ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il nuovo reato di abuso d’ufficio: è davvero venuto meno il sindacato sulla discrezionalità amministrativa?
di Renata Stancanelli
Sommario: 1. Premessa - 2. Il reato di abuso d’ufficio e l’eccesso di potere: orientamenti a confronto - 3. La riscrittura dell’abuso d’ufficio con il d.l. Semplificazioni - 4. Profili di diritto intertemporale.
1. Premessa
Il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) è stato nuovamente oggetto di attenzione da parte del legislatore con il decreto Semplificazioni (d.l. n. 76/2020, convertito con legge n. 120/2020).
La ratio dell’intervento è duplice. Si intende (come già con le precedenti riforme) circoscrivere e tipizzare meglio la condotta penalmente rilevante e così anche incentivare la ripartenza economica e sociale dell’Italia, rallentata dalla pandemia in atto e ostacolata dalla ritrosia dei pubblici funzionari all’adozione di atti o provvedimenti per il timore di doverne rispondere penalmente (c.d. “burocrazia difensiva” “paura della firma”).
In questa stessa ottica va letta la recente scelta del legislatore di delimitare la responsabilità contabile del pubblico funzionario e ricondurre il dolo rilevante ai fini della responsabilità erariale alle maglie più stringenti del dolo tipico della materia penale.
L’intervento legislativo offre altresì uno spunto interessante per riflettere su come possa mutare l’intenzione del legislatore, anche nel breve periodo, a causa delle contingenze del momento: basti pensare che quest’ultima riforma si mostra in netta contro-tendenza rispetto alla recente legge spazza-corrotti [1], oggetto anch’essa di accesi dibattiti in dottrina.
2. Il reato di abuso d’ufficio e l’eccesso di potere: orientamenti a confronto
Collocato nella parte finale del Titolo II, dedicato ai delitti contro la pubblica amministrazione, il reato di abuso d’ufficio, è stato considerato, stante la clausola «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato», come una norma sussidiaria e di chiusura del sistema di tutele della Pubblica amministrazione.
L’abuso d’ufficio è un tipico reato proprio perché punisce il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, nell’esercizio delle sue funzioni, procura intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
È necessario il dolo intenzionale rispetto all’evento, ossia l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto. Tuttavia, non si richiede che tale intenzione sia esclusiva come, invece, per esempio, nel peculato d’uso di cui all’art. 314, comma 2, c.p.
La duplicità dell’evento che deve essere voluto dall’agente è stata una scelta della legge n. 234 del 1997 che ha trasformato l’abuso d’ufficio da reato di mera condotta (a dolo specifico) a reato d’evento (a dolo intenzionale)[2].
L’obiettivo del legislatore del ’97 è stato anche quello di espungere dalla fattispecie i casi di eccesso di potere, vizio di legittimità dell’atto amministrativo la valutazione del quale consente al giudice penale di censurare la discrezionalità amministrativa. Proprio questa è la ragione delle riforme succedutesi negli anni: pur essendo norma di chiusura del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, l’art. 323 c.p. è un punto nevralgico del rapporto attività amministrativa e giustizia penale[3].
Attraverso tale fattispecie incriminatrice, il giudice penale è in grado di esercitare un sindacato sull’attività amministrativa la cui ampiezza, tuttavia, non è pacifica in dottrina e in giurisprudenza.
All’indomani della riforma del ‘97, infatti, sono stati sostenuti diversi orientamenti.
Secondo una posizione, con la nuova formulazione della norma il giudice penale non sarebbe stato in grado di sindacare l’eccesso di potere perché il legislatore aveva deciso
di ancorare la rilevanza penale delle condotte soltanto alla violazione di legge quale vizio di legittimità amministrativa.
Altra posizione assumeva che l’eccesso di potere non potesse sindacarsi nemmeno tramite il principio costituzionale contenuto nell’art. 97 Cost., che impone il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, così valorizzando il carattere programmatico e non precettivo della norma la cui violazione avrebbe dato luogo ad una condotta lesiva di principi generali ma non anche di specifiche norme di legge.[4]
Una tesi mediana ha operato una distinzione: non sarebbe più sussumibile sotto la fattispecie dell’art. 323 c.p. l’eccesso di potere intrinseco − ossia l’esercizio del potere discrezionale, che pur non corrispondente all’interesse pubblico, rimanga nell’ambito delle scelte consentite dalla norma attributiva del potere − ma lo sarebbe l’eccesso di potere estrinseco − ossia l’esercizio del potere finalizzato ad uno scopo del tutto estraneo a quello delineato nella norma attributiva[5].
L’orientamento della giurisprudenza, che è rimasto prevalente fino al decreto Semplificazioni, è stato quello di ritenere censurabile l’eccesso di potere nell’accezione più moderna, accolta anche dalla giurisprudenza amministrativa, del c.d. sviamento di potere: ossia il vizio che inficia tutte quelle condotte, che sebbene siano espressione di un potere autoritativo, esulano dai fini istituzionali ai quali il potere è preposto. Si ha sviamento di potere non solo quando si persegue un interesse privato, ma anche quando si mira a un interesse pubblico diverso da quello considerato dalla norma attributiva del potere. Questo conferma che la peculiarità del delitto di abuso d’ufficio sta proprio nell’aprire la possibilità di sindacare scelte discrezionali dei pubblici amministratori.
3. La riscrittura dell’abuso d’ufficio con il d.l. Semplificazioni
Come anticipato, il legislatore dell’emergenza ha modificato il delitto di abuso d’ufficio con un’evidente delimitazione della fattispecie penale tipica.
3.1. In particolare, ha sostituito la formula «in violazione di norme di legge o di regolamento» con la diversa formula relativa alla «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
La modifica che ha subito animato il dibattito tra gli interpreti è quella relativa all’espunzione della «violazione dei regolamenti» dalla formula legislativa. I primi commentatori della riforma la considerano negativamente osservando che il buon andamento della Pubblica amministrazione potrebbe facilmente risultare leso da talune condotte che non assumono più rilevanza penale[6]. Secondo quest’orientamento è proprio nella violazione dei regolamenti (spesso quelli che le stesse pubbliche amministrazioni si danno) che si annidano i principali abusi[7]: il sistema delle fonti secondarie riveste nel diritto amministrativo una particolare importanza, perché sono prevalentemente queste che disciplinano i rapporti pubblicistici dettando quelle «specifiche regole di condotta» la violazione delle quali può integrare il nuovo reato di abuso d’ufficio[8].
3.2. Con riguardo, appunto, alla formula relativa alle «specifiche regole di condotta» valgono le seguenti osservazioni.
L’opinione formatasi nei primi mesi successivi all’entrata in vigore della nuova figura di abuso d’ufficio ritiene che con questo espresso rimando il legislatore abbia voluto definitivamente escludere dall’ambito di applicazione della norma tutte le condotte che si sostanziano in violazioni di principi generali.
Si ripropone, così, il dibattito relativo alla funzione che l’art. 97 Cost. assume in relazione all’abuso d’ufficio che, come visto in precedenza, aveva già animato gli interpreti all’indomani della riforma del ’97: da un canto, l’orientamento secondo cui le condotte contrastanti con il principio dettato dall’art. 97 Cost. sono censurabili tramite l'art. 323 c.p. perché dall’art. 97 Cost. emergerebbe una specifica regola di condotta la cui inosservanza è penalmente rilevante; dall’altro, la posizione della dottrina che ritiene che dall’art. 97 Cost. non possano ricavarsi specifiche regole di condotta, ma semmai i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, come tali non più rilevanti per l’applicazione del 323 c.p.[9]
Sotto un altro profilo, ma pur sempre strettamente connessa, si colloca la tematica relativa alla discrezionalità, la cui estromissione dall’ambito di applicazione della norma è stata aspramente criticata da più parti.
Se ci si ferma ad una mera interpretazione letterale della disposizione, risulta evidente che il legislatore del 2020 ha voluto attribuire rilevanza alle sole regole che non implichino un esercizio di potere discrezionale da parte del soggetto agente. La ratio di tale modifica è quella di evitare il rischio che il giudice penale possa sindacare le scelte operate dall’amministrazione e non soltanto la sua attività vincolata. Interessante, a tal proposito, risulta l’analogia che parte della dottrina stabilisce con la disciplina dell’azione contro il silenzio-inadempimento di cui all’art. 31 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) [10]. Infatti, il giudice amministrativo, in sede di ricorso avverso il silenzio-inadempimento, può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata o comunque quando risulta che non residuino margini di esercizio della discrezionalità, diversamente deve limitarsi ad accertare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere.
La scelta operata dal legislatore, tuttavia, non è stata esente da critiche all’indomani della riforma. Infatti, sottolinea autorevole dottrina[11] che un’effettiva tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica amministrazione non può non comportare un sindacato sulla discrezionalità amministrativa, perché restringendo la sindacabilità alla sola attività vincolata al controllo del giudice penale sarebbero sottratte alcune delle condotte più pericolose.[12]
In realtà, all’indomani della riforma, parte della giurisprudenza sembra non valorizzare la formulazione letterale della disposizione mantenendo il sindacato sull’eccesso di potere almeno nella sua accezione di violazione dei limiti esterni della discrezionalità, «nel caso in cui l’esercizio del potere trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità”». Sembra, dunque, che la giurisprudenza abbia voluto, pur di conservare un margine di sindacato sulla discrezionalità, operare un distinguo e ritenere censurabile la discrezionalità, quanto meno nei suoi limiti “esterni”, e, invece, far venir meno il sindacato sui limiti c.d. “interni” della discrezionalità, consistenti nel «mero “cattivo uso»[13].
Sul punto, giova segnalare anche una recente pronuncia della Corte di cassazione che ha ritenuto configurabile il delitto di abuso d’ufficio, così come riformulato a seguito della modifica legislativa, «non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta è connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio»[14].
Se si considerano le pronunce richiamate, si può ragionevole affermare che i giudici di legittimità, non aderiscono a un’interpretazione letterale della disposizione, ma ne estendono l’ambito di applicazione anche a quei casi che siano espressione di scelte contrarie allo spirito che deve muovere l’azione amministrativa.
3.3. Invece, la portata incriminatrice del riferimento alla condotta di omessa astensione non è stata modificata dal legislatore[15]: il pubblico ufficiale continua ad essere punito se non si astiene in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. La formula «negli altri casi prescritti» è rimasta intatta e questo conserva rilevanza penale della condotta di omessa astensione anche a prescindere dalla violazione di una specifica norma di legge o di regolamento e dall’esercizio di un qualsivoglia potere discrezionale[16].
3.4. Altro elemento non intaccato dal legislatore del 2020 è quello relativo all’evento: per la consumazione del reato continua a richiedersi il duplice evento consistente alternativamente nel danno ingiusto o nell’ingiusto vantaggio patrimoniale necessariamente oggetto di dolo intenzionale da parte del soggetto autore del reato.
4. Profili di diritto intertemporale
Per le condotte non più penalmente rilevanti l’art. 2, comma 2, c.p. esclude la punibilità del soggetto che ha commesso il fatto, anche anteriormente all’entrata in vigore della norma, e se vi è stata condanna, questa viene revocata ai sensi dell’art. 673 c.p.p.
Le possibili implicazioni in termini di diritto intertemporale che la riforma comporta riguardano le condotte commissive.
Si prospetta una soltanto parziale abolitio criminis dell’abuso d’ufficio, perché il legislatore non ha optato per la scelta di eliminare la figura del reato di abuso d’ufficio dal nostro ordinamento (scelta che, secondo autorevole dottrina sarebbe stata, a queste condizioni, senz’altro più ragionevole e, comunque, meno contraddittoria[17]) ma ha ritenuto opportuno circoscriverne l’ambito di applicazione.
Tuttavia, la situazione non è così lineare come appare prima facie: occorre valutare se vi è stata una abrogatio sine abolitione, potendo alcune condotte rimanere penalmente rilevanti se riconducibili ad altre fattispecie incriminatrici previste nell’ordinamento.
Le vie tracciate dalla dottrina sono essenzialmente tre[18].
In primo luogo, occorre accertare se non vi sia stata una violazione – ancorché mediata – di legge; in secondo luogo, verificare se la condotta perpetrata non sia sussumibile sotto il segmento della condotta rimasta invariata; infine, valutare se la riduzione della tipicità dell’abuso d’ufficio non abbia comportato la “reviviscenza” di altre forme di reato.
Con particolare riferimento al primo accertamento, è necessario verificare se una condotta – prima facie violativa di un regolamento – non violi, sia pure mediatamente, una norma di rango primario che ne costituisca la base legale e dalla quale non residuino margini di discrezionalità nelle scelte del pubblico amministratore. È il caso trattato recentemente dalla Sesta Sezione penale della Corte di cassazione, che ha ricondotto nell’alveo dell’abuso d’ufficio la condotta di un pubblico ufficiale che aveva rilasciato un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore e altri strumenti urbanistici. Ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi «alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente». La Corte ha evidenziato che «dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.» [19]. Tuttavia, esiste anche un diverso orientamento che, facendo leva sulla ratio della modifica legislativa, ritiene che l’intervento del legislatore abbia precluso al giudice penale, oltre che l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali, anche quello di fonti normative di tipo regolamentare, che non possono essere sindacate neppure tramite il classico schema della violazione mediata di norme di legge interposte o della cd. eterointegrazione[20].
Altra strada ipotizzabile per la esclusione di un’avvenuta abolitio criminis, può essere quella di ritenere tali condotte sussumibili nella fattispecie della omessa astensione. Si avrebbe, così, una “ri-espansione” della fattispecie della condotta di omessa astensione, che diverrebbe applicabile ogni qualvolta condotte lesive del buon andamento della pubblica amministrazione non siano più punibili sotto forma di condotta commissiva. La condotta dell’omessa astensione non richiede che la mancanza dell’esercizio del potere sia ricondotto ad un esercizio dello stesso vincolato o discrezionale. Anzi, autorevole dottrina[21] rimarca che il dovere di astensione è ipotizzabile solo dinanzi ad un provvedimento discrezionale, altrimenti se fosse vincolato non ci sarebbe ragione per punire un siffatto obbligo.
Una terza via, prospettata dalla dottrina, è quella della reviviscenza di altre fattispecie criminose che erano state, per così dire, “messe in cantina”.
La prima è il c.d. peculato per distrazione che la riforma del ’97 aveva fatto venir meno dall’ambito di applicazione dell’art. 314 c.p. e l’aveva incluso tra le condotte penalmente rilevanti ex art. 323 c.p. Si può ragionevolmente ipotizzare che, stante la clausola di riserva indeterminata che sta all’inizio della disposizione, alcune condotte potrebbero essere sussunte sotto la fattispecie del peculato ex art. 314 c.p., che vedrà rie-spandere la sua sfera di applicazione. A tal proposito, merita di essere segnalato l’orientamento della giurisprudenza che nel tracciare il discrimen tra reato di abuso di ufficio e peculato ritiene che quest’ultimo sia ipotizzabile quando la violazione dei doveri di ufficio sia costituita dall’appropriazione di un bene esclusivamente personale incompatibile con il titolo per cui si possiede, mentre si ha abuso d’ufficio quando si faccia un uso indebito del bene a proprio vantaggio senza che ciò comporti la perdita dello stesso.[22]
Inoltre, ben si potrebbe prospettare l’ipotesi in cui venisse in rilievo un reato che, a seguito della modifica dell’abuso di ufficio, non rimanga più da questo assorbito. Si pensi al reato meno grave di omissione di atti di ufficio di cui all’art. 328 c.p.: in quest’ultima ipotesi, si avrebbe una modifica favorevole, applicabile a tutti i fatti per i quali è pendente il giudizio, ancorché commessi prima dell’entrata in vigore della norma. In situazioni di questo genere si verificherebbe una mera successione di leggi penali nel tempo, con l’applicazione della disciplina relativa alla mutatio criminis di cui all’art. 2, comma 4, c.p..
Da ciò ne consegue che l’interprete dovrà concretamente individuare la legge più favorevole e applicarla.
[1] Per una riflessione più approfondita, si rimanda a G.L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo salvo intese (e la riserva di legge?), in: Sistema Penale, 17 luglio 2020.
[2] Quanto alla condotta penalmente rilevante, il legislatore del ’97 ha sentito l’esigenza di circoscriverla e tipizzarla rispetto a quella modificata con la legge n. 86 del 1990 (la cui formulazione, che poco si discostava da quella originaria del codice del ‘30, era stata ritenuta eccessivamente generica e ampia). In particolare, veniva rimosso il riferimento al generico abuso dei poteri, inteso in senso ampio, e si delineava la condotta penalmente rilevante nella violazione da parte del pubblico ufficiale di norme di legge o di regolamento e nell’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
[3] A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in: Sistema Penale, 20 novembre 2020.
[4] Tuttavia, un filone della giurisprudenza considerava censurabile il vizio di eccesso di potere per il tramite dell’art. 97, comma 2, Cost. Per un’approfondita analisi sul punto si rimanda a: M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio in Sistema Penale, 29 luglio 2020.
[5] A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile cit.
[6] Sul punto si veda anche un precedente contributo su questa rivista a cura di: R. Greco, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Giustizia insieme, 22 luglio 2020.
[7] G.L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo salvo intese (e la riserva di legge?) cit.
[8] R. Chieppa-R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, V edizione, Milano, 2020.
[9] G.L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[10] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, cit.
[11] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, cit.
[12] Sul punto si veda l’intervista al Presidente della Sesta Sezione della Corte di Cassazione Giorgio Fidelbo pubblicata sul Giornale online “Il Dubbio” del 27/02/2021 a cura di F. Spasiano, https://ildubbiopushita.newsmemory.com/?token=837ddc74d00958b88ad50293ec7195cd_6039813d_2fe1_1346233&selDate=20210227&promo=push&utm_medium=Email&utm_campaign=ildubbio-E-Editions&utm_source=ildubbio&utm_content=Read-Button&goTo=01&artid=6.
[12] G.L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[13] Cass. Sez. VI pen. 8 gennaio 2021, n.442, p. 5.
[14] Cass. Sez. VI pen. 28 gennaio 2021, n. 8057.
[15] Sul punto si rimanda ad un articolo di G. Tona pubblicato sul Il Sole 24 ore di Lunedì 15 febbraio 2021, p. 20.
[16] Per un’applicazione pratica si veda: Cass. Sez. Feriale, 25 agosto 2020, n. 32174.
[17] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio cit.
Sul punto anche l’intervista al Presidente di Sezione della Corte di Cassazione G. Fidelbo pubblicata sul giornale online “Il Dubbio” del 27/02/2021 a cura di F.Spasiano,https://ildubbiopush-ita.newsmemory.com/?token=837ddc74d00958b88ad50293ec7195cd_6039813d_2fe1_1346233&selDate=20210227&promo=push&utm_medium=Email&utm_campaign=ildubbio-E-Editions&utm_source=ildubbio&utm_content=Read-Button&goTo=01&artid=6
[18] G.L.Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[19] Per una lettura si rimanda a Cass. Sez. VI pen. 12 novembre 2020, n. 31873.
[20] Cfr. Cass. Sez. VI pen. 8 gennaio 2021 n. 442.
[21] T. Padovani, Vita, morte e miracolo dell’abuso d’ufficio, in: Giur. pen. Web, 7-8 2020.
[22] Cfr. Cass. Sez. VI pen. 2 marzo 2016, n. 12658.
Basta norme - trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile.
di Maria Alessandra Sandulli * (* intervista rilasciata a Errico Novi, Il Dubbio, 7 maggio 2021)
«Mario Draghi è un premier che ha strategia. Sa dunque che le leggi possono non bastare. O meglio: che le nuove leggi non bastano se non sono armonizzate con le precedenti. E ancora, Draghi sa che in alcuni casi l’interpretazione conta più della lettera di una norma. Se vuole dunque davvero spalancare alle imprese l’autostrada della crescita deve chiarire alcuni aspetti cruciali della stabilità e spendibilità dei procedimenti amministrativi e di concessione di benefici economici. E per farlo, servirà forse un impegno comune delle magistrature supreme per garantire un rigoroso rispetto dei confini della giurisdizione amministrativa».
Maria Alessandra Sandulli, ordinario di Diritto amministrativo all’università Roma Tre, è uno dei pochi scienziati del diritto italiani che intrattengono con le massime istituzioni un rapporto di amichevole vigilanza. Risponde al Dubbio su alcuni aspetti decisivi delle norme che si intende modificare a breve con il nuovo decreto Semplificazioni. «Non sarà facile offrire al sistema economico e a ogni singolo operatore quella che chiamiamo stabilità del titolo autorizzativo o del beneficio. Eppure è indispensabile farlo».
Cosa intende dire, che dietro quel terribile acronimo, Pnrr, c’è un gigante con i piedi di argilla?
Non drammatizziamo fino a questo punto. Il Piano dichiara tra i suoi obiettivi: una ripresa rapida, solida e inclusiva e il miglioramento della crescita potenziale. Inutile ricordare quali gap sconti il Paese rispetto ai ritmi di crescita dell’Ue. D’altra parte abbiamo avuto il finanziamento più consistente, che è però condizionato ad alcune precise missioni. E per poterle effettivamente realizzare è però indispensabile anche incentivare le attività economiche private, che servono a produrre a loro volta reddito. Non basta la leva fiscale: sarà determinante la semplificazione amministrativa.
Sul punto paiono tutti d’accordo, governo in primis.
Certo, ma ci sono snodi sottovalutati, su cui è urgente intervenire. Tra i quali i meccanismi di semplificazione autorizzativa, in particolare il silenzio- assenso e la “Scia”, cioè l’avvio di una attività sulla base di una mera segnalazione. Atto tipico e necessario nella vita di ogni impresa. Nel corso dell’evoluzione normativa, i privati si sono trovati sempre più spesso a dover dichiarare e autocertificare non solo dati di realtà oggettivamente certi ma anche la sussistenza dei presupposti e requisiti di legge per l’adozione di un provvedimento o per l’avvio di una attività.
È questa la semplificazione, no?
Dovrebbe esserlo. Ma l’imprenditore è chiamato in questo modo ad assumere in prima persona la responsabilità di individuare, nel marasma normativo, le regole nazionali, sovranazionali, locali, di vario livello, inerenti il suo caso. E deve interpretarle nel modo che poi singolo giudice e Pa riterranno corretto.
Ma tanto una volta ottenuto il titolo è a posto. O no?
Lei pensa? Aspetti e ascolti. Intanto l’onere evocato è tanto più assurdo se si pensa che il Dl 76/ 2020 ha ridotto la responsabilità erariale dei funzionari pubblici per l’adozione di atti illegittimi ai soli casi di dolo.
Mentre per i privati?
Si resta esposti a interpretazioni giurisprudenziali non di rado discordanti. L’articolo 21- nonies della legge 241/ 90 sul procedimento amministrativo dice espressamente che con la segnalazione o la domanda il privato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazione mendace si configura il reato previsto dall’articolo 483 del codice penale, cioè il falso ideologico, salvo che la condotta integri un più grave reato. Il punto critico è il margine concesso all’amministrazione per accertare la sussistenza di quel falso e autoannullare il provvedimento autorizzativo: è un margine di fatto indeterminato. In altre parole il titolo abilitativo non si forma mai compiutamente. Viene in tal modo sterilizzato ogni limite temporale imposto dal legislatore all’amministrazione, e viene così meno, per il privato, la stabilità del titolo o del beneficio.
Com’è possibile?
Col decreto 76 del 2020 il pubblico funzionario è stato liberato dalla paura della firma, si è detto. Il punto è che l’autorizzazione o il beneficio derivanti da quella firma non sono stabili: nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore a partire dal 2004, le amministrazioni e gli stessi giudici amministrativi trovano spesso il modo per sterilizzare i limiti imposti al pubblico potere per annullare i propri atti. In questo, sono agevolati da alcune incertezze e discrasie dei testi normativi. Come noto, il legislatore ha stabilito, nel 2015, un termine massimo, 18 mesi, entro cui le amministrazioni possono annullare d’ufficio i propri provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici. Il termine decorre dall’adozione del provvedimento, inclusi i casi in cui esso si sia formato per effetto del cosiddetto silenzio assenso. Diciotto mesi per annullare sono tanti, ma almeno il privato lo sa e ci fa conto. In teoria. Tanto più che lo stesso limite temporale è stato fissato per il controllo sulla sussistenza dei presupposti per la utilizzabilità della “Scia”, laddove la Pa non abbia mosso rilievi dopo i 30 o i 60 giorni concessi per il controllo immediato sulla legittimità della stessa segnalazione. Si ipotizza poi una riduzione del termine da 18 a 3 mesi con il prossimo decreto Semplificazioni, sulla scorta di quanto avvenuto, col Dl 76, per i soli atti legati al covid.
E il governo tiene molto a questa modifica.
Va ricordato come il Consiglio di Stato, nella commissione speciale istituita per i decreti legislativi di attuazione della riforma Madia, avesse chiarito che il limite dei 18 mesi per il controllo postumo sulla “Scia” e per l’autoannullamento segnava un nuovo paradigma dell’autotutela, destinato a dare fiducia agli operatori e coerente con altri termini decadenziali.
Qual è allora il problema?
Il Consiglio di Stato ha spiegato che sarebbe stato opportuno chiarire che quel limite va applicato anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti annullamento ma assumono la definizione di revoca, risoluzione o decadenza dai benefici. A tali espressioni infatti si ricorre impropriamente anche per indicare la reazione all’illegittimo conseguimento del titolo. Ma allora si tratta di annullamenti travestiti.
Il Consiglio di Stato ha dunque indicato la strada?
Sì. Ma per assicurare il necessario contemperamento fra la stabilità di titoli e benefici ottenuti dai privati e l’esigenza di controllo su autodichiarazioni fraudolente, lo stesso articolo 21- nonies della legge 241/ 90 ha stabilito che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti, o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato”, possono essere annullate dall’amministrazione anche oltre la scadenza dei 18 mesi, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445 del 2000.
E perché tale “clausola” complica il quadro?
Perché le Pa e la giurisprudenza hanno progressivamente ridotto l’ambito di operatività del limite dei 18 mesi. Hanno cercato, per un verso, di spostare in avanti il dies a quo per la decorrenza del termine, e in parte ci sono riuscite. Inoltre hanno affermato che il vincolo della sentenza di condanna passata in giudicato non opera anche per le false rappresentazioni dei fatti. E soprattutto hanno fatto rientrare nel concetto di falsa rappresentazione dei fatti anche l’erronea ricostruzione e interpretazione del quadro normativo di riferimento.
Quindi il privato non rischia di perdere l’autorizzazione o un beneficio, anche economico, solo se dichiara deliberatamente il falso su un fatto oggettivo ma anche se si sbaglia a interpretare una legge?
Esatto. Ecco perché sono così pochi quelli che chiedono l’ecobonus, tanto per fare un esempio. Pa e giurisprudenza hanno poi utilizzato il richiamo alle sanzioni di cui al dpr 445 del 2000 per affermare che in ogni caso la dichiarazione non veritiera, cui viene sempre impropriamente equiparato il mero errore d’interpretazione del quadro normativo, determina la decadenza del beneficio. Una chiave di lettura aggravata dal fatto che il Dl 34 del 2020 ha inasprito le sanzioni per le false dichiarazioni, prevedendo anche la revoca dei benefici già ottenuti e addirittura l’interdizione da ulteriori benefici per i due anni successivi all’accertamento. Se questo inasprimento viene utilizzato anche per i meri errori su dati opinabili, e sganciato dall’elemento oggettivo del falso, i limiti all’autotutela diventano inutili.
Si può perdere tutto per un errore d’interpretazione.
Ed ecco perché a mio giudizio una figura dotata di straordinario senso strategico come il premier Draghi dovrebbe, di fronte a questo, blindare la scelta che si vorrà assumere in un contesto normativo chiaro e inequivoco, in modo che le amministrazioni di vigilanza, e gli stessi giudici, non abbiamo spazi ricostruttivi diversi da quelli chiaramente tracciati. Nessuna misura di semplificazione potrà altrimenti convincere il privato, tranquillizzare operatori e investitori. In tanti hanno già subito o visto altri subire conseguenze sproporzionate e a volte drammatiche.
A suo giudizio, Draghi ha presente questa distorsione?
Confido che ne comprenda la gravità. Si vuole ridurre da 18 a 3 mesi il termine per il controllo postumo. Forse è un limite così ristretto da impedire effettivamente l’attività di verifica delle amministrazioni. Il termine può essere anche meno ravvicinato, basta che una volta trascorso, il privato sappia di poter vedere annullato tutto solo se ha consapevolmente dichiarato il falso. Dal legislatore serve probabilmente un lavoro di interpretazione autentica sulle norme della riforma Madia, che non lasci spazi di incertezza in cui può insinuarsi l’interpretazione imprevedibile del giudice amministrativo. Ma ripeto: più importante di ogni altra cosa sarebbe un dialogo proficuo tra le magistrature supreme in modo da meglio assicurare il rispetto dei confini fra i diversi poteri pubblici. Ivi compreso quello fra giudice e legislatore.
La rivoluzione è assai meno banale di quel che si pensa.
Ma è anche necessaria, se non vogliamo sprecare l’occasione irripetibile che abbiamo.
Recensione a D. Bottillo: Il patrocinio a spese dello Stato nel processo penale e la difesa d’ufficio, Rogiosi, Napoli, 2021, pp. 575
di Maria Masi*
Il panorama giuridico-bibliografico si arricchisce di una nuova opera, frutto del lavoro meticoloso di un giudice del Tribunale di Napoli, la dott.ssa Diana Bottillo, che affronta due temi di particolare attualità: patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio.
La letteratura giuridica abbonda di saggi, trattati, manuali che si occupano di materie fortemente e, talora, aspramente dibattute su cui si arrovellano giuristi, accademici, magistrati, avvocati e operatori giuridici in senso lato; lo stesso dibattito politico-forense, quello più illuminato, cioè più sensibile al tema dei diritti, da anni è concentrato su temi che investono la “persona”, il “genere”, la “eutanasia”, la “maternità eterologa”, lo “ius soli” e via dicendo.
Patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio sembrano non suscitare particolari passioni negli amanti del diritto, argomenti negletti, obliterati, relegati, il più delle volte, alla categoria delle prassi burocratiche, circolari, adempimenti, compilazioni, moduli e, nella migliore delle ipotesi, ad un’altra categoria, fortemente in voga, quella dei protocolli d’intesa, che, tuttavia, finiscono per diventare, talvolta, strumento di contesa, talaltra, di rivendicazioni.
Eppure la differenza è netta ; anzi, a voler essere puntuali, il rango è diverso : nel primo caso parliamo di “temi”, le cui cure o fortune, per quanto “nobili e sensibili”, sono affidate al legislatore ordinario ; l’opera in questione, invece, si occupa di disposizioni che il legislatore Costituente ha avuto premura di collocare al primo posto nella parte in cui illustra i principi che devono informare l’intero sistema Giustizia, ritenendo di scolpirli nella nostra Carta con terminologia tanto chiara quanto perentoria: “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.
L’affermazione di ogni diritto, da parte di ognuno, quale che sia la sua condizione economica, trova, dunque, il suo riconoscimento nel principio appena indicato e rende meno vera e meno beffarda la considerazione di Calamandrei che l’Autrice ha opportunamente epigrafato nel suo volume.
La dott.ssa Bottillo, dunque, ha avuto il merito di occuparsi degli appositi istituti e lo ha fatto in un momento di transizione e confusione, segnato da devastanti crisi economiche, da tragici flussi di migrazione e turbolenti sussulti politici che hanno investito larghe fasce di popolazione nostrana ed estera, ponendola in quella condizione di difficoltà che il previdente legislatore costituzionale ha ritenuto non dover essere ostativo all’esercizio del diritto sotteso.
Opera ancor più meritoria perché realizzata senza “fronzoli”: con sano approccio pragmatico la dott.ssa Bottillo passa in rassegna gli articoli del Testo Unico ( n. 115 del 2002 ), ne illustra il significato, li legge alla luce dei principi tracciati dalla Consulta e degli indirizzi più ricorrenti offerti dalla Corte di Cassazione, si sofferma sugli aspetti problematici e più oscuri della normativa, fornendo suggerimenti interpretativi calibrati sulla eterogenea e cospicua casistica disaminata ; indica con puntualità requisiti, condizioni, percorsi, procedure, applicazioni.
Non manca di sottolineare, nell’impostazione pur rigorosamente laica, le criticità di alcune procedure (ad esempio, quelle per il recupero del credito professionale) e di indicare compiutamente i rimedi attivabili avverso i provvedimenti giudiziari e il correlativo procedimento. Il tutto con mirabile chiarezza e con efficace semplicità espositiva : in altre parole, un esempio di perfetto manuale.
“Manuale”, insomma, declinato in tutte le sue accezioni, è la migliore definizione possibile per il volume della dott.ssa Bottillo: di agevole e facile consultazione, chiaro, pratico, esaustivo, sistematico; eseguito, inoltre, a regola d’arte, che rasenta la perfezione.
Il volume sin d’ora costituisce un punto di riferimento imprescindibile per un approccio ed un’applicazione corretti agli istituti in questione: apprezzamenti non celebrativi ma di pura gratitudine che l’Avvocatura sente doverosamente di dover rivolgere alla sua Autrice, senza contare che la stessa ha destinato i proventi delle vendite del volume alla “Casa di Tonia”, comunità di accoglienza delle madri in situazione di difficoltà.
*Presidente f.f. del Consiglio Nazionale Forense
Le Sezioni Unite (Cass.S.U. 10242/2021) affrontano una singolare ipotesi di sentenza non definitiva
di Mauro Mocci
Sommario: 1. Una doverosa premessa in tema di collegialità - 2. La vicenda - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conclusioni.
1. Una doverosa premessa in tema di collegialità
Scorrendo l’epigrafe della sentenza n. 10242/2021 delle Sezioni Unite, salta subito agli occhi un particolare, normalmente assente nella generalità delle decisioni collegiali: la persona del relatore è diversa da quella dell’estensore.
È dunque solo ipotizzabile che – a prescindere dal caso di un impedimento alla stesura da parte del consigliere cui era stata affidata la relazione – la decisione sia stata presa a maggioranza, con il voto difforme del relatore. D’altronde, come è noto, la camera di consiglio è segreta (camera caritatis): la violazione di tale obbligo determina conseguenze disciplinari, giacché la segretezza delle deliberazioni dei giudici collegiali copre l'intero contenuto della discussione delle varie questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione e non è contraddetta dalle disposizioni sulla possibilità dei componenti dissenzienti del collegio di far risultare il loro dissenso in un verbale inserito in un plico sigillato[1].
Il confronto delle differenti sensibilità all’interno della camera di consiglio, se vale ad esaltare il principio di collegialità, deve però trovare una sintesi e deve apparire all’esterno come il risultato di una volontà unica (ossia la riduzione ad unità delle distinte opinioni dei partecipanti)[2]. Per tale motivo, l'art. 118 ultimo comma disp. att. c.p.c. regola la scelta dell'estensore, che è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione. L'estensore deve poi consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente che, datane lettura - quando lo ritiene opportuno - al collegio, la sottoscrive insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale o ne affida la scritturazione al dattilografo. Il giudice che ha steso la motivazione aggiunge la qualifica di estensore alla sua sottoscrizione (art. 119 disp. att.).
Nelle predette ipotesi si potrebbe determinare oggettivamente un allungamento del processo, perché l'estensore in minoranza impiega più tempo a costruire una decisione che non condivide, proprio quando tutto l'attuale sistema è volto a comprimere i periodi temporali di stesura delle sentenze (le statistiche inviate periodicamente dagli uffici giudiziari sono ripartire secondo le varie scadenze, trenta giorni, sessanta giorni, centoventi giorni, oltre).
Nei casi di persistenza del contrasto in seno alla camera di consiglio, appare perciò opportuno il trasferimento immediato dell'onere della motivazione su altro componente del collegio.
2. La vicenda
Il giudizio trae origine dalla domanda di risoluzione di una donazione modale (art. 793 c.c.)[3] formulata nei confronti del Comune di La Spezia. Quest’ultimo, donatario di un’area di circa 1.000 mq,, era però vincolato alla realizzazione di una costruzione da destinare agli scopi istitutivi dell’OMNI. Una volta soppresso quest’ultimo ente, il Comune aveva concesso a terzi il diritto di superficie nel sottosuolo dell’area, per la realizzazione di un parcheggio. Da ciò la reazione degli eredi del donante, che intendevano avvalersi della facoltà – contenuta nell’atto – di revocare la donazione, anche dopo la sua formale accettazione.
Il Tribunale adito dichiarò dapprima risolta la donazione, condannando il Comune al rilascio dell’immobile ed al rimborso delle spese di lite e rimettendo il processo in istruttoria per la quantificazione del danno. Successivamente, in esito all’istruttoria del caso, quantificò la somma dovuta a titolo di ristoro del danno da occupazione dell’area, nonché al pagamento delle spese di lite per le competenze maturate nel prosieguo.
Il Comune soccombente, che aveva formulato riserva di gravame avverso la sentenza del 2007, impugnò entrambe le pronunzie avanti la Corte d’Appello di Genova, la quale dichiarò inammissibile per tardività l’appello avverso la prima sentenza, rigettò l’impugnazione principale nei confronti della seconda sentenza ed, in accoglimento dell’appello incidentale, rideterminò la somma dovuta agli eredi del donante.
Con particolare riguardo alla declaratoria d’inammissibilità, la Corte territoriale affermò che la sentenza gravata, nel dichiarare l’intervenuta risoluzione della donazione, aveva altresì provveduto a liquidare le spese di lite rispetto al decisum, mentre la successiva pronunzia, statuendo sulle spese processuali, aveva liquidato solo quelle inerenti alle attività svolte appunto nella seconda fase. Da ciò il giudice di appello traeva la convinzione che fosse intervenuto, quanto agli effetti, un implicito provvedimento di separazione, il che avrebbe implicato, con la natura definitiva della decisione, anche la tardività dell’appello ed il passaggio in giudicato delle statuizioni ivi contenute.
A fronte del ricorso per cassazione da parte del Comune di La Spezia, con ordinanza interlocutoria del 9 marzo 2020 n. 6624, la Seconda Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sui principi riguardanti l’individuazione o no di una sentenza non definitiva, con la conseguente ricaduta sui tempi di proposizione del gravame e l’ammissibilità della riserva di appello[4].
3. L’inquadramento normativo
Recita l’art. 340 c.p.c. “Contro le sentenze previste dall'articolo 278 e dal n. 4 del secondo comma dell'articolo 279, l'appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l'appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio. La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello”. I richiami contenuti nella predetta norma riguardano la condanna generica (art. 278) o quella sentenza che, pur risolvendo alcune questioni, non definisce l’intero giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa (art. 279 comma 2° n. 4).
In altri termini, la separazione delle cause, che può avvenire anche in sede di decisione, determina la pronunzia di una sentenza su una sola parte del processo.
Originariamente, il codice di rito indicava tali sentenze con la denominazione di parziali. Con la novella del 1950, è stato mutato sia il nome (che è divenuto sentenze non definitive), sia il regime delle medesime, rendendole impugnabili anche separatamente dalla sentenza definitiva. Il nome originario si è peraltro conservato nella pratica[5].
In realtà, la giurisprudenza mantiene ancora una distinzione fra i due concetti. Le decisioni pronunziate su domande autonome introdotte con la stessa causa o su capi autonomi della domanda o che, in ogni caso, definiscono completamente singole posizioni costituiscono sentenze definitive ma parziali (ad esempio, si accerta la simulazione di un atto di alienazione fatto dal de cujus e si rimette la causa in istruttoria per la divisione ereditaria), mentre le decisioni pronunziate su questioni preliminari alla decisione finale e non contenenti alcuna statuizione sulle spese o in ordine alla separazione dei giudizi, costituiscono sentenze non definitive[6]. La distinzione va cioè operata sulla base di elementi formali, ma è importante giacché solo contro le sentenze non definitive è ammessa la riserva di appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c.
Con particolare riguardo al giudizio di legittimità, dopo la riforma del 2006 le sentenze che decidano questioni insorte nel giudizio senza definirlo, anche parzialmente, non possono più essere impugnate con ricorso autonomo e immediato: il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può ora essere proposto, senza necessità di riserva, unitamente all’impugnazione avverso la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio (art. 360, 3° comma, c.p.c.). Restano invece immediatamente ricorribili, secondo l’art. 361 c.p.c., le sentenze di condanna generica previste dall’art. 278 c.p.c. e quelle che decidono solo su una o alcune delle domande, senza delibare l’intero giudizio: in tali ipotesi il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso ed, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza parziale. Concludendo sul punto, le sentenze parziali sono immediatamente impugnabili sia in appello sia in cassazione, mentre per le sentenze non definitive può farsi riserva di appello, ma occorre attendere la pronunzia definitiva per l’impugnazione di legittimità.
Rientra nel genus della sentenza parziale anche la condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c., allorquando il giudice – sollecitato da un’istanza di parte – “può limitarsi a pronunziare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”. E’ il caso in cui si statuisca sulla sussistenza dell’an, lasciando l’accertamento del quantum alla prosecuzione del giudizio. Di solito, la condanna generica accerta solo la potenziale idoneità lesiva del fatto (contrattuale o extracontrattuale), da cui la parte vorrebbe far derivare il diritto al risarcimento: pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica non produce effetti vincolanti, per il giudice del quantum, né sull’esistenza del credito, né sulla proponibilità della domanda[7]. Peraltro, nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l'effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione[8]. In tal caso, la prosecuzione del giudizio si risolve in un problema di quantificazione del risarcimento.
In buona sostanza, il carattere non definitivo di una sentenza presuppone, per un verso, il superamento delle questioni pregiudiziali o preliminari e, per altro verso, una pronunzia non sulla totalità delle domande di merito, ma solo su alcune di esse. Tuttavia, è sul piano formale che va posta la differenza con la sentenza definitiva, che deve contenere un provvedimento di separazione e la liquidazione delle spese di lite.7
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 10242, depositata il 19 aprile 2021, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell'individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte tra le stesse parti, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell'ambiguità derivante dall'irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l'appello in concreto proposto mediante riserva".
Il contenuto decisorio della sentenza muove dalla discussione delle argomentazioni portate dal ricorrente, secondo il quale i criteri formali individuati dalla giurisprudenza (come l’adozione di un provvedimento di separazione, la liquidazione delle spese di lite, la decisione solo su alcune domande) sarebbero stati recessivi a fronte di una qualificazione espressa da parte del giudice a quo, che, nella specie, aveva appunto dichiarato “non definitiva” la prima pronunzia.
In proposito, una consolidata giurisprudenza di legittimità ha affermato che, proprio in tema d'impugnazioni, nell'ipotesi di cumulo oggettivo di cause per connessione propria (artt. 34, 36 cod. proc. civ.) o per effetto di riunione dei processi ai sensi degli artt. 40 e 274 cod. proc. civ., il giudice può scegliere tra una pronuncia non definitiva su una singola domanda e una sentenza definitiva parziale. Quest'ultima opzione deve essere resa manifesta da un esplicito provvedimento di separazione o dalla statuizione sulle spese in ordine alla controversia decisa. Invece, nell'ipotesi di cumulo litisconsortile (artt. 103, 105, 106 e 107 cod. proc. civ.), la sentenza che definisca integralmente la controversia in ordine ad uno dei litisconsorti od intervenienti o chiamati in causa deve sempre ritenersi definitiva e contenere una pronuncia sulle spese e un provvedimento di separazione dei restanti giudizi. Nell'ipotesi, infine, di cumulo solo oggettivo di cause tra le stesse parti, che non presentino alcun nesso di dipendenza, subordinazione o pregiudizialità e, conseguentemente, possano dar luogo ad una pronuncia parziale definitiva, è operante la disciplina della scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva d'impugnazione differita.[9]
Inquadrato, dunque, il problema (derivato) del regime d’impugnazione nel problema (presupposto) della natura definitiva o no della sentenza che decida solo su alcune fra le domande proposte, le Sezioni Unite hanno ritenuto di restare ancorate all’orientamento espresso dal medesimo consesso dapprima con la sentenza 1° marzo 1990 n. 1577[10] e poi con le due pronunzie dell’8 ottobre 1999, nn. 711 e 712[11]. Secondo le suddette decisioni, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d'impugnazione differita (artt. 340 e 361 cod. proc. civ.), qualora non disponga la separazione, ai sensi dell'art. 279 secondo comma n. 5 cod. proc. civ., e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all'ulteriore corso del giudizio, atteso che, anche al fine indicato, la definitività della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la causa cui si riferisce e quindi necessariamente implica la separazione medesima. In particolare, con la coppia di sentenze del 1999, la Suprema Corte cercava di risolvere – una volta per tutte, visto che il precedente pronunciamento non era stato seguito in modo uniforme dalle sezioni semplici - il contrasto circa la definitività della decisione, in allora esistente fra i fautori di un approccio “sostanzialista”, volto ad esaltare la pronunzia del giudice come tale rispetto alla singola domanda, ed una visione “formalista”, ancorata ad indici esteriori sintomatici della definitività, sancendo la preferenza per la seconda soluzione[12].
Quest’ultimo orientamento, che trova la sua ragion d’essere nella certezza del riferimento a parametri oggettivi, è stato altresì riproposto da S. U. 28 aprile 2011 n. 9441[13] e ribadito dalla decisione in commento.
Alla considerazione degli indici formali intrinseci alla decisione impugnata – rifuggendo così da criteri succedanei - è pertanto collegata la costruzione della fattispecie portata all’attenzione delle Sezioni Unite, la quale peraltro contiene una particolarità, messa in luce dal ricorrente: il Tribunale aveva espressamente qualificato la prima sentenza come non definitiva, ancorché avesse contestualmente liquidato le spese di lite maturate fino a quel momento.
In altri termini, a fronte di un provvedimento che disponeva la separazione del giudizio e la liquidazione delle spese, l’estensore qualificava quello stesso provvedimento come sentenza non definitiva. L’evidente incongruenza della pronunzia – di cui correttamente le Sezioni Unite rimarcano il “contrasto con le connotazioni di certezza che il provvedimento decisorio dovrebbe rivestire al fine di garantire il pieno esercizio del potere di impugnazione, poiché determina la difficoltà di attribuire prevalenza all’uno o all’altro degli indicatori rinvenibili” – ha posto il giudice di legittimità di fronte alla necessità di trovare una via d’uscita, che però evitasse di ricorrere all’utilizzo di elementi di tipo sostanzialistico.
In tal senso, le Sezioni Unite hanno fatto richiamo a principi di carattere generale dell’ordinamento, ossia all’affidamento ed all’apparenza, escludendo tuttavia, in carenza di elementi di carattere oggettivo desumibili dalle modalità di svolgimento del processo, l’utilità di un’indagine metodologica circa la consapevolezza del giudice in ordine alla qualificazione della sentenza emessa (cioè se definitiva o no), proprio per evitare di dare ingresso a criteri distintivi di tipo sostanzialistico.
Ma, oltre i predetti principi, è stata richiamata – e questo pare essere il passaggio dirimente della sentenza n. 10242/2021 – l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in tema di diritto all’impugnazione, quale fondamentale espressione del diritto di azione, ai sensi dell’art. 24 della Costituzione[14]. In particolare, il riferimento ha riguardato la sentenza della Consulta n. 75 del 9 aprile 2019[15], la quale, nell’ambito di una questione concernente la notifica eseguita con modalità telematiche, ha ribadito la necessità di consentire la massima espansione del diritto fondamentale di azione e di difesa in giudizio. Da ciò la Suprema Corte ha tratto “una ragione giustificatrice di sistema che, nella concreta situazione oggetto di esame, impedisce il diniego alla parte dell’accesso all’impugnazione”.
5. Le conclusioni
La sentenza n. 10242 del 19 aprile 2021 appare in linea con la precedente, consolidata giurisprudenza (almeno a partire dal 1999, come si è visto) in tema di valutazione della natura definitiva o no di una sentenza, secondo i noti canoni formali. Probabilmente, la questione non sarebbe neppure stata rimessa alle Sezioni Unite, se la fattispecie non avesse presentato una dissonanza inconciliabile tra quegli stessi indici sintomatici della definitività (la liquidazione delle spese, da un lato, la dichiarazione di non definitività, dall’altro). E la scelta seguita a garanzia dell’effettività della tutela offerta dal processo – privilegiando la soluzione volta a consentire il potere d’impugnazione, altrimenti irrimediabilmente compromesso – si segnala, al di là del caso concreto, per la correttezza e la condivisibilità del criterio adottato. In altri termini, tutte le volte che il giudice si trovi in presenza di un contrasto tra elementi di segno opposto, che determinino una irrisolvibile ambiguità, dovrà fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento e ragionare secondo gli stessi.
[1] Così Cass. Sez. Un. 5 febbraio 1999 n. 23, in Giust. Civ. 1999, 6, 1, 1629, con riguardo ad un processo penale, come richiamata da M. CICALA, Rassegna sulla responsabilità disciplinare e civile dei magistrati, in Riv. Dir. Priv. 1999, 3, 521.
[2] Il problema si è posto con ancor maggiore forza a seguito della pandemia. Mi permetto di rinviare, in proposito, a M. MOCCI, Il principio di collegialità alla prova del Covid-1, in Il diritto vivente numero monografico 2020, pag. 158
[3] Sul modus apposto ad una donazione, cfr. Sez. Un. N. 5702 dell’11 aprile 2012, in Corr. Giur. 2012, 11, 1358 con nota di M. MARTINO, E’ mera quaestio voluntatis decidere se la donazione sia cum onere ovvero sottoposta a condizione risolutiva?. In dottrina, A. RESTUCCIA, Donazione modale e rapporto obbligatorio, in Riv. Notariato, 2011, 5, 1, 1149; U. LA PORTA, Alcune questioni in materia di donazione modale e stipulazione a favore di terzo, in Riv. Dir. Civ. 2007, 1, 2, 15.
[4] Ne parla ampiamente R. LOMBARDI, Sentenze definitive e non definitive: si preannuncia un ulteriore intervento delle sezioni unite, in Judicium, 2020, 8 ottobre
[5] E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, rist. 1957, p. 262; S. SATTA, Dir. Proc. civ. 7°, 302. Sul tema è utile approfondire anche mediante le letture di C. CEA, Sentenze definitive e non definitive: una “querelle” interminabile, in Foro it., 1993,2,480; M. BOVE, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. trim. proc. civ., 1998, 2, 2, 415; E. FABIANI, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it. 1997, 7-8, 1, 2147.
[6] Cfr. Cass. 18 giugno 2019 n.16289; Cass. 16 giugno 2008, n. 16216;.
[7] Cfr. Cass. 24 aprile 2014, n. 9290. In dottrina Tomei, La sommarietà delle condanne parziali, in Riv. dir. proc., 1996, p. 350 ss.
[8] Cass. 19 giugno 2015, n. 12724 e Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357.
[9] Cass. 25 marzo 2011 n. 6993
[10] In Foro it. 1990, 3, 1, 836
[11] Entrambe in Foro it. 2000, 1, 1, 123 con nota di A. FORTINI ed in Giust. civ. 2000, 1, 1, 63, con nota di GP. CALIFANO, Le sezioni unite civili ripropongono l’indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo
[12] In dottrina, per la tesi sostanzialista cfr. V. DENTI, Ancora sull’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, Riv. Dir. Proc. 1970, 560; S. SATTA, Commentario, 1966, II, 1, 320; V. ANDRIOLI, Commentario, 1960, II, 246; per la tesi formalista, V. CARBONE, Definitività e non definitività della sentenza, in Corriere giur. 1990, 705; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XXV ed., 2016, II, 325; L. MONTESANO, Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. Civ. 1985, I, 3132
[13] Successivamente anche da Cass. 19 dicembre 2013 n. 28467
[14] L.P. COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del <
[15] In Foro it, 2019, 11, 1, 3452, con nota di G.G. POLI, “I’m gonna wait” tillmidnight hour: la Consulta dichiara tempestive le notifiche telematiche effettuate dalle ore 21 alle ore 24.
9 maggio, festa dell’Europa!
di Guido Raimondi*
*Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell'uomo e Presidente della sezione lavoro della Corte di Cassazione
Credo che le celebrazioni per la festa dell’Europa, che ricorda il discorso di Robert Schuman pronunciato al Quai d’Orsay nel pomeriggio del 9 maggio 1950 sull’idea di un’Europa economica e, in prospettiva, politica riguardino da vicino i giuristi.
Chi, come chi scrive, è grato a Giustizia insieme per il costante contributo di idee e di riflessioni che sono di quotidiano ausilio nella propria vita professionale, non può non rendersi conto che essa si ispira ad una visione umanistica del diritto. Non è perciò difficile riconoscere la sua adesione senza riserve al progetto europeo, le cui fondamenta si radicano in una concezione che pone al centro la persona umana.
Dobbiamo essere consapevoli che con i suoi difetti, con le sue battute d’arresto, con lo spazio che talvolta è stato accordato a comportamenti egoistici, il progetto europeo ci ha posti al riparo dal flagello della guerra e ci ha garantito il consolidamento del metodo democratico, dello Stato di diritto e della protezione dei diritti umani.
Ritroviamo questa idea nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, e aggiunge che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Si tratta dei valori fondanti dell’Europa, e paradossalmente, anche quelli meno conosciuti, giacché è una percezione molto diffusa quella dell’Europa vista come arcigna custode di comportamenti irragionevolmente austeri, sovente presentati come imposizioni di Stati più forti su Stati più deboli, con la spinta che ne consegue al successo di movimenti sovranisti e nazionalisti, la cui sensibilità verso questi valori non è delle più elevate.
Non credo che l’auspicio, che appartiene profondamente a chi scrive, che i giuristi si sentano pienamente partecipi del progetto europeo, e si sforzino di offrire quotidianamente il loro contributo di idee perché il diritto europeo – che sia quello dell’Unione o quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – dispieghi tutte le sue potenzialità e si combini armonicamente con quello nazionale sia una posizione ideologica. Ciò, ovviamente, nel pieno rispetto di posizioni diverse.
La giurisprudenza delle corti europee ha forgiato i concetti di democrazia e di preminenza del diritto che oggi diamo per acquisiti, ma che occorre coltivare quotidianamente, perché il rischio che questi beni preziosi vengano offuscati è sempre presente,
Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo troviamo l’idea che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata concepita come uno strumento di concordia tra gli Stati europei intorno a un patrimonio comune d’ideali e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, uno strumento fondato sul concetto di società effettivamente democratica, caratterizzata dalla preminenza del diritto e sul rispetto dei diritti umani. Nella sua giurisprudenza la Corte ha chiarito che gli elementi caratteristici di una società effettivamente democratica sono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale (Handyside c. Regno Unito, 7.12.1976, § 49; Young, James and Webster c. Regno Unito, 13.8.1981, Serie A no. 44, § 63; Izzettin Dogan et a. c. Turchia (GC), 26.4.2016, §§108-109). In particolare, in Handyside la Corte ha sottolineato non solo l’importanza della libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione, ma anche la necessità del rispetto di opinioni che sono diverse, e quindi del pluralismo come carattere essenziale della società democratica.
Per questa ragione credo sia importante la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione, Grande Sezione, del 20 aprile scorso nella causa C-896/19, Repubblika, che, nel ribadire che dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, ne ha tratto la conseguenza, occupandosi del tema della indipendenza delle corti, che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, con un’affermazione che sembra abbracciare tutti i valori espressi dall’articolo 2.
Sono profondamente convinto della necessità di coltivare e di sviluppare ulteriormente il dialogo tra le corti europee e quelle nazionali. In questa prospettiva credo siano da salutare con grande favore tutte le iniziative volte ad incoraggiare il Parlamento alla ripresa dei lavori sulla ratifica del Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella consapevolezza che la mancata partecipazione italiana a questo strumento escluderebbe le corti superiori del nostro Paese dal dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo proprio sui temi più attuali che, verosimilmente, saranno quelli interessati dalla giurisprudenza consultiva della Corte di Strasburgo. L’ampio dibattito su questo tema che è stato ospitato da questa rivista va senz’altro nella giusta direzione.
L’idea stessa di Europa è nata sulla base di una comunità di valori. San Benedetto è stato scelto da Papa Montini nel 1964 come primo Patrono d’Europa, perché è stata la regola benedettina ad unire spiritualmente popoli così profondamente divisi sul piano linguistico, etnico e culturale.
È ferma opinione di chi scrive che i valori fondanti dell’Europa possano svolgere oggi questo compito, e che la loro sempre maggiore penetrazione nei sistemi giuridici nazionali ne sia la migliore garanzia.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.