ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il CSM ha deciso: Davigo decade
di Mario Serio
Nel pomeriggio di ieri il Consiglio Superiore della Magistratura ha scritto una pagina di alto valore istituzionale nel corso del dibattito e, al termine di esso, del voto circa la legittimità della permanenza in carica di un Consigliere eletto quale magistrato di legittimità e collocato in quiescenza per il raggiungimento dell'età pensionabile durante il quadriennio.
Il valore che qui si riconosce ad un organo di recente percorso da scosse telluriche non dipende in alcun modo dal tipo di deliberazione adottata o dal merito degli argomenti a lungo e meditatamente discussi da ciascuno dei tanti Consiglieri intervenuti. In effetti, ognuno di essi ha offerto argomenti esclusivamente e motivatamente di tecnica giuridica, in particolare indirizzati al rinvenimento dei fondamenti costituzionali delle contrapposte tesi che si sono decorosamente contese il campo. Argomenti seri, serenamente fatti valere, intessuti del dichiarato rispetto per le contrarie opinioni. Si sono confrontate posizioni molto spesso sofferte sul piano umano e, malgrado ciò, mai viziate da ragioni di carattere personale. Si è trattato di un dibattito limpido e palese, ad onta della segretezza del voto: ammirevole esempio di convinzione e fiducia nell'idea senza remore o infingimenti manifestata. Ancor più rassicurante è stata la circostanza che nessuno dei partecipanti fosse portatore di preconcetti in tal misura radicati da impedirgli di apprezzare l'andamento del confronto: la più affidabile prova è costituita dalla riconsiderazione, anch'essa pubblica e plateale, dell'opinione precedentemente espressa e dalla conseguente modificazione della dichiarazione di voto, occorsa in qualche caso. C'è da nutrire la certezza che l'opinione pubblica non rimarrà insensibile, ed anzi si pronuncerà in termini plaudenti, al criterio aperto e leale di svolgimento di un'attività di non comune impegno in ragione sia della decisione da prendere sia dei valori in essa impliciti.
Vi è poi un altro elemento di indubbio, positivo interesse, che consolida una svolta già da qualche mese riscontrabile nella vita consiliare. Si allude all'interpretazione, coraggiosa e franca, che del proprio ruolo all'interno dell'Istituzione, hanno dato i componenti di diritto. Essi – come, appunto, da qualche tempo accade – hanno inteso contribuire al dibattito, e non con dichiarazioni rinunciatarie e di puro stile, sebbene con profonde riflessioni capaci di orientare, non certo per timore reverenziale o opportunistiche abdicazioni, il corso della discussione. Quel che maggiormente e favorevolmente ha impressionato è stato il dichiarato ed evidente fine degli interventi di Primo Presidente e Procuratore Generale della Corte di Cassazione: quello di concorrere all'adozione di una deliberazione che rinsaldasse funzioni, autorevolezza e solidità del Consiglio Superiore. In altri termini, cooperare al mantenimento del relativo prestigio e credibilità. Non viene qui in rilievo il fatto che il voto espresso dai due componenti di diritto abbia o meno in concreto raggiunto lo scopo (né i loro interventi si sono in alcun modo caratterizzati nel senso di aspirare ad un indebito condizionamento dell'organo): la punta di massima utilità è stata toccata nel momento stesso in cui il relativo sforzo argomentativo è stato votato alla stabilità del Consiglio Superiore, onde proteggerne la futura attività dalle insidie rappresentate dalla temuta discontinuità rispetto all'assetto costituzionale quale da essi divisato.
Se un modo andava cercato per rinfrancare la fiducia nell'operato di un organo dalla recente vita "agra", è certo che esso sia stato esattamente e perspicuamente individuato, nel superiore interesse del Consiglio, dall'apice della Magistratura italiana e dal trasparente e non renitente metodo applicato per far valere ( e non per la prima volta) la propria presenza, lontano dai prudenti ed imperscrutabili silenzi del passato.
Fabio Francario
UNA GIUSTA REVOCAZIONE “OSCURATA” DALLA PRIVACY. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866).
Sommario: 1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze) - 2. La vicenda processuale pregressa - 3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione - 4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi - 5.Osservazione conclusiva
1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze).
La sentenza del CGARS n. 866 del 1 ottobre 2020 è meritevole di segnalazione sotto più profili.
Innnanzi tutto perché accoglie un ricorso per revocazione per dolo del giudice, che è di per sé ipotesi non frequente, e per la conseguente puntualizzazione di alcuni profili del regime giuridico dell’istituto della revocazione.
In secondo luogo perché è resa in materia elettorale, ed offre interessanti precisazioni sul tema della rilevanza delle lacune della verbalizzazione delle operazioni elettorali in termini di mera irregolarità o di efficacia invalidante.
In terzo luogo per le precisazioni sul tema dell’effetto espansivo esterno della riforma di una sentenza, dal momento che nel caso di specie la sentenza di merito era stata seguita dal giudizio di ottemperanza e questo a sua volta dalla rinnovazione dell’attività amministrativa.
In quarto luogo per l’attenzione al problema del contenuto e dei limiti del momento rescissorio, con particolare riferimento alle domande risarcitorie e restitutorie proponibili in esito al giudizio di revocazione.
Si potrebbe aggiungere che si segnala anche, non meritoriamente (ma il problema non dovrebbe riguardare il giudicante), per il fatto che un improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali, pregiudica la possibilità di avere piena contezza degli avvenimenti. Non vengono infatti oscurati solo i dati identificativi delle persone fisiche interessate dalla decisione. Anzi, a dire il vero, continuano ad essere chiaramente visibili le generalità di una delle parti del giudizio. Si obliterano però inspiegabilmente i dati identificativi delle pronunce di primo e secondo grado oggetto del giudizio di revocazione, fatto che rischia di render incomprensibile la pronuncia e che comunque di certo non ne agevola la comprensione. Dati identificativi delle pronunce (autorità, data e numero) e dati identificativi delle persone fisiche (generalità e altri dati identificativi della persona) sono cose diverse e sarebbe completamente fuori luogo, ove ne sia stata mai questa la ragione, invocare la possibilità che ciò renderebbe possibile identificare indirettamente la persona fisica, poiché un simile livello di riservatezza è previsto dall’ordinamento solo per le pronunce rese nei confronti di persone offese da atti di violenza sessuale o di minori o in materia di diritto di famiglia e di stato delle persone (articoli 51 e 52 codice della privacy). Allo stato l’oscuramento dei dati identificativi delle pronunce giudiziarie non solo mina l’intellegibilità intrinseca della pronuncia, ma pregiudica la stessa possibilità di controllo democratico delle decisioni giurisdizionali da parte degli operatori del diritto e di ogni singolo cittadino interessato. E’ un problema che va segnalato e sul quale sarà necessario tornare perché sotto questo profilo la pronuncia non è un caso isolato ma espressione di una crescente tendenza ad oscurare i dati identificativi delle pronunce giurisdizionali nonché, come spesso avviene in altri casi, i dati di enti e persone giuridiche che sono notoriamente sottratti alla disciplina della protezione dei dati personali (cfr. art 1 DPGR 2016/679: il Regolamento “stabilisce le norme relative alla protezione dei persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” e “protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”).
Il profilo che le presenti note intendono prendere in considerazione è però quello forse più delicato tra quelli toccati dalla pronuncia in commento, che è quello del rapporto tra giudicato penale e amministrativo. Di per sé considerata, la questione non avrebbe motivo di apparire problematica nei casi di revocazione straordinaria della sentenza per dolo del giudice, in quanto l’ipotesi normativa dell’art 395 c.p.c. presuppone chiaramente e dichiaratamente che il dolo sia appunto “accertato con sentenza passata in giudicato”. Nel caso di specie, tuttavia, il profilo torna problematico in quanto il giudizio penale, al termine del quale era stata comminata la pena prescritta per il reato di corruzione in atti giudiziari, si era chiuso con sentenza di patteggiamento.
2. La vicenda processuale pregressa.
Nella sua essenza, la vicenda processuale può essere ricostruita nei seguenti termini.
Nel 2012 si svolgono le consultazioni per l’elezione del Presidente della Regione e dell’Assemblea regionale siciliana.
Avverso il risultato delle operazioni elettorali vengono proposti diversi ricorsi al TAR Palermo, rigettati dal giudice di primo grado.
I ricorsi vengono però accolti dal CGARS che, riformando le sentenze di primo grado, ordina il rinnovo delle operazioni elettorali nei seggi interessati e in sede di ottemperanza nomina successivamente un candidato diverso dal controinteressato originariamente eletto.
Il Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa, della Sezione giurisdizionale, del Collegio giudicante, nonché relatore ed estensore delle sentenze d’appello viene successivamente condannato per i reati di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., a due anni e sei mesi di reclusione, pena sospesa, con contestuale interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo ex art. 317-bis c.p., versando la somma di € 25.000,00 sul libretto giudiziario a titolo di risarcimento del danno.
Il giudizio penale si conclude con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., depositata il 18 luglio 2019 e passata in giudicato il 14 settembre 2019.
La parte rimasta soccombente in appello, già controinteressata, proponeva a questo punto ricorso chiedendo la revocazione delle sentenze CGARS per dolo del giudice ai sensi all’art. 395, n. 6 c.p.c. e, conseguentemente, il rigetto dei ricorsi in appello e di ottemperanza, la conferma delle sentenze di primo grado e l’annullamento o dichiarazione di nullità del rinnovo parziale delle elezioni, ivi compresa l’avvenuta elezione dell’appellante a deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana in sostituzione del ricorrente in revocazione, nonché la dichiarazione della reviviscenza dell’originaria elezione di quest’ultimo alla carica di deputato dell’Assemblea regionale siciliana con le ulteriori conseguenziali statuizioni restitutorie e risarcitorie.
3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione.
In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo ovvero dei termini del rapporto tra giudicato penale e amministrativo[1].
Si legge nella sentenza: “ In particolare, al Presidente ed estensore delle sentenze di cui è stata chiesta la revocazione sono stati ascritti i reati “di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., poiché, per favorire -OMISSIS- nei ricorsi presentati innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione Siciliana per ottenere l’annullamento delle elezioni regionali della Sicilia del 2012, -OMISSIS-, pubblico ufficiale, quale Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana e consigliere estensore della sentenza del 5-OMISSIS-, sui ricorsi proposti, rispettivamente, da - OMISSIS- e -OMISSIS-, di fatto entrambi nell’interesse di -OMISSIS-, riceveva da - OMISSIS- – che metteva a disposizione la provvista finanziaria – con la mediazione di - OMISSIS- e -OMISSIS-, attraverso -OMISSIS-, somme di denaro non inferiori a 30.000,00 euro”.
Ai fini della decisione rescindente la vicenda penale evidenzia, ad avviso del ricorrente, che le sentenze n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- del CGARS, alla luce del disegno unitario che le connoterebbe, sono state emesse per effetto del dolo del giudice. Ciò in quanto, nell’impostazione della domanda in esame, il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p. presenta, quale requisito di fattispecie, il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale, favorevole al corruttore.
Il ricorrente ha evidenziato, in particolare, come il pactum sceleris, intercorso fra il corruttore (sig. -OMISSIS-), che ha messo la provvista finanziaria a disposizione del corrotto (l’allora Presidente del CGARS), il quale ha accettato la provvista e ha compiuto l’atto per favorire chi lo ha corrotto, fosse preordinato all’emanazione delle sentenze del CGARS n. -OMISSIS-, n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS-, oggetto dell’azione revocatoria in esame”.
Stante la sussistenza di una disposizione come quella recata dall’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. che stabilisce espressamente che la sentenza cd di patteggiamento “non ha efficacia” nei giudizi civili e amministrativi, si è così posto il problema di chiarire se la natura giuridica della sentenza di patteggiamento sia tale da poter far ritenere comunque sussistente l’accertamento del dolo richiesto dall’art. 395, n. 6 c.p.c. per la revocazione della sentenza.
A voler esser più precisi, il problema si pone in quanto l’art. 445 c.p.p., per un verso, ai sensi del comma 1-bis, ultimo periodo, equipara la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a una sentenza di condanna, per l’altro, ai sensi del medesimo comma 1- bis dell’art. 445, ma primo periodo, afferma che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non produce effetti nei giudizi civili o amministrativi, come sopra già ricordato.
Nella sentenza in commento, il CGARS ha ritenuto che “In presenza di una sentenza di condanna emanata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. la valutazione in essa contenuta comprende anche l’elemento soggettivo del reato che, per i delitti, quale si configura la corruzione in atti giudiziari, consiste nel dolo (art. 42, comma 2, c.p.) e, per il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p., richiede il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale e scorretta del pubblico ufficiale favorevole a una delle parti” e che ciò sia sufficiente per ritenere che nel caso di specie sia ravvisabile una sentenza di accertamento del dolo nei termini richiesti ai fini della revocazione straordinaria.
In punto d’interpretazione sistematica, la sentenza sottolinea che l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. rappresenterebbe un “frammento” dell'articolata disciplina dei rapporti tra processo civile e amministrativo, da un lato, e processo penale, dall’altro, che va pertanto interpretato alla luce del microsistema prefigurato dal legislatore per il raccordo tra i suddetti giudizi creato dagli artt. 651 e 654 c.p.p. e considerando che il codice del 1988 ha ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale in favore di quello della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e dell'autonomia dei giudizi (Cass., sez. un., 11 febbraio 1998, n. 1445 e sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768), anche se, in specifiche e limitate ipotesi, continua ad attribuire al giudicato penale valore vincolante e/o preclusivo sugli altri giudizi. Muovendo da tali premesse, (con specifico riferimento al fatto che il primo periodo dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. dispone espressamente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti “non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”) il CGARS ritiene che “gli artt. 651 e ss. c.p.p., di cui l’art. 445, comma 1-bis c.p.p. costituisce un corollario, riferiscono la limitata rilevanza extrapenale della pronuncia penale all’accertamento fattuale, che prescinde dall’elemento soggettivo, che costituisce invece l’unico dato rilevante ai fini della fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c.” e che “quest’ultima norma quindi si muove, sia da un punto di vista sistematico, sia sulla base dell’interpretazione del dato testuale, in prospettiva diversa dalle disposizioni di cui agli artt. 651, 651-bis, 652, 653 e 654 (e 445, comma 1-bis) c.p.p., non ricadendo quindi nelle preclusioni degli effetti extrapenali dei giudicati penali ivi previste”. La distinzione consente di affermare che “tratto distintivo delle ipotesi di rilevanza extrapenale della sentenza penale è costituito dalla circostanza che esse si riferiscono a casi nei quali il medesimo fatto storico (o parte di esso) rileva nei due giudizi per i diversi fini ai quali questi ultimi sono preordinati”; che “il presupposto della loro operatività è rappresentato dalla necessità di due diversi giudici di accertare la medesima realtà storica, sollecitando quindi un tema di incontrovertibilità del giudicato e di economia processuale, oltre che di garanzia del contraddittorio”; che “in ossequio alla volontà di circoscrivere in maniera chiara e netta l’efficacia extrapenale del giudicato penale, che costituisce una deroga alla scelta sistematica di garantire autonomia e separazione delle giurisdizioni, gli articoli sopra richiamati (651, 651-bis, 652, 653 e 654 c.p.p.) limitano espressamente tale efficacia all'accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, sottostando al limite costituzionale del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2004, n. 14777), limite che viene in evidenza proprio in ragione dell’identità, almeno parziale, del fatto storico da accertare da parte di due giudici diversi e con regole processuali e di fattispecie differenti”, e che “la fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c., attribuendo espressamente rilevanza al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato, si riferisce, invece, a un’ipotesi processuale del tutto diversa”.
Si raggiunge così la conclusione che “la sentenza penale di accertamento del dolo, resa ai fini penali, costituisce un fatto storico la cui esistenza è idonea a consentire il positivo riscontro della domanda rescindente. Ciò è confermato dalla formulazione testuale del citato n. 6 dell’art. 395 c.p.c., che richiede che l’accertamento del dolo sia stato compiuto, con decisione intangibile, dal giudice a quo, e quindi nell’ambito della decisione resa per gli effetti penali”.
4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi.
4.1. In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento[2] ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo, creando l’occasione per una rimeditazione più generale del problema. Il problema non è stato tuttavia affrontato e risolto in maniera esplicita nei suoi termini generali, ma il percorso argomentativo lascia chiaramente trasparire il convincimento di fondo che il rapporto tra pronunce di giudici appartenenti a diversi ordini giurisdizionali, oggi come oggi, non possa più ritenersi regolato esclusivamente dal principio della rilevanza extra penale del giudicato (penale), riconducendo di volta in volta i singoli casi in una delle ipotesi normativamente tipizzate dagli articoli 651 e seguenti del c.p.p.; ma risponda comunque ad un più ampio principio di non contraddizione degli accertamenti giurisdizionali che è espresso solo in parte dalla disciplina degli effetti extra penali del giudicato.
Il fatto che, nel caso di specie, il problema sia stato risolto assumendo che l’ipotesi del patteggiamento non sia compiutamente riconducibile al sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p. e che concorra esso stesso alla definizione del sistema dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo, rende evidente lo sforzo di superare i limiti interpretativi che deriverebbero dall’applicazione dell’istituto del giudicato propriamente inteso. Nel caso del patteggiamento, il giudicato non si forma infatti nei termini presupposti ed espressamente indicati dagli artt 651 ss c.p.p. con riferimento ai fatti materialmente accertati nel giudizio penale (accertamento che in termini siffatti non avviene), ma il CGARS ritiene doveroso attribuire rilevanza ed efficacia vincolante al fatto di per sé considerato dell’intervenuta condanna per il reato di corruzione in atti giudiziari.
Se il percorso argomentativo non è perfettamente lineare e in alcuni tratti può destare più di una perplessità, ciò dipende dall’intrinseca inidoneità del giudicato a regolare i rapporti tra le decisioni giurisdizionali quando queste sono rese da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi tra loro.
Non viene delineato chiaramente il principio applicabile e il problema viene risolto applicando la tecnica del distinguo, sottraendo l’efficacia della sentenza di patteggiamento dal micro sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p.; ma proprio ciò rende evidente come entrambe le ipotesi debbano ritenersi espressione di un più generale principio di non contraddittorietà delle decisioni giurisdizionali, che è doveroso enucleare una volta venuta meno la regola della necessaria pregiudizialità ed affermatasi quella dell’autonomia come regola del rapporto tra giudizi resi da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
4.2. I limiti del presente commento non rendono ovviamente possibile ripercorrere le ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali sulla natura e sulla consistenza del giudicato e della cosa giudicata e sulle trasformazioni che l’istituto sta peraltro subendo nei tempi più recenti per effetto dell’evoluzione e/o integrazione dell’ordinamento nazionale con gli ordinamenti sovranazionali, comunitario e internazionale[3]. Riprendendo osservazioni che ho già svolto altrove [4], può essere sufficiente osservare che il giudicato è lo strumento cui ricorre l’Ordinamento per garantire certezza a rapporti giuridici controversi[5] e che il fenomeno del giudicato non è spiegabile né sul piano puramente processuale, né su quello puramente sostanziale, ma diventa pienamente comprensibile solo se visto sul piano dell’ordinamento giuridico generale [6], come momento d’incontro del processo con il diritto sostanziale, finalizzato a creare certezza in ordine ad una determinata situazione o rapporto giuridico.
Le norme creano certezza indicando preventivamente le condotte che possono o devono essere seguite. Le sentenze creano certezza in ordine al fatto che le norme siano state effettivamente osservate o violate. Una volta acquisita l’autorità della cosa giudicata, la sentenza diventa incontestabile ed incontrovertibile; ed in tal modo il giudicato garantisce che l’accertamento, una volta operato e divenuto incontestabile ed incontrovertibile, fornisca risposta alla fondamentale esigenza di certezza dei rapporti giuridici imposta dall’ordinamento generale. Qualunque sentenza, da qualunque giudice pronunciata, ha infatti un contenuto minimo che la caratterizza come atto espressione dell’esercizio della funzione giurisdizionale: l’accertamento[7]. Ciò che al fondo differenzia la sentenza dagli atti tipici degli altri pubblici poteri, la legge e l’atto amministrativo, non è altro che questa attitudine a creare certezza in ordine ad un rapporto giuridico controverso, ad un fatto, atto o comportamento la cui antigiuridicità è meramente asserita in limine litis, ma che risulta certa, in un modo o nell’altro, alla fine del giudizio. Un atto legislativo o un atto amministrativo sono pur sempre modificabili da un successivo atto dotato di pari forza; altrettanto non può dirsi per la sentenza, una volta che abbia acquistato la caratteristica che solo essa può acquisire: l’autorità della cosa giudicata.
All’interno dei diversi sistemi (penale, amministrativo e civile) il giudicato (e con esso il livello di certezza giuridica) non è però configurato in maniera omogenea. Nel sistema penale, la figura è normata essenzialmente dall’art. 649 cpp (divieto di un secondo giudizio): “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”. L’accento è posto soprattutto sul momento /effetto preclusivo del ne bis in idem[8]. Nel sistema civile, la norma di riferimento è recata dall’art. 2909 cod. civ. : “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. E’ evidente la sottolineatura del fatto che il giudicato è destinato a coprire tanto il dedotto, quanto il deducibile [9]. Più relativa appare la certezza nel sistema amministrativo, che presuppone e non definisce la nozione di giudicato. Le disposizioni generali sull’ottemperanza (art 112 c.p.a.) si limitano a prevedere che “i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altri parti” e che “l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione … delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato” (anche se ormai il passaggio in giudicato non è più presupposto necessario per l’ammissibilità del giudizio); e l’art 34, con riferimento alle sentenze di merito, prevede che “In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: a) annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato …” e che “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Il codice del processo amministrativo non ripropone più espressamente la formula risalente all’art 45 RD 26 giugno 1924 n. 1054 per la quale in caso di accoglimento del ricorso l’annullamento dell’atto amministrativo avviene con salvezza degli “ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”, ma rimane comunque evidente la limitazione al solo dedotto dell’efficacia della cosa giudicata, con significativa differenza rispetto al giudicato civile[10].
Qual che siano i suoi limiti oggettivi, il giudicato pare comunque in grado di assicurare la suddetta esigenza di certezza (non contraddittorietà e coerenza degli accertamenti) all’interno dello specifico sistema giurisdizionale in cui nasce.
Se, com’è nella tradizione e nell’opinione prevalente, cosa giudicata è il solo dispositivo della sentenza, una volta che sia stata già concessa ovvero negata una data misura giurisdizionale, questa non può essere nuovamente richiesta/concessa a/da altro giudice del medesimo sistema.
Nell’ambito di un medesimo sistema, dunque, l’istituto del giudicato è certamente in grado di risolvere il problema: la nuova richiesta di una misura già concessa o negata inter partes è paralizzata dall’eccezione di cosa giudicata.
4.3. Diversamente stanno le cose se il problema di evitare il contrasto tra giudicati viene considerato con riferimento alla funzione giurisdizionale vista nel suo complesso, con riferimento cioè alle decisioni non solo di diversi giudici, ma di giudici diversi (penale amministrativo e civile). In tal caso si deve infatti prendere atto che l’istituto del giudicato, di per sé considerato, non può essere utilmente impiegato a tal fine.
Se si vuole utilizzare l’istituto per risolvere il problema delle possibili reciproche interferenze, bisognerebbe iniziare a chiarire innanzi tutto che il giudicato deve ritenersi inteso in senso estensivo, con estensione cioè dell’autorità del giudicato alla motivazione della sentenza. E’ noto infatti che l’accertamento si distribuisce tra motivazione e dispositivo, tra la parte della sentenza in cui si forma il giudizio di diritto in relazione alla situazione di fatto ricostruita in base alle allegazioni ed alle prove delle parti e quella in cui si esprime il comando del giudice rivolto alle parti; ma è noto anche che è molto discusso cosa effettivamente “passi in giudicato” di una sentenza: se solo il dispositivo o anche la motivazione (e quindi anche le premesse di fatto e di diritto della decisione) [11]. Sul piano della teoria generale, il fenomeno è ampiamente ed approfonditamente studiato nell’ambito della teoria della pregiudizialità, ed in linea di principio porta ad escludere dall’ambito oggettivo della cosa giudicata la questione pregiudiziale che venga decisa nell’ambito del medesimo processo senza trasformarsi in una vera e propria causa pregiudiziale[12]. A rigore, quindi, ciò che rappresenta un antecedente logico della decisione, una questione soltanto pregiudiziale, non verrebbe coperto dall’efficacia della cosa giudicata, sicchè a nulla varrebbe invocare l’avvenuta formazione del giudicato. Si potrebbe tuttavia prendere atto che, specie nel processo civile ed in quello amministrativo, è ormai invalsa la distinzione tra questioni che sono semplicemente un antecedente logico giuridico della decisione, e quelle che rappresentano un presupposto logico necessario del dispositivo; e che tale distinzione ha come conseguenza quella di comprendere queste ultime nell’ambito della cosa giudicata sostanziale[13].
Ma anche estendendo la formazione della cosa giudicata alla motivazione della sentenza e quindi alle questioni pregiudiziali nei limiti e nel senso sopra precisati, bisognerebbe prendere comunque atto che il giudicato ormai da tempo non è più lo strumento in grado di garantire coerenza e uniformità degli accertamenti giurisdizionali di giudici diversi.
Il sistema anteriore alla riforma del codice di procedura penale del 1988 privilegiava infatti l’impiego della tecnica della sospensione del processo [14]per consentire la previa risoluzione, con forza di giudicato, della “questione” pregiudiziale nell’ambito di quella che diveniva una vera e propria “causa” pregiudiziale (v. artt. 18, 19 20 e 21 cod. proc. pen.). Tale soluzione era sicuramente in grado di assicurare coerenza ed uniformità degli accertamenti, ma è stata ritenuta tale da incidere altresì in modo eccessivamente gravoso sulla speditezza processuale e sul principio della ragionevole durata dei processi; e l’ordinamento si è pertanto orientato nel verso di impiegare la tecnica delle cognizione incidentale in luogo di quelle della sospensione per pregiudizialità. Non essendo più necessario risolvere con forza di giudicato una questione soltanto pregiudiziale, è pertanto possibile che la medesima questione venga adesso conosciuta da entrambi i giudici.
Nel sistema attuale, Cassazione e Consiglio di Stato concordano nel ritenere che “dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale si desume che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione”; e che “pertanto, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo (civile previste dall’art. 75 cpp nuovo terzo comma) da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e dall’altro il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti” (CASS. Civ. Sez. III, 10 agosto 2004 n. 15477 ; id. Cass. Civ. Sez. II 25 marzo 2005 n. 6478); ovvero che “a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale è stato espunto dall’ordinamento l’art. 3 del previdente cpp il quale prevedeva la possibilità della sospensione del processo civile o amministrativo, conseguentemente i due giudizi sono attualmente dominati dalla regola dell’autonomia” (Cons. Stato, Sez. V 6 dicembre 2004 n. 1462; Id. sez. IV 1 giugno 2004 n. 465).
L’inversione di rotta sul tema della pregiudizialità, puntualmente sottolineata dalla sentenza che si commenta, per un verso dimostra che attualmente l’Ordinamento non sarebbe uniformato al principio dell’unità della giurisdizione, ma al principio dell’autonomia delle singole giurisdizioni; per l’altro deve però anche condurre a concludere che diventa irrilevante e fuorviante l’impiego dell’istituto del giudicato per trarre da esso la regola del rapporto tra accertamenti operati da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
5. Osservazione conclusiva.
La sentenza in commento sembrerebbe dunque dimostrare che l’abbandono della tecnica della sospensione per pregiudizialità ha fatto venir meno il ruolo centrale svolto dal giudicato strettamente inteso, ma non ha certamente implicato il venir meno del principio generale che vuole comunque garantita la coerenza e la non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali.
Affermare il principio di autonomia anziché di unicità della giurisdizione non significa affatto escludere la vigenza del principio di coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali[15]. Al contrario, nel momento in cui si chiarisce che l’impiego a tali fini dell’istituto del giudicato avviene in maniera impropria, vale piuttosto a dare ad esso maggior risalto. Se infatti si chiarisce che il doveroso condizionamento che può aversi qualora uno stesso fatto venga conosciuto da più giudici appartenenti ad ordini diversi, fuori dai casi espressamente previsto dagli artt 651 ss c.p.p., non è spiegabile in termini di efficacia propria e diretta del giudicato, bensì appunto per l’osservanza del suddetto principio di coerenza e non contraddittorietà, ciò aiuta sicuramente a far emergere con maggior nitidezza il principio in quanto tale. Ciò che conta è che accertamento giurisdizionale vi sia stato e che, per poter risultare vincolante, esso sia avvenuto nel rispetto del contraddittorio e quindi dell’identità delle parti nei giudizi.
Una volta chiarito che il principio da osservare è quello che impone di assicurare la coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, ciò ha ricadute che, per loro importanza, non possono essere trascurate. Prima tra tutte quella che l’abbandono del principio di unicità e l’affermazione di un principio di autonomia non possono giungere fino al punto di consentire che giudici diversi possano ricostruire “verità” diverse solo perché appartenenti ad ordini diversi o per via del fatto che il rapporto non può essere regolato attraverso l’efficacia del giudicato propriamente inteso.
La sentenza commentata ha fatto corretta applicazione di tale principio, ritenendo che la sentenza di patteggiamento abbia comunque consumato un (motivato) giudizio che ha portato ad irrogare la pena prevista per il reato di corruzione in atti giudiziari.
[1] Per la ricostruzione tradizionale dei termini generali del problema v. Chiavario, Giudizio (rapporti tra giudizi), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 984 ss; E.T. Liebman, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv dir proc. 1957, 5 ss; R. Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, VI, 59 ss.
[2] Sulla discussa natura della sentenza di applicazione della pena adottata dal giudice in accoglimento della richiesta delle parti per tutti v. A. Arru, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, 4, I, 38 ss e A. Ruggiero, Patteggiamento, in Dig. Discpl. Pen., Aggiornamento, Milano, 2009, II, 964 ss e ivi ulteriori riferimenti.
[3] Per più ampi riferimenti si rinvia a F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018 e La violazione del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata ingiudicato, in Federalismi.it, 13/2017, entrambi ripubblicati nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 209 ss e 399. Tra i diversi contributi dottrinari si segnalano comunque in particolare V. Colesanti, La revocazione è diventata un istituto inutile?, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1, 26 ss; L.P. Comoglio, Requiem per il processo “giusto”, in Nuova Giur. Civ., 2013, 1 ss.
[4] Sul rapporto, generalmente considerato, tra giudicato penale e amministrativo v. F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio penale e amministrativo. Problemi e interferenze, in Pubblica amministrazione diritto penale criminalità organizzata, Atti del convegno dell’Osservatorio Permanente sulla criminalità Organizzata – O.P.C.O., Siracusa 14 – 16 luglio 2006, Milano, 2008, 93 ss; con particolare riferimento alle problematiche tipiche della materia edilizia e urbanistica v. anche Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale e amministrativo, in Riv. giur. edil, 4/2015 ripubblicato anche nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa, cit., 185 ss.
[5] A. Cerino Canova, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. dir. civ., 1977, I, 395 ss; E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, rist., Milano, 1962; G. Pugliese, Giudicato civile, in Enc. Dir., XVIII,Milano, 1969, 727.
[6] A. Falzea, Accertamento, in Enc. Dir., I, Milano, 1958.
[7] E. Fazzalari, Sentenza civile, in Enc. Dir., XLI, Milano, 1989, 1245 ss; F. Lancellotti, Sentenza civile, in Noviss Dig. It., XVI, Torino, 1969, 1139 ss.
[8] Cfr.: F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, 1083 ss; De Luca, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. Giur., XV, Roma, 1989, 1 ss.
[9] Per tutti v E.T. Liebman, Giudicato (diritto processuale civile), in Enc. Giur., XV,Roma, 1989, 1 ss; S. Menchini, Il giudicato civile, Torino, 2002.
[10] Cfr. C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2013, 559 ss; G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione ed ottemperanza, Napoli, 2013, 154 ss; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria dl processo, Milano, 2016; S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017. Fondamentali ancora oggi F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969; E. Cannada-Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XII, Milano, 1966, 1080ss. Anteriormente all’entrata in vigore del codice v. anche A. Attardi, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1990, 386 ss; C. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. Trim. Dir. Proc. civ., 1991, 569 ss; B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989.
[11] È d’immediata evidenza che il problema non ha ragione d’essere se il giudicato viene limitato al solo dispositivo della sentenza, al comando del giudice. In tal caso diventa perfettamente inutile invocare l’applicazione dell’istituto del giudicato in quanto le misure giurisdizionali sono tipiche di ciascun ordinamento e non è nemmeno immaginabile che il giudice amministrativo irroghi misure penali o viceversa.
[12] Problematica esemplarmente affrontata da A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958; per gli ulteriori sviluppi e riferimenti dottrinari mi sia consentito rinviare a F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, 14 ss.
[13] Cfr.: S. Menchini, Il giudicato civile, cit., 76-96; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 1/2007, 82 ss. In giurisprudenza v. ad es. Cass. Civ. Sez. I, 5 luglio 2013 n. 16824; Id., 10 settembre 2013 n. 20692;
[14] E. Micheli, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1942, 7 ss; E.T. Liebman, Sulla sospensione propria ed “impropria” del processo civile, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1958, 153 ss; Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987.
[15] Per spunti in tal senso v. anche E. Follieri, L’autonomia e la dipendenza tra i processi in materia di responsabilità pubbliche, in Dir. Proc. Amm., 2014, 391 ss; E. Picozza, La rilevanza delle pronunce del giudice amministrativo nel giudizio civile ed in quello penale, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Europa del diritto: i giudici e gli ordinamenti. Atti del convegno di Lecce del 27-28 aprile 2012, Napoli, 2012, 294 ss.
Giulia Cavallone, un ricordo
di Sibilla Ottoni
Dal 21 settembre 2020, al Tribunale di Roma, c’è un’aula intitolata alla memoria di Giulia Cavallone. Qualche parola, allora, per ricordare chi era Giulia, e per raccontarlo a coloro che non l’hanno conosciuta, se frequentando quell’aula, leggendo quella targa, chiederanno di lei.
Si è svolta pochi giorni fa la cerimonia di intitolazione dell’ex aula 18 del Tribunale penale di Roma alla memoria di Giulia Cavallone, giovane magistrato, scomparsa a soli 36 anni lo scorso aprile dopo una lunga lotta contro la malattia. Una lotta combattuta anche, fino all’ultimo, dentro quell’aula ed in quelle stanze della Settima Sezione.
La partecipazione e la commozione testimoniate durante la cerimonia non sono dovute soltanto alla giovane età, allo sconcerto che inevitabilmente si prova di fronte alla notizia di una morte prematura ed ingiusta. Chi vi ha partecipato sa che c’è qualcos’altro; qualcosa che spiega non tanto e non soltanto l’onore riconosciutole, ma anche, soprattutto, l’autenticità e la dura intensità di questo cordoglio.
Quel qualcosa era tangibile nell’aria durante la commemorazione. Coloro che non hanno mai incontrato Giulia potrebbero non averne colto appieno il colore, il tono. Non aver sentito, come a noi è parso di sentire, i commenti sarcastici che lei avrebbe riservato ai pochi ma inevitabili scivolamenti nella retorica che caratterizzano, forse, ogni cerimonia solenne. Non aver visto, come a noi è parso di vedere, il sorriso ironico che le sarebbe affiorato nel prendere atto di quel velo di malinconia che alcuni le hanno inventato negli occhi, nell’ascoltare le versioni altrui di quegli ultimi giorni di udienza, così sfumatamente ma sensibilmente diverse dalla propria. Eppure, certamente, anche chi non l’ha mai incontrata ha dovuto arrendersi all’incontenibile tremore delle mani, alla nota spezzata nella voce, alla forza delle parole pronunciate per lei in quell’occasione dai congiunti, dagli amici e dai colleghi.
Di lei è stato detto che era mite, gentile, disponibile. Che era una giurista di notevole spessore. Che era un magistrato di grande impegno, serietà, dedizione alla funzione. Chiunque sia avvezzo al tenore delle celebrazioni grandi o piccole, riservate o solenni, che accompagnano ogni mutamento di funzioni, di ufficio, di carriera, o finanche ai toni contenuti nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, sentirà risuonare in questi attributi il vuoto dell’étiquette. Ma chi era in quella sala ha potuto percepire quel qualcosa, apprezzare uno scarto: comprendere che Giulia era tutte queste cose davvero.
Era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali a cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici.
E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli. Quasi impercettibili nel contegno impeccabile che Giulia aveva in ogni contesto, nell’orgoglio del suo riserbo. Eppure c’erano.
La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano.
Come ha ricordato Edoardo, il suo compagno, la vita di Giulia è stata profondamente intenzionale. Dedicata costantemente a lavorare su di sé, ed attraverso questo lavoro, capace di fare da esempio, di seminare il germe di qualcosa che le sopravvive.
Nel cortile della città giudiziaria, un ulivo è stato messo a dimora in memoria di Giulia, con una targa che recita: “Siate giusti, siate gentili”. L’auspicio è che quella targa, così come quella affissa davanti all’aula che porta il suo nome, possano stimolare, insieme al ricordo, una riflessione più profonda sul ruolo di ciascuno di noi, non solo come magistrati. In onore di un giudice e di una donna di tutta sostanza ed alcuna apparenza, che credeva profondamente in quello che faceva e che con questa attenzione, con questa intenzione, ha svolto la funzione che aveva scelto.
Decidere nell’emergenza. Limitazione e bilanciamento dei diritti fondamentali - Video del webinar AIPDA del 9.10.2020 L'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo - AIPDA ha dedicato il suo convegno annuale al tema della limitazione e del bilanciamento tra diritti fondamentali nell'emergenza pandemica, prendendo spunto dall’intervista di Jurgen Habermas e Klaus Gunter e dalla rilettura operata dalla dottrina giuspubblicistica italiana ospitate da GiustiziaInsieme.
Il video riproduce gli atti del Convegno, presieduto da Carla Barbati e coordinato dal Prof. Fabio Francario, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Franco Scoca, Mimmo Sorace, Pierluigi Portaluri, Antonio Bartolini, Cecilia Corsi, Matteo Gnes e Chiara Cacciavillani.
Ripartire dai fatti: per un diritto delle relazioni familiari che parta dall’esperienza
Una vicenda processuale emblematica, sul cui sfondo si intrecciano più traiettorie giuridiche, psicologiche e socio-politiche di Ilaria Boiano
Nell’annotare il decreto della Corte d’Appello di Roma - Sezione per i minorenni, decreto 3 gennaio 2020, n.2 - Est. Pierazzi, si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere dei minori, per poi dedicare uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si inseriscono le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli.
Sommario: 1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo - 2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli - 3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne.
1. La vicenda giudiziaria e i provvedimenti oggetto di reclamo
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario, lamentando profili di inadeguatezza del padre, il quale, a sua volta, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità.
Il Tribunale ordinario stabiliva l’affidamento del minore ai servizi sociali, con collocamento dello stesso presso la madre, regolava la frequentazione paterna, limitando la responsabilità genitoriale di entrambi alle questioni di ordinaria amministrazione e rimettendo al servizio sociale le decisioni più importanti inerenti il minore. Tale decisione si basava principalmente sulle valutazioni della consulente tecnica incaricata della valutazione delle competenze genitoriali: all’esito dell’indagine nessuno dei genitori è stato ritenuto «inidoneo a svolgere il compito genitoriale», ma venivano segnalate «significative difficoltà nella relazione tra i due adulti, specie da parte della [donna] che evitava o limitava al massimo l’interazione con l’[uomo], e come tali difficoltà fossero tali da potenzialmente costituire un grave pregiudizio per il futuro sereno e positivo sviluppo [del figlio]. In particolare, l’ausiliaria del giudice rilevava che «l’analisi complessiva del profilo di personalità e del funzionamento psicologico della [donna] pone in evidenza due livelli di genitorialità decisamente diversi e divaricati: da una parte ella risponde ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio: dall’altra, tende a costituire, in termini fattuali e psicologici anche se non intenzionalmente, un ostacolo allo strutturale, evolutivo bisogno [del figlio] di accedere serenamente e con continuità alla figura paterna». Con riferimento al padre, invece, la consulente tecnica rilevava «come lo stesso manifestasse la tendenza a riversare sull’altro e sull’esterno le proprie problematiche, in maniera anche rivendicativa e strumentale», senza tuttavia approfondire come questo atteggiamento interferisse nella relazione con la controparte e, soprattutto, con il figlio.
Nel tempo i rapporti tra le parti si sono fortemente deteriorati: la donna veniva aggredita nel corso di una visita paterna al figlio, l’uomo denunciava a sua volta il nonno materno per aggressione e dava avvio a una campagna giudiziaria inarrestabile, arrivando a presentare contro la donna ben diciassette denunce e atti di integrazione, per lo più a margine della sua frequentazione del figlio.
Il provvedimento del Tribunale ordinario veniva impugnato dinanzi alla Corte di appello che interinalmente disponeva che gli incontri padre-figlio si svolgessero in contesto protetto, respingendo poi nel merito l’impugnazione delle parti e, sulla base di un aggiornamento dei servizi sociali, invitava la donna ad assicurare «un intervento agevolatore» della frequentazione padre-figlio, indicava un percorso di sostegno alla genitorialità per entrambi i genitori e suggeriva l’avvio di un percorso terapeutico anche per il minore «per superare le crescenti preoccupanti difficoltà e paure ad incontrare e frequentare il genitore non convivente». Quest’ultimo, ritenendo sempre la madre responsabile di un comportamento ostativo della sua genitorialità, proponeva ricorso innanzi al Tribunale per i Minorenni ai sensi degli artt. 330, 333 e 336 c.c. per ottenere la dichiarazione di decadenza della donna dall’esercizio della responsabilità genitoriale e per ottenere l’allontanamento del bambino dalla madre e dalla sua famiglia con collocamento presso di sé, previo eventuale inserimento in una struttura residenziale educativa.
Nell’ambito del giudizio così instaurato, mentre si susseguivano reciproche denunce, poi rimesse in ottica conciliativa, il bambino giungeva a rifiutare nettamente l’incontro con il padre ribadendo dinanzi al Tribunale «di non volere vedere il padre perché ne ha paura e di essere felice con la madre e con i nonni, giungendo a scoppiare più volte in pianto al reiterarsi delle richieste di riconsiderare il suo rifiuto, ribadendo di avere paura del padre e di non volere essere allontanato dalla propria casa. Tale paura veniva riportata dal minore anche agli operatori del Servizio Sociale, che hanno riferito che il bambino chiedeva di far sì che il padre non si recasse più per incontrarlo al centro sportivo, perché lo spaventava».
A seguito di ulteriore consulenza tecnica, questo rifiuto veniva attribuito, ancora una volta, «causalmente» alla madre, la quale, a dire dell’ausiliaria del giudice, avrebbe nel tempo «condizionato psicologicamente, direttamente/indirettamente e volontariamente/involontariamente, [il figlio] per cancellare la figura paterna, non garantendo una tutela alle cure e il diritto alla bi-genitorialità del minore». Come “terapia” la consulente indicava al Tribunale di allontanare il minore «in via immediata e urgente dalla madre e dal suo contesto familiare; di trasferirlo in una struttura protetta per minori per un periodo non inferiore a tre mesi, con rientro presso l’abitazione del padre; di sospendere tutti i contatti tra madre e figlio per un periodo di tre mesi; di prevedere un trattamento psicologico comprensivo di psicoterapia sul minore e il recupero del rapporto affettivo padre-figlio». Prima il Tribunale per i minorenni incaricava il servizio sociale di individuare «una struttura altamente specialistica per presa in carico e predisposizione di un percorso di psicoterapia diretto “anche” al ripristino del rapporto con il padre, di attivare con urgenza incontri in spazio neutro, senza la madre, con cadenza trisettimanale “gradatamente implementata”, anche nel periodo estivo, ai quali il minore avrebbe dovuto essere accompagnato da educatore domiciliare o altra persona individuata dal tutore». Con successivo provvedimento, ritenendo il minore «esposto al serio rischio psicopatologico di sviluppare negativamente la propria personalità e l’identità del proprio sé, con possibile sostituzione della figura paterna, rischio che il Tribunale deve scongiurare con un immediato intervento a tutela del bambino anche al fine di garantire il suo diritto alla bigenitorialità», il Tribunale per i minorenni disponeva l’immediato allontanamento del minore dalla madre ed il suo collocamento presso il padre, l’immediato avvio del minore al percorso psicoterapeutico, con incontri protetti tra la madre ed il figlio con cadenza ogni quindici giorni alla presenza di personale specializzato e previsione di interventi di sostegno e monitoraggio del Servizio Sociale. Nel caso in cui il collocamento presso il padre fosse risultato difficoltoso, il Tribunale disponeva che il minore avrebbe dovuto essere inserito in una casa famiglia per il tempo necessario al recupero del rapporto padre-figlio.
La madre procedeva quindi a impugnare entrambi i decreti dinanzi al Tribunale per i minorenni e poi riassumeva il giudizio dinanzi alla Corte di appello di Roma, sezione minorenni.
Il decreto in commento interviene nella vicenda giudiziaria fin qui ricostruita non confermando la decisione del Tribunale per i minorenni di dare seguito alle indicazioni della consulente tecnica e compie un’operazione giuridica di cui la vicenda processuale, ma anche in generale l’orientamento giurisprudenziale di merito in tema di regolamentazione dell’affidamento dei minori, risultava avere urgenza: il giudice del gravame tenta di ricentrare l’attenzione dei soggetti coinvolti, in particolare di quelli istituzionali, sul bambino, restituendo a quest’ultimo la dignità di soggetto di diritto nei confronti del quale ogni misura adottata deve rispondere a criteri di ponderazione rigorosa e rispettosa dei suoi diritti fondamentali, senza dimenticare di segnalare come le relazioni familiari e affettive siano per loro natura refrattarie a interventi coercitivi, addirittura demandati all’esecuzione con ausilio della forza pubblica, fatto che per quanto possa sembrare di facile comprensione e massima di esperienza comune, è sempre più spesso ignorato nella prassi giudiziaria.
Preliminarmente in questa breve nota si procederà a ripercorrere i parametri di verifica della compatibilità dei provvedimenti con il benessere del minore interessato così come delineati dal provvedimento in esame.
Si dedicherà poi uno spazio alla riflessione critica della cornice teorico-politica all’interno della quale si assestano ancora le attività di accertamento e di decisione dell’autorità giudiziaria in ambito di diritto di famiglia e regolamentazione dell’affidamento dei figli: questo settore, infatti, risulta sempre di più piegato dal paradigma della bigenitorialità perfetta di elaborazione psico-sociale, perseguita con ogni mezzo, anche coercitivo, in quanto individuato dai “professionisti del conflitto” (mediatori familiari, terapeuti e psicologi forensi), quale baricentro della salute mentale del minore, e con lui della “salute pubblica”, minacciate l’una dall’assenza del padre come figura concreta e l’altra dal padre inteso come archetipo della norma (G. Petti-L. Stagi, Nel nome del padre. Paternità, conflitti e governo della famiglia neoliberale, Ombre Corte, 2015).
2. I criteri di controllo della conformità al superiore interesse dei minori dei provvedimenti in materia di regolamentazione dell’affidamento dei figli
La Corte di appello, prendendo le mosse innanzitutto dalla ricostruzione fattuale della vicenda, sottolinea la concretezza della paura della donna al mantenimento di un rapporto del figlio «con una figura paterna che lei sinceramente ritiene pericolosa, che agisce con quello che sembra una sorta di freddo intento risarcitorio nei confronti della [donna]», anche se questo significa «spaventare, come è accaduto, [il figlio] inviando le forze dell’ordine presso la sua abitazione e attentare alla tranquillità della sua vita familiare con un inusitato stillicidio di denunce, nei confronti della [madre] e dei suoi familiari, che certamente ha contribuito a fare percepire dalla reclamante [l’uomo] come oggettivamente minaccioso».
Si ristabilisce così ordine tra gli elementi che l’autorità giudiziaria deve vagliare, restituendo il giusto valore conoscitivo a una ricostruzione documentata dei fatti che le parti sottopongono all’autorità giudiziaria, prima che gli stessi fatti siano “manipolati” fino quasi a sparire dietro le valutazioni psicodiagnostiche
La Corte prosegue quindi rilevando che sotto il profilo giuridico non può essere messo in discussione «il diritto della [donna] di recuperare la propria serenità attraverso la rielaborazione e la presa di distanza da una relazione che per lei è stata fonte di sofferenza e umiliazione», senza trascurare tuttavia anche il diritto del padre «di vedere rispettati i giorni e gli orari degli incontri con il figlio».
Queste due posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte devono essere bilanciate nel procedimento relativo alla disciplina dell’affidamento del minore senza mai prendere il sopravvento sul suo superiore interesse, concetto che nel provvedimento in commento non rimane più vuota formula, ma si concretizza nel «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.).
È questa la dimensione che racchiude salute fisica e psichica, ma anche l’insieme dei fattori che assicurano il pieno sviluppo e realizzazione della personalità del minore, e che «riveste un rilievo assolutamente preminente», ma in concreto nella vicenda in esame ignorato dal Tribunale per i minorenni allorché ha disposto di procedere all’allontanamento del bambino dalla casa familiare con collocamento presso il padre ovvero in casa famiglia, con drastica limitazione dei rapporti con la madre.
Il superiore interesse del minore che pur è menzionato quale principio che ispira il provvedimento impugnato, secondo l’autorità del gravame «non appare sorretto da un adeguato bilanciamento, in mancanza del quale esso rischia di risolversi in una formula precostituita, che non tiene conto delle situazioni concrete che giungono all’attenzione del giudice nel caso specifico, accogliendo soluzioni apparentemente definitive ma di fatto inapplicabili e fonti di eccessiva sofferenza per il minore».
Il Giudice d’appello sottolinea, infatti, che la decisione del Tribunale per i minorenni non superi positivamente il controllo di corrispondenza del decisum con il benessere del bambino e in particolare rileva come nell’adozione della misura abbia omesso di: a) valutare comparativamente gli effetti sul minore del provvedimento rispetto al beneficio atteso; b) assicurare gradualità della misura adottata; c) verificare la fattibilità/sostenibilità della misura che ne condiziona l’efficacia.
Con riguardo alla valutazione comparativa degli effetti dell’allontanamento coattivo dalla casa familiare e l’interruzione, seppure temporanea, di ogni rapporto con la madre e la famiglia materna, la Corte di appello rileva la grave lacuna tanto nel decreto reclamato quanto nella consulenza tecnica d’ufficio di un approfondimento degli effetti sul bambino dell’allontanamento e del trauma conseguente e si propone così una modalità di attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità del minore, declinato nei fatti come esercizio di una potestà che si realizza attraverso l’annullamento ritorsivo dell’altro genitore sulla pelle del bambino, ridotto a res strumentale all’esercizio di una prerogativa unilaterale. Lo stesso diritto alla bigenitorialità, come elaborato in sede dottrinaria e giurisprudenziale, così è tradito dal momento che come si legge nel provvedimento in commento, «in quanto la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo, ma è un valore posto nell’interesse del minore, che deve essere adeguato ai tempi e al benessere del minore stesso» (da ultimo Cassazione civile sez. I, 17/09/2020, n.19323), mentre attraverso misure come quelle disposte nel provvedimento oggetto di reclamo si pratica nei fatti una sostituzione di una figura genitoriale all’altra, per lo più del padre alla madre (cfr. Comitato Cedaw, Concluding observations- Italy, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944), anche prospettando il ricorso all’ausilio della forza pubblica, così legittimando modalità di natura smaccatamente punitiva nei confronti del bambino, privato del suo mondo da un giorno all’altro.
Come si legge nel decreto in commento, «il dolore vivo della forzata separazione, con drastica limitazione anche dei contatti telefonici, rimane sullo sfondo, recessivo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse alla attuazione coattiva del sempre richiamato diritto alla bigenitorialità».
Richiamando quindi l’attenzione sulla necessità per il giudicante di avvicinarsi al caso concreto e mettersi in ascolto dei fatti per realizzare effettivamente l’interesse concreto del minore coinvolto, senza piegare la realtà alla luce di assiomi astratti con misure che assurgono a trattamenti inumani, la Corte di appello legge nella paura del minore la misura concreta della non corrispondenza tra interesse del minore e il provvedimento adottato: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
Come si può pensare di ricostruire la relazione di fiducia e affetto con il padre in questa situazione di sofferenza? Si domanda la Corte di appello, ma, ancora, si domanda chi scrive, quale diritto o libertà fondamentale di una persona si realizza attraverso misure punitive dello stesso soggetto titolare del diritto o della libertà che si intende garantire?
È nel paradosso sotteso a questi interrogativi che si rinviene l’illegittimità della decisione impugnata, che non è caso isolato, ma ricalca un orientamento acriticamente adottato dagli uffici giudiziari sul territorio e finanche recepito dalla Suprema Corte, (Cassazione civile, 19 maggio 2020, n. 9143, sez. I, con nota di G.E. Aresini, Bigenitorialità: un valore da preservare a tutti i costi? Ilfamiliarista.it, 20 luglio 2020), così come il suo disancoraggio da solidi riferimenti medico-scientifici, considerato il rigetto unanime da parte della comunità scientifica del nesso causale tra presunto atteggiamento induttivo della madre e rischio di involuzione psicopatologica del minore, argomento a fondamento della cosiddetta “alienazione genitoriale”, anche indicata con la sigla PAS, dall’inglese Parental Alienation Syndrome, di recente oggetto di attenzione da parte del Ministero della salute che, a seguito di interrogazione parlamentare della senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, ha sottolineato nella risposta del 29 maggio 2020 l’uso improprio del concetto di alienazione nei termini di sindrome nei procedimenti di separazione e affidamento e degli interventi di “riprogrammazione” dei bambini attraverso l’allontanamento (per una lettura critica si rinvia a M. Crisma, P. Romito, L’occultamento delle violenze sui minori: il caso della Sindrome da Alienazione Parentale. Rivista di Sessuologia, n. 31 vol. 4, pp. 263-270; P. Romito, Storia della Sap, la sindrome che esiste solo in Tribunale. Sanità24, 2013; G. Kim Blank, T. Ney, The deconstruction of conflict in divorce litigation: a discursive critique of parental alienation syndrome and the alienated child, in Family Court Review, vo. 44, n. 1, 2006, pp. 135-148).
La seconda ragione per la quale la Corte di appello di Roma non ha confermato il provvedimento di allontanamento e di collocamento del minore presso il padre, è strettamente conseguenziale allo scorretto bilanciamento operato tra i diversi profili di rischio per il benessere del bambino e attiene al difetto di gradualità della misura disposta: il giudice del gravame ribadisce che «per ricostruire una relazione padre-figlio basata sulla fiducia e sull’affetto non esistono scorciatoie normative e l’avvicinamento deve essere necessariamente graduale» e appare «velleitario ritenere che sia possibile ricostruire un legame parentale recidendo l’altro. E questo rimane vero anche ove si condividesse la convinzione della CTU della sostanziale artificiosità della paura [del bambino] nei confronti del padre».
In questo passaggio argomentativo del decreto in commento l’autorità giudicante si sofferma a censurare qualsivoglia approccio rigido che reiteri «in una escalation provvedimentale il contenuto del precetto ineseguito» e nella consapevolezza della natura complessa che hanno le relazioni umane, comprese quelle familiari, si legge un inusuale quanto cruciale invito a «pazientemente continuare a tentare altre strade», evitando di comportarsi
“come i geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo che nell’esperienza due rette apparentemente parallele spesso si incontrano, rimproverassero alle linee di non mantenersi diritti, come unico rimedio alle disgraziate collisioni che si verificano; mentre in realtà non vi è altro rimedio che respingere l’assioma delle parallele e costruire una geometria non euclidea” (Keynes, 2013, pp 200-201, in Petti-Stagi, cit., p. 15).
Nel caso di specie, secondo la Corte, «il principio di gradualità richiede la previsione di prescrizioni puntuali e concrete che tengano conto degli impegni attuali e concreti [del bambino], impegni che devono immediatamente essere ripresi nella loro pienezza scolastica, sportiva e sociale», così rigettando la percorribilità dell’operazione di “riprogrammazione” individuale e sociale che la misura disposta si prefigge: per ristabilire la relazione con il padre, secondo la prospettiva teorica avallata dal provvedimento impugnato, si dovrebbe reagire recidendo bruscamente quella con la madre e con tutto il mondo che il bambino ha costruito grazie alla sua mediazione.
Oltre a non risultare graduale né misura rispettosa del benessere del minore, l’ordine di allontanamento del minore dalla madre con collocamento presso il padre ovvero presso struttura residenziale non è stato sottoposto, secondo la Corte di appello, a una rigorosa verifica in ordine alla sua concreta fattibilità/sostenibilità, presupposto che condiziona l’efficacia.
Sul punto la Corte di appello sottolinea infatti come la mancata esecuzione dei provvedimenti precedentemente adottati nelle sedi giudiziarie, in parte riconducibile anche a incolpevoli limiti e difficoltà organizzative dei servizi territoriali, non può rimediarsi con provvedimenti altrettanto ineseguiti, ma, ancora una volta, «con la sperimentazione di percorsi differenti».
In definitiva, si rinviene nel provvedimento in commento un’esortazione all’autorità giudiziaria di prime cure ad avere coraggio e riappropriarsi della propria funzione di giudice capace, più di altri soggetti istituzionali e professionisti “del disagio”, di porsi in prossimità ai minori e all’aspettativa di protezione che, come emerge dalla pratica processuale, gli stessi sempre e ancora ripongono nell’autorità giudiziaria.
Il passaggio argomentativo sopra richiamato smaschera, in chiusura, anche le inadeguatezze dei servizi chiamati a intervenire nei procedimenti di regolamentazione dell’affidamento con le funzioni più svariate (dal monitoraggio al supporto, dalla mediazione alla protezione), ma senza risorse concretamente sufficienti e senza professionalità adeguate. E così, ritornando al caso concreto, l’intervento che richiederebbe la presenza di educatore esperto per ventiquattro ore al giorno è di fatto ineseguibile, in quanto non può essere fornito dal servizio un intervento di tale natura per più di tre ore giornaliere, se non ricorrendo ad operatori privati pagati dal padre, «soluzione non adeguata sia per la mancanza di garanzie sulla professionalità di tali soggetti che per la mancanza di terzietà che il rapporto economico inevitabilmente ingenererebbe».
Peraltro, questo corollario dell’ordine di collocamento presso il padre, ma con ausilio di figura professionale ventiquattro ore al giorno sottende una valutazione di complessiva inadeguatezza della figura genitoriale paterna che avrebbe meritato maggiore approfondimento nella motivazione: si giunge a disporre l’allontanamento di un bambino dalla madre, comunque sempre ritenuta «rispondente ai basilari bisogni di protezione e sicurezza del figlio», con incontri protetti con cadenza quindicinale, per collocarlo presso l’altro genitore che però si ritiene necessitare di ausilio permanente per svolgere la sua funzione genitoriale.
La Corte di appello di Roma procede quindi ad approfondire nel caso in esame in base ad elementi concreti il modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, le rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, indicando come strada percorribile per vagliare la possibilità, in sicurezza, di ristabilire una relazione affettiva tra padre e figlio, con gradualità e nel rispetto dei tempi del minore, la progressiva attribuzione al padre della responsabilità di impegni quotidiani che concretizzano nel caso in esame i doveri di cura e accudimento. Così, nella prospettiva del giudice del gravame, la genitorialità si vede tradotta in concreto e secondo diritto in responsabilità dell’adulto nei confronti dei minori, superando la prospettiva ancora prevalente nella quale la genitorialità viene declinata secondo logiche rivendicative che richiamano il superato istituto della potestas genitoriale.
3. La cornice discorsiva “mother blaming” quale forma di discriminazione nei confronti delle donne
Lo sfondo lungo il quale si è dipanata la vicenda processuale venuta all’esame della Corte di appello di Roma è il prodotto dell’intreccio di più traiettorie discorsive giuridiche, psicologiche e socio-politiche: dal principio della bigenitorialità di produzione giurisprudenziale al criterio “dell’accesso”, elaborato in sede di valutazioni psicoforensi per valutare il comportamento di un genitore nell’agevolazione della relazione del figlio con l’altro, passando per l’alienazione genitoriale e la terapia della “minaccia” per ristabilire la relazione genitoriale minata dall’alienante.
Tutte questioni divulgate attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però risulta nella pratica processuale intrisa di pregiudizi sessisti contro le donne, additate sempre come responsabili delle difficoltà relazionali tra i padri e i figli e ciò a seguito di valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi e si dilettano in giudizi prognostici di futuri danni che da comportamenti materni etichettati nei termini di “eccesso di protezione” potrebbero derivare alla salute psicofisica dei figli. Ciò, peraltro, si innesta in una cornice di analisi veicolate da noti autori contemporanei (cfr. tra i vari M. Recalcati; L. Zoja; C. Risé), che attraverso l’elaborazione di un sapere psicoanalitico divulgativo, non di rado accattivante e accessibile, individuano nella «società senza padre» (Fatherless Society), e quindi senza “norma”, il nodo della crisi della società contemporanea, un disagio sociale che va curato «con una nuova Legge, un nuovo Padre e un nuovo Ordine» (G. Petti-L. Stagi, cit., p. 9). Concausa del pericolo della società senza padri, insieme alla crisi della mascolinità come tradizionalmente costruita (sul tema si rinvia a S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, 2009; L. Gasparrini, Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, Settenove, 2016), sono le donne, contro le quali si è stratificato un repertorio di narrazioni “mother blaming”, che imputano loro, proprio in quanto madri, la responsabilità di tutti i comportamenti definibili come socialmente devianti, in un processo di colpevolizzazione che non avviene mai in forma diretta, ma occultando la critica rivolta alle donne dietro l’elogio dei valori della famiglia tradizionale e le preoccupazioni per una sana bigenitorialità che garantisca pari diritti e doveri per entrambi i genitori, promuovendo il discorso della genitorialità responsabile e cooperativa, a sostegno sia di madri sia di padri, come co-beneficiari di una genitorialità parificata.
Se da una parte, in questo registro narrativo, la famiglia è chiamata in causa perché si faccia pienamente carico del suo ruolo di agenzia di controllo primario, in base al presupposto che la sua dissoluzione e l’indebolimento della figura paterna come riferimento normativo, siano alla radice delle numerose patologie sociali che affliggono la società contemporanea, dall’altra parte con la separazione la famiglia di viene a sua volta patologica e il rimedio allora è fissarne la struttura a un quadro di normalità claustrofobica. Ogni comportamento difforme o modello organizzativo divergente da quello nucleare binario diviene sospetto e rilevante dal punto di vista nosografico. Così, scrive la sociologa Gabriella Petti, si curano le patologie sociali con la patologizzazione della famiglia attraverso una narrazione in apparenza neutra dal punto di vista di genere, che però si traduce in una violenza istituzionale di genere rivolta alle donne in modo così sproporzionato da potersi qualificare nei termini di discriminazione diretta nei confronti delle donne (cfr. Comitato CEDAW, 2011; 2017; GREVIO, 2020) e che rende concreta esperienza la paura «di perdere i figli», minaccia che comunemente le donne si sentono rivolgere dal partner che subisce la fine della una relazione sentimentale, soprattutto quando la ragione della fine della relazione è la determinazione delle donne a non subire più violenza dal partner (cfr. COE, Explanatory Report to the Istanbul Convention, 2011).
Quest’operazione culturale e politica che accomuna gran parte degli ordinamenti giuridici con una legislazione formalmente avanzata in tema di diritto di famiglia, uguaglianza di genere e prevenzione della violenza nei confronti delle donne, è riprodotta e amplificata dalla gestione legale della separazione e dell’affidamento dei figli: la magistratura, per reagire alla narrazione degli uffici giudiziari, divulgata anche grazie alla stampa, quali contesto pregiudizievolmente orientato contro i padri, descritti come deprivati dell’affetto filiale e resi poveri dagli obblighi di mantenimento, offre sempre più terreno agli esperti della mediazione familiare e alla psicologica forense che veicolano indisturbati il regime discorsivo della bigenitorialità e il suo risvolto patologico dell’alienazione genitoriale. Prendono così il sopravvento, in particolare attraverso l’istituto della consulenza tecnica d’ufficio disposta ex art. 61 c.p.c., valutazioni psicodiagnostiche che generalizzano luoghi comuni e stereotipi sessisti (R.E. Emery, R. K. Otto, W.T. O’Donohue, A Critical Assessment Of Child Custody Evaluations. Limited Science and a Flawed System. Psychological Science in the Public Interest, vol. 6 n. 1, pp. 1-29), e sottopongono conclusioni prognostiche di futuri danni che deriverebbero ai figli per lo più da comportamenti materni di protezione, così veicolando nei processi civili paradigmi argomentativi deterministici degni del scuola penale positivista di inizio Novecento, mentre la violenza, fisica o psicologica, non di rado direttamente assistita dai bambini e che spesso è la causa fattuale della loro resistenza a incontrare da soli il padre, viene oscurata, se non proprio occultata (Women’s Aid, Child First: Safe Child Contact Saves Lives, 2017; L. Pomicino; L.Beltramini; P. Romito, Freeing Oneself From Intimate Partner Violence: A Follow-Up of Women Who Contacted an Anti-violence Center in Italy Violence Against Women, 2019, Vol. 25 n. 8, pp. 925–944).
La giustizia viene quindi riorganizzata deformalizzando la ritualità processuale: in caso di inadeguatezza del regime di affidamento condiviso alla situazione concreta, ignorando che esperienza comune per le donne è subire dall’ex partner l’esercizio della genitorialità quale pretesto per continuare a esercitare controllo sulla loro vita, l’interpretazione della norma e i principi di diritto cedono il passo a resoconti psicologici, rapporti dei servizi sociali, indagini sulla personalità dei genitori ed esame della condizione psicologica dei minori. Nell’amministrazione del diritto, l’ausiliare del giudice si contrappone all’autorità giudiziaria come soggetto “davvero” super partes, sebbene la sua imparzialità, terzietà ed equidistanza dalle parti sia quantomeno discutibile alla luce delle molteplici relazioni professionali che si intrecciano tra gli esperti che si avvicendano continuamente nei ruoli di consulenti d’ufficio e di parte dinanzi ai medesimi uffici giudiziari. Si consideri inoltre che la postura che per lo più si predilige come garanzia di imparzialità è la distanza dai fatti così come accertati dall’autorità giudiziaria, compresa quella penale, e ciò anche dinanzi a provvedimenti definitivi, ritenendo, del tutto arbitrariamente, che sui fatti debba prevalere la loro interpretazione alla luce di un sapere che si offre come tecnico, ma che in concreto è intriso di orientamenti ideologici e visioni normalizzanti dei rapporti familiari (cfr. G. Petti, L. Stagi, cit.).
Le dinamiche della famiglia in via di scioglimento sono infatti solitamente ricostruite dall’esperto psicoforense definendo le esperienze a prescindere da come le narrano coloro che direttamente le sperimentano, arrogandosi il diritto di definire la “verità delle cose” attraverso la prospettazione di eventi in una storia lineare dalla quale sparisce l’imponderabilità dei sentimenti, compresa la paura dei bambini, ma anche le dinamiche di sopraffazione e controllo, ascrivendo generalmente la crisi familiare al determinismo ammantato di scientificità delle caratterizzazioni psicologiche delle parti con lo scopo di rendere la crisi stessa intellegibile nella cornice discorsiva più rassicurante del conflitto reciproco.
Ciò avviene nel contesto di elaborati che a un’attenta lettura rivelano la diffusione di un copione standard nel quale si alternano personaggi predefiniti dai tratti personologici più comuni con reminiscenze di profili nosologici ormai superati: le donne, per esempio, sono ancora stigmatizzate con valutazioni di isteria o istrionismo che dovrebbero essere, al più, oggetto di approfondimento sociologico in una prospettiva storica, in quanto schemi superati e contestati per la loro infondatezza scientifica e il portato stigmatizzante contro le donne, non di certo riferimenti di una psicologia contemporanea (cfr. S. Ferraro, La semimbecille e altre storie. Biografie di follia e miseria: per una topografia dell’inadeguato, Meltemi, 2017).
I conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale, costrutto veicolato attraverso le consulenze tecniche d’ufficio e recepito dalla prosa giudiziaria per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico che richiede intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, tutte figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, non di rado ponendo a carico delle parti spese irragionevoli che non tengono conto delle disparità economiche tra i genitori, così minando gravemente il principio di uguaglianza dinanzi alla legge.
Le prescrizioni che intervengono nel corso delle consulenze tecniche, spesso in assenza di ratifica da parte dell’autorità giudiziaria, non disinnescano le contrapposizioni tra le parti, ma ne aumentano l’intensità, mentre i bambini sono iperresponsabilizzati quale baricentro dell’equilibro tra i genitori attraverso la formula plastica del superiore interesse, e il loro rifiuto nei confronti di uno dei genitori, di solito il padre, viene patologizzato nei termini di alienazione parentale.
La paura manifestata dalle donne nei confronti degli ex partner, pur motivata da condotte pregresse che hanno giustificato l’adozione di misure di protezione, è per lo più stigmatizzata nei termini di “incapacità” delle donne di spostare l’attenzione dalla propria esperienza della relazione con l’ex partner a quella tra i figli/le figlie e l’ex partner nella sua qualità di padre, ciò ignorando che nella regolamentazione dell’affidamento la stessa legge impone di tener conto dei comportamenti pregiudizievoli, compresi quelli di violenza domestica (cfr. articolo 31 Convenzione di Istanbul) e, in generale, della qualità della relazione tra i genitori e dei genitori con i figli prima e dopo la crisi familiare (Cassazione civile sez. I, 20/11/2019, n.30191).
La “terapia” che si propone è la ridistribuzione dei ruoli familiari attraverso “misure di cura” che però nei fatti si confondono con “misure di punizione” del genitore ritenuto “alienante”: la prescrizione che di solito si rinviene negli elaborati di valutazione psicoforense, proprio come nel caso oggetto di controllo da parte della Corte di appello di Roma, è l’allontanamento coatto del minore dalla casa materna e il successivo reinserimento in quella paterna, dopo un passaggio di una comunità residenziale recidendo i contatti con la madre in una conseguenzialità logica, oltre che scientifica, tra causa ed effetti, problema e rimedio, completamente sospesa, senza trascurare che sono costantemente travalicati anche i limiti giuridici dell’istituto della consulenza tecnica, che da contesto di valutazione si trasforma in spazio di intervento terapeutico di dubbia correttezza deontologica, oltre che giuridica.
Con il provvedimento in commento, la Corte di appello di Roma prende le distanze da un governo delle relazioni familiari demandato alle discipline psicoforensi e sottolinea la necessità di rivolgersi alle vicende familiari e in particolare alle relazioni genitori-figli con uno sguardo nuovo e consapevole: l’indubbia complessità della decisione in casi riguardanti le relazioni familiari non può comportare la delega in bianco della decisione al consulente tecnico, ma bisogna ristabilire la preminenza del diritto quale parametro di riferimento del diritto delle relazioni familiari, con la consapevolezza che le relazioni umane non possono essere né misurate e spartite geometricamente né imposte come prescrizione o terapia, ma si costruiscono nella dimensione di esperienza di ciascuno/a e ponendosi in ascolto autentico della parola dei bambini e delle bambine.
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