ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La vita è una sola: perdere per possedere
Jacopone da Todi
Sommario: 1. Dimensioni del dolore: la memoria e l’oblio – 2. Diritto solitario, relazionale, istituzionale - 3. Forza e Ragione – 4. Progresso o Ciclo? – 5. Razionalità strumentale ed immaginazione – 6. Democrazie e nuova tecno- economia – 7. Tecnica ed epistocrazia – 8. Paideia democratica – 9. Tecnica: emancipazione od oppressione? – 10. Regolazione.
Per navigare nella difficile contemporaneità in trasformazione è necessaria qualche bussola.
Possiamo provare a formulare un lessico minimale aiutandoci con la filosofia e la poesia ma anche con le riflessioni del pensiero giuridico e delle scienze sociali.
1. Dimensioni del dolore: la memoria e l’oblio
La prima parola che soccorre è la parola dolore.
Il rapporto con il dolore dice molto della società; è essenziale per comprenderla.
La nostra società - è stato detto da Byung – Chul Han[1] - è una società senza dolore. Una società algofobica. Questo è stato vero per lungo tempo. Ora è molto meno vero. Ma al ritorno del dolore (e della storia) tendiamo a reagire, d’istinto, in Europa, con grandi rimozioni. Non si accetta la dimensione tragica dell’esistere. Non si accetta la distruzione. Si punta – per mancanza di coraggio – all’autodistruzione.[2]
Byung Chul Han si è proposto un’ermeneutica del dolore.
La prima notazione è la tendenza a vivere come anestetizzati. Evitando i conflitti.
Anche la politica evita i conflitti dolorosi, vive di pura creazione del consenso a basso costo, mediante un massivo uso dei mezzi di comunicazione di massa e la costruzione di narrazioni rassicuranti che hanno preso il posto delle ideologie novecentesche.
La politica è segnata dall’idea della mancanza di alternative. Della accettazione dell’esistente e della pura logica dell’amministrazione che tradisce l’ambizione costituzionale di un suo primato come sfera capace di fornire gli orizzonti di sviluppo della vita sociale.
Essa si abbandona alle imposizioni di sistema e sposa la linea dell’adesione alla c.d. nuova oggettività della quale si è avuto modo di discorrere con Sergio Foà, fatta di dominio della tecnica e di leggi economiche che appaiono inderogabili dal corpo sociale.[3]
Evita conflitti e confronti dolorosi, si affida al sistema mass mediatico per la diffusione di narrazioni rassicuranti che tengono il posto delle vecchie ideologie novecentesche al fine della creazione del consenso, funziona ormai analogamente a qualsiasi altro prodotto da vendere sul mercato della società affluente.
Una politica senza conflitto e senza speranza destinata a consegnare l’Europa ad un destino di irrilevanza in un mondo che rivaluta la forza, la politica agonistica ed il coraggio del dolore.
Le strategie di occultamento della sofferenza sono molteplici e finiscono per atrofizzare i processi di civilizzazione.
Determinano ovviamente non la fine della sofferenza ma l’impossibilità del suo riconoscimento e quindi il deperire delle politiche di inclusione.
La sofferenza; il negativo sono i passaggi essenziali ed ineludibili della dialettica hegeliana del riconoscimento (descritta nella Fenomenologia dello Spirito) e della evoluzione della coscienza infelice verso più progressive forme di comunità; si tratta – crocianamente - della dinamica della religione della libertà ed alla fine di ogni percorso emancipativo moderno.
L’approdo ad un mondo irenico è stato connaturato all’esperienza ordoliberale e ne ha costituito il tratto caratterizzante. Robert Kagan ha parlato di Venere e Marte a proposito di Europa ed America, la prima persa nel sogno kantiano della pace perpetua e la seconda gendarme del mondo hobbesiano.[4]
Il brusco risveglio legato alle nuove politiche della destra americana costringe l’UE a fare i conti con il ritorno della storia e del dolore.
Il riarmo sostituisce il Green Deal e ne fa naufragare le prospettive, peraltro esso, pur necessario per la sovranità europea e la possibilità di conservazione di uno spazio di Rule of Law esemplare nel quadro globale, sembra realizzato in un quadro emergenziale e non sufficiente coordinato che rischia di penalizzare le funzioni di integrazione sociale dello Stato già compromesse da anni ed anni di austerità finanziaria dovute alla crisi fiscale dello Stato ed all’incapacità di decidere una fisionomia del Welfare meno irrealistica di quella basata sull’idea che i diritti fondamentali (tutti e di tutti) non abbiano e non debbano avere un costo che li condiziona.
L’anestetizzazione universale investe anche la cultura.
La coscienza infelice di Hegel e del romanticismo è ormai inattingibile.
Si vuole solo un intellettuale compiacente.
“L’economicizzazione della cultura e la culturalizzazione dell’economia – dice ancora Byung Chul Han - si rafforzano a vicenda. Si abbatte cosí la separazione tra cultura e commercio, tra arte e consumo, tra arte e pubblicità. Gli stessi artisti vengono messi sotto pressione affinché s’impongano come marchi. Diventano conformi al mercato, compiacenti. La culturalizzazione dell’economia riguarda anche la produzione. La produzione post-industriale, immateriale, s’impossessa delle modalità della pratica artistica. Dev’essere creativa. La creatività come strategia economica consente però solo delle variazioni dell’Uguale. Non ha accesso al completamente Altro. Le manca la negatività della rottura, che fa male. Dolore e commercio si escludono a vicenda”.
È in corso una potente reazione i cui esiti non sono noti.
Quindi dolore del risveglio nella storia e nel conflitto.
Dolore della scoperta dell’ineluttabilità del costo economico dei diritti sociali.
Dolore di una politica responsabile chiamata a fare scelte difficili, di per sé mutilanti.
Dolore delle tante guerre in corso (guerra mondiale a pezzi diceva Papa Francesco).
Il filosofo che ha tematizzato il dolore come percorso di conoscenza è stato Aldo Masullo, il suo pensiero fuori dagli schemi andrebbe recuperato.[5]
E qui la questione del dolore si intreccia a quella della memoria e dell’oblio.
Alla questione dell’identità che tiene banco.
L’identità porta conflitto ed essa è fondata a volte su un’ossessione mnestica, sulla nostra incapacità di lasciare andare e di dimenticare (nelle esperienze individuali ed in quelle collettive).
Sulla trappola identitaria ha scritto, di recente, Yascha Mounk:
“Al posto dell’universalismo, certi settori della società statunitense stanno rapidamente adottando una forma di separatismo progressista. Scuole e università, fondazioni e alcune aziende sembrano essere convinte di dover incoraggiare attivamente le persone a vedersi come “soggetti razzializzati”[6].
Ed ancora per spiegare l’essenza della c.d. trappola identitaria:
“Siamo capaci di grande coraggio e altruismo quando si tratta di aiutare i membri del nostro gruppo, ma anche di terribile indifferenza e crudeltà di fronte agli individui che consideriamo membri di un altro gruppo. Qualsiasi ideologia con un minimo di decenza deve proporre una soluzione per attenuare gli effetti negativi di tali conflitti. Un problema cruciale della sintesi identitaria è che non lo fa. Gli esseri umani avranno sempre la tendenza a distinguere tra “noi” e “loro”.[7]
Non è casuale che al centro dei conflitti vi sia il diritto di esistenza delle piccole patrie o la secolare questione della convivenza fra Israele e la Palestina con le correlative ossessioni identitario securitarie che rendono assai complessa la via della pace.
La nostra società ha insistito oltre che sulla rimozione del dolore, anche sull’importanza della memoria, ma questo produce un effetto sicuramente non voluto e paradossale: la tendenza a non dimenticare il male, a non dimenticarlo mai.
Tale tendenza può portare a conflitti infiniti o a paci provvisorie (fondate sul mero cessate il fuoco come nel caso della guerra turco-cipriota, terribile storia dell’ultimo muro d’Europa).
La comprensibile tendenza a non dimenticare il male in definitiva non ci salvaguarda necessariamente dal suo ritorno se non si accompagna alla pratica di una perenne filosofia del dialogo.[8]
Gli antichi conoscevano l’importanza del fiume Lete. Lete, dal greco λανθάνω (lanthano), significa infatti essere nascosto, dimenticare, ed è il fiume dell’oblio della mitologia greca e romana. Esso appare inoltre nel Faust goethiano e in diversi scritti di Baudelaire.
Gli Orfici ritenevano che il fiume Lete fosse quello in cui le anime non dovessero bere né bagnarsi, proprio per non dimenticare il passato, arrivando, col tempo, a diventare più sagge.
Anche Platone definisce Lete (o Amelete) il fiume dell’oblio del mito di Er, narrato nel libro X de La Repubblica.
Ma il fiume Lete più famoso della letteratura è certamente quello virgiliano del VI libro dell’Eneide: «Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull’onda del fiume Lete» (En., VI 714-715). Anche in questo caso il fiume è l’abbeveratoio delle anime che devono dimenticare prima di reincarnarsi nel tentativo di purificarsi.
Saper dimenticare a volte è importante quanto ricordare.
Rawls separa talvolta la pretesa di giustizia dalla pretesa di pace: c’è qualche saggezza in questa sua posizione.[9]
Rawls individua cinque tipologie di popoli, in posizione decrescente rispetto alla possibilità di immaginarli come partner in una posizione originaria con i quali raggiungere un accordo giusto.
Popoli liberali: sono strutturati secondo le istanze liberal-democratiche e sono in grado di offrire equi termini di collaborazione ad altri popoli.
Popoli decenti: pur non avendo una struttura analoga a quella liberal-democratica, mantengono al proprio interno un qualche modello di consultazione (elezioni, o comunque diritto di scelta in generale), prevedono un sostanziale rispetto dei diritti umani e sono non aggressivi nei confronti degli altri popoli. La decenza è qui intesa come criterio empirico, piuttosto che derivante da un argomento teorico: Rawls fa l’immaginario esempio del popolo del Kazakistan, facendoci intuire un riferimento ai popoli emergenti che avviavano la democratizzazione dopo l’uscita dall’URSS, oppure ancora alle popolazioni islamiche dei vari "-stan" (Afghanistan, Pakistan...).
Assolutismo benevolo: in questa condizione gli stati, pur rispettando i diritti civili, politici e sociali, non prevedono forme consultive e negano quindi in parte o del tutto la partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive.
Popoli svantaggiati: sono quei popoli in cui a causa di sfavorevoli condizioni economiche e assenza di condizioni minime di sussistenza non riesce a consolidarsi una struttura politica riconoscibile, cioè non sono in grado di sviluppare istituzioni liberal-democratiche o decenti. Nei confronti di questi popoli, secondo Rawls, i popoli più fortunati (definiti “popoli bene ordinati”) hanno un dovere di assistenza. I popoli che si trovano in condizioni migliori devono cioè aiutare i popoli svantaggiati affinché entrino nelle condizioni in cui possono sviluppare delle istituzioni politiche. Questo dovere di assistenza è basato però su un principio meno oneroso del principio di differenza.
Popoli fuorilegge: non rispettano i diritti umani e sono aggressivi nei confronti degli altri popoli, destabilizzando con il loro comportamento gli stati appartenenti alle quattro precedenti categorie.
La varietà delle condizioni di vita dei diversi popoli non consente di perseguire la pace giusta secondo i canoni occidentali liberal-democratici ma costringe a strategie più complesse, anche e primariamente dialogiche.
Per raggiungere principi sicuri per il governo del mondo l’ordinamento internazionale deve prendere «gli uomini come sono, e le leggi come possono essere» e far convergere lentamente le diversità senza esasperarle con gesti di forza.
2. Diritto solitario, relazionale, istituzionale
La seconda parola è diritto.
Ma quale diritto?
Il diritto dei tre tipi di pensiero giuridico lo sappiamo è normativista secondo la lectio di Kelsen, decisionista secondo la lectio di Schmitt, istituzionale secondo la lectio di Santi Romano.
Pluralità di ordinamenti, pluralità di istituzioni nello stesso ordinamento.
Il diritto inscritto nella separazione dei poteri costituzionale è quello che vive nelle sue dimensioni istituzionali pluralistiche, negli organi costituzionali, nella amministrazione, nella giurisdizione, nella politica e negli organi di garanzia variamente articolati, e poi nel centro e nelle periferie del potere.
Ma qui forse sta emergendo un’altra valenza dell’esperienza giuridica.
Un diritto senza gli altri, un diritto puramente relazionale, ed infine un diritto istituzionale sempre meno centrale.
Il diritto automatico è quello legato ad esperienze solitarie dell’uomo connesso in rete. Il diritto dei contratti automatizzati.[10] Il diritto degli smart contracts, il diritto del lavoro disciplinato da remoto per chi è in smart working. Il diritto di uso dell’intelligenza artificiale formato dal produttore o da fonti eteronome che sono destinate sempre più ad occuparsi del rapporto uomo – macchina.[11]
Il diritto relazionale è tutto il diritto ordoliberale di matrice europea che ha recepito la lex mercatoria dagli anni novanta dello scorso secolo fino a questi anni di svolta - mediante l’operatività delle direttive di armonizzazione delle legislazioni e mediante la riduzione della rilevanza della dimensione organizzativa a favore di quella contrattuale e di mercato.
Il diritto istituzionale è ormai per lo più solamente un freno di emergenza: la vicenda del golden power è significativa – si potrebbe dire paradigmatica - in proposito; si tratta di intervenire solo per interessi strategici come definiti dal d.l. n. 21 del 2012 e successive modificazioni, per tutelare l'interesse nazionale in settori e filiere strategiche, per evitare che finiscano in mano straniera, ed evitare che le aziende bersaglio cadano vittima di operazioni finanziarie ostili. Il mercato fa il resto, secondo una logica di diritto privato.
Tutto il diritto pubblico è leggibile nel prisma dell’art. 2043 cod. civ. con ciò la sua patrimonializzazione è inevitabile come anche il declino delle finalità di “cura” della coesione sociale legate al diritto amministrativo ed all’interesse pubblico che lo ispira, lo muove e lo pervade o dovrebbe pervaderlo.[12]
La sorte ed il destino della Rule of Law ed anche la sua qualità stanno inscritte dentro il rafforzamento o l’indebolimento della logica istituzionale, romaniana, dell’esperienza giuridica.
Stanno dentro la capacità di comprendere ed accettare il grado di sofferenza che comporta ogni esperienza giuridica, nello strutturarsi delle novità storiche, per accertarle e per governarle, superando la dura oggettività luhmanniana[13] in forme di comunità capaci di restaurare un immaginario sociale alla Castoriadis[14].
Questo è il compito di chi progetta il diritto, mentre il compito di chi lo applica è quello di chinarsi sulle singolarità sofferenti, per far sentire loro che il pati il patire è sempre un patire comune.
È quello che – spiritualmente – tenta Natalino Irti nel suo recente, alto e nobile, lavoro che indagando il sottosuolo dell’esperienza giuridica, vede il diritto come salvagente dalla spietatezza del mondo oggettivo della tecnica dispiegata.[15]
3. Forza e Ragione
È il tema della guerra risorgente.
Ma anche del declino di quello che Kojève chiamava lo sguardo del terzo. Lo spazio della giurisdizione e della mediazione.
Mediazione è quella del Parlamento che perde peso rispetto al potere del Governo, mediazione è quella della Corte Costituzionale che, di fronte alla complessità della post-modernità ed agli effetti di bilancio delle proprie sentenze, è costretta a rivolgere moniti al Legislatore, talvolta inascoltati, così rivelando spazi inediti di impraticabilità del controllo di costituzionalità, mediazione è quella dei giudici comuni che a volte seguono tuttavia percorsi ispirati a logiche troppo differenziate come quelle seguite dalla giurisprudenza civile ed amministrativa impegnate da sempre sui nodi del riparto con una mentalità retrospettiva che non vede che tutt’intorno il mondo cambia implacabilmente ed a velocità sostenuta in fondo facendo emergere che il nuovo potere non è nello Stato ma come ha notato Luigi Ferrajoli nei “poteri privati selvaggi” (ammirevoli per creatività ma bisognosi di limiti a salvaguardia dei public goods).
Mediazione è quella dell’ONU, sempre più contestata a favore dello scontro e del concerto fra logiche di pura potenza.
Mediazione è quella del sistema delle Corti internazionali che, scosse da crisi e contestazioni violente, scoprono la loro ineffettività ed i limiti di quel processo che è stato chiamato “tribunalizzazione del mondo”[16].
4. Progresso o Ciclo?
Sono note le parole di Walter Benjamin su Klee:
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede un’unica catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine, e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre quel che è andato in frantumi. Ma una tempesta spira dal paradiso; ed essa investe le sue ali con tanta violenza, che egli non può più richiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui sino al cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso.
Il moderno all’altezza di tempo di Benjamin – tempo del modernismo reazionario analogo, secondo Irti, al tempo che stiamo attraversando – manteneva ferma l’idea di progresso[17] ma la concettualizzava in forma di tempesta.
È stato notato a proposito di questo passo che “il passato, la storia, su cui si concentravano i suoi occhi disvelatori, non ingannati dalle false prospettive degli uomini, era solo un irrimediabile accumulo di rovine, che arrivava sino al cielo. Il progresso – l’idea che Benjamin vedeva disastrosamente smentita – era nient’altro se non l’ininterrotto precipitare della catastrofe verso il cuore imperscrutabile della tempesta. Esso non veniva completamente negato: il movimento in avanti rimaneva, inarrestabile; ma era ridotto all’effetto della pura e scarnificata violenza della bufera, in attesa di un riscatto – o almeno di un significato – che non arrivava.”[18]
Ormai questa vicenda si è consumata.
Il «progresso» – la parola allora ancora familiare e carica di promesse, ereditata dal pensiero ottocentesco – veniva ridotto a una fuga senza fine e senza senso che non smetteva di trascinarci attraverso un oceano di rovine: verso non si sa dove, ammesso pure che un dove esistesse, e fosse umanamente percepibile.
Ora – nel tempo della tecnica dispiegata e del raggiungimento di una nuova soglia antropologica - appare una parola moralmente vuota anche se la capacità di fare dell’uomo, nella scienza, nelle tecnologie dell’informazione, nel dominio della natura, nella medicina, sta raggiungendo una potenza inusitata.
L’idea dominante, nell’interpretazione dei fatti sociali, è di tipo biologico: la storia del vivente e della specie umana non è dissimile dalla parabola della vita individuale, c’è un nascita, uno sviluppo, una crescita, l’inevitabile declino e la morte.
Ciò è predicabile dell’uomo come individuo e come specie ossia come collettività umana. La storia delle civilizzazioni è la storia del loro formarsi e declinare. Non ci sono garanzie di progresso né crociane religioni della libertà.
A fronte del presentarsi del limite naturalistico (pandemia, crisi climatica, problemi energetici, sviluppo dell’atomo) ritornano in auge dottrine apocalittiche.
Si rileggono gli antichi: Esiodo, Eraclito, Lucrezio, Democrito, Polibio.
Si rivaluta l’idea – vichiana – di circolarità del tempo.
Tutta la modernità, dal Rinascimento in poi – l’«età nuova» nel cammino d’Europa – si era venuta costruendo intorno a ben diverse attitudini. Si era fondata sulla convinzione che l’operare incessante degli uomini – la produttività della loro fatica, della loro intelligenza, del loro lavoro quotidiano – creasse le basi per un mutamento, costante e verso il meglio, dei nostri modi di vita, almeno nella parte di mondo che abitiamo: una regione privilegiata (si riteneva), chiamata a edificare una civiltà senza eguali, che avrebbe elaborato una misura e una regola in grado di imporsi in tutti gli angoli della Terra[19].
Il Moderno è quindi giunto a compimento, in forma tragicamente disumanizzante: si impone quindi un ritorno spinoziano alla Natura oltre che la riscoperta di una dimensione di trascendenza immanente senza la quale non è nemmeno pensabile una progettualità sociale che superi la mera gestione amministrativa.
Il nostro tempo è il tempo della disillusione[20].
Certo il cerchio e la linea non sono oggetto di contrapposizione assoluta come nota sempre A. Schiavone: “Santo Mazzarino – uno dei maggiori antichisti del Novecento – aveva dimostrato in modo definitivo come un’opposizione così frontale (quella fra tempo ciclico e tempo progressivo) non potesse reggere, e come le due immagini – il circolo e la linea – in realtà si fossero sovrapposte e intersecate in maniera assai più frastagliata tra antico e moderno: ed è una ricostruzione cui resta poco da aggiungere. Ma ciò nonostante, rimane indubbio che l’enfasi sulla direzione del tempo – sull’esistenza di un vettore della storia, per così dire – sia appartenuta specificamente ai caratteri della modernità occidentale[21], e si sia congiunta, fin dalla cultura del Rinascimento, all’elaborazione di un’idea fondamentalmente ottimistica del rapporto fra passato e avvenire.”
Qui si apre una contraddizione:
“Da una parte l’accumularsi degli sviluppi impetuosi dell’intelligenza tecnologica e scientifica, e della sua proiezione trasformatrice sulla realtà di ogni singola vita; e dall’altra, … il prodursi corrispondente di una sempre maggiore difficoltà nel mettere in campo una progettualità culturale e sociale, e una razionalità politica e di governo – sia nell’ordine geopolitico, sia all’interno dei singoli Stati.
E tutto questo proprio mentre ce ne sarebbe stato più che mai bisogno, per tener dietro al precipitare dei mutamenti, e riuscire a controllarli e padroneggiarli per il meglio. Oppure, in altri termini, se vogliamo usare una formula più breve e sintetica: l’aprirsi di uno squilibrio crescente fra potenza (tecnica) da un lato, ormai in grado in più modi perfino di distruggere lo stesso pianeta; e razionalità (civile e politica) dall’altro. Fra la capacità indotta dalla tecnica e dall’economia capitalistica di creare innovazione, ricchezze, opportunità, ma anche inauditi pericoli e dissimmetrie: di moltiplicare, insomma, il carattere ambivalente delle proprie potenzialità; e la corrispondente incapacità di dirigere quei processi secondo scelte razionali globali. Di indirizzarli cioè verso obiettivi che non fossero solo di massimizzazione dei profitti e di soddisfazione smisurata di interessi particolari, politici o economici, nazionali o di classe”.
L’occidente si è autocompreso come il luogo dell’eterno tramonto (e dell’eterna rigenerazione), ma agli occhi di chi ha visto un altro mondo ed un altro tempo, è evidente che ormai non si tratta di crisi ma di declino per mancanza di un pensiero politico adeguato alla trasformazione in corso[22].
Suggestiona anche l’ipotesi della Fine della storia che ha antesignani nobili – prima di Francis Fukuyama – in Eric Weil e Alexandre Kojève [23].
Ivi si cita la nota della nota all’Introduzione alla lettura di Hegel redatta da Kojève dopo un viaggio in Giappone, nella quale si afferma, con argomento paradossale, che “ Gli Stati Uniti hanno già raggiunto lo stadio del comunismo marxista, visto che praticamente tutti i membri di una società senza classi, possono appropriarsi fin d’ora di tutto ciò che desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace.”
Alla luce di questa intuizione lancinante potremmo dare una lettura più chiara della simpatia fra Trump e Putin e della convergenza progressiva dei sistemi verso un modello neo-imperialista ed in fondo comunista nel senso dell’imposizione della legge dell’universale godimento disalienato (al di là del pensiero sulla fine della democrazia riportabile al paleo-libertarianismo che smantella lo Stato, il paradigma che muove verso la convergenza dei sistemi nell’economia-mondo, è l’oggettività funzionalistica – assicurata in Occidente dal mercato - totalmente deregolato – che regge la società dei consumi, traguardata anche dalle società dell’Oriente con le sue autocrazie paternalistiche).
Per Kojève del 1968 i russi ed i cinesi sono degli americani ancora poveri ed il futuro post- storico è l’eterno presente del Giappone, caratterizzato da un ethos snobistico e totalmente formalizzato ed aggiungeremmo noi dalla scomparsa del diritto come lo abbiamo conosciuto (istituzionale e relazionale) e della storia umana.
Un’eco di questa visione appare nelle letture che della crisi dell’Occidente fornisce Aldo Schiavone.
Circolarità e linearità del tempo hegelianamente coincidono, ma senza più lotta, conflitto, dinamiche del riconoscimento e del desiderio, senza più avvenire, senza più futuro.
La liberazione marxiana dalla storia di oppressione e dominazione si fa alle spese del Soggetto.
C’è il rischio che la disalienazione data dal un lavoro liberato mediante le macchine coincida con l’alienazione costituita dai gruppi di potere che progettano le macchine e dispongono dei moderni entitlements su di esse.
5. Razionalità strumentale ed immaginazione
È noto l’incipit della Dialettica dell’illuminismo di Adorno ed Horkeimer .
“L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”.
Le riflessioni di Heidegger sulla questione della tecnica sono consonanti con quelle dei francofortesi.
La fonte primigenia del sogno illuminista era la generalizzazione dello scambio contrattuale come meccanismo fondante l’economia di mercato che richiede un uomo calcolante; indirizzato dall’utile, capace di organizzare imprese, giustificate dal nesso rischio/profitto.
La scissione fra borghese e cittadino faceva il resto: consentendo all’uomo guidato nella sfera economica dal self interest di ispirarsi ad un interesse generale nell’esercizio del diritto di voto, da esercitarsi secondo regole di prudenza e non di forza (ed è l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali).
Questo processo si sviluppa parallelamente al costituzionalismo moderno e istituisce il weberiano diritto calcolabile dei codici della recezione del diritto romano borghese.
Con il tempo tuttavia la radicale infondatezza del potere sovrano emerso dalla rivoluzione borghese, la scomparsa del sacro e la morte di Dio, disvelano la natura nichilistica del progetto Moderno, la irredimibile mancanza di ubi consistam, la sua dolente arbitrarietà, la sua minaccia per la nuda vita.
Il diritto dei codici si dissolve in leggi particolari che seguono la frammentazione sociale (in quello che è stato descritto come passaggio dallo status al contratto).
La tecnica giuridica come ogni tecnica si mostra manipolabile all’infinito ed unica forma e manifestazione della volontà di potenza, che sconta su di sé l’impossibilità di limitare finalisticamente le possibilità dello sviluppo tecnologico che da strumento diviene fine.
Così si attua il rovesciamento della razionalità strumentale, unico motore del modo di produzione essendo la tecnica, in assenza di Dio la tecnica viene divinizzata.
Lo scontro fra gli umanesimi (liberale, socialista, nazifascista con i tratti disumanizzanti propri di questi tentativi – ove totalitari - di forgiare un uomo nuovo) consuma, secondo la lectio heideggeriana della Lettera sull’umanesimo, durante le due guerre mondiali e, possiamo notare noi contemporanei, con la Guerra Fredda, ogni possibilità di eterodirigere la tecnica.
La tecnica autoreferenziale domina il modo e condiziona ormai l’autonomia del politico, al quale resta ben poco fra diritto sovranazionale, lex mercatoria ed automatismi macchinistici.
Il politico è così confinato nella sfera della mera comunicazione di narrative finalizzate alla coesione sociale (per lo più ormai securitaria nel declino delle funzioni di integrazione sociale dello Stato dovuto al definanziamento dei servizi pubblici) e riceve da altre sfere gli input necessari alla edificazione di costruzioni sociali.
Declina – con la morte delle ideologie – ogni forma di immaginario sociale.
J Dewey cede il passo a W. Lippmann, l’educazione alla manipolazione, la società paleo libertaria che disvela un mondo totalitario, post-nazista, è quella in cui gli apparati informativi, privatizzati, ma integrati negli apparati politici, condizionano le masse senza – ordinariamente – ricorrere alle politiche violente delle esperienze totalitarie non liberali.
Ripristinare l’immaginario sociale è necessario per riprendere le fila del progetto moderno tirandolo fuori dalle secche delle ideologie contemporanee imperniate sull’impossibilità di concepire destini generali [24].
Partita difficile, ma da giocare per non mettere a rischio l’autodeterminazione dell’uomo ed evitare la sua riduzione, già in corso, ad “homo consumens”, a consumatore manipolato e manipolabile.
6. Democrazie e nuova tecno-economia
Un altro nodo fondamentale è costituito dal rapporto fra le democrazie nazionali e la nuova tecno-economia globale.[25]
Carlo Galli[26] ha ricordato che il disagio della democrazia è cosa antica, è lo “spaesamento” di Tocqueville di fronte alla democrazia americana, al continente che aboliva i ruoli sociali della vecchia società feudale, alla dichiarazione di Whitman “Sono vasto. Contengo moltitudini”, ma è anche la critica di Ortega[27] – padre del pensiero libertario – che analizza, come farà anche Canetti la questione della massa apatica, inerte, informe, e ad essa contrappone orgogliosamente l’individuo “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo (io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me) che si trova nelle Meditaciones del Quijote.
Con tale asserzione Ortega intende sottolineare l’importanza della singolarità (indicata da Irti[28] come il fulcro della vita del diritto nel tempo del declino della democrazia e del dispiegarsi della tecno-economia).
Ortega sente l'unicità della vita di ogni essere umano, non trasferibile (nessuno può vivere al posto mio) e determinata da circostanze spaziali e temporali: nasco in un determinato tempo e luogo e, in conseguenza di ciò, ne sarò condizionato, l’etica è sempre circostanziale. Irti consegna al giurista il messaggio di Ortega e conferma la professione di fede nel diritto privato, concepito in un’ottica ormai non solo dommatica e normativista, ma pienamente personalista e con un fondo libertario.
Il disagio della democrazia è soggettivo ed oggettivo secondo C Galli: è disagio del cittadino, ripulsa rabbiosa o rassegnata, ed è disagio oggettivo, strutturale per le tante promesse non mantenute della democrazia e la sua crisi dovuta alle trasformazioni del mondo, in fondo possiamo dire, alla privatizzazione del mondo (visibile nelle piattaforme, nelle moderne infrastrutture comunicative, nelle reti, nei cavi, nei satelliti che non sono in gran parte di proprietà degli Stati che ne dipendono e così la proprietà pubblica è recessiva come ha ben rilevato in tante sedi Paolo Maddalena [29]).
Il Moderno (la democrazia degli Stati nazionali) sfocia nel Globale (dell’economia) e la democrazia deperisce perché essa è legata ad una precisa dimensione territoriale e nazionale (di qui la reazione antiglobalista e sovranista che è un tentativo naturale – forse illusorio e destinato al fallimento ma soprattutto, a parere di chi scrive, destinato ad aprire nuove contraddizioni perché non è a livello nazionale o micro-regionale che possono governarsi i problemi del Globale– di opporsi alla strutturazione globale economica del mondo, frantumandolo istituzionalmente e – come vedremo – recuperandone la varietà delle identità chiuse in se stesse e violentate dalle trasformazioni che tuttavia restano là nella loro dimensione sovranazionale).
Un altro punto è la crisi dell’autonomia del politico: studiata a fondo ed intrecciata all’esaurimento del Novecento, dei suoi scontri ideologici, della classica forma partito di massa (sostituita dai partiti personalistici più dipendenti da risorse finanziarie private e tesi a veicolare nelle scelte pubbliche – o in quel che ne rimane- imperativi di efficienza provenienti dal sistema economico ispirato da finalità di costante aumento della produzione e della produttività, dimentiche dei temi dei limiti naturali allo sviluppo) .
L’autonomia del politico che è e non può che essere un potere che freni le spinte della tecno-economia ma che, per ragioni legate ai segnalati processi di de-culturazione delle masse e di aspirazione al privato benessere, non ha più capacità di indirizzo delle forze economiche verso pubblici interessi o obiettivi di pubblico bene.
Il popolo si presenta sempre più in forma astratta, non realmente partecipata, nei partiti prevalgono chiusure oligarchiche e la natura organizzativa si impone su quella associativa, anche a causa della mancata attuazione – in Italia - dell’art. 49 Cost. attraverso una legge che assicuri e disciplini la democrazia interna dei partiti (il partito era per Gramsci il moderno principe, collettivo, non personale).
Tutto ciò incide anche sulla salute della Costituzione e del costituzionalismo.[30]
Da questa crisi profonda nasce la critica radicale di Hans Hermann Hoppe che qui si cita perché è ideologo di riferimento dell’attuale amministrazione americana, insieme ad altri autori.[31]
Si tratta di un’analisi economica sociologica, tributaria della scuola austriaca di cui costituisce una radicalizzazione, che definitivamente ritiene che le monarchie – statistiche economiche alla mano – abbiano operato meglio delle democrazie nel governo dell’economia, nel mitigare le c.d. preferenze temporali al consumo immediato dei beni (lo Stato patrimoniale privato accresce il valore del patrimonio nell’interesse del sovrano, non punta solo sull’acquisizione dei redditi dei governati, mantiene una bassa tassazione, non fa guerre di annientamento, non dissolve i costumi privati familiari).
Le democrazie vengono criticate quindi come fattori di de-civilizzazione, perché ricorrono ad un eccesso di tassazione espropriativa della proprietà privata, per politiche sociali e redistributive, alla fine disincentivando il risparmio, il lavoro, l’intrapresa.
Nel finale l’autore, scettico sulla possibilità di tornare alla legittimazione a divinis delle monarchie, propone un puro e semplice smantellamento dello Stato.
7. Tecnica ed epistocrazia
Un’altra parola chiave è epistocrazia.
È ragionevole chiedere correzioni epistocratiche della democrazia sostiene Sabino Cassese nella prefazione al libro di Brennan contro la democrazia.[32]
Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent’anni, Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che l’elezione fosse una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava sceglieva non solo kràtos, ma anche aretè ed episteme, non solo forza, ma anche virtù e competenza.
Grosso modo tutte le teorie elitarie del potere (da Machiavelli a Pareto, fino a Sartori) vedono nella democrazia niente altro che un metodo per scegliere le élites non certo per garantire la sovranità popolare.
La crescente complessità della società dell’informazione, dei suoi flussi comunicativi, delle sue interrelazioni e dei correlativi processi decisionali determina la tentazione di passare da un regime di primato della politica, come pensiero della totalità sociale e del benessere generale ad un regime basato sul primato della conoscenza e della scienza.
Per Brennan - che riprende ed aggiorna la tradizione elitista - la democrazia è discutibile e non merita alcuna difesa.
Egli avanza le seguenti considerazioni:
“– alla maggior parte delle persone la partecipazione politica non apporta beneficio alcuno. Al contrario, non fa bene per niente perché tende piuttosto a istupidirci e corromperci. Ci trasforma in nemici nell’arena civile e ci dà motivo di odiarci l’un l’altro;
– i cittadini non possiedono un diritto fondamentale a votare o a concorrere per incarichi pubblici. Il potere politico, perfino nell’infima quantità implicata dal diritto di voto, deve avere una sua giustificazione. Il diritto di voto non è come le altre libertà civili, ad esempio la libertà di parola, di culto o di associazione;
– sebbene ci possano essere forme di governo intrinsecamente ingiuste, la democrazia non è l’unica forma di governo intrinsecamente giusta.
Un suffragio illimitato, eguale, universale – in cui ciascun cittadino ha automaticamente diritto a esprimere un voto – è per molti versi, a una prima analisi, moralmente discutibile. Il problema … è che il suffragio universale incentiva la maggior parte degli elettori a prendere le decisioni politiche in condizioni di ignoranza e irrazionalità, imponendo queste scelte a persone innocenti. Un suffragio illimitato, uguale e universale sarebbe giustificato soltanto se non potessimo concepire un sistema che funzioni meglio.”
Sintetizza con scetticismo la condizione dell’uomo liberale:
“Il liberalismo filosofico è quella concezione secondo cui ogni individuo possiede una sua dignità, fondata su ragioni di giustizia, che gli garantisce tutta una serie di libertà e diritti, i quali non possono essere calpestati alla leggera, nemmeno per perseguire un bene sociale più grande.
Questi diritti sono come delle briscole: impediscono agli altri di sfruttarci, di interferire con la nostra vita o di farci del male, anche nel caso in cui ciò arrecasse loro beneficio.
Nel discorso americano contemporaneo alle volte utilizziamo la parola liberal per indicare chi è di sinistra, ma in filosofia politica il termine si riferisce a coloro che pensano che la libertà sia il valore politico fondamentale. Solitamente i liberal sostengono, sulla scia di Mill, che dovremmo lasciare che le persone compiano scelte sbagliate finché non fanno del male che a sé stesse.”
E qui si arriva al fulcro dell’argomentazione critica contro la democrazia:
“Giustificare la democrazia richiede un lavoro ancora più grande (di quello relativo alla giustificazione dei diritti): dobbiamo spiegare perché alcune persone hanno il diritto di imporre cattive decisioni agli altri. In particolare, per giustificare la democrazia abbiamo bisogno di spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo incompetente.”
Ma l’epistocrazia cosa comporta?
Per Brennan si tratta di questo:
“Epistocrazia significa governo di coloro che sanno. Più precisamente, un regime politico è epistocratico nella misura in cui il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze, la capacità e la buona fede di agire sulla base di quelle capacità. Aristotele obiettò a Platone (che sosteneva la necessità del governo dei re filosofi) che, anche se il governo dei re filosofi è il migliore, nessun re filosofo esisterà mai.
Semplicemente, le persone reali non sono abbastanza sagge o buone da occupare quel ruolo, né, a differenza di quanto riteneva Platone, possiamo educarle in modo che ci assicuri che diventino sagge o buone.
Aristotele aveva ragione: provare a fare di qualcuno un re filosofo è un’impresa disperata. Nel mondo reale, governare è troppo difficile perché qualcuno ci riesca da solo. Peggio ancora, se nel mondo reale affidassimo a una certa carica il potere discrezionale di un re filosofo, quel potere attirerebbe il tipo sbagliato di persone – persone che ne abuserebbero per i propri scopi.
Ma l’argomento a favore dell’epistocrazia non si regge sulla speranza che esista un re filosofo o una casta di guardiani. Ci sono molte altre possibili forme di epistocrazia che si presenta quindi come una sorta di correttivo alla democrazia:
– suffragio ristretto: i cittadini possono legalmente acquisire il diritto di voto e concorrere per le cariche pubbliche solo se giudicati competenti (attraverso qualche sorta di processo) e/o sufficientemente ben informati. Questo sistema ha un governo rappresentativo e istituzioni simili alle democrazie moderne, ma non assegna a tutti il potere di votare. Ciononostante il diritto di voto è diffuso, forse altrettanto che in una democrazia;
– voto plurimo: al pari che in una democrazia, ogni cittadino ha un voto. Ma alcuni cittadini, quelli che sono giudicati (attraverso qualche processo legale) più competenti o meglio informati, hanno voti addizionali. Fu Mill, ad esempio, a difendere un regime di voto plurimo. Come discusso poc’anzi, egli pensava che la partecipazione politica avrebbe nobilitato le persone. Era preoccupato, tuttavia, che molti cittadini fossero incompetenti e troppo poco istruiti per fare scelte intelligenti nella cabina elettorale. Perciò propose di dare più voti alle persone più istruite;
– suffragio per sorteggio: i cicli elettorali si susseguono normalmente, tranne per il fatto che nessun cittadino ha automaticamente diritto di voto. Subito prima delle elezioni migliaia di cittadini sono sorteggiati per diventare pre-elettori. I pre-elettori possono poi guadagnarsi il diritto di voto, ma solo se partecipano a esercitazioni per l’acquisizione di competenze, ad esempio dei forum di discussione con altri cittadini;
– veto epistocratico: tutte le leggi sono sottoposte a una procedura democratica tenuta da un corpo democratico. Tuttavia un corpo epistocratico, riservato a pochi membri, conserva il diritto di veto sulle regole stabilite dal corpo democratico;
– voto soppesato o governo per oracolo simulato: tutti i cittadini possono votare, ma devono al contempo essere sottoposti a un test delle conoscenze politiche di base. I loro voti sono soppesati sulla base delle loro conoscenze politiche oggettive, magari con un controllo statistico relativo all’influenza di etnia, reddito, sesso e/o altri fattori demografici.
Vi sono tre principi a favore dell’epistocrazia:
Principio di verità: ci sono risposte corrette a(d almeno alcune de)lle questioni politiche.
Principio di conoscenza: alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze a proposito di queste verità, o sono più affidabili di altri nello scoprirle.
Principio di autorità: quando alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze o sono più affidabili, è lecito assegnare loro autorità politica su quelli che hanno una conoscenza minore.
Potrebbe rifiutarsi il terzo principio – quantomeno nel nomen - perché autoritario, ed accettare un principio antiautorìtario così formulato:
Principio di antiautorità: quando alcuni cittadini sono moralmente irragionevoli, ignoranti o politicamente incompetenti, è lecito non consentire loro di esercitare autorità politica sugli altri. O impedendo loro di detenere il potere o riducendo il potere che hanno al fine di proteggere persone innocenti dalla loro incompetenza.
Il mondo dominato dalla tecnica rende queste riflessioni drammaticamente attuali o impone di prendere sul serio J. Dewey se vogliamo rilanciare l’utopia democratica.
La crisi dei partiti e la crisi della partecipazione politica, il difficile rapporto fra economia e democrazia stanno incidendo profondamente sulle radici del potere costituzionale come concepito in Occidente, la competizione con le società autoritarie asiatiche fa il resto.
Il potere politico nella società tecnocratica tende ad essere distribuito in modo diseguale.
Il ruolo degli ingegneri informatici come progettisti sociali è solo la punta dell’iceberg.
Naturalmente non è desiderabile tale ineguaglianza nella dotazione dei diritti politici.
Brennan affronta questo tema ed osserva pragmaticamente che: “anche se tempo addietro molte persone sono state escluse dal potere politico per ragioni sbagliate, ora potrebbero esserci buone ragioni per escluderne dal potere altrettante o per assegnare loro una porzione di potere più piccola.”
La linea delle correzioni epistocratiche poi non comporta affatto meno Stato. Comporta farsi carico del problema della partecipazione consapevole.
“Per esprimere un voto davvero consapevole bisognerebbe saperne di più su ciò che un candidato difende, su ciò che ha fatto in passato e su ciò che intende fare in futuro. Un elettore bene informato dovrebbe essere in grado di valutare se le politiche preferite dal candidato sarebbero in grado di promuovere, o finirebbero per impedire, il verificarsi degli obiettivi che l’elettore sostiene. Ad esempio, supponiamo che io sappia che i candidati Smith e Colbert vogliono entrambi migliorare l’economia, ma Smith attraverso il libero scambio, mentre Colbert attraverso il protezionismo. Non posso fare una scelta ragionata fra i due senza sapere se è più probabile che l’economia si giovi del libero scambio o del protezionismo. Per saperlo, però, dovrei studiare economia. O supponiamo che entrambi i candidati Friedman e Wilson vogliano ridurre il crimine nei quartieri difficili, ma Friedman interrompendo la guerra alla droga, mentre Winston intensificandola. Anche qui, per esprimere un voto consapevole dovrei saperne di criminologia, di economia e sociologia del mercato nero, e di storia del proibizionismo.”
Penso che quest’esempio sintetizzi bene il serio problema posto dall’epistocrazia.
Preferirei tuttavia, prima di abbandonare il terreno dell’uguaglianza dei diritti politici, che si prendesse davvero sul serio la massima einaudiana “conoscere per deliberare” nella democrazia rappresentativa classica, ravvivando nello stesso tempo le visioni del mondo che hanno avuto un valore orientativo generale nella storia del Novecento, mediante una riforma della forma partito che garantisca una maggiore osmosi fra società civile e politica.
La crisi della politica si combatte con più società civile e con partiti meno oligarchici e più osmotici.
8. Paideia democratica
Già si è detto del nesso fra educazione e democrazia.
Lontano tuttavia appare il ruolo della scuola ipotizzato da J. Dewey che nella sua opera “Democrazia e educazione” porta a compimento i suoi fondamentali interessi per le questioni educative e per la teoria della democrazia, già preannunciata nel fondamentale saggio del 1888 The Ethics of Democracy.
L’educazione, per John Dewey, non è solo il luogo espresso nella scuola, che è considerata il «laboratorio della democrazia», così come il filosofo l’aveva teorizzata nel periodo della scuola-laboratorio di Chicago (1896-1903), ma è il senso stesso della democrazia intesa come «a way of life», un modo di vivere.[33]
Egli teorizzò un’educazione democratica per una democrazia che non si risolvesse semplicemente nel diritto di voto, ma si realizzasse ponendo tutti in condizioni eguali nella lotta contro le difficoltà della vita.
Non può esserci scuola democratica se non in una società democratica, e non può esserci società democratica se non con una scuola democratica, che educhi i giovani al significato profondo della partecipazione, della socialità e della corresponsabilità.
La crisi dei rapporti umani e l’incapacità di relazionarsi attraverso legami solidi e strutturati, impone di considerare nuove prospettive di pratica educativa nella società postmoderna, con l’obiettivo di proporre una idea altra circa il progetto di costruzione del cittadino responsabile, fondato sull’educare alla cittadinanza democratica.
Questa illuminata ma – non lo si nega - utopistica prospettiva umanistica sta o cade con l’idea dell’empatia quale fondamentale istinto dell’animale uomo, con la marginalizzazione delle spinte verso la logica della forza e della competizione esasperata, con la rivitalizzazione di quel che resta del progetto costituzionale di Stato sociale.
E se la scuola è stata criticata, e ben a ragione, dalle visioni convivialiste dell’educazione, promosse da I.Ilich, non è per abbatterla ma per aprirla ed arricchirla, facendone prayica sociale diffusa che vivifica le istituzioni.
La ragione alta della permanenza del diritto amministrativo contemporaneo con la sua funzione al di là del mero diritto privato non risiede tanto nel recupero – pur necessario – dell’autorità della decisione o anche del ruolo dell’istituzione, quanto piuttosto nel dispiegarsi delle sue caratteristiche di diritto della cura, della cucitura del legame sociale, attraverso il riesercizio del potere dopo l’annullamento dei provvedimenti connotati da vizi di legittimità.
E ciò importa non perdere la centralità della logica del servizio pubblico – anche immediatamente realizzato dal privato sociale - quale centro della giurisdizione amministrativa, affermato dalle riforme Bassanini e dalla legge n. 205 del 2000 seguita poi dal codice del processo amministrativo e dal consolidamento della giurisdizione esclusiva.
La lotta per la democrazia – scrive Kelsen – è storicamente una lotta per la libertà politica, cioè per la partecipazione del popolo all’attività legislativa ed esecutiva». In questa lotta si incontra la questione dell’educazione quale presupposto non formale della democrazia procedurale[34].
Collaborazione alla formazione della volontà dello Stato, dunque, non mero consenso. E che alla formazione della volontà statale si possa solo “partecipare”, secondo Kelsen, è già l’inevitabile torsione realistica della promessa di autonomia che l’ideale della libertà viene a contrarre in quanto autodeterminazione politica.
Se infatti è pur vero che democrazia e parlamentarismo non sono la medesima cosa e che una democrazia senza parlamento è concepibile (come fu per la democrazia degli antichi) oggi il Parlamento è comunque la forma che la democrazia tende ad assumere nello Stato moderno.
Il parlamentarismo si rivela quindi l’unica possibile forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale.
Alla sorte del parlamentarismo è quindi legata la sorte della democrazia, ma la sorte del parlamentarismo è legata alla costruzione di quello che Guido Calogero chiamava un “buon democratico” (nell’ABC della democrazia) onde evitare la degenerazione oligarchica dei partiti e del parlamentarismo e la conseguente disaffezione dei cittadini.
La democrazia, e in genere la politica, non è una cosa che stia per conto proprio, come una stella o un pezzo di pane.
La democrazia – diceva G. Calogero - è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di Tizio o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro gruppo unito. Non c’è la democrazia o la non-democrazia, c’è l’uomo che agisce più o meno democraticamente. La domanda “Che cosa è la democrazia?” si risolve perciò in quest’altra domanda: “che cosa debbo fare per essere un buon democratico?”
La logica parlamentare, contrapposta agli interessi corporati, considera la volontà politica come il prodotto insuperabile della dialettica partitica, di quelle formazioni collettive e intermedie, cioè, che raccolgono e interpretano le uguali volontà dei singoli individui.
Pur fatte salve le tendenze autocratico-aristocratiche che Roberto Michels così bene aveva rilevato e descritto nella sua Soziologie des Parteiwesens[35], Kelsen è ben fermo nel ritenere come il destino della democrazia non sia in nessun modo separabile dalla sopravvivenza del pluralismo partitico.
«L’ostilità alla formazione dei partiti e quindi, in ultima analisi, alla democrazia», scrive Kelsen, «serve – consciamente o inconsciamente – a forze politiche che mirano al dominio assoluto degli interessi di un solo gruppo e che, nello stesso grado in cui non sono disposte a tener conto degli interessi opposti, cercano di dissimulare la vera natura degli interessi che esse difendono sotto la qualifica di “interesse collettivo”, “organico”, “vero”.
Il pluralismo partitico si mantiene vivo osteggiando la natura oligarchica dei moderni partiti schiavi dei finanziamenti privati che hanno consentito l’emersione dei soggetti economico imprenditoriali che tendono ad assumere ruoli apertamente politici oscurando una caratteristica del liberalismo che consiste nella separazione (non solo dei poteri ma anche) della politica dall’economia e dell’economia dalla cultura.
La cultura non deve seguire solo la logica di mercato ma deve trovare un contesto istituzionale nel quale vivere e prosperare in modo autonomo, favorendo la cittadinanza attiva, al limite esperendo anche spazi di anarchica e feconda convivialità che non neghino la centralità della scuola ma la vivifichino.
L’essenza della democrazia è nel pluralismo e nel dialogo, nel metodo parlamentare, e la premessa di un buon dialogo è l’apertura all’Altro, la capacità di ascolto, il lascito che, sul piano del messaggio cristiano ci ha lasciato Papa Francesco fra le sue ultime parole.
9. Tecnica: emancipazione od oppressione?
La centralità della questione della tecnica ha connotato il dibattito nell’epoca novecentesca delle guerre mondiali, pensiamo alle parole di Ernst Jünger ne “I prossimi Titani” egli nel rifiutare il Kulturpessimissmus della cultura della decadenza, coglie nelle due guerre mondiali, come guerre di materiali, condotte per forza di innovazioni tecniche, uno scontro fra potenze industriali.
Si ricorda la necessità di un attivismo eroico e la frase di Marx secondo il quale non sarebbe stata più concepibile l’Iliade dopo l’invenzione della polvere da sparo. La guerra si presenta nel suo aspetto di puro annientamento.
Rivolta contro i popoli.
La tecnica – secondo Jünger – è “la magica danza che il mondo contemporaneo balla”.
Egli definisce la nostra come una società massificata che necessita per questo di élite molto ristrette destinate a svolgere una funzione importantissima, nel senso che quanto più cresce la massificazione tanto più grande è la forza ed il valore spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.
Del secolo nel quale siamo immersi Jünger non aveva una visione troppo positiva. Un medioevo molto propizio per la tecnica ma sfavorevole per lo spirito e la cultura.
Un’epoca di Titani: il Titano che riposa nel grembo della Terra in Pane e Vino di Hölderlin.
“L’uomo sostiene l’empito dei Numi, in epoche alcune. Indi, ritorna la vita un sogno che li sogna.... Pure, giova l'error, siccome il sonno giova.
E la Notte e il Dolore hanno potenza d’ irrobustir gli uomini, insino a quando non sia cresciuta nelle bronzee culle una stirpe d’ Eroi: gagliardi cuori simili, in forza, ai Numi.”
Nell’evo medio della tecnica – dice Jünger – i poeti potranno dormire, si sveglierà il Titano.
Le figure del Lavoratore, uomo all’altezza della tecnica che la usa nella vita quotidiana e dell’Anarca che si rifugia nel mondo interiore, nel mondo delle Lettere, sono le tipologie d’uomo che Jünger immagina nell’età che ormai stiamo vivendo.
L’elemento anarchico che ribolle nel fondo dell’umano viene visto come fattore di liberazione ma anche di dissoluzione.
L’Anarca è anche il grande solitario, il santo stilita, l’eremita, l’uomo che a che la vita è perdere per possedere. Il non possessivo. Il povero votato allo Spirito.
Per Jünger lo Stato mondiale – non la federazione di Stati del Kant della Pace perpetua – è il punto verso il quale tende l’organizzazione politica dell’umanità fra tanti conflitti.
La tecnica in quanto fenomeno universale cosmopolitico spinge inesorabilmente verso la globalizzazione, prepara lo Stato mondiale anzi in un certo senso lo ha già realizzato.
Non è detto – per Jünger – che all’apparire dello Stato mondiale gli Stati particolari scompariranno solo che diverranno realtà politiche di secondo piano.
Il mondo si sta riorganizzando secondo una logica che rivela il senso di questa transizione, una logica che allo Stato nazione sostituisce Imperi multinazionali (Stati Uniti, Russia, Cina).[36]
Da questa ristrutturazione politica della spazialità normativa dipenderà il valore emancipativo od oppressivo della tecnica, dominata da poteri privati, da imprese multinazionali che svolgono di fatto una funzione pubblica e che più che mai necessitano di essere conformate dalla politica per poter salvaguardare una dimensione sociale che protegga i public goods, per non essere i poteri selvaggi che finirebbero per divorare se stessi.
10. Regolazione
Centrale sarà la regolazione ed anche la partecipazione dei privati a queste attività.
Centrale sarà il PPP in epoca di risorse scarse fino alla creazione di un debito europeo.
Centrale sarà mantenere i servizi pubblici e farli evolvere nel nuovo contesto delle reti tecnologiche.
Fabrizio Cafaggi[37] ha distinto tre modelli di attività regolatorie partecipate da privati.
tre diverse modalità di coinvolgimento dei privati nei processi regolativi:
1) Un primo, forse più noto, che si traduce nella consultazione dei soggetti interessati, in particolare dei regolati selezionati discrezionalmente dal regolatore pubblico ovvero in forza di veri e propri diritti di partecipazione (è il modello delle attuali amministrazioni indipendenti ; autorità legittimate dalla tecnica).
2) Un secondo, in cui i soggetti privati, organizzati in veri e propri sistemi di autoregolazione o regolazione privata, svolgono la propria attività indipendentemente e separatamente dal regolatore pubblico ma adottando qualche forma di coordinamento diretto (attraverso accordi) o indiretto (attraverso il ruolo del giudice che trasferisce alcuni standard, definiti in sede autoregolamentare, al regolatore pubblico ovvero impone alla regolazione privata l’applicazione di alcune garanzie proprie dei procedimenti regolativi pubblici derivanti dai principi di imparzialità e trasparenza).
3) Un terzo, in cui regolatori pubblici e privati cooperano nell’ambito di un processo regolativo unitario, svolgendo, congiuntamente o in modo coordinato, le funzioni tipiche della regolazione.
In quest’ambito si distinguono co-regolazione, delega di regolazione e riconoscimento dell’autoregolazione da parte del regolatore pubblico.
Nel diritto della futura deregolazione che sta prendendo sempre più piede nel mondo della nuova oggettività il secondo ed il terzo modello rimpiazzeranno il primo.
Il diritto della regolazione sarà sempre più un diritto misto pubblico-privato.
Il diritto antitrust dovrà essere rivisto introducendo misure strutturali in luogo delle mere sanzioni pecuniarie.
Il fisco dovrà essere ripensato in epoca di declino del lavoro subordinato classico di tipo salariato.
Il Lavoratore jüngeriano sarà sempre più un ingegnere. La massa dei disoccupati creati dalla tecnica dovrà essere protetta mediante politiche redistributive se non si vuole militarizzare la società.
La forza e la coscienza comunque si scontreranno nel teatro della storia come ha descritto Stefan Zweig in Castellio contro Calvino. Il tipo del letterato ed il tipo dell’ingegnere si contenderanno il campo dei nuovi dilemmi etico-giuridici.
Nuovi linguaggi matematizzanti e basati su regolarità statistiche ambiranno a sostituire il diritto di impronta storico umanistica.
L’uomo del sottosuolo descritto da Irti ciononostante tenterà sempre di riemergere.
Il giurista ha il compito storico di far sopravvivere in questa difficile condizione il sogno del Soggetto moderno, facendo, insieme alla politica che deve sapere recuperare la sua autonomia, la sua parte nel far sì che la storia umana non abbia fine e non finisca il desiderio e la dinamica – talvolta conflittuale ma sempre transitoriamente – del riconoscimento.
Solo così all’era del Kratos dispiegato succederà un nuovo momento di riconoscimento empatico dovuto alla grande energia di Eros, che, come insegnano Eraclito ed il Platone del Simposio[38], è da sempre la vera forza civilizzatrice quando unita alla necessaria temperanza.
[1] Byung -Chul Han La società senza dolore, perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Torino, 2021.
[2] Carlo Baldini, uno straordinario poeta italiano scomparso troppo presto, ha profeticamente costruito con ironia il proprio Manuale di autodistruzione, cfr. C. Baldini, Manuale di autodistruzione, Roma, 1998 narrando di una relazione d’amore tossica. Egli ha invitato a “non sentirsi troppo utili”, e soprattutto, in modo antibeckettiano, a non considerare il fallimento come un titolo di merito. Ha cantato la meta di “un’esistenza frustrata ed inoffensiva, animata da piccoli rancori, ma privi di risvolti antisociali, caratterizzata da respiri brevi e poco profondi”. Un ritratto del Nessuno dei nostri tempi. Un antieroe. Un antiUlisse. Qui si tocca il tema di una possibilità rinascita dal Soggetto moderno, tema dal quale tutto dipende.
[3] S. Foà, G. Montedoro Dialogo sulla nuova oggettività. Napoli 2024.
[4] R. Kagan Paradiso e potere. Europa ed America nel nuovo ordine mondiale, Milano 2003.
[5] Ne “Il Tempo e la Grazia” Masullo distingue tra l’esperienza intesa come «attraversamento» e l’esperienza intesa come «senso vissuto». Nel primo caso si attraversa una «prova» e si può sedimentarla in uno stabile giudizio su ciò che è stato provato. Siamo nel campo del «semantico». Nel secondo caso l’esperienza è patire: «soffrire», provare, sperimentare una trasformazione. Siamo ne campo del «patico», dell’affettivo.
Tra l’esperienza che produce una rappresentazione, una significazione a posteriori di ciò che è stato vissuto, introducendo una cronologia, e il vissuto che è senso in se stesso (un «significato» senza codici conoscitivi, un conoscere che non è rappresentare, concepire ma vissuto puro che esperisce il mondo), Masullo colloca la vita sul versante di quest’ultimo:
«Ma la vita smembrata in una successione cronologica di momenti isolati non è più vita così come un racconto cinematografico risolto nella molteplicità dei fotogrammi che formano la pellicola non è più né cinema né racconto. La vita non come sequenza di posizioni spaziali sostituentisi le une alle altre “nel tempo”, ma appunto come vita vissuta non è nel tempo, non è una sequenza cronologica, bensì è “il” tempo».
La vita non è nel tempo, nella successione cronologica di fatti o stati d’animo. La vita è il tempo vissuto: un tempo continuo che scorre, ma non passa. Si potrebbe dire che la vita è nel «tempo inattuale» (l’unico in cui possiamo davvero dirci «contemporanei»): essere insieme nel passato e nel presente, convivere con le implicazioni del futuro già germogliate nella nostra esperienza.
[6] Mounk, Yascha. La trappola identitaria: Una storia di potere e idee del nostro tempo (p.12). Milano, Feltrinelli Editore. Edizione del Kindle.
[7] Mounk, Yascha. La trappola identitaria: Una storia di potere e idee del nostro tempo (p.21). Milano, Feltrinelli Editore. Edizione del Kindle.
[8] G. Calogero Filosofia del dialogo, Brescia. 2015-2020.
[9] J. Raws Il diritto dei popoli, Torino, 2002.
[10] A. Azara Gli automi nel diritto privato: dal distributore automatico al fenomeno della tokenizzazione Il foro napoletano, 2/2022.
[11] Su cui I. McEwan Macchine come me, Torino, 2020. E si pensi al Regolamento sull’AI.
[12] G. Montedoro, Il diritto pubblico fra ordine e caos, Bari 2018.
[13] Su cui S. Foà e G. Montedoro dialogo sulla nuova oggettività, Napoli, 2024.
[14] Sul tema si conta di tornare in un prossimo lavoro sulla decisione in corso di elaborazione.
[15] N. Irti Sguardi nel sottosuolo, Roma 2025.
[16] Si tratta di un problema noto come problema della Teodicea ossia del problema filosofico della giustificazione di Dio. Se c’è Dio perché c’è il male? Scomparso Dio la storia umana si è eretta – a Norimberga – a giudice e ci h a regalato il diritto internazionale che usiamo. I limiti di questa operazione secolare che ha portato all’espansionismo giudiziario ora in crisi ed anche pericolosamente contestato (con il rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca) sono evidenti ed intrinseci alla questione del nichilismo giuridico e di un mondo che, rimasto senza dimensione trascendente dopo aver superato l’oscurità della teologia politica, non riesce più nemmeno a concepire una dimensione di progresso umano che non sia legata alle macchine ed all’oggettività economica. Cfr. su questi temi, ma in prospettiva ottimista rispetto alle opportunità emancipatorie offerte dalla tecnica A. Schiavone, Occidente senza pensiero, Bologna, 2025 che guarda come molti alla liberazione dal lavoro umano e stigmatizza il ritardo del pensiero giuridico politico alla Hobbes ed a la Locke. Sulla tribunalizzazione del mondo come esito della Teodicea nel tempo secolare O. Marquard A. Melloni, La storia che giudica la storia che assolve, Bari, 2008.
[17] Sull’idea di progresso J. Bury Storia dell’idea di progresso Napoli 2018.
[18] A. Schiavone. Progresso (Parole controtempo) . Società editrice il Mulino, Spa. Edizione del Kindle.
[19] Ancora A. Schiavone op. ult. cit.
[20] Nel 1936 Georges Friedmann – uno studioso importante, tra i fondatori della sociologia del lavoro in Europa – poteva pubblicare un saggio, peraltro assai acuto, intitolato La crise du progrès. Esquisse d’histoire des idées: 1895-1936: una scelta impensabile fino al 1914 (in verità Georges Sorel aveva scritto già nel 1908 Les illusions du progrès:
Si avviava in tal modo una linea di interpretazioni che, sia pure con molte differenze, sarebbe arrivata sino a Raymond Aron, con il suo Les désillusions du progrès. Essai sur la dialectique de la modernité, apparso molto più tardi, nel 1969 E lo stesso lavoro di John Bagnell Bury, The Idea of Progress. An Inquiry into its Origin and Growth, del 1920, prima citato nell’edizione italiana, pur non ostile nei riguardi del concetto esaminato, non mancava di prenderne le distanze, allontanandosi da ogni nozione che non fosse nello stesso tempo problematica e relativizzante.
[21] Le Goff, voce «Progresso/reazione», in Enciclopedia, a cura di R. Romano, Torino, Einaudi, 1980, vol. XI, pp. 198-230 .
[22] N. Irti Sguardi nel sottosuolo, Roma, 2025 nota poeticamente con toni che ricordano la situazione esistenziale dell’uomo dostoevskjano. che altro ormai non resta che la libertà di “dire no” alla tirannia di qualsiasi apparato.
“Qui l’uomo incontra se stesso nella propria sostanza individuale e indistruttibile.
Il bosco è dappertutto; non c’è uno spazio appositamente dedicato all’esercizio della libertà. Ciò che conta è la decisione individuale, il rifiuto di lasciarsi ridurre a funzione tecnica. L’individuo se ne sente protetto; sfugge, gli sembra di sfuggire, al controllo tecnologico del mondo di sopra, in una sfera “privata”, che è, appunto, “priva”, ossia libera e spoglia di tutte le verifiche – quantitative, statistiche, numeriche – indagini di mercato e attribuzioni di “rating”. Ciascuno si stima e valuta per ciò che è, si confronta con altri (se vuole e crede), e può toccare brividi di esaltazione o cupi abissi di nullità. A codesto stato profondo corrisponde il diritto della singolarità e identità: che non significa soltanto – come appare da nostre notazioni – delle piene ed energiche particolarità, ma anche del disperdersi, frantumarsi, annichilirsi. Né sorgono fremiti di rivolta contro il mondo di sopra, il quale è vissuto (vissuto, più che ragionato) come una necessità incontestabile, una natura artificiale, posta accanto alla natura del nascere e morire, e, al pari di essa, forte del suo essere e del suo eterno ritorno. La seconda “natura”, fatta dall’uomo con fabbriche e mercati, apparati tecnologici e intelligenze artificiali, sta e si svolge al di sopra del livello stradale, ed ha il timbro di una inesorabile meccanicità, di un ossessivo funzionare. Contro di essa si sono levate insurrezioni cruente, dolorosi e lirici abbandoni, utopie e passioni liberatorie; ma essa sta lì, indulgente spettatrice, consapevole d’una sua intima volontà, mirante al domani. L’individuo o ne scampa al tutto, ritornando in quella che fu chiamata umanità di lusso; o la rifiuta con un gesto camusiano di disperato orgoglio; o vi entra per il vincolo di competenze e di prestazioni funzionali. Ma sempre si affaccia e si sporge nel sottosuolo, sicuro o illuso di trovare o ritrovare sé stesso, perché dentro gli preme l’ansioso demone dell’identità, di un io che possa dire io. Chiamare il diritto alla protezione dell’io nulla ha da vedere con il senso dello Stato, o consimili moti dell’animo: è il semplice uso di un rimedio, di quel poco o molto che lo “stare” insieme e l’organizzato convivere possono ancora offrire. Un diritto “usato”, ma non avvertito né considerato nelle sue connessioni istituzionali. Come uno schermo difensivo che per caso si trovi a nostra disposizione.
[23] Sul tema cfr.. M. Filoni L’azione politica del filosofo. La vita ed il pensiero di Alexandre Kojève, Torino, 2022 in particolare il capitolo 7 Fine della storia.
[24] Si tratta di un richiamo al libro di C. Castoriadis L’istituzione immaginaria della società Milano 2022.
Cornelius Castoriadis nato ad Istanbul nel 1922; cofondatore del gruppo e della rivista dell’estrema sinistra francese “Socialisme ou Barbarie”; economista all’OCSE; psicanalista e Directeur d’études all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Castoriadis può essere senza dubbio annoverato fra i più importanti pensatori del secondo Novecento. Ad aver dialogato con lui, non a caso, troviamo intellettuali del calibro di Claude Lefort, Jürgen Habermas, Paul Ricœur o ancora Edgar Morin. Molti altri pensatori contemporanei ne sono ancora direttamente influenzati; è il caso, per esempio, di Serge Latouche, di Pierre Lévy, di Slavoj Žižek. Il suo pensiero è, inoltre, sempre più al centro del dibattito accademico attuale, dato soprattutto il rinnovato interesse scientifico per il concetto di “istituzione”
I destini generali sono menzionati da G. Mazzoni Destini Generali, Bari Roma, 2015.
[25] Su questo tema cfr. C. Iannello Lo stato del potere. Politica e diritto al tempo della post-libertà, Milano, 2025.
[26] C. Galli Il disagio della democrazia, Torino, 2011.
[27] La massa moderna – che per Canetti è superamento della paura di essere toccati e quindi anche potenza comunitaria e rivoluzionaria, ma con rischio totalitario, ed ha i suoi antecedenti naturalistici nelle mandrie, nei campi di grano, nelle abetaie esposte al vento, nel volo degli stormi degli uccelli, nei cori delle chiese medievali - crede che il progresso sia qualcosa di irreversibile: questo progresso va in realtà mantenuto; la politica richiede mediazione e ragionamento, mentre l'uomo-massa concepisce la politica solo come azione diretta. Non rispetta, cioè, chi discute, non è disposto a mettere in gioco le proprie idee.
La novità politica in Europa consiste nel venir meno delle discussioni, nel superamento della democrazia liberale come democrazia discutidora: questo è il regime che piace all'uomo-massa, un regime che attesta una verità sulla quale convenire facilmente.
A tutto questo si contrappone il liberalismo: lo scopo della politica dovrebbe essere quello di rendere possibile la convivenza, attraverso la discussione; bisogna avere il diritto di dissentire. Prima vengono gli individui, poi la collettività. Il liberalismo è “il più nobile appello che sia risuonato nel mondo” in quanto convive con l'avversario, accetta l'avversario e gli dà cittadinanza politica; è un bene, infatti, che esista un'opposizione. La massa, invece, odia a morte ciò che gli è estraneo: non dà cittadinanza politica a chi ha opinioni dissenzienti. Concezione dialogica che si ritrova anche in G. Calogero L’Abc della democrazia. Milano, edizione di Kindle.
Noi viviamo per Ortega nell'epoca del “signorino soddisfatto”: pensa a tutto lo Stato, lui non deve badare a nulla, si deve limitare ad essere conformista. Tale individuo è un “bambino viziato”: dà per scontati benessere e progresso, crede che la vita non necessiti di competizione e che non sia necessario che i migliori debbano emergere. Il progresso non è una cosa facile, la massificazione, invece, induce a ritenerlo. Lo Stato è il maggior pericolo per chi vuole uscire dal coro: non è più un mezzo (come nella concezione liberale) ma è ormai diventato un fine.
L'uomo-massa riceve dallo Stato tutto e ciò lo induce all'omologazione e alla mancanza di attivismo; rischia di dimenticare che lo Stato non può risolvere tutti i problemi, l'individuo-massa sbaglia perché “delega in bianco”. Lo Stato assorbe anche la società civile e l'individuo non ha più uno spazio dove far crescere e dimostrare le proprie capacità. Massa e Stato si identificano e mettono a rischio la nuda vita con le loro pretese crescenti ed oggettive. Oggi allo Stato dobbiamo sostituire o aggiungere – per capire – le forze oggettive della tecnica e delle dinamiche di mercati oligopolistici.
[28] Irti Sguardi nel sottosuolo Roma, 2025 ove si incontra il seguente passo per descrivere lo stato del diritto attuale – confinato nel sottosuolo dalla tecno-economia, ed afflitto da intrinseca contraddizione fra esigenza di ordine ed anarchismo dell’Io: “sullo strato più alto, il diritto urta contro la funzionalità degli apparati, che esigono e tollerano soltanto competenze tecniche; ed invece nel sottosuolo il piccolo io vuole e disvuole, lo teme e invoca a protezione, lo chiama e insieme lo respinge.
Il frenetico vitalismo del sottosuolo, o il suo nascondersi negli anfratti della vita, non sono terreno propizio per l’ordine totale delle norme. Certo immoralismo o a-moralismo è incompatibile con qualsiasi disciplina giuridica, che appare come violenza sopraffattrice e impositrice.”
[29] P. Maddalena La rivoluzione costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica, Sant’Arcangelo di Romagna, 2020.
[30] AAVV La domanda inevasa. Dialogo tra economisti e giuristi sulle dottrine economiche che condizionano il sistema giuridico europeo a cura di L. Antonini Bologna, 2016, ove il saggio di M. Luciani Il costituzionalismo e l’economia dal divampare della crisi ad oggi che ben a ragione critica gli eccessi del neo costituizionalismo o costituzionalismo dei diritti che fa perdere di vista l’importanza della dimensione dello Stato (che, tuttavia, sta, o cade, con l’autonomia del politico e con l’intreccio delle politiche statuali alla dimensione istituzionale sovranazionale, l’unica in grado di governare la complessità della tecno- economia globale). Sull’importanza della costituzione economica europea fra gli altri AAVV La costituzione economica: Italia Europa, a cura di C. Pinelli e T. Treu, Bologna 2010 (si era tuttavia in un’altra fase storica).
[31] H.H. Hoppe, Democrazia . il dio che ha fallito, Macerata, 2005.
[32] J. Brennan Contro la democrazia, edizioni del Kindle.
[33] L’educazione ha quattro dimensioni secondo Giuseppe Spadafora A proposito di Democracy and Education di John Dewey. Le premesse per la scuola democratica del futuro in Scuola democratica, n. 3 del 2016.
Le dimensioni sono adattamento, socializzazione, direzione, crescita.
In primo luogo è una «necessità della vita», nel senso che rappresenta un processo di continuo auto rinnovamento ed è, di conseguenza, un fenomeno naturale, al pari del mangiare, del bere e del riprodursi.
Essa si sviluppa attraverso la trasmissione e la comunicazione di valori da una generazione all’altra (Dewey, 1916: 7).
Il secondo significato dell’educazione, collegato al precedente, è quello della «funzione sociale». Ciò significa che l’individuo, adattandosi continuamente all’ambiente, diventa sempre più specifico alle sue situazioni di vita e sempre più diverso e caratterizzato nei confronti degli altri individui, così come era stato intuito dal filosofo nel testo del 1896 sull’Arco Riflesso.
Mentre l’individuo si sta adattando all’ambiente, egli rappresenta una parte di una dimensione sociale più complessiva, che è formata dalle tradizioni pregresse e dalla costante azione di scambio che egli sviluppa nel suo ambiente sociale.
La scuola, in questa prospettiva, è ritenuta un ambiente speciale che coordina la famiglia, la scuola e la società nel sistema complessivo culturale e politico. Una funzione sociale senza una specifica direzione non ha senso.
La ‘direzione ‘è il terzo modo di intendere l’educazione ed è un modo significativo, in quanto pone con chiarezza il problema dei valori verso cui necessariamente bisogna tendere per essere educati. È questo un problema che Dewey affronta e definisce con maggiore chiarezza in Experience and Education del 1938, ma che ha proprio nel concetto di ‘direzione ‘un antecedente fondamentale. La direzione democratica deve tendere allo sviluppo di empatia e capacità di dialogo.
Il quarto modo di intendere l’educazione è la ‘crescita ‘che presenta due aspetti caratteristici e fondamentali: l’educazione non ha altro sviluppo se non all’interno di se stessa, proprio perché il processo educativo rappresenta un processo continuo e progressivo, sia dal punto di vista biologico con le varie fasi della crescita (growth), sia dal punto di vista dell’azione intenzionale dell’individuo nell’ambiente in cui vive (growing) (Dewey, 1916: 55).
[34] H. Kelsen, La democrazia (1927), in Il primato del parlamento, Milano, 1982, p. 32. Cfr. anche Federico Lijoi Parlamentarismo ed educazione alla democrazia. Riflessioni su Hans Kelsen La cultura n. 2 del 2011.
[35] R. Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie: Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Leipzig 1911. Lijoi precisa, al proposito, che “la difesa kelseniana del parlamentarismo non lesina suggerimenti di riforma per migliorarne il meccanismo rappresentativo: referendum legislativo sulla deliberazione parlamentare (non sulla legge già in vigore), maggiore spazio all’iniziativa popolare, proposta di un controllo permanente sui deputati da parte di gruppi di elettori organizzati in partito politico, abolizione dell’immunità parlamentare” (cfr. H. Kelsen, Il problema del parlamentarismo, cit., pp. 178 ss.). Mi soffermo sull’ultimo problema per notare che il conflitto di interessi è stato regolato a proposito delle amministrazioni e delle cariche d Governo ma non coinvolge i parlamentari e lo scudo immunitario per loro previsto dalla Costituzione che li vuole rappresentanti della Nazione mentre purtroppo le cronache consegnano all’opinione pubblica lo spettacolo di notevoli intrecci fra mondo economico e mondo politico, intrecci sempre esistiti ma che attualmente arrivano al contemporaneo svolgimento di attività economiche parallele all’attività politica . Senza arrivare all’abolizione dell’immunità sarebbe opportuno pensare ad una normativa costituzionale o regolamentare parlamentare dei conflitti di interesse.
[36] La transizione alla forma imperiale è stata vista lucidamente anche da Kojeve. Cfr. M. Filoni, op. ult. cit. pag. 230 Il progetto imperiale di un’Europa Latina. Oggi forse di uno spazio politico europeo in grado di fronteggiare gli Imperi nascenti che tendono ad operare al di fuori delle regole internazonali riconosciute finora secondo una logica di pura potenza.
[37] F. Cafaggi Un diritto privato europeo della regolazione? Coordinamento tra pubblico e privato nei nuovi modelli regolativi in Politica del diritto, n. 2 del 2004.
[38] Su Eros come forza fondante il diritto Kelsen L’amor platonico, Bologna 1985, pag. 47 ove si trova il seguente passo: “Educare gli uomini con l’amore, amarli educandoli e fare della loro comunità una comunità fondata sull’amore: questo fu l’anelito di una vita (quella di Platone) i cui obiettivi consisterono nel formare l’uomo e nel riformare la società.” Il bene comune e la giustizia sono l’unica giustificazione del dominio dell’uomo sull’uomo. Quindi la paideia è condizione della politeia.
Eros non è quindi – soggiunge Kelsen – l’attrazione che spinge l’uno verso l’altro due esseri di diverso sesso, ma di una sorta di φιλία che nasce da un impulso omoerotico represso (Kelsen pone a fondamento della civilizzazione il governo temperato dell’amore omosessuale – diffuso fra gli antichi e liberato nella modernità - perché i più forti impulsi etici nascono dalla consapevolezza di inclinazioni devianti). Ma – prescindendo dalle opinioni datate di Kelsen sull’Eros omosessuale deviante – resta nel Simposio la lezione di temperanza che Socrate impartisce ad Alcibiade, esemplare episodio di paideia antica, nel quale si esprime la sublimazione dell’Eros che è la fonte di ogni incivilimento.
Immagine: particolare da Paul Klee, Angelus novus, olio su tela e acquerello su carta, 1920.
In occasione della nomina del Primo Presidente della Cassazione riteniamo sia utile offrire alla lettura il discorso tenuto dal consigliere Antonello Cosentino all'adunanza plenaria del 4 settembre 2025.
Il discorso dà conto del ruolo della Cassazione nel nostro Paese e di come Pasquale D'Ascola ne incarni il profilo più adatto a presiederla, non solo per il ventennale esercizio delle funzioni di legittimità ma soprattutto per la sua innata attitudine al dialogo con l'accademia e l'avvocatura.
"Dalla Cassazione passa, prima o poi, tutta cronaca e tutta la storia del nostro Paese. La Cassazione orienta la giurisprudenza e orienta il paese", ciò riesce bene se si valorizza l'ascolto e il confronto.
La redazione
"Grazie Signor Presidente,
prima di tutto vorrei ringraziarLa per l’onore che ci regala presenziando a questa seduta del Consiglio, come sempre Ella fa quando il Consiglio è chiamato a pronunciarsi su questioni di particolare rilevanza.
Rivolgo un saluto grato e, se mi permettete, affettuoso alla Prima Presidente Margherita Cassano; questo Plenum l’ha già salutata, tributando il giusto riconoscimento ad una personalità e ad un percorso professionale davvero straordinari; ma anche oggi, nell’ultimo Plenum a cui Ella partecipa, non posso non ringraziare la Presidente Cassano per averci sempre aiutato - e parlo solo dell'attività svolta nel CSM, perché di tutto il resto ci saranno poi altre sedi per parlare - a portare il livello del dibatto consiliare oltre la routine burocratica e a sollevare lo sguardo verso i principi etici e giuridici che debbono guidare l’azione del CSM e l’azione dei magistrati.
La Cassazione è un ufficio di rilevanza strategica nella geografia giudiziaria del Paese.
Lo è perché, da sola, gestisce parte significativa, molto significativa, dei flussi di affari che compongono il contezioso civile e penale nazionale, come del resto abbiamo toccato con mano in occasione delle recenti delibere prese da questo Plenum per potenziare la capacità del nostro apparato giudiziario di raggiungere gli obbiettivi imposti all'Italia dai vincoli del PNRR.
Lo è perché è l’ufficio di vertice del sistema delle impugnazioni; in tale veste, tra l’altro, interlocutore necessario, e non meramente eventuale, della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Lo è perché giudice di ultima istanza, in quanto tale custode ultimo dello jus litigatoris, “organo supremo della giustizia”, secondo la lapidaria definizione dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario.
Ma la Cassazione non è soltanto un ufficio di rilevanza strategica nella geografia giudiziaria; è un ufficio di rilevanza strategica nella geografia culturale del Paese.
La Cassazione orienta la giurisprudenza e la giurisprudenza orienta la vita.
Dalla Cassazione passa, prima o poi, tutta cronaca e tutta la storia del Paese.
Dalla Cassazione passa il mutamento della società italiana, e chiunque abbia avuto la fortuna di lavorare in Cassazione lo sa.
In questa prospettiva la nomina del primo presidente della Corte di cassazione non può esaurirsi in una valutazione legata ad un approccio formalistico.
Nel caso in esame, lo dirò fra breve, la valutazione che mi induce ad esprimere il mio consenso per la proposta di nomina del dott. D’Ascola è una valutazione fortemente ancorata ai dati di testo unico.
Ma qui c'è anche un tema di modello culturale.
Il dott. Mogini è un magistrato che ha raccolto una stima enorme in tutte le funzioni che ha svolto nel corso della sua lunga esperienza giurisdizionale. Come sempre accade, quando si tratta di nominare gli apicali di legittimità, è una scelta fra eccellenze. Ciò detto, i criteri indicatori fissati dal testo unico sono, a mio avviso, assolutamente univoci. Il presidente D'Ascola ha più esperienza di legittimità, più esperienza di presidenza di sezione, più esperienza di titolarità di una sezione, è presidente aggiunto della Corte.
Ma, al di là di questo, il presidente D'Ascola ha attraversato il lungo e in largo l’intera storia del diritto civile del Paese; ha interloquito per decenni con l'Avvocatura; ha costruito, in continuo dialogo con l'Accademia - e penso ad Andrea Proto Pisani, penso a Sergio Chiarloni, penso a Giorgio Costantino - la trama degli osservatori del processo civile, la trama del dialogo tra magistratura e avvocatura. Il dottor D'Ascola ha lavorato fortemente sulla formazione dei magistrati, quando ancora quasi nessuno (a parte la presidente Cassano e pochi altri) lo faceva (la formazione fatta dal CSM, non quella, fatta 15 anni dopo, dalla Scuola Superiore della magistratura); è stato uno dei pionieri del dialogo continuo tra giurisprudenza e Accademia; le sue sentenze, soprattutto quelle delle sezioni unite, sono commentatissime, studiatissime, dibattutissime.
La sua nomina, in questo momento, rappresenta, a mio avviso, la definizione di un modello di magistrato immerso nella realtà del giudizio, nel rapporto con l'Accademia, nel rapporto con la società.
E penso che sia il profilo giusto per la presidenza della Corte di cassazione".
L’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) unisce la propria voce a quelle delle associazioni scientifiche, delle istituzioni pubbliche e private e delle autorità, laiche e religiose, che stanno denunciando all’opinione pubblica la situazione in atto nella Striscia di Gaza, drammaticamente sempre più grave e intollerabile.
Ci turbano profondamente, come docenti di diritto e come penalisti – formati ai principi costituzionali e agli irrinunciabili valori della vita, della dignità umana, della pace, del ripudio della guerra e di ogni forma di violenza arbitraria – le notizie e le immagini strazianti che, anche secondo numerosi rapporti di organizzazioni internazionali, testimoniano sistematiche violazioni dei diritti fondamentali di uomini, donne e bambini da parte del Governo israeliano. Ferma l’esigenza di vedere
accertati i fatti e le relative responsabilità da parte di organi imparziali a ciò deputati, costatiamo che le gravissime violazioni del diritto internazionale e umanitario riferite nei citati rapporti integrano crimini internazionali. Con le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, «è disumano ridurre alla fame un’intera popolazione, dai bambini agli anziani» nonché, come denunciano numerose organizzazioni umanitarie, colpire operatori sanitari e civili indifesi, prendere di mira e
uccidere bambini e persone in cerca di acqua o cibo, e distruggere ospedali e luoghi di culto.
Come giuristi rileviamo che queste atrocità sono il segno tangibile di un sensibile indebolimento dello stato di diritto e di una preoccupante crisi di effettività del diritto internazionale e dei diritti umani che – come ha ricordato Papa Leone XIV – deve invece essere inderogabilmente rispettato «come fondamento dell’ordine internazionale, anche nel corso dei conflitti armati».
Come penalisti denunciamo inoltre con seria e profonda preoccupazione – anche con riferimento a quanto avviene in contesti diversi da quello di Gaza, come quello russo-ucraino – la crisi di effettività che a livello globale investe il diritto penale internazionale, al cui sviluppo è legato non solo il nome di autorevoli Maestri delle discipline penalistiche, tra cui Giuliano Vassalli, Cherif Bassiouni e Giovanni Conso, ma anche quello del nostro Paese, nel quale fu firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale (CPI). Eppure, proprio mentre a Gaza, nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania e in altri contesti bellici, come in Ucraina, si consumano gravi crimini internazionali, la CPI è oggetto di attacchi, campagne di delegittimazione e tentativi di ostacolarne l’azione investigativa. È la stessa Corte che ha emesso mandati d’arresto nei confronti del Presidente russo Putin e del Primo ministro israeliano Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ed è – non si dimentichi – la stessa Corte che ha emesso mandati d’arresto anche nei confronti di alcuni leader di Hamas. La giustizia penale internazionale, infatti, ha già riconosciuto l’efferata ed estrema gravità dell’attacco criminale compiuto nel sud di Israele da Hamas e altri gruppi armati palestinesi il 7 ottobre 2023, con l’uccisione di oltre mille israeliani, civili e militari, e la cattura di centinaia di ostaggi (fonte UNHRC, 10.05.2024). Siamo convinti che difendere la CPI significa difendere il principio secondo cui nessun autore di crimini internazionali, da qualunque parte provenga e a qualunque parte appartenga, possa ritenersi al di sopra del diritto e dei diritti umani. Se, a livello globale, non sarà posto un freno all’indebolimento dello stato di diritto e delle società democratiche, e alla correlata crisi del diritto internazionale, il rischio, come la vicenda di Gaza mostra in modo evidente, è di un balzo indietro nella storia e di un marcato arretramento della civiltà del diritto.
D’altra parte, in un contesto geopolitico, storico e culturale complesso, da decenni e ancor più oggi teatro di conflitti irrisolti, l’atroce violenza del 7 ottobre 2023, in una tragica e perversa spirale, ha chiamato altra atroce violenza, che, a sua volta, ha anche finito per rinfocolare esecrabili sentimenti di antisemitismo ai quali come studiosi delle scienze penalistiche guardiamo con grande preoccupazione, perché alla radice di alcune delle pagine più tragiche e ripugnanti della storia
dell’umanità. Nondimeno, restiamo fermamente convinti che i conflitti non si risolvano mai con la violenza, ma con il dialogo e la riconciliazione, sotto lo scudo del diritto e dei suoi principi di civiltà, che devono essere difesi strenuamente e mai abbandonati a tutela dei diritti intangibili di qualsiasi essere umano.
***
Tanto premesso, l’AIPDP, nel ripudiare con forza ogni forma di violenza arbitraria e di violazione del
diritto penale internazionale e delle norme umanitarie:
- accoglie con favore la Dichiarazione congiunta dei Ministri degli Affari Esteri di 25 Paesi del 21 luglio 2025 su Gaza e i territori palestinesi occupati, firmata anche dall’Italia, con la quale: a) si invita il governo israeliano a revocare immediatamente le restrizioni al flusso degli aiuti e a consentire con urgenza alle Nazioni Unite e alle ONG umanitarie di svolgere pienamente la propria missione; b) si chiede a tutte le parti di proteggere i civili e di rispettare gli obblighi previsti
dal diritto umanitario internazionale; c) si esorta la comunità internazionale a unirsi in uno sforzo comune per porre fine al conflitto, attraverso un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente;
- auspica e sollecita l’impegno del Governo e del Parlamento italiano, nonché quello di tutti gli Stati membri, a rafforzare i meccanismi esistenti di giustizia penale internazionale, difendendo l’indipendenza e il mandato della Corte Penale Internazionale;
- si impegna a promuovere attraverso i propri soci, nelle diverse sedi universitarie, in concomitanza con l’inizio del prossimo anno accademico, momenti di studio, approfondimento e confronto, aperti all’ascolto e alla comprensione delle ragioni contrapposte e alla valorizzazione del diritto e della giustizia penale internazionale, nonché della giustizia di transizione e della giustizia riparativa;
- comunica infine che, in occasione del proprio convegno nazionale in programma il 24/25 ottobre 2025 presso l’Università di Palermo, dedicato al più generale fenomeno della violenza sempre più diffusa nella società, un momento di riflessione della comunità scientifica dei penalisti sarà dedicato proprio alla violenza bellica e alla prevenzione e repressione dei crimini internazionali.
Roma, 6 agosto 2025
Del Consiglio Direttivo
Prof. Gian Luigi Gatta (Presidente)
Prof. Vincenzo Mongillo (Vice Presidente)
Prof. Gian Paolo Demuro
Prof. Stefano Fiore
Prof. Carlo Longobardo
Prof. Domenico Notaro
Immagine: foto di Jaber Jehad Badwan via Wikimedia Commons.
È partita dal porto di Barcellona, al Moll de la Fusta, la Global Sumud Flotilla, la più grande missione civile internazionale mai organizzata per tentare di rompere il blocco navale di Gaza e portare aiuti umanitari alla popolazione palestinese.
Le navi partite dalla città catalana, insieme a quelle salpate da Genova con a bordo più 300 tonnellate di aiuti, sono state le prime a prendere il largo. Il 4 settembre altre imbarcazioni partiranno da Tunisia, Grecia e Sicilia: tutte si incontreranno in acque internazionali per proseguire insieme verso le coste della Striscia, con arrivo previsto a metà settembre. La flottiglia conta tra le 40 e le 50 imbarcazioni, con delegazioni provenienti da 44 Paesi e circa 500 partecipanti tra attivisti, politici e volontari. Delle oltre 30.000 persone che avevano fatto richiesta di partecipare via mare e via terra, solo chi rispondeva a criteri severi è stato selezionato: buona salute, capacità di navigare e disponibilità ad affrontare il rischio di detenzione, con la possibile conseguente sospensione delle cure mediche. Sono stati inoltre esclusi i profili impulsivi o potenzialmente aggressivi, poiché la missione vuole mantenere un carattere rigorosamente pacifico.
L’iniziativa, concepita come un atto di resistenza civile e non violenta, nasce come risposta collettiva alla drammatica condizione di isolamento e carestia che colpisce la Striscia di Gaza a causa del blocco imposto da Israele. Il progetto mira a rompere l’assedio marittimo e a richiamare l’attenzione internazionale sulla necessità di porvi fine. Alla sua base c’è la convergenza di numerosi movimenti già formati: la Freedom Flotilla Coalition, il Global Movement to Gaza, la Maghreb Sumud Flotilla e la Sumud Nusantara, espressione di diverse aree del mondo unite dallo stesso obiettivo.

"Questa sarà la più grande missione di solidarietà della storia, con più persone e più imbarcazioni di tutti i tentativi precedenti messi insieme", ha dichiarato Thiago Ávila, sociologo e attivista brasiliano, militante nei movimenti sociali del Brasile e legato al Partido Socialismo e Liberdade (PSOL) e parte della Flotilla Steering Committee. Non è la prima volta che civili si organizzano per navigare verso Israele con la stessa speranza di rompere sia l’assedio imposto ad una popolazione stremata, ed il silenzio dei governi d’Europa: “l’assedio dura da 18 anni come parte di un decennio di genocidio e pulizia etnica che si è strutturato in uno stato coloniale di apartheid, guidato non da una religione ma da un’ideologia razzista e suprematista chiamata sionismo. La prima missione, organizzata dal Free Gaza Movement, risale al 2008, quando una barca riuscì ad attraccare a Gaza per la prima volta dopo quarant’anni, dal 1967, data dell’occupazione militare dell’intera Palestina storica. Da allora 37 imbarcazioni hanno tentato la traversata, alcune fermate da pressioni politiche e ostacoli burocratici, altre bloccate o attaccate in mare”. Ávila ha ricordato che “molte missioni sono state sconfitte da una guerra burocratica, con governi e compagnie di navigazione costrette a impedirci la partenza, mentre altre sono state fermate con la forza e con la violenza. Per questo oggi, qui in Catalogna, siamo felici che non siano riusciti a bloccarci.” A luglio, un’altra barca, l’Handala, con 21 attivisti provenienti da dieci Paesi è stata intercettata in mare; e se si guarda indietro, la lista di incidenti è lunga: nel 2008 il tentativo di speronamento, nel 2010 l’assalto che causò dieci morti, negli anni successivi pressioni sui governi, arresti, espulsioni, fino al bombardamento con droni, nel maggio 2025, di un’imbarcazione in navigazione tra Malta e l’Italia.

Post dalla pagina instagram Voceebraicaperlapace, 1 Settembre 2025: https://www.instagram.com/p/DOB3P77CPIh/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA%3D%3D
Alla conferenza stampa, Greta Thunberg - attivista svedese indipendente, fondatrice del movimento Fridays for Future - ha risposto a chi chiedeva perché affrontare un rischio simile: “La questione non è perché stiamo salpando. La storia non riguarda affatto la missione che stiamo per intraprendere. La vera storia riguarda la Palestina: come un popolo venga deliberatamente privato dei mezzi più basilari per sopravvivere. La storia riguarda il silenzio del mondo e il tradimento di chi è al potere, che in ogni modo possibile sta fallendo i palestinesi e tutti i popoli oppressi del mondo. Stanno tradendo il diritto internazionale e i loro doveri più elementari: prevenire un genocidio, interrompere la complicità e il sostegno a uno stato di apartheid. Ecco perché stiamo mobilitando persone da tutto il mondo, tornando ancora più forti con decine di barche. Perché semplicemente non c’è alternativa. Sappiamo cosa è in gioco e ciò che stiamo facendo è usare il nostro estremo privilegio di vivere in un mondo libero per ascoltare e agire sulla base degli appelli dei palestinesi, che ci chiedono di fare la nostra parte per porre fine alla complicità”. Insomma, il concetto ribadito da tutti i presenti era semplice: “Vogliamo vivere, ed è per questo che ci prepariamo. E vogliamo che ogni persona nel mondo abbia lo stesso diritto alla vita”.
Dal 7 Ottobre 2023 la popolazione palestinese è stata stravolta da bombardamenti, carestia, collasso sanitario e distruzione delle infrastrutture, un conflitto di natura genocidaria che ha già provocato circa 60.000 morti e milioni di feriti e sfollati. All’inizio del 2025 Israele ha accusato l’UNRWA e altre agenzie ONU di collusione con Hamas, le ha delegittimate e ha imposto un nuovo sistema di aiuti sotto il proprio controllo e quello degli Stati Uniti. Il modello civile di distribuzione basato su organizzazioni internazionali e comunità locali è stato così smantellato e sostituito da un meccanismo militarizzato gestito dalla Gaza Humanitarian Foundation e dai lanci aerei. Un’indagine di Forensic Architecture pubblicata a marzo 2025 ha rivelato come questo sistema sia insufficiente, pericoloso e tutt’altro che umanitario. La ricerca, accompagnata da una mappa interattiva e da un report di 150 pagine, mostra come gli aiuti non riescano a sostenere la vita civile, costringano la popolazione a spostamenti forzati, rendano mortale il semplice tentativo di accedere al cibo e contribuiscano al collasso dell’ordine sociale a Gaza. La ripetizione di questi episodi in tempi e luoghi diversi indica un disegno deliberato, non eventi casuali. [1] Anche Medici Senza Frontiere[2], Al Jazeera ed altri hanno pubblicato evidenza ed inchieste che denunciano la farsa della distribuzione degli aiuti.

Post dalla Pagina Facebook Al Jazeera English, 7 Agosto 2025: https://www.facebook.com/watch/?v=1927215381155615
“Non si tratta di noi che siamo qui, ma del perché siamo qui oggi. Impongono un assedio illegale a Gaza da 18 anni, dal 2007. Senza alcuna ragione hanno deciso che questa parte di terra dovesse essere chiusa, senza accesso. La prima misura presa 22 mesi fa è stata bloccare acqua, medicine, elettricità e cibo. La fame che vediamo è intenzionale, è creata dall’uomo. Questa è una missione nonviolenta che mira ad aprire un corridoio umanitario, ma per una ragione politica: ciò che accade non è un disastro naturale. Non possiamo ignorare che i palestinesi vengono fatti morire di fame da un governo che li affama deliberatamente. (…) Non siamo qui per servire i palestinesi né per insegnare loro la nonviolenza o dire quale resistenza scegliere. Qualsiasi popolo sotto occupazione ha il diritto di decidere come resistere. Noi, come movimento, abbiamo preso la decisione strategica di scegliere la nonviolenza per mobilitarci, per lavorare insieme e sostenere la resistenza attraverso la solidarietà. Questa non è una missione per noi, ma la costruzione di un movimento di solidarietà che si opponga all’oppressione ovunque si manifesti. Portiamo il Sud globale verso il Nord globale: lavoriamo insieme passo dopo passo, perché loro sono uniti nei loro crimini e noi siamo uniti nella nostra solidarietà”. L’intervento di Saif Abukeshek, attivista spagnolo-palestinese e militante di Alternativa de Catalunya, anche lui nella Steering Committee, è stato applaudito dalla folla di circa 5000 persone emozionate e radunate sotto il sole caldo di fine estate a Barcellona.
Nel corso della giornata il pubblico ha seguito gli interventi degli attivisti sul palco, si è dipinto il volto con bandiere e fiori, ha condiviso chiacchiere, lacrime e sorrisi, nell’attesa della partenza delle barche fissata per le 15. L’entusiasmo è esploso in cori e slogan che hanno scandito l’atmosfera: “¡Sí se puede!”, “Free Free Palestine”, “israel no es un país es una occupation”, accompagnati da bande ed orchestre che scandivano le ore prima della partenza.

Nonostante le azioni della Flotilla siano completamente conformi al diritto internazionale, al salpaggio, Benjamin Netanyahu ha dichiarato apertamente che le barche saranno attaccate e che le persone a bordo saranno trattate come terroristi e trasferite in carceri di massima sicurezza, nel silenzio dei governi europei. La sua posizione viola il diritto internazionale sul sequestro in acque internazionali e si inserisce in un contesto di forti tensioni tra esercito e governo israeliano. Durante una riunione ad agosto, il generale Eyal Zamir ha dichiarato che l’esercito non intende assumere il ruolo di governo militare della Striscia, neppure in caso di occupazione di Gaza City e dei campi profughi centrali. Il generale ha accusato Netanyahu di trascinare le forze armate senza considerare le conseguenze, mettendo a rischio gli ostaggi e imponendo la gestione di due milioni di palestinesi in condizioni umanitarie critiche. La Ministra delle Colonie e Missioni Nazionali Orit Malka Strook gli avrebbe risposto leggendo un versetto del Deuteronomio insinuando che il generale sia un codardo, al che Zamir avrebbe alzato la voce verso Netanyahu: “Io ho solo due missioni: evitare un attacco nucleare iraniano e distruggere Hamas. Se vuoi cieca disciplina chiama qualcun altro”.[3]
Quel giorno il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato la chiamata di 60.000 riservisti per proseguire l’assedio a Gaza City, con un piano che prevede l’evacuazione forzata dei civili palestinesi entro il 7 ottobre e un assedio finale ai militanti di Hamas. In parallelo, Donald Trump continua a promuovere l’idea della “Gaza Riviera”, presentata come un progetto di riqualificazione tecnologica e turistica dopo la distruzione in corso.[4]
E mentre i governi europei dimostrano un’ipocrita immobilismo politico, se ogni cittadino europeo salvasse un gaziano ogni diecimila abitanti, si ridurrebbero di 45.000 le morti sulla nostra coscienza. [5] In questo contesto, la Global Sumud Flotilla emerge come un esempio concreto di solidarietà dal basso. La forza dell’iniziativa sta nel suo carattere ordinario: non eroi né santi, ma cittadini comuni che si sono organizzati, hanno comprato barche civili e hanno scelto di salpare. Alla partenza da Barcellona, tra tamburi, canti, sorrisi e lacrime, il messaggio era chiaro: “Restare in silenzio significa essere complici. Il silenzio uccide quanto le bombe. L’Europa, che ha giurato tante volte ‘mai più’, ancora una volta volge lo sguardo altrove. Gaza è uno specchio che ci riflette tutti”, ha dichiarato l’attore e altro membro della Steering Committee, Eduard Fernández.

E a cascata interventi di supporto, dai portuali di Genova agli studenti delle Università: se bloccano la Flotilla, blocchiamo tutto”.[6] Così, che la Flotilla riesca o meno a raggiungere Gaza, la sua esistenza è già una vittoria: rompe il blocco, spezza l’indifferenza e denuncia l’ipocrisia dei governi che finanziano le guerre. Ci sveglia dal sonno della ragione e della passività politica e sociale, ricordandoci che siamo umani e parte di una comunità in cui facciamo la differenza. Dimostra che la solidarietà può tradursi in azione concreta, e che portare aiuti sarebbe solo il primo passo di una serie di interventi necessari. Nelle parole dell’attivista malese dello Steering Committee, Muhammad Nadir Al-Nuri: «Nel nostro Paese esiste una parola simile a “Sumud” [che in arabo significa resilienza, perseveranza], che indica le formiche. È così che ci muoviamo oggi: come una piccola colonia di formiche, fiere, che lavorano insieme e avanzano insieme».
Supportare la Flotilla significa, quindi, condividere quell’atto collettivo: essere idealmente presenti su quelle barche e assumere delle responsabilità politiche, sia storiche che contemporanee.

Per seguire le barche:
Global Sumud Flotila: https://www.instagram.com/GlobalSumudFlotilla/
Global Sumud Flotila Italia: https://www.instagram.com/globalmovementtogazaitalia/
Thiago Ávila: https://www.instagram.com/thiagoavilabrasil/
Greta Thunberg: https://www.instagram.com/gretathunberg/
Muhammad Nadir Al-Nuri: https://www.instagram.com/nadiralnuri/
Tony La Piccirella: https://www.instagram.com/tonylapiccirella_/
Ada Colau: https://www.instagram.com/adacolau/
Yusuf Omar: https://www.instagram.com/yusufomar?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==
Lucia Munoz: https://www.instagram.com/luciadalda/
Ed altrx…
Per seguire dalla terra:
https://www.emergency.it/blog/dai-progetti/la-situazione-a-gaza-gli-aggiornamenti-di-emergency/
[1] The Architecture of genocidal Starvation, July 2025: https://forensic-architecture.org/investigation/aid-in-gaza
[2] This is not aid. This is orchestrated killing, August 2025: https://www.doctorswithoutborders.org/sites/default/files/documents/MSF-Gaza-ThisIsNotAid-FINAL.pdf
[3] Francesco Battistini su “Ostaggi ed invasione: Netanyahu ignora l'altolà dei generali: «Concludete il lavoro»”: https://www.corriere.it/esteri/25_settembre_02/ostaggi-e-invasione-netanyahu-ignora-l-altola-dei-generali-concludete-il-lavoro-f7c41ccc-fca9-424c-bfa4-58b41b0e6xlk.shtml
[4] https://www.washingtonpost.com/national-security/2025/08/31/trump-gaza-plan-riviera-relocation/
[5] Lucio Caracciolo, “Salvare i salvabili”, 28 Luglio 2025: https://www.limesonline.com/rubriche/il-punto/gaza-palestinesi-palestina-israele-ebrei-hamas-israeliani-19738202/
[6] 1) CorriereTv, “Global Sumud Flotilla, la promessa dei portuali: «Se perdiamo il contatto con le nostre barche, blocchiamo i cargo per Israele»”,1 Settembre 2025: https://video.corriere.it/cronaca/global-sumud-flotilla-la-promessa-dei-portuali-se-perdiamo-il-contatto-con-le-nostre-barche-blocchiamo-i-cargo-per-israele/0045e149-baaa-42e7-a7f3-42a1cf281xlk; 2) Post dalla pagina Instagram cau.napoli, 3 Settembre 2025: https://www.instagram.com/reel/DOJVHrBjD-p/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==.
Lo jus superveniens in materia di requisiti dimensionali degli atti di parte: una soluzione pragmatica, ma dubbia(nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 13 marzo 2025, n. 3).
di Antonio Cassatella
Sommario: 1. La questione. 2. Sull’applicazione del tempus regit actum agli atti del processo. 3. Sulla natura delle misure previste dal vigente art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a. 4. Sul passaggio in decisione della controversia come momento rilevante ai fini dell’applicazione dello jus superveniens. 5. Per una legislazione consapevole.
1. La questione
Nella sentenza che si commenta l’Adunanza Plenaria ha affrontato il tema dell’efficacia temporale del nuovo art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a. (introdotto dalla l. n. 207/2024), riguardante le conseguenze del superamento dei limiti dimensionali degli atti di parte, in coerenza con il principio generale di sinteticità fissato dall’art. 3 c.p.a.[i].
La questione sollevata innanzi alla Plenaria era, invero, più articolata, poiché sollecitava un intervento del collegio su una serie di problemi interpretativi riconducibili all’originaria disciplina dell’art. 13 ter[ii].
La Plenaria non ha trattato il problema nella sua interezza, limitandosi ad affermare l’immediata applicazione della disciplina sopravvenuta ai processi pendenti al 1 gennaio 2025 (data di entrata in vigore della l. 207/2024), che prevede, in caso di eccedenza, una condanna alla maggiorazione del contributo unificato.
La soluzione, per quanto non immune dagli interrogativi di cui poi si dirà, ha il pregio di superare le incertezze originate dalla previgente formulazione dell’art. 13 ter, che esonerava il giudice dalla lettura delle pagine che superavano i limiti stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167/2016. L’art. 13 ter non precisava, tuttavia, le conseguenze della violazione dei limiti e della mancata lettura sul piano della validità ed efficacia degli atti di parte, aprendo la via alle soluzioni ondivaghe richiamate dall’ordinanza di rimessione alla Plenaria.
Sono risapute, a questo riguardo, le perplessità della dottrina – e della stessa giurisprudenza – circa fondamenti del principio di sinteticità e le sue implicazioni pratiche.
Se non si può seriamente dissentire in ordine alla necessità di contenere gli atti di parte entro un limite ragionevole, sembrava e sembra discutibile stabilire ex ante degli standard dimensionali calcolati in rapporto alle tecniche di impaginazione di ricorsi e memorie, ancorché suscettibili di deroga su autorizzazione del giudice; soprattutto, era criticabile la scelta di esonerare il giudice dalla lettura delle pagine non rientranti nei limiti stabiliti dal decreto, demandando alla prassi interpretativa il compito di stabilire la conseguenza più adeguata, ove si ritenesse di non applicare la radicale soluzione dell’inammissibilità della parte (per lo più in diritto) eccedente il limite[iii].
Già in altra sede si era osservato, a questo proposito, come la soluzione più congrua fosse quella di considerare il superamento dei limiti ai fini della condanna alle spese o di altra misura pecuniaria, così da non penalizzare eccessivamente il contraddittorio processuale e l’esigenza di decidere il merito della controversia nell’interesse di tutte le parti coinvolte nel giudizio[iv].
Va in questa direzione l’attuale disciplina dell’art. 13 ter, comma 5, c.p.a., i cui contenuti sembrano pertanto idonei a superare l’impasse interpretativa.
2. Sull’applicazione del tempus regit actum agli atti del processo
Come anticipato, la Plenaria ha stabilito l’immediata applicazione della riforma a tutti i procedimenti pendenti alla fine del 2024, e non ai soli giudizi instaurati a partire dal gennaio 2025, data in cui la riforma è entrata in vigore assieme alla legge di bilancio che ne costituisce la fonte[v].
Ad avviso della Plenaria, infatti, al caso di specie si applica il principio del tempus regit actum. Quello che può individuarsi come actus rilevante non è tuttavia l’atto (ricorso o memoria) delle parti, ma quello del giudice, ossia la sentenza che decide sulla controversia applicando la misura prevista dall’art. 13 ter.
Tutto ciò implica, in concreto, che la norma si applichi a tutti i giudizi pendenti e non ancora decisi dal giudice dopo il passaggio in decisione della controversia, ai sensi dell’art. 73 c.p.a.
La soluzione, laconicamente prospettata dalla stessa Plenaria, offre la possibilità di riflettere sull’estensione del tempus regit actum in ambito processuale e sull’applicazione dello jus superveniens nel processo amministrativo, raramente indagato in dottrina se non in rapporto agli effetti del giudicato[vi].
La questione non trova risposta immediata nelle norme del d. lgs. 104/2010, per cui si impone una disamina più ampia del fenomeno, da desumersi da un raffronto con il processo civile ai sensi dell’art. 39 c.p.a.
Entrando nel vivo della trattazione, occorre considerare come il tempus regit actum non sia altro che un corollario del principio di legalità – sostanziale e processuale – che impone tanto alle amministrazioni che ai giudici di agire e decidere nel rispetto dei parametri vigenti nel momento in cui si esercita un dato potere: le sue fonti, pertanto, possono essere immediatamente individuate negli artt. 97 e, per quanto interessa, 101 Cost., a propria volta ricognitive di principi generali propri dello Stato di diritto[vii].
I problemi di maggiore interesse riguardano i casi in cui, pendente un procedimento o un processo, lo jus superveniensincida sulla latitudine del potere pubblico, mutandone presupposti ed effetti nello iato temporale sussistente fra l’apertura e la conclusione di una certa operazione.
Solitamente la questione è affrontata e risolta con riguardo alla disciplina sostanziale che conforma le singole situazioni soggettive e il potere pubblico che si raffronta ad esse, mentre è meno frequente che si rifletta attorno al modo in cui le norme che regolano l’azione amministrativa o il rito processuale possono mutare nel corso del tempo[viii].
Si apre qui la questione decisa dalla Plenaria, posto che essa investe non solo i poteri del giudice, ma, a monte, la disciplina riferibile agli atti di parte sulla base dell’art. 3 c.p.a. e le norme che vi danno concreta attuazione.
Non pare possibile individuare, allo scopo, soluzioni generali, considerando innanzitutto come l’art. 11 delle preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire, non ha rango costituzionale ed è dunque derogabile dal legislatore stesso. Si deve perciò stabilire di volta in volta, in rapporto alla disciplina sopraggiunta e degli atti su cui essa incide, l’effettiva portata dello jus superveniens[ix].
A riprova della relatività delle soluzioni praticabili, è affermazione ormai tralatizia che il principio del tempus regit actum non privi il legislatore del potere di intervenire sulla disciplina di un processo in corso, purché ciò avvenga nei limiti della ragionevolezza: ragionevolezza da stabilirsi, beninteso, tramite un’interpretazione costituzionalmente orientata o sollevando questione di legittimità costituzionale[x].
Se, dunque, appare irragionevole alterare in corso di giudizio l’intero rito, nulla esclude che lo jus superveniens possa incidere sul regime degli atti di parte o processuali: il che può comportare che gli atti afferenti a una data fase del giudizio siano retti da una certa disciplina, integrata o sostituita da una nuova regolamentazione che si applica nella fase successiva[xi].
Entro questa cornice si comprende l’applicazione temperata del criterio del tempus regit actum fatta propria dalla giurisprudenza, soprattutto civile.
Giova richiamare, al riguardo, l’orientamento prevalente in Cassazione: «quando [a seguito di una sopraggiunta disciplina] il giudice procede ad un esame retrospettivo delle attività svolte, ne stabilisce la validità applicando la legge che vigeva al tempo in cui l’atto è stato compiuto, essendo la retroattività della legge processuale un effetto che può essere previsto dal legislatore con norme transitorie, ma che non può essere liberamente ritenuto dall’interprete». Un’indebita applicazione retroattiva della legge processuale si ha, invece, «sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere»[xii].
Quest’ultimo passaggio va sottolineato anche ai fini della questione affrontata dalla Plenaria: dalla giurisprudenza di Cassazione emerge, infatti, come il tempus regit actum non consenta di far derivare da atti predisposti in un momento anteriore all’entrata in vigore di una certa disciplina gli effetti della disciplina sopravvenuta.
La regola è pertanto quella che gli atti processuali formati in un tempo “x” siano assoggettabili alle conseguenze vigenti nel tempo “x” e non nel successivo tempo “y”, cosicché il giudice che decida nel tempo “y” dovrà comunque fare transitoria applicazione delle norme previgenti al tempo “x”[xiii].
Torna pertanto attuale un remoto insegnamento di Chiovenda, per il quale «la legge processuale nuova rispetta gli atti e i fatti compiuti sotto la legge antica; il che significa che anche gli effetti processuali non ancora verificatisi dell’atto o fatto già compiuto rimangono regolati dalla legge antica»[xiv].
In via giurisprudenziale si afferma l’operatività necessaria di un siffatto regime transitorio anche nel caso in cui la legge taccia, al fine di fare salve le conseguenze degli atti elaborati nella vigenza di una disciplina anteriore.
È una logica coerente non il principio di autoresponsabilità della parte che elabora gli atti e che deve rispondere della loro violazione in rapporto alla disciplina vigente, e conoscibile, nel momento stesso in cui essi sono strati predisposti. Viene al contempo salvaguardata la certezza del diritto (processuale, e a valle sostanziale), rispetto a non prevedibili mutamenti della legislazione[xv].
Facendo applicazione dei suddetti criteri al caso di specie, si potrebbe dunque ritenere che lo stesso principio del tempus regit actum invocato dalla Plenaria, ove riferito agli atti di parte come referente della decisione del giudice ai sensi dell’art. 13 ter, comma 5, impedisca di applicare ad essi la disciplina entrata in vigore nel gennaio 2025.
Questo modo di applicare il tempus regit actum – riferendolo agli atti di parte, e solo in via riflessa a quelli del giudice – è stato sperimentato anche ai fini della sinteticità degli atti del giudizio civile, nei termini stabiliti dall’art. 121 c.p.c., novellato dal d.lgs. n. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia)[xvi].
La vigente disciplina del c.p.c. dispone che la violazione dell’obbligo di sinteticità rilevi ai fini della condanna alle spese, ai sensi dell’art. 46 n. att. c.p.c. Questa misura non si applica, tuttavia, ai processi già pendenti alla data di entrata in vigore della riforma Cartabia, per esplicita scelta del legislatore[xvii].
La giurisprudenza di Cassazione ha tuttavia sottolineato come, anche in difetto di analoga previsione, la riforma non sarebbe stata applicabile agli atti di parte formati nei processi pendenti.
La disciplina transitoria sarebbe infatti «esplicazione del principio generale della perpetuatio iurisdictionis sancito dall’art. 5 c.p.c.; in proposito, va ricordato che, in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo jus superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all’intero nuovo rito»[xviii].
Può lasciare perplessi la concezione estensiva della perpetuatio iurisdictionis sottesa alla pronuncia della Cassazione, ma questo non infirma la corretta intuizione del collegio circa la variazione del tempus regit actum in rapporto agli atti presi a riferimento[xix]; tuttavia, quando si afferma che la nuova disciplina si applica ai singoli atti isolati «da compiere», si ribadisce che essa non trovi applicazione indifferenziata nei confronti degli atti di parte già compiuti secondo il rito previgente e dei perduranti poteri del giudice che quegli atti abbiano come indefettibile presupposto.
Ipotizzando che la soluzione individuata dalla Cassazione sia espressiva di un principio generale, applicabile anche al processo amministrativo in forza dell’art. 39 c.p.a., essa conduce a conclusioni opposte a quelle sostenute dalla Plenaria. Il novellato art. 13 ter, anche nel silenzio della legge e in assenza di una disciplina transitoria, troverebbe applicazione ai soli giudizi instaurati dal 1 gennaio 2025 e non a quelli ancora pendenti alla stessa data, regolati dal precedente rito e ancora esposti ai dubbi interpretativi sollevati dalla III Sezione.
La soluzione potrebbe essere inappagante in concreto, ma pare giustificata dallo stesso silenzio della legge di riforma dell’art. 13 ter, che non prevede disciplina transitoria e, soprattutto, non precisa se la nuova norma si applichi retroattivamente agli atti di parte formulati in giudizi pendenti: il che impone di utilizzare il criterio interpretativo stabilito dall’art. 11 delle preleggi, in ordine alla irretroattività delle disposizioni nel silenzio del legislatore.
Va da sé che, sulla base di queste considerazioni, la Plenaria non avrebbe dovuto ritenere applicabile immediatamente la riforma con assorbimento delle questioni interpretative inerenti alla disciplina previgente, ma avrebbe dovuto affrontare i quesiti sollevati dalla III Sezione componendo i contrasti giurisprudenziali riferibili ai giudizi ancora pendenti e retti dalla previgente disciplina.
3 . Sulla natura delle misure previste dal vigente art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a.
L’applicazione del nuovo art. 13 ter alle controversie già pendenti solleva dei dubbi anche in rapporto alla misura prevista dal comma 5, che prescinde dall’esito del ricorso e dalla soccombenza. Si rammenti che il giudice può condannare la parte al pagamento di una somma complessiva fino al doppio del contributo unificato previsto in relazione all’oggetto del giudizio, anche in aggiunta al contributo già versato.
Il potere di cui beneficia il giudice ai sensi del comma 5, sembra innanzitutto distinto dal potere di condannare la parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, in rapporto al quale l’art. 26 c.p.a. impone di tener eventualmente conto del rispetto dei principi in materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali.
In tal senso la disciplina applicabile al processo amministrativo si distingue pure da quella stabilita dal d. lgs. n. 149/2022, che impone al giudice civile di tenere conto della violazione del dovere di sinteticità ai soli fini della condanna alle spese ai sensi del menzionato art 46 delle norme attuative del c.p.c.
Non pare dubbio che l’art. 13 ter sia caratterizzato da un quid pluris che lo differenzia da altre fattispecie. Resta da chiarire entro quale modello possa essere sussunto il potere di condanna introdotto dalla riforma.
Si potrebbe ipotizzare che essa rappresenti una speciale declinazione della condanna al pagamento di un contributo maggiorato, nei termini previsti dall’art. 13, commi 1 quater e 6 bis-1 del d.P.R. n. 115/2002. In tal caso, la pronuncia imporrebbe l’adempimento di un obbligo tributario posto a presidio del buon andamento processuale, pregiudicato dalla formulazione di atti eccedenti i limiti dimensionali applicabili.
Viene in rilievo, anche in questo caso, la giurisprudenza di Cassazione.
Si è premesso, al riguardo, che il contributo unificato costituisce «una “tassa”, in quanto ha come presupposto impositivo l’espletamento del servizio pubblico della giustizia richiesto dal soggetto che promuove la lite». Il contributo rispecchia «un metodo di imposizione sui “servizi giurisdizionali” che ha sostituito i previgenti sistemi analitici di tassazione giudiziaria per lo più “d’atto” con un prelievo tributario una tantum, normalmente commisurato al valore della lite, rendendo il processo, nei suoi singoli gradi, un unico evento presupposto».
Da questa premessa discende che il raddoppio del contributo, dovuto in caso di impugnazioni inammissibili, improcedibili o integralmente infondate, non ha carattere sanzionatorio, «perché al legislatore si riconosce ampia discrezionalità nel perseguire svariate finalità con l’imposizione fiscale, ed una di esse ben può essere quella di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, apprestando un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario»[xx].
Lo stesso ordine di idee andrebbe riferito al caso, previsto dall’art. 13, comma 6 bis-1, di maggiorazione del contributo dovuta a omessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (e recapito fax) del difensore, assumendosi che lo scopo della norma sia quello di incentivare un’efficiente comunicazione con le parti e il giudice.
Non pare, tuttavia, che l’art. 13 ter sottenda un siffatto obbligo tributario.
Contro questa soluzione sembra deporre la formulazione del comma 5, che conferisce al giudice un potere di commisurazione della somma dovuta entro un massimo edittale, in linea con il principio stabilito dall’art. 11 della l. n. 689/1981. Si coglie poi con un’assonanza con i poteri sanzionatori conferiti al giudice civile ai sensi dell’art. 96, ultimo comma, c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 149/2002 in casi di abuso del processo ad opera della parte[xxi].
Così argomentando, la riforma entrata in vigore nel 2025 avrebbe innovato il sistema sanzionando direttamente la parte responsabile della predisposizione di atti non sintetici, senza incidere sulla loro efficacia processuale, come invece accadeva nella precedente versione dell’art. 13 ter. In tal modo sarebbe garantito il diritto di difesa delle parti, pur senza rendere simbolico il dovere di chiarezza e sinteticità degli atti stabilito dall’art. 3 c.p.a., che degraderebbe la norma a lex imperfecta.
Assunta la natura sanzionatoria della misura prevista dal comma 5, si riapre tuttavia il problema dell’efficacia temporale della riforma.
La stretta legalità delle sanzioni dovrebbe inibirne l’efficacia retroattiva, in coerenza con quanto stabilito dall’art. 1 della l. n. 689/1981 e con lo stesso art. 11 delle preleggi. Né potrebbe ritenersi di essere in presenza di una lex mitior, dato che l’art. 13 ter introduce per la prima volta un meccanismo sanzionatorio prima non operante, stante il fatto che le conseguenze della previgente disciplina verso gli atti di parte non rispondevano a una logica “sanzionatoria” in senso stretto, ma alla mera consequenzialità della violazione di una norma di rito[xxii].
Si potrebbe eventualmente assumere che la violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti di parte, nei termini generalmente prescritti dall’art. 3 c.p.a., incida sulla condanna alle spese del giudizio ex art. 26 c.p.a., e che nella condanna debbano essere comprese le somme individuate sulla base della disciplina di attuazione.
Questo ragionamento, che giustificherebbe l’applicazione dello jus superveniens rispetto al potere di comminare la condanna alle (complessive) spese del giudizio, assorbe tuttavia l’irrisolto problema della qualificazione delle singole voci di spesa: se ci si interroga sulla natura della voce inerente alla maggiorazione del contributo unificato, il tema della sua natura torna in primario rilievo e lascia riemergere tutti i dubbi palesati in precedenza.
4. Sul passaggio in decisione della controversia come momento rilevante ai fini dell’applicazione dello jus superveniens
Un ulteriore elemento di interesse concerne il punto della sentenza, in cui, respinta la tesi dell’appellata, si è affermato che la riforma trovi applicazione anche ai procedimenti passati in decisione, ma non ancora decisi. Tale era il caso di specie, in cui il passaggio in decisione era stato seguito dalla devoluzione della controversia alla Plenaria, con perdurante pendenza del giudizio[xxiii].
La soluzione appare corretta, e coerente con la stessa formulazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a., che non priva il giudice del potere di accertare d’ufficio lo jus superveniens, salva l’integrazione del contraddittorio per permettere alle parti di dedurre in argomento[xxiv].
La pronuncia della Plenaria fa nondimeno dipendere l’applicazione della riforma dalle variabili temporali della singola controversia.
Per l’effetto della pronuncia, infatti, la riforma si applica ai quei ricorsi che, pur depositati anteriormente ad altri, non siano stati ancora decisi: in rapporto ai carichi pendenti; alla trattazione anticipata di ricorsi oggetto di istanza di prelievo (art. 71, comma 2, c.p.a.); alla trattazione prioritaria di ricorsi che caratterizzati dall’identità della questione controversa (art. 72 c.p.a.) o suscettibili di immediata definizione (art. 72 bis); alla sussistenza di cause di sospensione o interruzione estranee alla volontà delle parti (art. 79 c.p.a.).
É stato puntualmente sottolineato, in dottrina, come la tempistica dei giudizi e della trattazione della controversia dipenda in misura non irrilevante dalla discrezionalità gestoria del giudice[xxv].
Il fenomeno è entro certi limiti fisiologico, ma mostra il suo lato patologico proprio con riferimento all’applicazione dello jus superveniens, che non a caso il legislatore accompagna sovente a previsioni transitorie volte a tener ferma l’applicazione della disciplina previgente ai processi ancora pendenti.
Basti un esempio. Ipotizzando la contestuale instaurazione di due giudizi nel dicembre 2023, non è difficile immaginare che la prima controversia sia stata definita a novembre 2024 senza esaminare la parte eccedente e determinando l’inammissibilità o la reiezione nel merito del ricorso[xxvi], e che la seconda controversia sia stata decisa nel gennaio 2025, con una mera sanzione pecuniaria a carico della parte che abbia violato il dovere posto dall’art. 3 c.p.a. e dalla relativa disciplina di attuazione.
Ove la vicenda riguardi giudizi di primo grado, si potrebbe ipotizzare un appello nei confronti della declaratoria di inammissibilità o infondatezza del ricorso eccedente i limiti consentiti, con devoluzione della controversia al Consiglio di Stato e richiesta di applicare lo jus superveniens favorevole: in tal caso il giudice d’appello potrebbe dunque avere una piena cognizione delle doglianze della parte appellante, salva applicazione del nuovo art. 13 ter nella disciplina ora vigente.
Tale possibilità sembra invece esclusa per i giudizi di appello ormai definiti, a meno che non si ipotizzi l’oppugnabilità per cassazione prospettando un eccesso di potere ai danni del legislatore per aver ricondotto alla violazione della previgente disciplina dell’art. 13 ter delle conseguenze non previste dalla legge: ipotesi remota, se si considera che l’integrazione di una disciplina vaga o la soluzione di lacune rientra nella normale attività interpretativa del Consiglio di Stato, non censurabile per cassazione[xxvii].
In questi ultimi casi, pertanto, la parte che abbia visto dichiarare irrilevanti o inammissibili le proprie doglianze e o difese in appello in ragione del superamento dei limiti quantitativi sulla base della previgente versione dell’art. 13 ter si trova in una situazione peggiore di chi abbia profittato del differimento della decisione, non avendo inoltre gli strumenti per reagire a siffatta disparità.
L’argomento può non essere sufficiente a giustificare una diversa soluzione ad opera della Plenaria, ma evidenzia le implicazioni di una tesi che non tiene in debito conto l’importanza di un regime transitorio rispetto all’applicazione della riforma: regime che si poteva ipotizzare in via pretoria facendo leva sulle coordinate ermeneutiche di cui si è dato conto.
5. Per una legislazione consapevole.
Tutte le ravvisate incertezze discendono, a ben guardare, dalla formulazione dell’art. 1, comma 813, della l. n. 207/2024, che come tutte le leggi di bilancio è caratterizzata da un profluvio di disposizioni non solo prive di coordinamento interno, ma pure slegate dal resto del sistema processuale o sostanziale, con note ricadute in termini di certezza del diritto e stabilità delle relazioni intersoggettive.
Senza affrontare i noti problemi di ordine teorico generale in ordine alla scarsa qualità della legislazione, basti qui limitare l’analisi a una comparazione fra la menzionata legge e le previsioni del d.lgs. n. 149/2022.
L’art. 1, comma 813, della l. n. 207/2024 non contiene una disciplina transitoria, né fa riferimento all’efficacia temporale della riforma. Viceversa, l’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 149/2022 ha espressamente stabilito che la (più complessa) riforma si applichi ai procedimenti «instaurati» successivamente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina processuale, con applicazione della disciplina anteriormente vigente ai procedimenti «pendenti» alla medesima data.
Non si indulge in valutazioni di politica del diritto o considerazioni de iure condendo se si osserva che, con un minimo impegno del legislatore, controversie come quelle devolute alla Plenaria si sarebbero potute evitare, togliendo ogni dubbio in ordine all’efficacia temporale della disciplina entrata in vigore nelle more dei giudizi pendenti.
Nell’importante libro di Massimo Luciani sulla necessità di garantire una perdurante separazione dei poteri un intero capitolo è dedicato alla “produzione della legge”, dove a ragione si biasima lo smarrimento «del punto di equilibrio di un normare preciso e all’un tempo consapevole delle note comuni che sono sottese all’infinità dei rapporti giuridico-sociali»[xxviii].
L’obiettivo polemico di Luciani è quello della legislazione minuta, che si esprime l’esercizio di poteri materialmente amministrativi mediante bilanciamenti di interessi che non dovrebbero essere propri di una disciplina che ambisca alla generalità e astrattezza delle previsioni e dei disegni riformatori.
Si può tuttavia estendere la critica alla legislazione di bilancio che, riformando disposizioni apparentemente minute come l’art. 13 ter con misure di per sé ragionevoli, non si cura di affrontare il problema della successione delle leggi processuali nel tempo: problema certo avulso da una legislazione protesa a disciplinare gli effetti latamente finanziari della violazione del dovere di sinteticità degli atti di parte, ma non per questo estraneo alla necessità di concepire quello processuale come un reale sistema di tutele e garanzie, se non altro perché fondato nelle sue premesse sull’art. 24 Cost., e nel suo svolgimento sull’art. 111 Cost.
Sono questi principi costituzionali a non essere adeguatamente considerati dal legislatore, che demanda ai giudici i difficili e non lineari bilanciamenti rimessi alla propria responsabilità politica[xxix].
[i] Per una ricostruzione della disciplina del c.p.a. e delle norme di attuazione cfr. A. Cassatella, Sub art. 3 c.p.a., in G. Falcon, B. Marchetti, F. Cortese, a cura di, Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 33; G. Cusenza, Sub art. 113 n. att. c.p.a., ivi, 1136 ss. Per approfondimenti cfr. E.M. Barbieri, Il superamento dei limiti dimensionali stabiliti per i ricorsi giurisdizionali amministrativi, in Dir. Proc. Amm., 2022, 223 ss.; F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. Proc. Amm., 2018, 129 ss.; Id., Redazione dell’atto e nullità processuale. Abnormi applicazioni del principio di sinteticità, in F.G. Scoca, M.P. Chiti, D.U. Galetta, a cura di, Liber amicorum per Guido Greco, Torino, 2024, 331 ss.; M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Dir. Proc. Amm., 2015, 1327 ss.; F. Saitta, La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, in Il processo, 2019, 539 ss.
[ii] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 17 gennaio 2025, n. 352.
[iii] Per queste critiche cfr., fra gli altri, A. Panzarola, La visione utilitaristica del processo civile e le ragioni del garantismo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2020, 104 ss., al quale si rimanda per considerazioni di carattere generale antecedenti alla riforma dell’art. 121 c.p.c.
[iv] Cfr. A. Cassatella, L’inammissibilità dell’appello manifestamente prolisso, in Giorn. Dir. Amm., 2017, 237 ss.
[v] Si trascrive, per comodità di lettura, il punto 7 diritto: «la natura processuale del nuovo art. 13 ter, comma 5, comporta che, in assenza di un’apposita disciplina transitoria, esso si applica anche ai ricorsi depositati antecedentemente al primo gennaio 2025».
[vi] Fanno eccezione F. Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo e legge interpretativa, in Dir. Proc. Amm., 1995, 277 ss.; S. Perongini, La formula “ora per allora” nel diritto pubblico. Il provvedimento amministrativo “ora per allora”, II, Torino, 2022, 256 ss., dove il tema è analizzato con riferimento all’incidenza dello jus superveniens sull’oggetto del giudizio di legittimità e non sulle questioni di rito oggetto di questa nota.
[vii] Su tali fondamenti rimane essenziale il rinvio a H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 2021, 299 ss.
[viii] Su questi aspetti cfr. rispettivamente G.D. Comporti, Tempus regit actionem. Contributo allo studio del diritto intertemporale dei procedimenti amministrativi, Torino, 2001, passim; R. Villata, G. Sala, Procedimento amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., XI, Torino, 1996, ad vocem; sul versante processuale, risalendo a E. Fazzalari, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1989, 889 ss., cfr. R. Caponi, Tempus regit processum: un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. Dir. Proc., 2006, 449 ss.; B. Capponi, Cosa è retto dal tempus, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2019, 179 ss.
[ix] Così R. Caponi, op. cit., 454 ss.
[x] Molto influente, nelle sentenze dei giudizi ordinari – meno in quelle dei giudici amministrativi – l’orientamento della Corte Costituzionale, come espresso in Cort. Cost., 2018, n. 13, su cui cfr. ancora B. Capponi, Certezza e prevedibilità della disciplina del processo: il principio tempus regit processum fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2018, 188 ss.
[xi] Sulla possibilità di applicare il tempus regit actum anche agli atti di parte cfr. sempre R. Caponi, op. cit., 454 ss.
[xii] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 15 febbraio 2011, n. 3688. Per ulteriori applicazioni, cfr. Cass Civ., Sez. I, 13 dicembre 2024, n. 32365; Cass. Civ., Sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 22407.
[xiii] Come attentamente osservato in dottrina, il tempus regit actum andrebbe a rigore qualificato come tempus regit effectum: così R. Caponi, op. cit., 455.
[xiv] Cfr. G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1935, 78 ss., con la precisazione che, nei processi pendenti, l’applicazione della nuova legge agli atti da compiere può essere ammessa se ed in quanto compatibile con gli effetti già verificatisi, o in corso di verificazione continuativa.
[xv] Per una soluzione di segno opposto cfr. E. Fazzalari, op. cit., 892, secondo il quale lo jus superveniens sarebbe sempre immediatamente efficace, salvo disposizione contraria, ai processi in corso. Un temperamento sarebbe possibile solo nel caso in cui la legge successiva determini una situazione deteriore a carico del titolare del rapporto insorto sotto la legge previgente.
[xvi] Sulla riforma cfr. F. Noceto, Chiarezza e sinteticità degli atti di parte nella recente riforma del processo civile. Minimi tentativi di inquadramento sistematico, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2024, 617 ss.
[xvii] Cfr. la disciplina transitoria stabilita dall’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 149/2022.
[xviii] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 13 dicembre, 2024, n. 32365.
[xix] Per una condivisibile critica all’interpretazione estensiva dell’art. 5 c.p.c., sovente espressa con riferimento al criterio del tempus regit processum, cfr. B. Capponi, Il diritto processuale “non sostenibile”, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2013, specie 865 ss.; in senso favorevole, ma sulla base di una qualificazione del processum come actus trium personarum e del criterio come espressione di un’esigenza di certezza anche a vantaggio delle parti, cfr. R. Caponi, op. cit., 459.
[xx] Tutti i passaggi citati sono riferiti a Cass. Civ., Sez. Un., 17 luglio 2023, n. 20621.
[xxi] La disposizione prevede la condanna aggiuntiva della parte soccombente a una somma compresa fra i 500 e i 5000 euro. Secondo Cass. Civ., Sez. Un., 6 giugno 2024, n. 15892 si tratterebbe di una misura sanzionatoria riferibile all’abuso del processo della parte condannata.
[xxii] Sull’irretroattività della disciplina sanzionatoria cfr. fra le altre Cort. Cost., 21 marzo 2019, n. 63; Cass. Civ., Sez. II, 26 luglio 2024, n. 20949; Cass. Civ., Sez. II, 16 gennaio 2024, n. 1698; Cass. Civ., Sez. II, 13 giugno 2022, n. 19030; Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5746; Cons. Stato Sez. VI, 4 giugno 2010, n. 3497. In dottrina cfr. da ultimo F.G. Scoca, Il punto sulla nozione e sulla disciplina delle sanzioni amministrative, in Dir. Amm., 2025, 2 ss.
[xxiii] Si trascrive il punto 10 in diritto: a fronte dell’argomento dell’appellata, che riteneva già definito il giudizio con il primo passaggio in decisione innanzi alla III Sezione, la Plenaria ha sottolineato che «è irrilevante la circostanza che una prima volta la causa sia passata in decisione in data antecedente all’entrata in vigore della novella legislativa, poiché la Terza Sezione non ha definito il giudizio, il quale prosegue secondo lo jus superveniens».
[xxiv] È affermazione costante in giurisprudenza che lo jus superveniens – anche processuale – debba essere accertato in ogni stato e grado del giudizio mediante l’esercizio dei poteri officiosi: cfr. Cass. Civ., Sez. lav., 16 agosto 2024 n. 22875; Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 661.
[xxv] Cfr. F. Saitta, Interprete senza spartito. Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, 301 ss.
[xxvi] Per questo rigoroso indirizzo cfr. Cons. Stato sez. VII, 4 aprile 2024, n. 3079; Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2023, n. 8928.
[xxvii] Su queste implicazioni si rinvia ad A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2018, 635 ss.
[xxviii] Cfr. M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023, 125.
[xxix] Per critiche di segno analogo, attinenti alla mancata individuazione del diritto transitorio, cfr. già R. Caponi, op. cit., 459.
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