Alcune osservazioni sul progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario[1]
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati. - 2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici. - 3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati. - 4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce. - 5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio. - 6. Qualche ultima considerazione.
1. Premessa. Si limita l’indagine al ruolo dei capi degli uffici e alla valutazioni di professionalità dei magistrati
E in discussione in Parlamento una riforma di ordinamento giudiziario che fa seguito al disegno di legge n. 2681 già presentato il 28 settembre 2020 dall’allora Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede, e che, con i fatti c.d. di Palamara, e le discussioni, anche a livello politico e mediatico che ne sono seguite, ha avuto degli emendamenti, e infine una delibera favorevole dalla II Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati il 14 aprile 2022.
Il progetto di riforma è vasto e investe molti aspetti: dalla disciplina delle funzioni direttive alla valutazione della professionalità, dall’organizzazione del Pubblico ministero a quella dei Consigli giudiziari, dall’accesso alle funzioni di legittimità ai procedimenti disciplinari, dall’accesso in magistratura ai collocamenti fuori ruolo, dal ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, dalla eleggibilità dei suoi componenti e all’elettorato attivo e passivo fino al riassetto dell’ordinamento giudiziario militare, ecc…….
Un po’ tutto è investito da questa riforma, cosicché una analisi articolata di essa non è possibile in un breve articolo, e i tanti aspetti coinvolti necessitano evidentemente di un vero e proprio Commento, che probabilmente qualcuno scriverà dopo la sua definitiva approvazione.
Io credo, però, fin d’ora, che, dovendo dare un giudizio complessivo della riforma, molti aspetti attengano all’amministrazione della giurisdizione e alla mera vita professionale del magistrato, cosicché, anche per la loro natura squisitamente tecnica, suscitano poco, o minor interesse, a chi magistrato non sia.
A fianco di questi, tuttavia, la riforma presenta altri aspetti che interferiscono invece con i principi costituzionali del Titolo IV della Costituzione, e con i principi di indipendenza della magistratura di cui agli artt. 101 e ss.
Questi, al contrario, sono gli aspetti che devono interessare tutti i cittadini, poiché altrimenti non ha senso asserire solennemente che la giustizia “è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.).
Questi aspetti, che peraltro sono quelli sulla base dei quali la magistratura associata, e precisamente l’ANM, ha deciso di indire una giornata di sciopero, a mio parere investono soprattutto le novità in punto di ruolo dei capi degli uffici e di valutazioni della professionalità: e alla trattazione di soli questi temi, così, è dedicato questo mio breve intervento.
2. Le norme progettate in tema di ruolo dei capi degli uffici
Al riguardo, prendo le mosse dall’esposizione delle norme.
Quanto alle funzioni direttive e semidirettive, si tenga presente:
a) In primo luogo l’art. 37 del d.l. 98/2011 recita che: “1. I capi degli uffici giudiziari sentiti, i presidenti dei rispettivi Consigli dell'ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili. Con il programma il capo dell'ufficio giudiziario determina: - ) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso;
- ) gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l'ordine di priorita' nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonche' della natura e del valore della stessa. 2. Con il programma di cui al comma 1, sulla cui attuazione vigila il capo dell'ufficio giudiziario, viene dato atto dell'avvenuto conseguimento degli obiettivi fissati per l'anno precedente o vengono specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Ai fini della valutazione per la conferma dell'incarico direttivo ai sensi dell'articolo 45 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, i programmi previsti dal comma 1 sono comunicati ai locali consigli dell'ordine degli avvocati e sono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura.
b) L’art. 2, 1 comma, lettera d) del progetto n. 2681 prevede altresì che la partecipazione alle procedure per la copertura di posti direttivi è subordinata alla partecipazione di un corso mirato “allo studio dei criteri di gestione delle organizzazioni complesse e all’acquisizione delle competenze manageriali”; e il testo della Commissione aggiunge che, in dette procedure, deve prestarsi particolare attenzione: “alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, alla conoscenza delle norme ordinamentali, alla capacità di efficiente organizzazione del lavoro giudiziario e agli esiti delle ispezioni svolte negli uffici presso cui il candidato svolge o ha svolto funzioni direttive o semidirettive”; e soprattutto la lettera m) asserisce infine che si debba: “prevedere che la capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo sia valutata ai fini di quanto previsto dall’art. 12, comma 10 e 11 del d. lgs. 160/2006, nonché nella valutazione ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006”.
c) Ed inoltre, per quanto concerni la conferma dell’incarico direttivo, l’art. 45 del d. lgs. 160/2006 statuisce: “Le funzioni direttive di cui all'articolo 10, commi da 10 a 16, hanno natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato puo' essere confermato, previo concerto con il Ministro della giustizia, per un'ulteriore sola volta, per un eguale periodo a seguito di valutazione, da parte del Consiglio superiore della magistratura, dell'attivita' svolta. In caso di valutazione negativa, il magistrato non puo' partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi per cinque anni”.
3. Le norme progettate in tema di valutazioni di professionalità dei magistrati
Per quanto invece riguardi la valutazione della professionalità, si consideri altresì:
a) l’art. 3, 1 comma, lettera d) prevede che “nell’applicazione dell’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160, sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi di gestione redatti a norma dell’art. 37, del d.l. 6 luglio 2011 n. 98”.
b) L’art. 11, 2° comma, lettera b) del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160 recita che “la laboriosita' e' riferita alla produttivita', intesa come numero e qualita' degli affari trattati in rapporto alla tipologia degli uffici e alla loro condizione organizzativa e strutturale, ai tempi di smaltimento del lavoro, nonche' all'eventuale attivita' di collaborazione svolta all'interno dell'ufficio, tenuto anche conto degli standard di rendimento individuati dal Consiglio superiore della magistratura, in relazione agli specifici settori di attivita' e alle specializzazioni”.
c) Più in generale, poi, la valutazione di professionalità è disciplinata nell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dove si legge: “Prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo qualitativo che quantitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio”.
d) Queste condizioni sono poi richieste anche per l’accesso in cassazione, visto che l’art. 2, 3 comma, lettera d) statuisce che, nella valutazione delle attitudini circa la capacità scientifica e di analisi delle norme, deve tenersi conto degli “andamenti statistici gravemente anomali degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”.
e) Si asserisce, infine, che nella valutazione di professionalità di un magistrato, art. 3, 1 comma, punto 2, lettera l) i dati conoscitivi dell’attività giudiziaria devono essere raccolti “anche con specifico riferimento a quella espletata con finalità di mediazione e conciliazione”.
4. Il quadro d’insieme che ne scaturisce
Sulla base di questo impianto normativo, credo si possa affermare quanto segue:
a) con riferimento ai capi degli uffici, e quindi per quanto riguardi le funzioni direttive e semidirettive, esse sono oggi strettamente legate al programma per la gestione dei procedimenti.
Questo programma è essenzialmente centrato sulla produttività dell’ufficio, poiché il primo obiettivo che esso ha è quello della riduzione della durata dei procedimenti.
Il programma deve altresì fissare l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, e quindi il capo dell’ufficio indica ai magistrati quali siano i procedimenti che devono essere trattati subito e quali quelli che al contrario possono essere trattati soltanto dopo altri.
In sostanza, il programma costituisce un vero e proprio budget aziendale, sul quale vigila il capo dell'ufficio giudiziario e che, alla fine di ogni anno, deve essere realizzato, oppure devono essere specificate le motivazioni del loro eventuale mancato raggiungimento.
Da sottolineare, poi, che a tutto questo il capo dell’ufficio ha un interesse personale, in quanto la legge prevede espressamente che la carriera direttiva di un magistrato dipenda dalla capacità di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, che ha valore centrale ai fini della conferma di cui all’art. 45 del d. lgs. 160/2006.
b) Per quanto concerna invece la magistratura che operi senza incarichi direttivi, questa, oltre a doversi attenere al programma, deve: ba) in primo luogo cercare di mediare le controversie, poiché nella valutazione della sua professionalità si tiene conto dell’attività espletata con finalità di mediazione e conciliazione; bb) ed in secondo luogo, e soprattutto, deve stare attenta a non pronunciare provvedimenti che possano essere riformati e/o cassati, poiché ai magistrati è stato attribuito un fascicolo, che si è denominato anche pagella, il quale contiene non solo i dati statistici, ovvero i numeri del lavoro, ma anche i dati concernenti eventuali riforme dei provvedimenti assunti da parte dei giudici dei gradi superiori; la novità, sul punto, espressamente afferma che ai fini della carriera ha rilievo infatti la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
Si fa riferimento alla grave anomalia, ma io aggiungerei che gravi anomalie non le ho quasi mai riscontrate in circa quaranta anni di frequentazione delle aule giudiziarie; dal che, se non si vorrà dare una interpretazione abrogante della disposizione, essa sarà interpretata, sic et sempliciter, quale valutazione dei provvedimenti del giudice in raffronto ai mezzi di impugnazione; col che, ancora, nella sostanza, si sta dicendo che i giudici devono decidere uniformandosi agli orientamenti dei gradi superiori, poiché, non farlo, potrebbe incidere negativamente sulla loro progressione di carriera.
Si tratta di un meccanismo assai discutibile sotto un duplice profilo: perché lega le mani al primo giudice, che deve provvedere stando attento ai mezzi di impugnazione; - e perché lega le mani al giudice dell’impugnazione, che sa che se riforma il provvedimento mette in difficoltà il collega nella valutazione di professionalità.
Né si dica che una deroga ai principi secondo i quali “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), e “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107 Cost.), era già stata posta dall’art., 374, 3° comma c.p.c., per il quale le sezioni semplici non possono disattendere gli orientamenti delle sezioni unite.
Si tratta, ovviamente, di cose totalmente differenti tra loro, perché infatti l’art. 374, 3° comma c.p.c. non impedisce alle sezioni semplici di dissentire dall’orientamento delle sezioni unite, solo queste devono rimettere la questione a quest’ultime; la norma si giustifica poi in forza del principio di nomofilachia, e il tutto non ha alcuna rilevanza ai fini della valutazione della professionalità.
c) Se si considerano questi dati, e quindi si prende atto che il capo dell’ufficio deve organizzare in modo aziendalistico il Tribunale, pena la sua stessa carriera, e che i magistrati devono sottostare al programma, porre in primo piano mediazioni e aspetti quantitativi dell’’esercizio della funzione giurisdizionale, e soprattutto decidere in modo conforme alle decisioni dei giudici di grado superiore, va da sé che la magistratura non ha torto a sostenere che si sta configurando un giudice burocrate e gerarchizzato, che semplicemente deve rispettare condizioni che da altri vengono disposte.
Per motivi di efficienza, così, si deve abbandonare la romantica idea dell’autonomia e dell’indipendenza (quanto meno interna) della delicata funzione del giudicare.
Si tratta, allora, di chiedersi che tipo di giudice noi vogliamo, e soprattutto che tipo di giudice ha assegnato la nostra Costituzione alla Repubblica.
5. Una valutazione circa il giudice che vogliamo, tra Lodovico Mortara e Mariano D’Amelio
Nell’affrontare il tema del “Giudice che vogliamo”, vorrei preliminarmente ricordare un precedente.
Desidero farlo perché appartiene a quegli episodi che rendono chiaro quanto sacro sia il valore della indipendenza della funzione giudiziaria, e perché forse non è neanche un caso così unico, magari invece è simile a tanti altri che noi non conosciamo.
Il ricordo che propongo è quello di due Presidenti di Cassazione: Lodovico Mortara, ultimo presidente della Corte di Cassazione di Roma, e Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di Cassazione unica del Regno.
Siamo negli anni compresi tra il 1922 e il 1924, ovvero negli anni nei quali il fascismo prende il potere: la marcia su Roma risale infatti al 28 ottobre del 1922 e Benito Mussolini diventa capo del Governo tre giorni dopo, il 31 ottobre 1922.
Ebbene, fino a quegli anni, secondo il noto e chiaro principio della divisione dei poteri, il compito di fare leggi spettava al Parlamento, e al Governo solo quello di metterle in esecuzione.
Con gli anni venti, tuttavia, questa ripartizione entrava in crisi, e sempre più il Governo emanava atti aventi valore di legge sorpassando in questo modo l’Assemblea.
Poiché nello Statuto Albertino non vi era una norma analoga al nostro attuale art. 77 Cost., spesso i decreti leggi non venivano convertiti dal Parlamento, e alle volte nemmeno presentati allo stesso per la loro conversione.
Con l’avvento del fascismo questo metodo si rafforzava, e oramai l’idea era quella che lo stesso Governo, anche senza passare dal Parlamento, poteva emanare atti aventi forza di legge sulla sola generica premessa dell’urgenza del provvedere.
In quel periodo, come detto, presidente della Corte di Cassazione di Roma era Lodovico Mortara, un giurista di grande cultura e indipendenza, già ordinario di procedura civile, e già Ministro della Giustizia con il Governo Nitti.
Lodovico Mortara non sopportava l’idea che il Governo si arrogasse poteri che spettavano invece al Parlamento, e, avuta occasione di pronunciarsi su questo tema quale giudice, egli emanava alcune sentenze chiare e nette sui rapporti che dovevano darsi tra funzione legislativa e funzione governativa.
Faccio riferimento a tre pronunce della Corte di Cassazione di Roma, tutte del 1922, e tutte che vedevano Lodovico Mortara non solo quale Presidente della Corte bensì anche quale Presidente del collegio giudicante.
Queste pronunce sono quelle di Cass. 24 gennaio, Cass. 16 novembre e Cass. 30 dicembre 1922, tutte in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
È importante tener conto delle date, poiché mentre la prima era con il fascismo alle porte ma non ancora al potere, le ultime due venivano pronunciate dopo la marcia su Roma, e quindi già con a capo del Governo Benito Mussolini.
Ebbene, Lodovico Mortara non aveva alcun problema a sottolineare come questo malcostume, già presente da un po’ di anni, si fosse aggravato con il fascismo.
Scriveva: “Non esiste nessuna norma costituzionale che autorizzi il Governo a investirsi in circostanze straordinarie della potestà legislativa”. Una volta accertata la “impossibilità non solo di un controllo sollecito, ma perfino di un controllo qualsiasi da parte delle due Camere sopra un grande numero di quegli arbitrari provvedimenti” è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale a un nuovo esame della grave questione”.
Asseriva ancora che, in effetti, in passato, i decreti legge “erano davvero emanati in circostanze eccezionali e con rigida parsimonia cosicché il sindacato parlamentare poteva essere sufficiente” ma oggi: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” e dunque si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa”
Il discorso era chiarissimo: il Parlamento non è più in grado di controllare il Governo, quindi questo compito spetta alla magistratura, in quanto la situazione politica ha attribuito inevitabilmente nuovi doveri alla magistratura, alla quale spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa.
Questo scriveva Lodovico Mortara, e su queste basi la cassazione, a salvaguardia della democrazia, fissava questi principi: a) i decreti leggi sono atti arbitrari del Governo, eccedenti la sfera del potere esecutivo e quindi per loro stessi incostituzionali; b) L’autorità giudiziaria può esaminare se il governo abbia adempiuto alla sua promessa di presentare il decreto al Parlamento e verificare che il Parlamento abbia provveduto alla sua conversione.
Orbene, Lodovico Mortara sapeva perfettamente, non poteva non saperlo, che quelle decisioni sarebbero state invise al sopraggiunto regime, e che certo il regime non lo avrebbe premiato per quelle idee.
Ma Lodovico Mortara non esitava egualmente a pronunciare quelle sentenze, perché per lui, evidentemente, il valore delle idee, il rispetto dei principi costituzionali, e soprattutto l’indipendenza della funzione che stava esercitando, erano più alti e profondi del timore di essere punito.
Nei fatti, poi, il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 sopprimeva le c.d. Cassazioni regionali, tra le quali anche la Corte di Cassazione di Roma, e due mesi dopo Mussolini azzerava altresì, con decorrenza 1 novembre 1923, tutti i vertici di quelle cassazioni, e quindi Lodovico Mortara veniva rimosso dal suo incarico e collocato in pensione.
A Lodovico Mortara sarebbe succeduto nella Prima Presidenza della nuova Cassazione unica del Regno d’Italia, Mariano D’Amelio, e l’anno ancora successivo, 1924, le nuove Sezioni unite di Mariano D’Amelio avrebbero stabilito che “Il giudizio sulla valutazione della necessità urgente e improrogabile di emanare un decreto legge è demandata esclusivamente al potere esecutivo, e non può essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria” (Cass. sez. un., 6 maggio 1924, Giur. it., 1924, I, 536).
Da quel momento, e fino all’arrivo della nostra Repubblica, la divisione della funzione legislativa da quella governativa veniva così meno, tanto che lo stesso Benito Mussolini, anni dopo, e precisamente il 30 ottobre 1939, alla presenza del Ministro della Giustizia Dino Grandi, in un discorso tenuto ai vertici della magistratura riunitisi in Palazzo Venezia, espressamente affermava che: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione di poteri, c’è divisione di funzioni”.
6. Qualche ultima considerazione
Io credo, allora, che vadano fissate alcune cose.
a) Alla magistratura non può chiedersi di difendere i principi della democrazia a qualunque costo, anche a fronte di rischi personali e punizioni; questo possono farlo, e nel corso della storia lo hanno fatto, solo taluni magistrati; tuttavia a tutta la magistratura deve esser concesso di esercitare le funzioni in libertà, poiché solo se i giudici sono liberi, noi tutti possiamo essere liberi; e per rendere indipendente un giudice “non basta liberarlo dal timore che il suo atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarlo, ma bisogna altresì togliergli ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla sua carriera futura” (Calamandrei).
b) Alla magistratura non può inoltre esser chiesta solo efficienza, preparazione e autorevolezza.
Mariano D’Amelio fu primo presidente della Cassazione per tutto il periodo del fascismo, dal 1923 al 1941, e fece funzionare la cassazione con ottimi risultati di produttività. Era poi un giurista raffinato: direttore del Nuovo Digesto italiano, direttore di fatto della Rivista di diritto pubblico dal 1938, professore honoris causa delle università di Heidelberg e di Glasgow, e addirittura, a dieci anni di presidenza della Cassazione, furono promossi studi in suo onore Studi in onore di Mariano D’Amelio, Roma, 1933, 3 volumi; e fu altresì uomo di grande rilievo nel suo periodo storico: presidente del Consiglio superiore della magistratura e della Suprema Corte disciplinare, Senatore del Regno dal 1924, Ministro dal 1938, ottenne il titolo di Conte con r.d. 11 dicembre 1941.
Le forme, quindi, non sempre sono in grado di assicurare la distanza tra magistratura e politica.
c) Non dobbiamo poi nasconderci dietro le forme.
Non basta dire: è così perché l’ha detto la cassazione; le cose stanno in questi termini perché v’è una specifica pronuncia della Corte Costituzionale, ecc……
A fronte di ogni decisione, per quanto autorevole, v’è sempre da chiedersi se quella decisione ci convince, v’è sempre da domandarci se il giudice che l’ha pronunciata è Lodovico Mortara oppure Mariano D’Amelio, perché, con la burocratizzazione e la gerarchizzazione della magistratura, il rischio è che l’ultimo giudice debba dire quello che dice il primo, e il primo giudice debba dire quello che dice la politica.
E poi, è evidente, anche Lodovico Mortara può sbagliare.
Se ai giudici viene privata la libertà di giudizio, a tutti noi sarà automaticamente impedita la libertà di giudizio.
d) Non dobbiamo poi accontentarci delle forme nemmeno nel portare rispetto alla Costituzione.
La struttura gerarchica della magistratura e il modello di giudice burocratizzato non è nella nostra carta costituzionale, e non credo vi sia bisogno di dimostrare che il combinato disposto degli artt. 101, 104 e 107 Cost., ha inteso oltre ogni dubbio garantire quella che si denomina come indipendenza esterna ed interna della magistratura.
Questo modello non può essere derogato dalla legge né in modo palese, né in modo indiretto; e quindi, ai fini della costituzionalità, non basta che la legge non si ponga in contrasto frontale con i principi contenuti in dette norme costituzionali, è necessario che non lo faccia nemmeno in modo deviato, ovvero inserendo nel sistema dei meccanismi che, seppur rispettosi delle forme, giungono ad un risultato pratico che non è conforme ai precetti costituzionali.
In questa ottica disposizioni del progetto n. 2681 quali quelle dell’art. 2, 1 comma, lettera d), o dell’art. 3, 1 comma, lettera d), e soprattutto dell’art. 3, 1 comma, lettera h) 1, possono essere incostituzionali nella misura in cui tendono a creare una figura di giudice che non è quella voluta dalla Costituzione.
E cosa analoga è stata fatta, ancora, con riguardo alla disciplina del Pubblico Ministero.
La nostra Costituzione non prevede la separazione delle carriere tra requirenti e giudicanti, e quindi è necessario modificare la costituzione se si vuole raggiungere quel risultato.
La riforma, invece, cerca di ottenere il medesimo effetto in modo indiretto, visto che l’art. 12, lettera c) 1, modificando l’art. 13, 3° comma, del d. lgs. 5 aprile 2006 n. 160, prevede che “il passaggio” – ovvero il passaggio tra funzioni requirenti a quelle giudicanti – “può essere richiesto dall’interessato per non più di una volta nell’arco dell’intera carriera”.
E dunque, considerato che limitare il passaggio tra le funzioni requirenti e giudicanti per una sola volta costituisce, nella sostanza, separare le carriere, e considerato che il rispetto della costituzione non può essere raggirato facendo formalmente una cosa possibile che però serve per raggiunge un obiettivo impossibile, la novità dell’art. 12, lettera c) 1 è da considerare, parimenti, e a mio parere, incostituzionale, poiché, di nuovo, crea nei fatti una disciplina della magistratura non conforme alla nostra Costituzione.
e) Alla giustizia, inoltre, non può chiedersi solo risposte celeri e prevedibili.
Una giustizia predittiva, fatta con l’ansia del programma di gestione e il timore dei giudizi di professionalità basati sulla capacità del giudice di conformarsi ai colleghi dei gradi superiori, rischia non solo di compromettere l’indipendenza della funzione, bensì anche il risultato sostanziale dei processi.
Se infatti immaginiamo la giustizia come un pranzo al fast food, dove il giudice per far presto può (potrebbe) non assumere le prove, non guardare tutti i documenti, non studiare attentamente il fascicolo, agganciarsi ad ogni questione preliminare e/o pregiudiziale per chiudere in rito il caso e passare, presto e velocemente, ad un altro caso, con l’unica preoccupazione di star attendo a non prendere decisioni che non siano conformi agli orientamenti già consolidati, lì allora par evidente che quel senso di giustizia che tutti noi abbiamo è andato perso.
Ne’ si replichi che istituire la pagella dei giudici è poca cosa, poiché in realtà non lo è, in quanto la questione non è tanto quella di vedere a che punto siamo, ma quella di valutare in che direzione stiamo marciando, e se il senso di marcia è quello dell’inquadramento gerarchico e della burocratizzazione della magistratura, penso sia dovere di tutti chiedersi se è questo il tipo di giudice che vogliamo.
f) Gli avvocati diranno: e i giudici che non lavorano? E la vicenda Palamara? E quelli che da anni e anni sono fuori ruolo? E i provvedimenti negligenti, se non addirittura aberranti, cui talvolta si assiste?
Direi che il “Giudice che vogliamo” certamente non deve cenare all’hotel Champagne, deve stare nei palazzi di giustizia e non nei ministeri, deve stare lontano dalla politica, e deve egli stesso, per primo, rifiutare un ruolo meramente burocratico, deve egli stesso, per primo, concepire la sua funzione e il suo lavoro alla luce di quella indipendenza che costituisce un pilastro irrinunciabile di uno Stato di diritto.
Gli avvocati hanno ragione quando denunciano gli abusi, il malfunzionamento, i rinvii ingiustificati e/o pretestuosi, i provvedimenti negligenti, ma se l’indipendenza dei giudici viene messa in discussione, allora, a quel punto, ogni altra diatriba passa in secondo piano, e ogni altro problema viene necessariamente dopo.
In quel momento gli avvocati devono comprendere che sono nella stessa barca del giudice, e devono comprendere che non c’è dignità, per nessuno, senza libertà, “Nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l’interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata il lui, la propria dignità” (Calamandrei).
L’esercizio della professione forense è possibile e ha un senso solo se l’avvocato si può rivolgere ad un giudice libero e indipendente; se il giudice perde queste caratteristiche, la professione di avvocato è parimenti finita, e il suo ruolo sociale annullato.
g) Nel 1906 Lodovico Mortara era alla Corte di Appello di Ancona.
Una grande intellettuale di quel periodo, Maria Montessori, con una pubblicazione sul giornale La vita del 1906, invitava le donne ad iscriversi alle liste elettorali poiché la legge non ne faceva divieto.
Dieci maestre elementari raccolsero questo invito.
La commissione elettorale della provincia di Ancona accoglieva le domande di iscrizione alle liste elettorali delle dieci maestre ma contro di esse proponeva appello la Procura del Re.
La causa era trattenuta da Lodovico Mortara, redattore della decisione.
Osservava Lodovico Mortara che i diritti politici erano riconosciuti a tutti i regnicoli senza distinzione di sesso dall’art. 4 dello Statuto, e quindi non vi erano ragioni giuridiche per ritenere che le donne, in quanto regnicole, non potessero godere dei diritti politici; ed inoltre la legge elettorale non disponeva niente in contrario, ovvero, nello specifico, non escludeva dall’elettorato le donne. E dunque, asseriva Lodovico Mortara, poiché il diritto elettorale “è a sua volta un diritto politico, il quale alla stregua delle premesse considerazioni spetta a tutti i regnicoli”, esso comprende anche le donne, poiché il silenzio sul punto della legge elettorale va inteso come affermazione del principio generale contenuto nello Statuto, che senza distinzione di sesso attribuisce i diritti politici a tutti.
La sentenza, completamente rivoluzionaria per l’epoca, veniva subito diffusa dalla stampa a tutto il paese.
Ma la Cassazione di Roma, adita dalla Procura del Re, l’8 maggio 1907, annullava detta decisione e ordinava la cancellazione dalle liste elettorali delle dieci maestre di Senigallia.
Se anche allora ci fosse stato il fascicolo di cui all’art. 3, 1 comma, lettera h) 1 dell’attuale progetto di riforma, probabilmente Lodovico Mortara, per questa uscita estemporanea, non avrebbe potuto successivamente accedere alla Presidenza della Cassazione, e non avrebbe potuto denunciare gli abusi politici in punto di decreti legge con i quali il Governo negli anni ’20 si era attribuito il potere legislativo.
[1] Intervento tenuto nel Palazzo di Giustizia di Siena, il 25 magio 2022, in occasione di un incontro organizzato dall’ANM locale sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario.