizione dei propri lettori la video registrazione del convegno.
La rappresentanza di genere nel CSM *
di Donatella Ferranti
Sommario: 1. Perché è necessaria una riforma – 2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017 – 3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM.
1. Perché è necessaria una riforma della legge elettorale
Le ragioni che mi hanno spinto a presentare nella XVII legislatura in cui ho svolgo l’incarico di Presidente della Commissione giustizia alla Camera, la proposta di legge AC 4512, che fu sottoscritta da altri 57 deputati, appartenenti a diversi gruppi parlamentari e che è stata riproposta nella XVIII legislatura, sia alla Camera che al Senato, sono facilmente intuibili, visto che è ormai da diversi anni che si dibatte sulla necessità di un maggior equilibrio di genere nella rappresentanza togata all’interno del Consiglio superiore della magistratura.
Ci sono due dati ineludibili. Il primo è un dato normativo, di principio costituzionale. L’articolo 51, primo comma, della Costituzione, così come innovato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003 n. 1, nel sancire il principio secondo il quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (secondo i requisiti stabiliti dalla legge), prevede che a tal fine la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Credo sia ormai pacifico, alla luce di successive pronunce della Consulta (penso in particolare alla sentenza n. 4 del 2010) che hanno ricondotto il nuovo articolo 51 al principio di uguaglianza sostanziale, ritenere che azioni positive in materia elettorale siano non solo consentite, ma esplicitamente prescritte dalla Costituzione. E’ la Costituzione, quindi, che sollecita l’impegno alla promozione fattiva delle pari opportunità, indicando una direzione pressoché “obbligata”, che impone di affrontare il problema del deficit della rappresentanza di genere nelle istituzioni democratiche. Quella della parità di genere è una battaglia certamente culturale, ma anche politica, perché in gioco sono i valori stessi della democrazia partecipativa e l’avanzamento complessivo della società.
C’è poi un dato fattuale, evidenziato in modo plastico dalle ultime statistiche (aggiornate al marzo 2017) diffuse nel documento “Distribuzione per genere del personale di magistratura” messo a punto dal Csm: su 9.408 magistrati in organico, 4.900 sono donne. Il 52 per cento: più della metà. Ma ancora più interessante è il dato sui magistrati ordinari in tirocinio, su un totale di 666 le donne sono 411, quasi il 62 per cento. Ciò significa non solo che le donne magistrato sono ormai più degli uomini e sono mediamente più giovani, ma significa soprattutto che il divario di genere è destinato a crescere. E come si traducono queste percentuali in rappresentanza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura? I dati reali non sono consolanti. Una sola donna togata eletta nella consiliatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014; una nella scorsa consiliatura e sei in questa attuale. Insomma, un sistema elettorale, quello introdotto con la riforma del 2002, che si è rivelato scarsamente incisivo ed inadeguato anche per quel che riguarda la rappresentanza femminile.
La proposta di legge, che fu presentata alla Camera dei deputati il 25 maggio 2017 a mia prima firma, aveva voluto dare concretezza normativa alle riflessioni che in convegni e in sedi istituzionali da anni ruotano attorno alla necessità di superare questa macroscopica ‘sottorappresentazione’ delle donne nell’organo di autogoverno della magistratura. Lo stesso Csm aveva di ciò avuto piena consapevolezza, come testimoniato da diverse risoluzioni. Nella risoluzione approvata il 26 luglio 2010 (Riflessione sulle modalità organizzative del governo autonomo in ordine alla presenza delle donne negli organi di autogoverno e sulla conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze di cure), ad esempio, si constatava che «ancora oggi sono necessarie “politiche di genere” dirette a rimuovere gli ostacoli culturali per una reale partecipazione egualitaria di uomini e donne al governo autonomo della magistratura». E si affermava che la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale sulla legittimità della preferenza di genere rafforzava «il convincimento della necessità di un sereno e compiuto confronto in ordine all’opportunità di un intervento normativo, il quale, preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di ineleggibilità ma a fattori culturali, economici e sociali, introduca “misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”».
Ma ci si spinge anche più avanti. Nella risoluzione adottata il 2 aprile 2014 (Introduzione delle quote di risultato negli organismi rappresentativi) le quote di genere sono giudicate un «indispensabile arricchimento della rappresentanza democratica» deliberando di proporre al ministro della Giustizia «una modifica del sistema di elezione del Csm che preveda: non solo la 1) la doppia preferenza di genere nella elezione della componente togata; 2) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 per la componente togata; 3) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 della componente laica». Aperture e prospettive ribadite nella delibera consiliare del 7 settembre 2016 (Risoluzione sulla relazione della commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) dove, quanto al tema della rappresentanza di genere, si esprime «apprezzamento per l’affermazione, contenuta nella relazione della Commissione Scotti, circa l’ importanza del rispetto del principio della parità di genere», rilevando però che «il sistema proposto non garantisce una necessaria rappresentanza effettivamente paritaria, che si potrebbe raggiungere solo attraverso l’adozione di quote di risultato. Tale obiettivo sarebbe conseguito con la previsione della indicazione obbligatoria di un secondo candidato di genere diverso in entrambe le fasi elettorali ipotizzate nella relazione».
E comunque, più in generale, si afferma che «la riforma dovrebbe tendere a favorire un rapporto meno rigido tra componente associativa ed eletto, da un lato, e, dall’altro, ad aumentare il ventaglio di scelte dell’elettore. In proposito, si potrebbe riflettere su un diverse meccanismo, quello del voto singolo trasferibile (che la Commissione ministeriale ammette di non avere avuto la possibilità di approfondire): in collegi plurinominali si presentano liste (con alternanza di genere) e l’elettore può indicare in ordine decrescente di preferenza i vari candidati, dando così rilievo sia al progetto di giurisdizione preferito, sia a candidati di altre liste premiati per qualità personali».
2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017
La proposta di legge presentata e discussa nella XVII legislatura in Commissione Giustizia, alla Camera dei deputati, fu il frutto delle elaborazioni dell’Associazione donne magistrato italiane (Admi) e voleva essere un segnale politico in questa direzione, mettendo nero su bianco alcune modifiche alla vigente legge elettorale, fissando almeno un punto di partenza su cui dibattere, superare le accuse di inerzia del legislatore e invitare le parti interessate a dare il proprio fattivo contributo.
Si prefiggeva di introdurre misure di riequilibrio di genere e antidiscriminatorie che consentissero infatti – in attesa della più ampia riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, che è in realtà la via maestra per un compiuto riassetto anche nel senso di una reale democrazia paritaria – di superare l’attuale situazione nella quale la componente femminile del Consiglio risulta in numero assolutamente inadeguato e rimessa a una sorta di occasionalità.
Era una proposta di riforma che non giungeva a garantire direttamente il risultato della presenza paritaria fra donne e uomini nella componente togata del Consiglio, ma intendeva ottenere un incremento della presenza femminile attraverso l’introduzione di una norma di principio generale così sintetizzata: «Il sistema di elezione favorisce un’equilibrata rappresentanza di donne e di uomini» – e mediante il meccanismo della doppia preferenza di genere, già adottato e sperimentato nell'ambito della rappresentanza politica e valutato positivamente anche dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 4 del 2010. In sostanza aveva previsto una doppia preferenza facoltativa cioè la possibilità per l’elettore di esprimere tanto un voto di preferenza senza vincoli di genere quanto un doppio voto di preferenza a condizione che ne avessero beneficiato un uomo ed una donna, pena la nullità della seconda preferenza (tanto che si era suggerito di conformare la scheda con due righe numerate per l’espressione della preferenza così da rendere chiaro all’elettore e a chi avrebbe provveduto allo scrutinio quale preferenza dovesse essere considerata prima e quale seconda).
Più nel dettaglio, intervenendo sull’articolo 25, commi 3 e 5, si consente ai sottoscrittori delle candidature di presentare anche due candidature in ciascun collegio purché sia rispettata l’alternanza tra i sessi e si dispone che l’elenco dei candidati segua un ordine alternato per sesso e, per ciascun sesso, l’ordine alfabetico. In secondo luogo, sostituendo il comma 3 dell’articolo 26, si stabilisce che l’elettore esprime uno o due voti su ciascuna scheda elettorale e che l’eventuale secondo voto indichi un candidato di sesso diverso dal primo. E’ nullo il secondo voto nel caso sia attribuito a un candidato dello stesso sesso del primo. Infine, modificando il comma 2 dell’articolo 27, si dispone che, in caso di parità di voti tra candidati di sesso diverso, prevale il candidato del sesso meno rappresentato nel precedente Consiglio, prevalendo altrimenti il candidato più anziano nel ruolo.
Non si tratta, dunque, di «quote di risultato», ma di una seria misura di riequilibrio, nel rispetto della volontà degli elettori.
La doppia preferenza di genere facoltativa ha già superato, come accennavo, il vaglio della Corte costituzionale: nella citata sentenza n. 4/2010 il giudice delle leggi ha chiarito che quel particolare meccanismo non comprime la libertà dell’elettore limitandosi a fissare criteri per le scelte che questi voglia effettuare, al contrario dà a chi vota una possibilità in più rispetto alla preferenza unica e non prefigura un risultato finale( nessun genere risulta avvantaggiato dallo strumento della doppia preferenza in sé ) a differenza della doppia preferenza obbligatoria.
Quella proposta di legge pure condivisa da tutti i gruppi parlamentari e che aveva avuto la condivisione anche di autorevoli costituzionalisti in realtà poi non è giunta in Aula non solo per il finire della legislatura ma anche perché da parte degli organi rappresentativi della magistratura sono state mosse alcune perplessità, sottolineando che la doppia preferenza di genere avrebbe finito con l’avvantaggiare il gruppo di maggioranza, perché l’indicazione del secondo candidato di genere avrebbe potuto assicurare, ad esempio, solo a quel gruppo entrambi i seggi riservati ai candidati di legittimità, estromettendo così dal Csm i candidati delle altre correnti minoritarie e tale effetto poteva riguardare anche al rappresentanza dei Pubblici Ministeri.
3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM
Ora sappiamo che è in corso di elaborazione da parte del Legislatore la riforma organica e complessiva del sistema elettorale del Csm. Occorre allora saper imboccare la strada giusta che rappresenti un punto di equilibrio tra l’importanza della scelta, per così dire ideologica riferibile al pluralismo culturale e l’esigenza che sia lasciata all’elettore una maggiore libertà di scegliere non solo con riferimento al ‘gruppo’, ma anche e soprattutto alle persone. Per dirla tutta, proprio la necessità – in piena attuazione del dettato costituzionale – di introdurre meccanismi di riequilibrio della rappresentanza di genere nell’organo di autogoverno della magistratura dovrebbe stimolare convergenze e iniziative, per ripensare sinergicamente il modello elettorale, superando il rigido rapporto tra elettori e dirigenza nazionale delle correnti. Ciò che a mio avviso occorre tener presente è che la questione della rappresentanza femminile nel CSM non è da inquadrare tanto nel tema della discriminazione quanto in un tema politico: si tratta di rappresentare nel modo migliore e più completo il corpo della magistratura e dunque anche la differenza di genere. Oggi la rappresentanza dei magistrati nel CSM rischia di essere soprattutto rappresentanza di gruppi che sono nati con propri connotati politico-culturali ma che a volte hanno rischiato di trasformarsi e di operare come gruppi di potere. Occorre perciò mirare a un sistema elettorale che rispecchi le caratteristiche e le diversità anche di genere presenti nel corpo della magistratura e che riesca a garantire che ciascun componente che lo rappresenta agisca nell’interesse dell’istituzione, secondo la propria competenza e sensibilità culturale.
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17
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