Lo jus superveniens in materia di requisiti dimensionali degli atti di parte: una soluzione pragmatica, ma dubbia(nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 13 marzo 2025, n. 3).
di Antonio Cassatella
Sommario: 1. La questione. 2. Sull’applicazione del tempus regit actum agli atti del processo. 3. Sulla natura delle misure previste dal vigente art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a. 4. Sul passaggio in decisione della controversia come momento rilevante ai fini dell’applicazione dello jus superveniens. 5. Per una legislazione consapevole.
1. La questione
Nella sentenza che si commenta l’Adunanza Plenaria ha affrontato il tema dell’efficacia temporale del nuovo art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a. (introdotto dalla l. n. 207/2024), riguardante le conseguenze del superamento dei limiti dimensionali degli atti di parte, in coerenza con il principio generale di sinteticità fissato dall’art. 3 c.p.a.[i].
La questione sollevata innanzi alla Plenaria era, invero, più articolata, poiché sollecitava un intervento del collegio su una serie di problemi interpretativi riconducibili all’originaria disciplina dell’art. 13 ter[ii].
La Plenaria non ha trattato il problema nella sua interezza, limitandosi ad affermare l’immediata applicazione della disciplina sopravvenuta ai processi pendenti al 1 gennaio 2025 (data di entrata in vigore della l. 207/2024), che prevede, in caso di eccedenza, una condanna alla maggiorazione del contributo unificato.
La soluzione, per quanto non immune dagli interrogativi di cui poi si dirà, ha il pregio di superare le incertezze originate dalla previgente formulazione dell’art. 13 ter, che esonerava il giudice dalla lettura delle pagine che superavano i limiti stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167/2016. L’art. 13 ter non precisava, tuttavia, le conseguenze della violazione dei limiti e della mancata lettura sul piano della validità ed efficacia degli atti di parte, aprendo la via alle soluzioni ondivaghe richiamate dall’ordinanza di rimessione alla Plenaria.
Sono risapute, a questo riguardo, le perplessità della dottrina – e della stessa giurisprudenza – circa fondamenti del principio di sinteticità e le sue implicazioni pratiche.
Se non si può seriamente dissentire in ordine alla necessità di contenere gli atti di parte entro un limite ragionevole, sembrava e sembra discutibile stabilire ex ante degli standard dimensionali calcolati in rapporto alle tecniche di impaginazione di ricorsi e memorie, ancorché suscettibili di deroga su autorizzazione del giudice; soprattutto, era criticabile la scelta di esonerare il giudice dalla lettura delle pagine non rientranti nei limiti stabiliti dal decreto, demandando alla prassi interpretativa il compito di stabilire la conseguenza più adeguata, ove si ritenesse di non applicare la radicale soluzione dell’inammissibilità della parte (per lo più in diritto) eccedente il limite[iii].
Già in altra sede si era osservato, a questo proposito, come la soluzione più congrua fosse quella di considerare il superamento dei limiti ai fini della condanna alle spese o di altra misura pecuniaria, così da non penalizzare eccessivamente il contraddittorio processuale e l’esigenza di decidere il merito della controversia nell’interesse di tutte le parti coinvolte nel giudizio[iv].
Va in questa direzione l’attuale disciplina dell’art. 13 ter, comma 5, c.p.a., i cui contenuti sembrano pertanto idonei a superare l’impasse interpretativa.
2. Sull’applicazione del tempus regit actum agli atti del processo
Come anticipato, la Plenaria ha stabilito l’immediata applicazione della riforma a tutti i procedimenti pendenti alla fine del 2024, e non ai soli giudizi instaurati a partire dal gennaio 2025, data in cui la riforma è entrata in vigore assieme alla legge di bilancio che ne costituisce la fonte[v].
Ad avviso della Plenaria, infatti, al caso di specie si applica il principio del tempus regit actum. Quello che può individuarsi come actus rilevante non è tuttavia l’atto (ricorso o memoria) delle parti, ma quello del giudice, ossia la sentenza che decide sulla controversia applicando la misura prevista dall’art. 13 ter.
Tutto ciò implica, in concreto, che la norma si applichi a tutti i giudizi pendenti e non ancora decisi dal giudice dopo il passaggio in decisione della controversia, ai sensi dell’art. 73 c.p.a.
La soluzione, laconicamente prospettata dalla stessa Plenaria, offre la possibilità di riflettere sull’estensione del tempus regit actum in ambito processuale e sull’applicazione dello jus superveniens nel processo amministrativo, raramente indagato in dottrina se non in rapporto agli effetti del giudicato[vi].
La questione non trova risposta immediata nelle norme del d. lgs. 104/2010, per cui si impone una disamina più ampia del fenomeno, da desumersi da un raffronto con il processo civile ai sensi dell’art. 39 c.p.a.
Entrando nel vivo della trattazione, occorre considerare come il tempus regit actum non sia altro che un corollario del principio di legalità – sostanziale e processuale – che impone tanto alle amministrazioni che ai giudici di agire e decidere nel rispetto dei parametri vigenti nel momento in cui si esercita un dato potere: le sue fonti, pertanto, possono essere immediatamente individuate negli artt. 97 e, per quanto interessa, 101 Cost., a propria volta ricognitive di principi generali propri dello Stato di diritto[vii].
I problemi di maggiore interesse riguardano i casi in cui, pendente un procedimento o un processo, lo jus superveniensincida sulla latitudine del potere pubblico, mutandone presupposti ed effetti nello iato temporale sussistente fra l’apertura e la conclusione di una certa operazione.
Solitamente la questione è affrontata e risolta con riguardo alla disciplina sostanziale che conforma le singole situazioni soggettive e il potere pubblico che si raffronta ad esse, mentre è meno frequente che si rifletta attorno al modo in cui le norme che regolano l’azione amministrativa o il rito processuale possono mutare nel corso del tempo[viii].
Si apre qui la questione decisa dalla Plenaria, posto che essa investe non solo i poteri del giudice, ma, a monte, la disciplina riferibile agli atti di parte sulla base dell’art. 3 c.p.a. e le norme che vi danno concreta attuazione.
Non pare possibile individuare, allo scopo, soluzioni generali, considerando innanzitutto come l’art. 11 delle preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire, non ha rango costituzionale ed è dunque derogabile dal legislatore stesso. Si deve perciò stabilire di volta in volta, in rapporto alla disciplina sopraggiunta e degli atti su cui essa incide, l’effettiva portata dello jus superveniens[ix].
A riprova della relatività delle soluzioni praticabili, è affermazione ormai tralatizia che il principio del tempus regit actum non privi il legislatore del potere di intervenire sulla disciplina di un processo in corso, purché ciò avvenga nei limiti della ragionevolezza: ragionevolezza da stabilirsi, beninteso, tramite un’interpretazione costituzionalmente orientata o sollevando questione di legittimità costituzionale[x].
Se, dunque, appare irragionevole alterare in corso di giudizio l’intero rito, nulla esclude che lo jus superveniens possa incidere sul regime degli atti di parte o processuali: il che può comportare che gli atti afferenti a una data fase del giudizio siano retti da una certa disciplina, integrata o sostituita da una nuova regolamentazione che si applica nella fase successiva[xi].
Entro questa cornice si comprende l’applicazione temperata del criterio del tempus regit actum fatta propria dalla giurisprudenza, soprattutto civile.
Giova richiamare, al riguardo, l’orientamento prevalente in Cassazione: «quando [a seguito di una sopraggiunta disciplina] il giudice procede ad un esame retrospettivo delle attività svolte, ne stabilisce la validità applicando la legge che vigeva al tempo in cui l’atto è stato compiuto, essendo la retroattività della legge processuale un effetto che può essere previsto dal legislatore con norme transitorie, ma che non può essere liberamente ritenuto dall’interprete». Un’indebita applicazione retroattiva della legge processuale si ha, invece, «sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere»[xii].
Quest’ultimo passaggio va sottolineato anche ai fini della questione affrontata dalla Plenaria: dalla giurisprudenza di Cassazione emerge, infatti, come il tempus regit actum non consenta di far derivare da atti predisposti in un momento anteriore all’entrata in vigore di una certa disciplina gli effetti della disciplina sopravvenuta.
La regola è pertanto quella che gli atti processuali formati in un tempo “x” siano assoggettabili alle conseguenze vigenti nel tempo “x” e non nel successivo tempo “y”, cosicché il giudice che decida nel tempo “y” dovrà comunque fare transitoria applicazione delle norme previgenti al tempo “x”[xiii].
Torna pertanto attuale un remoto insegnamento di Chiovenda, per il quale «la legge processuale nuova rispetta gli atti e i fatti compiuti sotto la legge antica; il che significa che anche gli effetti processuali non ancora verificatisi dell’atto o fatto già compiuto rimangono regolati dalla legge antica»[xiv].
In via giurisprudenziale si afferma l’operatività necessaria di un siffatto regime transitorio anche nel caso in cui la legge taccia, al fine di fare salve le conseguenze degli atti elaborati nella vigenza di una disciplina anteriore.
È una logica coerente non il principio di autoresponsabilità della parte che elabora gli atti e che deve rispondere della loro violazione in rapporto alla disciplina vigente, e conoscibile, nel momento stesso in cui essi sono strati predisposti. Viene al contempo salvaguardata la certezza del diritto (processuale, e a valle sostanziale), rispetto a non prevedibili mutamenti della legislazione[xv].
Facendo applicazione dei suddetti criteri al caso di specie, si potrebbe dunque ritenere che lo stesso principio del tempus regit actum invocato dalla Plenaria, ove riferito agli atti di parte come referente della decisione del giudice ai sensi dell’art. 13 ter, comma 5, impedisca di applicare ad essi la disciplina entrata in vigore nel gennaio 2025.
Questo modo di applicare il tempus regit actum – riferendolo agli atti di parte, e solo in via riflessa a quelli del giudice – è stato sperimentato anche ai fini della sinteticità degli atti del giudizio civile, nei termini stabiliti dall’art. 121 c.p.c., novellato dal d.lgs. n. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia)[xvi].
La vigente disciplina del c.p.c. dispone che la violazione dell’obbligo di sinteticità rilevi ai fini della condanna alle spese, ai sensi dell’art. 46 n. att. c.p.c. Questa misura non si applica, tuttavia, ai processi già pendenti alla data di entrata in vigore della riforma Cartabia, per esplicita scelta del legislatore[xvii].
La giurisprudenza di Cassazione ha tuttavia sottolineato come, anche in difetto di analoga previsione, la riforma non sarebbe stata applicabile agli atti di parte formati nei processi pendenti.
La disciplina transitoria sarebbe infatti «esplicazione del principio generale della perpetuatio iurisdictionis sancito dall’art. 5 c.p.c.; in proposito, va ricordato che, in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo jus superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all’intero nuovo rito»[xviii].
Può lasciare perplessi la concezione estensiva della perpetuatio iurisdictionis sottesa alla pronuncia della Cassazione, ma questo non infirma la corretta intuizione del collegio circa la variazione del tempus regit actum in rapporto agli atti presi a riferimento[xix]; tuttavia, quando si afferma che la nuova disciplina si applica ai singoli atti isolati «da compiere», si ribadisce che essa non trovi applicazione indifferenziata nei confronti degli atti di parte già compiuti secondo il rito previgente e dei perduranti poteri del giudice che quegli atti abbiano come indefettibile presupposto.
Ipotizzando che la soluzione individuata dalla Cassazione sia espressiva di un principio generale, applicabile anche al processo amministrativo in forza dell’art. 39 c.p.a., essa conduce a conclusioni opposte a quelle sostenute dalla Plenaria. Il novellato art. 13 ter, anche nel silenzio della legge e in assenza di una disciplina transitoria, troverebbe applicazione ai soli giudizi instaurati dal 1 gennaio 2025 e non a quelli ancora pendenti alla stessa data, regolati dal precedente rito e ancora esposti ai dubbi interpretativi sollevati dalla III Sezione.
La soluzione potrebbe essere inappagante in concreto, ma pare giustificata dallo stesso silenzio della legge di riforma dell’art. 13 ter, che non prevede disciplina transitoria e, soprattutto, non precisa se la nuova norma si applichi retroattivamente agli atti di parte formulati in giudizi pendenti: il che impone di utilizzare il criterio interpretativo stabilito dall’art. 11 delle preleggi, in ordine alla irretroattività delle disposizioni nel silenzio del legislatore.
Va da sé che, sulla base di queste considerazioni, la Plenaria non avrebbe dovuto ritenere applicabile immediatamente la riforma con assorbimento delle questioni interpretative inerenti alla disciplina previgente, ma avrebbe dovuto affrontare i quesiti sollevati dalla III Sezione componendo i contrasti giurisprudenziali riferibili ai giudizi ancora pendenti e retti dalla previgente disciplina.
3 . Sulla natura delle misure previste dal vigente art. 13 ter, comma 5, n. att. c.p.a.
L’applicazione del nuovo art. 13 ter alle controversie già pendenti solleva dei dubbi anche in rapporto alla misura prevista dal comma 5, che prescinde dall’esito del ricorso e dalla soccombenza. Si rammenti che il giudice può condannare la parte al pagamento di una somma complessiva fino al doppio del contributo unificato previsto in relazione all’oggetto del giudizio, anche in aggiunta al contributo già versato.
Il potere di cui beneficia il giudice ai sensi del comma 5, sembra innanzitutto distinto dal potere di condannare la parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, in rapporto al quale l’art. 26 c.p.a. impone di tener eventualmente conto del rispetto dei principi in materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali.
In tal senso la disciplina applicabile al processo amministrativo si distingue pure da quella stabilita dal d. lgs. n. 149/2022, che impone al giudice civile di tenere conto della violazione del dovere di sinteticità ai soli fini della condanna alle spese ai sensi del menzionato art 46 delle norme attuative del c.p.c.
Non pare dubbio che l’art. 13 ter sia caratterizzato da un quid pluris che lo differenzia da altre fattispecie. Resta da chiarire entro quale modello possa essere sussunto il potere di condanna introdotto dalla riforma.
Si potrebbe ipotizzare che essa rappresenti una speciale declinazione della condanna al pagamento di un contributo maggiorato, nei termini previsti dall’art. 13, commi 1 quater e 6 bis-1 del d.P.R. n. 115/2002. In tal caso, la pronuncia imporrebbe l’adempimento di un obbligo tributario posto a presidio del buon andamento processuale, pregiudicato dalla formulazione di atti eccedenti i limiti dimensionali applicabili.
Viene in rilievo, anche in questo caso, la giurisprudenza di Cassazione.
Si è premesso, al riguardo, che il contributo unificato costituisce «una “tassa”, in quanto ha come presupposto impositivo l’espletamento del servizio pubblico della giustizia richiesto dal soggetto che promuove la lite». Il contributo rispecchia «un metodo di imposizione sui “servizi giurisdizionali” che ha sostituito i previgenti sistemi analitici di tassazione giudiziaria per lo più “d’atto” con un prelievo tributario una tantum, normalmente commisurato al valore della lite, rendendo il processo, nei suoi singoli gradi, un unico evento presupposto».
Da questa premessa discende che il raddoppio del contributo, dovuto in caso di impugnazioni inammissibili, improcedibili o integralmente infondate, non ha carattere sanzionatorio, «perché al legislatore si riconosce ampia discrezionalità nel perseguire svariate finalità con l’imposizione fiscale, ed una di esse ben può essere quella di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, apprestando un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario»[xx].
Lo stesso ordine di idee andrebbe riferito al caso, previsto dall’art. 13, comma 6 bis-1, di maggiorazione del contributo dovuta a omessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata (e recapito fax) del difensore, assumendosi che lo scopo della norma sia quello di incentivare un’efficiente comunicazione con le parti e il giudice.
Non pare, tuttavia, che l’art. 13 ter sottenda un siffatto obbligo tributario.
Contro questa soluzione sembra deporre la formulazione del comma 5, che conferisce al giudice un potere di commisurazione della somma dovuta entro un massimo edittale, in linea con il principio stabilito dall’art. 11 della l. n. 689/1981. Si coglie poi con un’assonanza con i poteri sanzionatori conferiti al giudice civile ai sensi dell’art. 96, ultimo comma, c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 149/2002 in casi di abuso del processo ad opera della parte[xxi].
Così argomentando, la riforma entrata in vigore nel 2025 avrebbe innovato il sistema sanzionando direttamente la parte responsabile della predisposizione di atti non sintetici, senza incidere sulla loro efficacia processuale, come invece accadeva nella precedente versione dell’art. 13 ter. In tal modo sarebbe garantito il diritto di difesa delle parti, pur senza rendere simbolico il dovere di chiarezza e sinteticità degli atti stabilito dall’art. 3 c.p.a., che degraderebbe la norma a lex imperfecta.
Assunta la natura sanzionatoria della misura prevista dal comma 5, si riapre tuttavia il problema dell’efficacia temporale della riforma.
La stretta legalità delle sanzioni dovrebbe inibirne l’efficacia retroattiva, in coerenza con quanto stabilito dall’art. 1 della l. n. 689/1981 e con lo stesso art. 11 delle preleggi. Né potrebbe ritenersi di essere in presenza di una lex mitior, dato che l’art. 13 ter introduce per la prima volta un meccanismo sanzionatorio prima non operante, stante il fatto che le conseguenze della previgente disciplina verso gli atti di parte non rispondevano a una logica “sanzionatoria” in senso stretto, ma alla mera consequenzialità della violazione di una norma di rito[xxii].
Si potrebbe eventualmente assumere che la violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti di parte, nei termini generalmente prescritti dall’art. 3 c.p.a., incida sulla condanna alle spese del giudizio ex art. 26 c.p.a., e che nella condanna debbano essere comprese le somme individuate sulla base della disciplina di attuazione.
Questo ragionamento, che giustificherebbe l’applicazione dello jus superveniens rispetto al potere di comminare la condanna alle (complessive) spese del giudizio, assorbe tuttavia l’irrisolto problema della qualificazione delle singole voci di spesa: se ci si interroga sulla natura della voce inerente alla maggiorazione del contributo unificato, il tema della sua natura torna in primario rilievo e lascia riemergere tutti i dubbi palesati in precedenza.
4. Sul passaggio in decisione della controversia come momento rilevante ai fini dell’applicazione dello jus superveniens
Un ulteriore elemento di interesse concerne il punto della sentenza, in cui, respinta la tesi dell’appellata, si è affermato che la riforma trovi applicazione anche ai procedimenti passati in decisione, ma non ancora decisi. Tale era il caso di specie, in cui il passaggio in decisione era stato seguito dalla devoluzione della controversia alla Plenaria, con perdurante pendenza del giudizio[xxiii].
La soluzione appare corretta, e coerente con la stessa formulazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a., che non priva il giudice del potere di accertare d’ufficio lo jus superveniens, salva l’integrazione del contraddittorio per permettere alle parti di dedurre in argomento[xxiv].
La pronuncia della Plenaria fa nondimeno dipendere l’applicazione della riforma dalle variabili temporali della singola controversia.
Per l’effetto della pronuncia, infatti, la riforma si applica ai quei ricorsi che, pur depositati anteriormente ad altri, non siano stati ancora decisi: in rapporto ai carichi pendenti; alla trattazione anticipata di ricorsi oggetto di istanza di prelievo (art. 71, comma 2, c.p.a.); alla trattazione prioritaria di ricorsi che caratterizzati dall’identità della questione controversa (art. 72 c.p.a.) o suscettibili di immediata definizione (art. 72 bis); alla sussistenza di cause di sospensione o interruzione estranee alla volontà delle parti (art. 79 c.p.a.).
É stato puntualmente sottolineato, in dottrina, come la tempistica dei giudizi e della trattazione della controversia dipenda in misura non irrilevante dalla discrezionalità gestoria del giudice[xxv].
Il fenomeno è entro certi limiti fisiologico, ma mostra il suo lato patologico proprio con riferimento all’applicazione dello jus superveniens, che non a caso il legislatore accompagna sovente a previsioni transitorie volte a tener ferma l’applicazione della disciplina previgente ai processi ancora pendenti.
Basti un esempio. Ipotizzando la contestuale instaurazione di due giudizi nel dicembre 2023, non è difficile immaginare che la prima controversia sia stata definita a novembre 2024 senza esaminare la parte eccedente e determinando l’inammissibilità o la reiezione nel merito del ricorso[xxvi], e che la seconda controversia sia stata decisa nel gennaio 2025, con una mera sanzione pecuniaria a carico della parte che abbia violato il dovere posto dall’art. 3 c.p.a. e dalla relativa disciplina di attuazione.
Ove la vicenda riguardi giudizi di primo grado, si potrebbe ipotizzare un appello nei confronti della declaratoria di inammissibilità o infondatezza del ricorso eccedente i limiti consentiti, con devoluzione della controversia al Consiglio di Stato e richiesta di applicare lo jus superveniens favorevole: in tal caso il giudice d’appello potrebbe dunque avere una piena cognizione delle doglianze della parte appellante, salva applicazione del nuovo art. 13 ter nella disciplina ora vigente.
Tale possibilità sembra invece esclusa per i giudizi di appello ormai definiti, a meno che non si ipotizzi l’oppugnabilità per cassazione prospettando un eccesso di potere ai danni del legislatore per aver ricondotto alla violazione della previgente disciplina dell’art. 13 ter delle conseguenze non previste dalla legge: ipotesi remota, se si considera che l’integrazione di una disciplina vaga o la soluzione di lacune rientra nella normale attività interpretativa del Consiglio di Stato, non censurabile per cassazione[xxvii].
In questi ultimi casi, pertanto, la parte che abbia visto dichiarare irrilevanti o inammissibili le proprie doglianze e o difese in appello in ragione del superamento dei limiti quantitativi sulla base della previgente versione dell’art. 13 ter si trova in una situazione peggiore di chi abbia profittato del differimento della decisione, non avendo inoltre gli strumenti per reagire a siffatta disparità.
L’argomento può non essere sufficiente a giustificare una diversa soluzione ad opera della Plenaria, ma evidenzia le implicazioni di una tesi che non tiene in debito conto l’importanza di un regime transitorio rispetto all’applicazione della riforma: regime che si poteva ipotizzare in via pretoria facendo leva sulle coordinate ermeneutiche di cui si è dato conto.
5. Per una legislazione consapevole.
Tutte le ravvisate incertezze discendono, a ben guardare, dalla formulazione dell’art. 1, comma 813, della l. n. 207/2024, che come tutte le leggi di bilancio è caratterizzata da un profluvio di disposizioni non solo prive di coordinamento interno, ma pure slegate dal resto del sistema processuale o sostanziale, con note ricadute in termini di certezza del diritto e stabilità delle relazioni intersoggettive.
Senza affrontare i noti problemi di ordine teorico generale in ordine alla scarsa qualità della legislazione, basti qui limitare l’analisi a una comparazione fra la menzionata legge e le previsioni del d.lgs. n. 149/2022.
L’art. 1, comma 813, della l. n. 207/2024 non contiene una disciplina transitoria, né fa riferimento all’efficacia temporale della riforma. Viceversa, l’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 149/2022 ha espressamente stabilito che la (più complessa) riforma si applichi ai procedimenti «instaurati» successivamente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina processuale, con applicazione della disciplina anteriormente vigente ai procedimenti «pendenti» alla medesima data.
Non si indulge in valutazioni di politica del diritto o considerazioni de iure condendo se si osserva che, con un minimo impegno del legislatore, controversie come quelle devolute alla Plenaria si sarebbero potute evitare, togliendo ogni dubbio in ordine all’efficacia temporale della disciplina entrata in vigore nelle more dei giudizi pendenti.
Nell’importante libro di Massimo Luciani sulla necessità di garantire una perdurante separazione dei poteri un intero capitolo è dedicato alla “produzione della legge”, dove a ragione si biasima lo smarrimento «del punto di equilibrio di un normare preciso e all’un tempo consapevole delle note comuni che sono sottese all’infinità dei rapporti giuridico-sociali»[xxviii].
L’obiettivo polemico di Luciani è quello della legislazione minuta, che si esprime l’esercizio di poteri materialmente amministrativi mediante bilanciamenti di interessi che non dovrebbero essere propri di una disciplina che ambisca alla generalità e astrattezza delle previsioni e dei disegni riformatori.
Si può tuttavia estendere la critica alla legislazione di bilancio che, riformando disposizioni apparentemente minute come l’art. 13 ter con misure di per sé ragionevoli, non si cura di affrontare il problema della successione delle leggi processuali nel tempo: problema certo avulso da una legislazione protesa a disciplinare gli effetti latamente finanziari della violazione del dovere di sinteticità degli atti di parte, ma non per questo estraneo alla necessità di concepire quello processuale come un reale sistema di tutele e garanzie, se non altro perché fondato nelle sue premesse sull’art. 24 Cost., e nel suo svolgimento sull’art. 111 Cost.
Sono questi principi costituzionali a non essere adeguatamente considerati dal legislatore, che demanda ai giudici i difficili e non lineari bilanciamenti rimessi alla propria responsabilità politica[xxix].
[i] Per una ricostruzione della disciplina del c.p.a. e delle norme di attuazione cfr. A. Cassatella, Sub art. 3 c.p.a., in G. Falcon, B. Marchetti, F. Cortese, a cura di, Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 33; G. Cusenza, Sub art. 113 n. att. c.p.a., ivi, 1136 ss. Per approfondimenti cfr. E.M. Barbieri, Il superamento dei limiti dimensionali stabiliti per i ricorsi giurisdizionali amministrativi, in Dir. Proc. Amm., 2022, 223 ss.; F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Dir. Proc. Amm., 2018, 129 ss.; Id., Redazione dell’atto e nullità processuale. Abnormi applicazioni del principio di sinteticità, in F.G. Scoca, M.P. Chiti, D.U. Galetta, a cura di, Liber amicorum per Guido Greco, Torino, 2024, 331 ss.; M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Dir. Proc. Amm., 2015, 1327 ss.; F. Saitta, La violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, in Il processo, 2019, 539 ss.
[ii] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 17 gennaio 2025, n. 352.
[iii] Per queste critiche cfr., fra gli altri, A. Panzarola, La visione utilitaristica del processo civile e le ragioni del garantismo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2020, 104 ss., al quale si rimanda per considerazioni di carattere generale antecedenti alla riforma dell’art. 121 c.p.c.
[iv] Cfr. A. Cassatella, L’inammissibilità dell’appello manifestamente prolisso, in Giorn. Dir. Amm., 2017, 237 ss.
[v] Si trascrive, per comodità di lettura, il punto 7 diritto: «la natura processuale del nuovo art. 13 ter, comma 5, comporta che, in assenza di un’apposita disciplina transitoria, esso si applica anche ai ricorsi depositati antecedentemente al primo gennaio 2025».
[vi] Fanno eccezione F. Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo e legge interpretativa, in Dir. Proc. Amm., 1995, 277 ss.; S. Perongini, La formula “ora per allora” nel diritto pubblico. Il provvedimento amministrativo “ora per allora”, II, Torino, 2022, 256 ss., dove il tema è analizzato con riferimento all’incidenza dello jus superveniens sull’oggetto del giudizio di legittimità e non sulle questioni di rito oggetto di questa nota.
[vii] Su tali fondamenti rimane essenziale il rinvio a H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 2021, 299 ss.
[viii] Su questi aspetti cfr. rispettivamente G.D. Comporti, Tempus regit actionem. Contributo allo studio del diritto intertemporale dei procedimenti amministrativi, Torino, 2001, passim; R. Villata, G. Sala, Procedimento amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., XI, Torino, 1996, ad vocem; sul versante processuale, risalendo a E. Fazzalari, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1989, 889 ss., cfr. R. Caponi, Tempus regit processum: un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. Dir. Proc., 2006, 449 ss.; B. Capponi, Cosa è retto dal tempus, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2019, 179 ss.
[ix] Così R. Caponi, op. cit., 454 ss.
[x] Molto influente, nelle sentenze dei giudizi ordinari – meno in quelle dei giudici amministrativi – l’orientamento della Corte Costituzionale, come espresso in Cort. Cost., 2018, n. 13, su cui cfr. ancora B. Capponi, Certezza e prevedibilità della disciplina del processo: il principio tempus regit processum fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2018, 188 ss.
[xi] Sulla possibilità di applicare il tempus regit actum anche agli atti di parte cfr. sempre R. Caponi, op. cit., 454 ss.
[xii] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 15 febbraio 2011, n. 3688. Per ulteriori applicazioni, cfr. Cass Civ., Sez. I, 13 dicembre 2024, n. 32365; Cass. Civ., Sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 22407.
[xiii] Come attentamente osservato in dottrina, il tempus regit actum andrebbe a rigore qualificato come tempus regit effectum: così R. Caponi, op. cit., 455.
[xiv] Cfr. G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1935, 78 ss., con la precisazione che, nei processi pendenti, l’applicazione della nuova legge agli atti da compiere può essere ammessa se ed in quanto compatibile con gli effetti già verificatisi, o in corso di verificazione continuativa.
[xv] Per una soluzione di segno opposto cfr. E. Fazzalari, op. cit., 892, secondo il quale lo jus superveniens sarebbe sempre immediatamente efficace, salvo disposizione contraria, ai processi in corso. Un temperamento sarebbe possibile solo nel caso in cui la legge successiva determini una situazione deteriore a carico del titolare del rapporto insorto sotto la legge previgente.
[xvi] Sulla riforma cfr. F. Noceto, Chiarezza e sinteticità degli atti di parte nella recente riforma del processo civile. Minimi tentativi di inquadramento sistematico, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2024, 617 ss.
[xvii] Cfr. la disciplina transitoria stabilita dall’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 149/2022.
[xviii] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 13 dicembre, 2024, n. 32365.
[xix] Per una condivisibile critica all’interpretazione estensiva dell’art. 5 c.p.c., sovente espressa con riferimento al criterio del tempus regit processum, cfr. B. Capponi, Il diritto processuale “non sostenibile”, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2013, specie 865 ss.; in senso favorevole, ma sulla base di una qualificazione del processum come actus trium personarum e del criterio come espressione di un’esigenza di certezza anche a vantaggio delle parti, cfr. R. Caponi, op. cit., 459.
[xx] Tutti i passaggi citati sono riferiti a Cass. Civ., Sez. Un., 17 luglio 2023, n. 20621.
[xxi] La disposizione prevede la condanna aggiuntiva della parte soccombente a una somma compresa fra i 500 e i 5000 euro. Secondo Cass. Civ., Sez. Un., 6 giugno 2024, n. 15892 si tratterebbe di una misura sanzionatoria riferibile all’abuso del processo della parte condannata.
[xxii] Sull’irretroattività della disciplina sanzionatoria cfr. fra le altre Cort. Cost., 21 marzo 2019, n. 63; Cass. Civ., Sez. II, 26 luglio 2024, n. 20949; Cass. Civ., Sez. II, 16 gennaio 2024, n. 1698; Cass. Civ., Sez. II, 13 giugno 2022, n. 19030; Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5746; Cons. Stato Sez. VI, 4 giugno 2010, n. 3497. In dottrina cfr. da ultimo F.G. Scoca, Il punto sulla nozione e sulla disciplina delle sanzioni amministrative, in Dir. Amm., 2025, 2 ss.
[xxiii] Si trascrive il punto 10 in diritto: a fronte dell’argomento dell’appellata, che riteneva già definito il giudizio con il primo passaggio in decisione innanzi alla III Sezione, la Plenaria ha sottolineato che «è irrilevante la circostanza che una prima volta la causa sia passata in decisione in data antecedente all’entrata in vigore della novella legislativa, poiché la Terza Sezione non ha definito il giudizio, il quale prosegue secondo lo jus superveniens».
[xxiv] È affermazione costante in giurisprudenza che lo jus superveniens – anche processuale – debba essere accertato in ogni stato e grado del giudizio mediante l’esercizio dei poteri officiosi: cfr. Cass. Civ., Sez. lav., 16 agosto 2024 n. 22875; Cons. Stato, Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 661.
[xxv] Cfr. F. Saitta, Interprete senza spartito. Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Napoli, 2023, 301 ss.
[xxvi] Per questo rigoroso indirizzo cfr. Cons. Stato sez. VII, 4 aprile 2024, n. 3079; Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2023, n. 8928.
[xxvii] Su queste implicazioni si rinvia ad A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2018, 635 ss.
[xxviii] Cfr. M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023, 125.
[xxix] Per critiche di segno analogo, attinenti alla mancata individuazione del diritto transitorio, cfr. già R. Caponi, op. cit., 459.