Nel proseguire l’approccio multidisciplinare al tema della violenza di genere, la Rivista oggi propone la recensione di Donatella Palumbo del romanzo “Il mio nome è Aoise” scritto da Marta Correggia, attualmente giudice del lavoro presso il Tribunale di Napoli.
Recensione al romanzo “Il mio nome è Aoise” di Marta Correggia
a cura di Donatella Palumbo
Sommario: 1. L’autrice – 2. I luoghi – 3. Il romanzo – 4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla.
1. L’autrice
Marta Correggia attualmente presta servizio presso il Tribunale di Napoli con le funzioni di giudice del lavoro. In precedenza, si è occupata per molto tempo di reati predatori e di sfruttamento della prostituzione in qualità di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. L’esperienza di quegli anni ha messo in contatto l’autrice con la realtà della prostituzione vissuta nelle periferie, con il suo carico di violenze e sopraffazioni. Da qui l’idea di scrivere un libro che, attraverso la forma del romanzo, potesse restituire un’anima e un’identità a quei “corpi da marciapiede”. Del resto, se è vero che il mestiere del magistrato è analizzare vicende, studiarle ed esprimere giudizi, allo stesso tempo un magistrato non può non tenere conto dell’umanità nascosta dietro le carte e questa umanità porta inevitabilmente le sue vicende, anche infernali, chiede di essere ascoltata e vuole giustizia.
È l’inferno dei viventi de “Le città Invisibili” di Italo Calvino: “L’’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
L’autrice ha scelto il secondo modo. Così è nata Aoise, così è cresciuta Erabon.
La prefazione è di padre Alex Zanotelli.
2. I luoghi
Gli anni di lavoro come sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere hanno ispirato l’autrice per l’ambientazione del romanzo a Castel Volturno, in provincia di Caserta, uno dei luoghi chiave della tratta del sesso e scenario principale della narrazione dei fatti avvenuti in Italia. Ma, come precisa l’autrice, il romanzo potrebbe essere immaginato in ogni luogo poiché “la scelta è ricaduta su Castel Volturno in quanto parte di un territorio che conosco e che perciò avevo un certo agio a descrivere. Di fatto la città vera e propria non c’è, come non ci sono i suoi abitanti. Questo romanzo avrebbe potuto essere ambientato ovunque ci siano donne oggetto di tratta, ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi”. La protagonista si ritrova in una casa fatiscente a Castel Volturno “un posto nella terra dei bianchi ma popolato da neri che l’avevano occupata e se n’erano impossessati per farne la loro terra, con la complicità dei bianchi che quella terra l’avevano venduta e si servivano dei neri per i loro affari”.
Il degrado e la violenza dei luoghi riflettono così la condizione misera della protagonista, costretta a prostituirsi, senza alcuna possibilità di scelta. Il mondo fuori si dipana lungo dedali di strade, rifiuti, ruderi sgangherati privi di sistema fognario, buche e avvallamenti ovunque; eppure, in mezzo all’inferno, ad un tratto si diffonde la musica e una speranza emerge.
Il compito dell’autrice è stato, dunque dare voce a una coraggiosa ragazza nigeriana e concedere spazio a Castel Volturno, terra tanto bellissima quanto sfortunata.
3. Il romanzo
Il romanzo “Il mio nome è Aoise” è un’opera di fantasia che s’ispira, dunque, a storie vere, a situazioni reali, anche se non esattamente nel modo in cui sono state raccontate dall’autrice, la quale ha riadattato storie e personaggi tratti dalla propria esperienza e li ha resi puramente rappresentativi del complesso e variegato universo della prostituzione descritto come “un dissennato arcipelago di isole umane”.
Il romanzo si snoda alternando la dimensione del ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza vissute dalla protagonista in Nigeria - ove prevalgono, nonostante la condizione di estrema povertà, immagini dolci e accoglienti di vita familiare felice e tenera con i fratellini e il padre Yusuf e immagini bucoliche del villaggio e del paesaggio africano - con la cruda realtà della schiavitù in Italia, che esplode con tutta la sua violenza anche linguistica. La lettura restituisce sensazioni di estrema dolcezza, legate al passato, e agghiaccianti momenti di brutalità legati al presente.
Perché partire? Di certo per il desiderio di una vita migliore. Le fanno credere che l’Italia è il paradiso e poi le ripetono di continuo: “Peggio di come stai, che ci può essere?”. Il padre e il nonno sono morti, la famiglia versa nel momento di maggior bisogno economico e, dunque, il fratello si mette in contatto con Nadir, un apparente intermediario che in realtà è un procacciatore di prostitute. Così, una volta scoperto l’inganno, la protagonista arriva a pensare che “era meglio morire di fame in Nigeria che diventare una schiava, un corpo a disposizione di tutti fuorché di sé stessa”.
Viene descritto in modo dettagliato il meccanismo della tratta delle donne africane - tema principale del romanzo - che, attingendo alle paure e alle credenze più recondite, è collegato in modo inscindibile al momento del giuramento con Priest Wami, eseguito prima di partire per l’Italia. Difatti il giuramento è dotato di una forza vincolante dirompente, radicata in modo profondo, risiedendo nella supposta esistenza di spiriti maligni che causano disgrazie irreversibili a coloro che ne violano i precetti, di talchè il terrore per gli effetti che ne conseguono riecheggia ogni volta nella mente della protagonista allorquando tenta di sottrarsi ai suoi aguzzini: “Se non adempi alla promessa fatta al mio santuario ci servirà il tuo sangue e quello dei tuoi cari. Posso usare il mio potere per distruggere qualunque cosa io voglia. Sono in grado di generare qualsiasi malattia in una persona. Se prometti, devi farlo, altrimenti il semidio Eshu manderà gli spiriti dei morti a uccidere te e la tua famiglia. Nel tempio di Eshu sono riposti i tuoi peli e le tue unghie, in questa scatola la tua biancheria intima, c’è il tuo nome, se non obbedirai agli ordini della madame verranno utilizzati per scatenare gli spiriti contro di te”.
L’assoluta mercificazione della donna, trattata solo come oggetto da cui gli aguzzini Sammy e Sonia pretendono denaro ogni settimana, esplode in tutta la sua crudeltà nel cambio di nome che viene imposto alla protagonista: Aoise diventando Erabon deve rinnegare il suo vissuto, le sue origini, il suo essere più profondo. Il denaro da versare periodicamente alla madame diventa più importante della vita umana.
Altri temi si stagliano sullo sfondo e si intrecciano con la storia della protagonista: l’aborto coatto (la gravidanza di Prudence costretta all’interruzione in modo clandestino nonostante il desiderio di tenere il figlio - “l’unica cosa mia” - che finirà per suicidarsi in quanto non sopravvissuta al dolore), storie di caporalato, il traffico di droga e di armi la cui scoperta viene punita con la violenza sessuale di Sammy ai danni della protagonista, il pregiudizio per il colore della pelle, la sparatoria a Castel Volturno che riecheggia la strage del 18 Settembre del 2008 (c.d. strage di Castel Volturno).
4. Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla
Tuttavia, anche nei luoghi più cupi, anche nell’inferno in cui sembra non ci sia alcuna via d’uscita, emergono sentimenti positivi che non possono essere soffocati dalla maman e dai suoi metodi violenti e che prima o poi, anzi, prendono il sopravvento.
Dapprima la solidarietà e l’amicizia tra le sisters, con momenti di convivialità e di leggerezza, che offrono al lettore una sensazione di apparente gioia, che svanisce quando la protagonista nutre sensi di colpa per la difficoltà di proteggere le ragazze più fragili, e poi l’amore, fino a quel momento solo idealizzato nelle favole raccontate dal nonno in Nigeria, assume il volto di Francis: “Erabon non aveva bisogno di complimenti, ma di un’amorevole forma di considerazione. La tenerezza dei corpi rimpiccioliva le difese e si vedevano per ciò che erano: due giovani ragazzi africani che si volevano bene”. L’amore, un sentimento così profondo che consente alla protagonista di riappropriarsi di sé stessa, del suo destino e, finalmente, del suo nome: “Fu in uno di questi momenti che lui prese a chiamarla Aoise”.
Dall’amore alla salvezza: Francis presenta ad Aoise Ciccio, un volontario del centro di accoglienza per migranti, per il tramite del quale la protagonista intravede spiragli di cambiamento nella propria vita attraverso la prospettata denuncia alle forze dell’ordine. Per la prima volta Aoise viene trattata come un essere umano e non viene vista come una “cosa”: “Non è colpa tua, tu sei solo una vittima… tutte quelle storie sul rito ju-ju e sugli spiriti dei morti sono storie inventate, credimi” e le strinse la mano ancora più forte. “Devi denunciarli, sarai protetta dalla polizia, ci sono molti posti dove accolgono le ragazze come te; sono gestiti da donne che hanno avuto la tua stessa esperienza di prostituzione, devi solo decidere. Ai tuoi parenti in Nigeria si può dire di andare via dalla città per un po’, una soluzione la si trova.”.
Chiaramente il percorso non è semplice e l’autrice offre al lettore tutta la confusione emotiva di Aoise, dilaniata da sentimenti contrastanti: da un lato il desiderio di andare via da quel posto infernale, dall’altro la paura che gli spiriti dei morti si vendichino sulla madre e sui fratelli, in virtù del giuramento officiato da Priest Wami. La protagonista è totalmente prigioniera delle sue credenze, terrorizzata, incapace di credere che possa esserci una vita migliore per lei e la sua famiglia, che la sua sorte possa essere volta al meglio. Aoise allora decide di svelare tutta la verità alla madre, la quale tuttavia resta silente al telefono: mancanza di comprensione nei confronti della figlia o totale consapevolezza della situazione? Per la prima volta la protagonista realizza che l’unica cosa che importava alla madre era il denaro mandato in Nigeria, indipendentemente da come lo guadagnasse.
Da questa amara scoperta la protagonista comincia a vincere le resistenze, a superare le paure, e finalmente a pianificare la fuga. “Ecco, io ci sono. Venite a prendermi, spiriti maligni. Forse esistete, o forse no, ma io non ne posso più!” E quando, in un antro limpido della sua mente, scandì queste parole, la paura divenne meno odiosa. Tirò fuori una voce immensa e gridò: «Basta!!!” (…) “In quel momento non si sentì sola, perché avvertiva la presenza dei suoi cari accanto a lei. E fu insieme a Prudence che salì sulla macchina di Ciccio, con i sedili bucati e la puzza di tabacco; fu insieme a papà Yusuf e a Daren che salutò Francis dal vetro posteriore della Fiat Punto, mentre la città di Castel Volturno, il mare, le case, i cumuli di rifiuti lungo le strade si dissolvevano esangui sotto il suo sguardo”.
Una volta al sicuro, sfuggita al controllo anche psicologico dei suoi aguzzini, decide di denunciare Sonia e Sammy, collaborando con le forze dell’ordine, trovando così il coraggio di diventare una donna finalmente libera: “Io non mi chiamo più Erabon, mi chiamo Aoise”.