GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Due doveri dell’A.N.M.

    Una Associazione rappresentativa di una categoria peculiarmente caratterizzata da rilevanza istituzionale non può (se non vuole snaturarsi) trascurare temi che sono essenziali, anche se esuberanti rispetto alle aspirazioni elettorali al suo interno.

    Ne esistono diversi. Per concretezza, mi concentrerò su due certamente attuali: a) la riforma della magistratura onoraria; b) il prossimo concorso per magistratura.



    1. La Magistratura onoraria. Il buon andamento della Giustizia e le giuste aspettative dei magistrati onorari di lunga esperienza

    AREA Democratica per la Giustizia ribadisce la necessità è consapevole che la magistratura onoraria costituisce una risorsa centrale nel sistema della Giustizia. Questo significa che senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non funziona e che se le risorse (le persone) che la compongono sono trattate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.

    L’intelligente intervento di Claudio Castelli sulla riforma in gestazione può costituire una ragionevole base per prossime concrete proposte.

    La magistratura onoraria va considerata nelle sue diverse componenti: le condizioni che riguardano i giudici di pace sono differenti da quelle che valgono per gli altri magistrati onorari. All’interno di questa seconda categoria la situazione del vice procuratori onorari presenta profili distinti rispetto a quelli che valgono per i giudici onorari di Tribunale.

    I vice procuratori onorari sono semplicemente indispensabili per il funzionamento di molte Procure (ancor più di quelle piccole, in molte sedi esposte a periodiche devastanti carenze di organico) per garantire lo svolgimento delle udienze e le indagini sui reati minori. Il ruolo dei giudici onorari dei tribunali (come pure dei giudici di pace) potrebbe anche essere rivisitato nell’ambito di una nuova concezione dell’ufficio del processo.

    Inoltre, fra i magistrati onorari esistono professionisti che da decenni ormai sono funzionari della giurisdizione, che hanno maturato competenze e esperienze superiori (per la natura delle cose) a quelle di un magistrato togato di nuova nomina. Le previsioni normative in cantiere finirebbero per espungerli dalla amministrazione della Giustizia e si risolverebbero in una riduzione dell’organico reale della magistratura. Sarebbe un ingiusto danno per loro e per l’amministrazione trattarli allo stesso modo di quelli che accederanno nei prossimi anni. Ha ragione Castelli: è necessaria una “netta separazione del trattamento tra i giudici onorari e i e procuratori onorari già in funzione, che hanno già maturato un congruo periodo di permanenza e quelli di nuovo accesso. I primi, oltre ad avere prestato per oltre un decennio la loro opera, si sono creati un affidamento di permanenza e potrebbero tranquillamente proseguire sino al pensionamento (vicino per molti)”. Si tratterebbe di “Una misura transitoria che non sarebbe una stabilizzazione, ma una razionalizzazione a esaurimento dell'esistente”. Ovviamente sarebbe doveroso assicurare loro un dignitoso compenso e previdenza e assistenza. Questo consentirebbe agli uffici giudiziari di continuare a funzionare durante il passaggio verso il nuovo regime – un passaggi oche durerà anni - e di evitare il contenzioso europeo.

    2. La selezione dei nuovi magistrati. I temi ai concorsi per la magistratura negli ultimi anni

    Una questione che dovrà essere seriamente trattata prossimamente riguarda la selezione dei nuovi magistrati. Andrà trattata in maniera sistematica e per qualche spunto, segnalo su Giustizia insieme l’Introduzione di Carlo Sabatini al seminario di Area di Taranto del 7/8 aprile 2017 su I giovani magistrati e la formazione e anche il mio Formazione giuridica e selezione dei magistrati.

    Ma per considerazioni immediatamente spendibili (almeno per la persuasione morale dei componenti della commissione d’esame del prossimo concorso) segnalo l’analisi di Giuliano Scarselli (Università di Siena) su Questione giustizia dal titolo Riflessione sul concorso e la tipologia di magistrato selezionato. Emerge che i temi hanno ad oggetto oggi una complessità un tempo inesistente e impongono la trattazione di questioni assai specifiche e a volte marginali, rispetto alle tematiche giuridiche generali che nei primi tempi venivano assegnate ai candidati (…) tendono oggi, rispetto al passato, ad astrarsi da quello che sarà poi il lavoro del magistrato, ovvero hanno ad oggetto temi che difficilmente potranno essere oggetto di trattazione e decisione per un magistrato ordinario di un normale tribunale della nostra penisola”. L’effetto è quello di imporre ai candidati “uno studio a tappeto su tutto, perché tutto, indistintamente, potrebbe per loro essere oggetto di concorso (…) uno studio astratto ed avulso dal mondo del lavoro, ovvero uno studio che non si coordina, o non si coordina se non in casi assolutamente rari e sporadici, con la vita concreta della funzione giurisdizionale”. Ne derivano due conseguenze: “lo studio diventa al tempo stesso mnemonico e astratto e “i testi sui quali i candidati devono prepararsi” si trasformano “in manuali infiniti, pieni solo di tanti dati da assimilare, spesso senza ordine e criterio logico.

    Concordo con Scarselli: la formazione (peraltro, di recente ridotta da 18 a 12 mesi) ad un anno) fornita dalla Scuola superiore della magistratura, non può prescindere dalla selezione. È evidente che i modi del reclutamento dei magistrati interessano tutti: “un magistrato non deve necessariamente conoscere e sapere tutto ma solo avere gli strumenti tecnici e culturali per risolvere le questioni giuridiche che possono porsi alla sua attenzione (…) deve avere senso pratico” e “tanto più l’approccio dei dati è passivo e mnemonico, tanto più vi è il rischio che il soggetto che risolve le questioni lo faccia in modo astratto, e dia soluzioni giuridiche alla stessa stregua di come si postulano i teoremi di geometria”.

    In conclusione, è auspicabile che già con il prossimo concorso, i temi abbiano carattere meno specifico e settoriale per consentire ai candidati di potere dimostrare non tanto le conoscenze memorizzate ma la loro competenza giuridica. Forse i commissari d’esame si troveranno a dovere correggere qualche tema in più. Ma, in compenso, avranno la soddisfazione di effettuare una selezione più adeguata.

     

    Angelo Costanzo

     

     

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    I giovani magistrati e la formazione

    Introduzione al Seminario di AREA - Taranto, 7/8 aprile 2017


    Vorrei ringraziare gli amici pugliesi per organizzazione e accoglienza, oltre che per la scelta di un tema che mi sembra particolarmente significativo e proprio ‘di Area’. Parlare di formazione significa, infatti, avviare preliminarmente una riflessione sul modello di magistrato che si va a formare.

    Vorrei partire ricordando quello che ha detto solo ieri il Presidente della Corte Costituzionale Grossi, nell’inaugurare l’anno accademico della SSM: il Presidente Grossi ha evidenziato il radicale cambio di contesto nel quale la magistratura si trova ad operare in questi anni, contesto che vede il magistrato alle prese con una normazione sempre meno autosufficiente, sempre più spinto a dover trovare una soluzione ‘comunque’, pur in presenza di disposizioni che stentano a regolare la realtà fattuale e quindi sempre più orientate a dettare, come normazione primaria, principi o a rendere alluvionali discipline di dettaglio e attuative, in cui talvolta si perde il senso dello scopo perseguito. Dunque un magistrato non più ‘esegeta’ di un sistema compiuto ma necessariamente ‘inventore’, nel senso che il termine latino sottende, quello della ricerca: attore primario che sempre meno utilizza il semplice sillogismo ma che sempre di più deve sapere orientarsi tra realtà complesse, alla ricerca dei valori che possono aiutarlo – in un sistema sempre più aperto e composito - a determinare la risposta ‘giusta’, cioè appropriata al caso che gli viene proposto.

    Certamente il legislatore è insofferente a questo ruolo del magistrato, ne nega la legittimazione: ma deve spesso arrendersi alla considerazione che questa pretesa supplenza è conseguenza da una parte di una domanda sociale sempre più variegata e composita, che mette al centro posizioni e diritti sempre più eterogenei; dall’altra di una grossa difficoltà dei sistemi di democrazia che conosciamo, a seguire con una normazione puntuale ed esaustiva questa realtà (Bruce Ackerman, professore di diritto all’Università di Yale, ha scritto un libro ‘Good bye Montesquieu: arrivederci, dunque, alla divisione tra i poteri dello Strato?). Del resto, come ha ribadito più volte anche la Cassazione la determinazione di uno stallo normativo non può implicare il divieto di reperimento di una risposta, che possa essere ricavata dal sistema.

    E’ dunque una domanda sempre più complessa, qualitativamente; ed è una domanda in drammatica crescita anche in termini numerici. Su questo non c’è molto da argomentare a nessuno di noi.

    Allora, pongo questo quesito ai successivi interventori, come si costruisce un attore di questo dramma/commedia/tragedia: che non rimanga schiacciato tra istanze sociali che rischiano di rimanere senza risposte e numeri folli? che può essere indotto a ripiegarsi, ad accontentarsi di fare il minimo indispensabile; ovvero che talvolta si affida solo a salvifiche forme di tecnologia, che è importantissima ma è un fattore servente, uno strumento non una soluzione; o in inedite e miracolistiche capacità autorganizzative.
    Se non vogliamo una figura di magistrato ‘parziale e limitato’, non in grado di affrontare questa sfida, ma un soggetto che provi a dare effettività alla risposta di giustizia, partiamo dalla costruzione di tale modello: e questa sessione focalizza appunto due passaggi chiave di questa costruzione, l’accesso e formazione.



    Accesso
    L’accesso, adesso, è consentito solo dopo ‘avere fatto altro’, dunque una serie di precondizioni che già modificano l’essenza della magistratura. Si determina quindi, nel dovere fare altro prima, un sostanziale slittamento anagrafico; si opera anche una selezione di censo, indubbiamente, perché si richiede agli aspiranti magistrati un percorso lungo e costoso che non tutti sono in grado di reggere. Vedo alcuni rischi: per un verso una categoria di persone che si sentano ‘arrivate’, appagate da un percorso individuale, quindi meno disponibili a coglierne la funzione di servizio collettivo, bilanciandola alle proprie legittime aspettative; d’altra parte, una categoria che (con gli attuali sistemi previdenziali, difficilmente destinati a divenire più prodigali) paradossalmente non ha certezze di futuro.

    Interessante vedere che la commissione Vietti ha individuato proprio quest’ultimo aspetto come uno dei punti critici del sistema attuale (insieme a quello relativo alle difficoltà incontrate per l’organizzazione delle prove d’esame e a quello legato a prove d’esame di taglio esclusivamente teorico). La Commissione, in risposta a queste criticità, ha ipotizzato di affiancare al tradizionale canale di accesso, che prevede il passaggio attraverso le scuole di specializzazione o gli “stage” formativi, un canale di accesso più veloce destinato ai laureati in giurisprudenza più brillanti; ha poi previsto meccanismi per sveltire’ i percorsi propedeutici all’accesso al concorso (creare scuole esclusivamente destinate all’accesso in magistratura, con formazione sia pratica che teorica; ridefinire i criteri per la determinazione del numero di laureati da ammettere alle scuole di specializzazione, introducendo, come parametro, il numero dei posti relativi agli ultimi concorsi di magistrato ordinario; ridurre la durata delle scuole di specializzazione; possibilità delle scuole di specializzazione di consorziarsi al fine di ridurne il numero complessivo nel territorio nazionale per garantire un’offerta formativa maggiormente omogenea e qualificata; prevedere un esame unico nazionale per il conseguimento del diploma di specializzazione e la possibilità, per i laureati in possesso dei requisiti per l’accesso diretto in magistratura, di frequentare i corsi pratici delle scuole senza obbligo di partecipare all’esame finale).

    Senza dilungarmi molto, vedo però nuovi rischi in queste soluzioni, ad esempio quello del proliferare di voti elevati in Università che abbiano più a cuore il numero degli iscritti, che ne determina il budget, che non la qualità degli insegnamenti. La verità è che, in definitiva, non sembra utile spostare nella fase di legittimazione al concorso tutto questo complesso di attività, che non sembra in grado veramente di selezionare i migliori; risulterebbe molto più razionale ritornare a un concorso di primo grado - magari diversamente strutturato - e poi potenziare la formazione. L’equiparazione alle magistrature amministrative, e il riconoscimento dei benefici economici conseguenti, è infatti a mio parere argomento buono solo per ammiccamenti, più o meno ricorrenti.

    La Formazione
    L’altro strumento di costruzione del modello di magistrato è la Formazione: Formazione che per generazioni i magistrati hanno conosciuto solo come tirocinio negli uffici: che è la modalità più tradizionale, rassicurante e sperimentata.

    Va detto però chiaramente che questo approccio, che si sostanzia nel ‘travaso’  di competenze verticale (tendenzialmente one-to-one), non basta. Questo sistema, per quel modello di magistrato complesso e ‘inventore’ che abbiamo provato a delineare, benchè ancora centrale non può considerarsi esaustivo, l’inventiva sottende la capacità di andare oltre quanto abbiamo appreso essenzialmente ‘per imitazione’ dai magistrati più anziani.
    Serve altro, dunque: ma serve quello che il sistema attuale prevede? Rivolgo anche questa domanda ai successivi interventori, confidando nelle loro variegate esperienze.
    Proviamo a tratteggiare brevemente questo sistema: che coinvolge in primo luogo il CSM, che – se detta ‘linee guida’ per la Formazione permanente, cioè dei magistrati già più stagionati - detta ‘direttive’ per la formazione iniziale dei Mot, e individua altresì le materie nelle quali i magistrati in tirocinio devono frequentare i corsi di approfondimento teorico-pratico organizzati dalla Scuola.
    Coinvolge poi appunto la  SSM, anche attraverso la Formazione decentrata:
    dunque troviamo un sistema formativo con un livello territoriale, nato per la formazione permanente, che ha però sviluppato attitudini che possono essere di utilità anche per chi inizia. I corsi cd di “emergenza”, offrono anche ai MOT l’occasione di sperimentarsi, di vedere come i colleghi più anziani reagiscono a novità legislative o giurispru­denziali: non consentono solo dunque di assorbire le specifiche soluzioni, ma il metodo per fronteggiare scenari che saranno usuali, quelli di norme improvvisamente calate in una realtà complessa, mal scritte o contradditorie; i corsi di riconversione da una funzio­ne ad una altra, che in qualche modo sono propri di un percorso di (nuovo) inizio; i corsi in materia organizzativa che siano collegati a iniziati­ve e progetti locali:
    vi è poi il necessario momento di sintesi centrale, la SSM appunto, una sede nazionale che (al di là dei compiti di valutazione, pure demandati dalla legge) consente uno scambio di esperienze tra MOT che possono vivere realtà diverse e, anche, l‘indispensabile assorbimento della prospettiva sovranazionale.
     Forse non è un caso che in un impianto normativo così rigido – in teoria dettato dalla condivisibile affermazione della scissione tra formazione e valutazione; in pratica forse anche da meno nobili intenti di controllo e conformazione culturale -  si siano nella pratica (anche per attenuare il disagio degli spostamenti) destinate proporzioni quasi identiche tra i due livelli (nel primo quadriennio della scuola, undici settimane alla decentrata e tredici alla centrale, non consecutive).
    Il costo principale di questo sistema è, indubbiamente, quello di una certa frammentazione: che però potrebbe risultare un costo sostenibile, se si riuscisse ad arrivare in tal modo e con un sistema così complesso ad una graduale distillazione dei valori propri del magistrato, e delle diverse prospettive che i magistrati possono trovarsi a percorrere; inclusa quella della direzione di Uffici, perché non si costruisce un buon dirigente su un cattivo magistrato.

    Vorrei fare alcuni esempi di questa ‘inventiva’, che possono essere specchio cioè di questa nuova stagione.
    Alcuni sono propri dei magistrati più giovani:
    la ricognizione dei ruoli al momento dei trasferimenti, nata come frutto di ‘buone prassi, ora è norma, prevista nella nuova circolare sulle tabelle;  
    a mezza strada è rimasto invece uno strumento che rischia di cadere nel dimenticatoio prima di essersi mai veramente affermato, quello introdotto dall’art. 14 del Regolamento per la formazione iniziale che prevede la nomina per ciascun Mot, al momento della scelta delle sedi, di un magistrato tutore, in servizio presso la sede di destinazione.
    Uno è invece proprio di tutti i magistrati, ma sottende cambiamenti di atteggiamento e di impostazione radicali, tale da dovere appunto essere tenuto bene presente nel momento della costruzione del nuovo modello di magistrato. Mi riferisco al linguaggio giudiziario e alla motivazione: qui la ‘standardizzazione’ può essere una necessità, ma è anche un grande rischio, strumento da manovrare con cautela e con tutta la consapevolezza che solo una riflessione compiuta può avere, soprattutto nel porgere soluzioni ‘di comodo’ ai più giovani



    Dunque non possiamo che essere, e studiare per diventare, un mix di saperi tecnici, capacità di azione, di organizzazione; di inventiva: necessariamente multiculturali per potere svolgere appieno il nostro ruolo, consapevoli che una conclamata inefficienza del sistema porterebbe a interventi devastanti sulla ‘dote’ di autonomia, indipendenza, e autogoverno che sono il predicato della  nostra funzione.

    Per questo suscita meraviglia che – dopo la pro­posta avanzata nel 2014 dal Csm al Ministro della giustizia, di riportare a 18 mesi la sessione presso gli Uffici giudiziari, mantenendo a 6 mesi quella presso la Scuola (in linea con i tempi medi previsti in altri Paesi); o, in tempi più recenti e come subordinata, proposte di riduzione della formazione presso la Scuola a 4 mesi - si sia contratto l’intero periodo della formazione a un anno complessivo, lasciando due soli mesi presso la Scuola.
    Si snatura il percorso logico fin qui seguito: rimane, allo stato, il lungo, defatigante e inutile percorso a ostacoli pre accesso; ma, come soluzione ai problemi innumerevoli della giustizia, non si trova meglio che contrarre la formazione. Questa misura, fortemente innovativa, assomiglia tanto ai Decreti ministeriali con cui negli anni 80 e ‘90 il Ministro accorciava il tirocinio e spediva i magistrati di prima nomina laddove serviva.

    Per questo, se non si vuole un’azione giudiziaria difensiva e corporativa, o acriticamente confidente in una risolutività degli strumenti tecnologici; ovvero meramente aziendalistica (che si fermi al controllo dei co­sti, agli indicatori di rendimento, smaltimento flussi e simili); se si pensa che il ‘benessere organizzativo’ non sia un facile slogan, ma un obiettivo raggiungibile, non può non continuare a pensarsi a un percorso formativo ricco e multiforme, che sappia combinare tutti i percorsi formativi con meccanismi che attenuino gli indubbi disagi che il sistema attuale comporta, ma senza svilire l’esperienza di una Scuola. Migliorare è diverso, in questo caso opposto, dal tornare indietro.  
    Voglio ribadire come questo possa essere lo specifico di Area, rendersi disponibile ai cambiamenti profondi, non avere pre-giudizi o tabù; senza mai abbandonare il modello di un magistrato che non si accontenta, ma ‘inventa’ cioè ricerca sempre; che non abdica alla tutela dei diritti in nome di nessun altro valore, che sia espressione ostinata e appassionata di quell’ “Illuminismo giudiziario” proprio dei due gruppi che Area hanno voluto e fondato.

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    Il diritto di contare

    IL DIRITTO DI CONTARE

     

    La collega Donatella Salari, per Area Democratica per la Giustizia, Corte di Cassazione, ci offre l'occasione per  parlare di sempre attuali discriminazioni e per esercitare il DIRITTO DI CONTARE.

    Martedì  11 aprile 2017 spettacolo delle 20:00 al Martedì  11 aprile 2017 spettacolo delle 20:00 a Roma, Cinema Giulio Cesare, 

    Vedremo insieme il film

    "IL DIRITTO DI CONTARE”

    UN FILM DEL 2016 DIRETTO DA THEODORE MELFI CHE RACCONTA LA STORIA VERA DELLA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE E SESSISTA DI TRE MATEMATICHE AFROAMERICANE CHE LAVORARONO PER LA NASA  NEGLI ANNI 60 DEL SECOLO SCORSO.

     

    Ne discutono

    Maria Acierno – Magistrato

    Bruno Giordano- Magistrato

    Segreteria  organizzativa

    Giacomo  Fumu    (giacomo.fumu@giustizia.it)

    Giovanni Diotallevi  (giovanni.diotallevi@giustizia.it)

    Donatella Salari    (donatellasalari@gmail.com)

    ***

    Per il posto in sala  Vi preghiamo di confermare  cortesemente la Vostra partecipazione  entro il 10 aprile. Ritirerete il Vostro invito all’entrata.

    Un ringraziamento a Circuito Cinema s.r.l. per avere sostenuto l’iniziativa.

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    Prefazione al libro di Gabriella Luccioli

    Il diario che l’Autrice consegna a sè stessa e a chi non ha avuto la ventura di conoscerne l’intero percorso professionale in magistratura è intriso di immagini e di vicende, personali e professionali, che si affiancano ed alternano ai radicali cambiamenti sociali che hanno attraversato la giovane democrazia italiana e che Gabriella Luccioli ha vissuto in prima persona, fin da quando partecipò al primo concorso aperto alle donne, diventando magistrato nel 1965.
    Il diario non parla soltanto della donna e della donna giudice, ma di tanto altro, del mutamento del costumi della società italiana, delle laceranti contrapposizioni che spesso caratterizzarono le discussioni su temi eticamente sensibili.
    Tanti gli episodi rievocati: il disagio avvertito dalle parole pronunziate alla cerimonia di benvenuto per il suo ingresso come donna in magistratura, l'impegno per l'affermazione delle specificità e dei naturali talenti  delle donne magistrate, l'approdo alla prima sezione civile della Cassazione e il ruolo svolto da consigliera prima e da Presidente, non titolare  e titolare poi, il metodo di lavoro fondato sulla piena ed effettiva collegialità e sulla valorizzazione delle specializzazioni individuali dei consiglieri.
    A tutto questo si affianca una rilettura 'autentica' delle più note decisioni che non intende affatto difendere o giustificare la correttezza delle scelte operate, ma semmai delineare il contesto, il retroterra, le tensioni che hanno accompagnato quelle sentenze, così ulteriormente arricchendole di significato.
    Emerge in molti, moltissimi passi del diario la figura di una magistrata orientata alla salvaguardia concreta ed effettiva della persona umana, in tutte le sue variegate dimensioni anche quando, e soprattutto quando, a chiedere giustizia sono persone vulnerabili o vittime di contesti sociali fortemente discriminatori. Di fronte a queste situazioni Gabriella Luccioli sa di non potere arretrare di un millimetro, sente di non potere e dovere essere condizionata dalle lacerazioni che pure animano il contesto sociale su temi quali la famiglia, le unioni omosessuali, la maternità, il ruolo della donna, la tutela dei minori, ma anzi di dovere approfondire ancora di più il proprio ruolo.
    Non nascondo di provare sincero imbarazzo e senso di inadeguatezza nel descrivere la figura di questa giudice, avendo varcato le soglie della vita quando Gabriella Luccioli varcava quella della giurisdizione, ma farei un torto a me stesso e all’Autrice se tacessi il mio pensiero, per quel nulla che vale, sul ruolo che lei ha svolto nel nostro Paese e nella magistratura.
    Non stupisce, anzitutto, che la 'sostanza' delle sentenze più note abbia trovato spazio all'interno di un modello di sentenza asciutto, caratterizzato da una sintesi terminologica talmente 'dura' da non ammetterne mai l'utilizzo extra ordinem. Ed è proprio il rifiuto tanto della dimensione autocelebrativa della sentenza, quanto dell'uso utilitaristico di obiter dicta a delineare i tratti di modernità di questo diritto giurisprudenziale, nel quale al dovere del giudice di scrivere bene si sostituisce quello di scrivere ‘ciò che è giusto’, per dirla con Mario Calabresi.
    Le frequentazioni assidue e costanti con il Presidente Brancaccio insieme ad un gruppo eccelso di magistrati giunti a ricoprire, nel tempo, incarichi apicali nelle magistrature superiori si rivelano importanti per la formazione di Gabriella Luccioli.
    Ma è la partecipazione attenta e ancora una volta silenziosa al convegno di Gardone del 1965 a segnare in modo profondo il ruolo che svolgerà Gabriella Luccioli in magistratura.
    La Costituzione diviene, nel suo quotidiano svolgere delle funzioni, un faro sempre acceso che orienta il giudice, chiamandolo anche a micidiali responsabilità proprio per quella funzione di garanzia introiettata toto corde ed avvertita come l'essenza del suo operare e che la esporrà, ineluttabilmente, a pesantissime  accuse che, anche grazie alla matrice costituzionale delle pronunzie, non riusciranno mai a condizionarne la linearità o a scalfirne la determinazione  o a ridurne la straordinaria carica di 'umanità'.
    Gabriella Luccioli appare così naturalmente orientata verso quell'etica pubblica informata ai valori transepocali di libertà, eguaglianza, solidarietà e, sopra ogni altro, vita e dignità che la Costituzione riconosce come preesistenti all'ordinamento. Ed è proprio il percorso di avvicinamento profondo alla Costituzione che dispiega innanzi a Gabriella Luccioli il 'valore' delle Carte internazionali dei diritti fondamentali che 'fanno squadra' con la stessa Costituzione in modo equiordinato, alimentandosi circolarmente in un moto perpetuo come ci ricorda, in modo accorato e tambureggiante, Antonio Ruggeri. Nella produzione giurisprudenziale alla quale Gabriella Luccioli contribuisce insieme agli altri suoi Colleghi della Cassazione, vi sia o meno il riferimento esplicito alle fonti sovranazionali, compare una costante ricerca del più elevato livello di protezione della persona che si realizza anche grazie alle suggestioni che provengono in modo incessante e (solo apparentemente caotico) dalle Corti sovranazionali tanto da costituire, nel tempo, la base di quelle consuetudini culturali capaci di condizionare l’agire giurisdizionale.
    Sullo scrittoio di Gabriella Luccioli, accanto ad ogni procedimento, ci sono le tavole dei valori fondamentali che riempiono il guscio della legge, vuoto se privato del suo alimento vitale.
    Questo confronto con i diritti fondamentali è giocato volta per volta, mai tradendo le ‘regole prime’ che vogliono sì il giudice soggetto alla legge – comprensiva delle fonti sovranazionali, secondo il paradigma costituzionale dell'art.101 Cost. – ma reclamano anche un giudice che, servitore dello Stato, sia in grado di rimuovere gli arbìtri subiti dalla persona in nome del canone fondamentale della préeminence du droit, di  evidenziare le apparenti lacune, le storture, le incongruenze, le inefficienze prodotte dalla legge per renderla vicina ai bisogni delle persone, adeguata alla multiforme fattualità dei casi che si pongono agli occhi del giudice.
    Le sentenze della Cassazione menzionate nel testo si muovono con rigore nel perimetro tracciato dalle norme costituzionali. Sfruttano in modo ‘tattico’ i canoni dell'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata ai valori fondamentali, ma non disdegnano affatto il confronto con la Corte costituzionale – come nel caso della vicenda del riconoscimento del cognome materno al figlio accanto a quello del padre – al cui fianco anzi spesso si pongono come alleate (Onida), ma non usurpano nulla al ruolo del legislatore, anzi con esso dialogano, talvolta in modo aspro, soprattutto quando appare chiaro che quello stesso legislatore non ha voluto, non ha potuto o non ha saputo svolgere il ruolo primario e supremo che ad esso compete. La risposta in questi casi offerta dalla Cassazione non è mai la surroga al ruolo del legislatore o la sostituzione del giudiziario al legislativo, ma è invece l'attivazione di quei rimedi che l'ordinamento stesso e prim’ancora la Costituzione apprestano per rendere la legge essa stessa rispettosa dei valori costituzionali.
    Il rifiuto, in tema di trascrizione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso contratti all’estero, di valutare la portata dell’art.9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – ove il diritto al matrimonio è attribuito alle persone  evitando ogni riferimento al genere – dimostra l’attenzione del giudice di legittimità alla rigorosa osservanza delle regole che sovrintendono al sistema delle fonti del diritto e delle competenze riservate all’Unione europea, senza che ciò possa fare arretrare il livello di tutela per quelle stesse coppie, alle quali anzi viene  riconosciuto il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata.
    Questa stessa chiave di lettura lumeggia il senso della vicenda in tema di utero in affitto decisa dalla Cassazione nel 2014, orientata a garantire e salvaguardare il valore del divieto di ordine pubblico, penalmente sanzionato, di tale pratica e dunque ad escludere che il frutto del concepimento ottenuto all’estero con tale modalità potesse giustificare l’affidamento del nato alla coppia. L’attività di bilanciamento che viene operata fra valori umani e fondamenti dell’ordinamento si chiude, questa volta, con un giudizio orientato a dare prevalenza alla dignità umana della gestante (insieme all’istituto dell’adozione) in nome del rispetto della legge.
    Analogo rigore emerge dalle decisioni che hanno condotto alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina del divorzio imposto in ipotesi di mutamento di genere anagrafico. Alla più che ortodossa richiesta di valutare l’incostituzionalità di una disposizione che tralasciava di considerare il diritto al rispetto della vita familiare del transessuale è seguita, in fase discendente –dopo la sentenza della Corte costituzionale – la scelta della Cassazione di garantire la prosecuzione degli effetti del matrimonio fintantoché il legislatore non fosse intervenuto a normare gli effetti prodotti dalla sentenza della Corte costituzionale. In questa scelta, al di là delle critiche che pure sono state rivolte a tale soluzione, assume prioritario rilievo l’esigenza di garantire la protezione del diritto invocato in giudizio che per l'inerzia del legislatore non può essere lasciato in un non cale, ma merita comunque una protezione, anche se ‘a tempo’.
    Riemerge, ancora una volta, un approccio che guarda al legislatore e al giudice  come parti ‘alleate’ ed accomunate  da un medesimo destino, l'uno chiamato a dare le regole e l'altro ad 'attuarle' e, dunque, non solo ad 'applicarle' ma  a renderle vive, vitali, adeguate al caso concreto, arricchite dalla linfa pur essa vitale dei valori fondamentali che finiscono anch'essi col vivere nel caso concreto, perdendo la dimensione statica che gli stessi hanno quando sono infissi e scolpiti nella Carte dei diritti.
    La dolorosa vicenda Englaro sul tema dell’interruzione forzata dei trattamenti vitali ad una persona priva di coscienza non rappresenta tanto e soltanto una pietra miliare rispetto al riconoscimento del diritto all'autodeterminazione. Essa è molto, molto di più, proiettando il volto di una giurisdizione di legittimità capace di affrontare un hard case senza pregiudizi, senza pre-orientamenti di natura religiosa, con grande attenzione alla comparazione, ormai divenuta oltre che fonte di ispirazione e di colleganza, canone ermeneutico imposto dalla Costituzione (artt.2, 10, 11 e 117 1^ comma)  proprio perché consapevole di quanto i fenomeni della globalizzazione rendano necessario un approccio aperto rispetto a temi che toccano l'essenza della persona. Tutto ciò senza tralasciare le radici del contesto nazionale nel quale il giudice è chiamato ad operare, ma senza nemmeno perdere di vista la dimensione universale che certi valori tendono progressivamente ad acquisire. Per questo l’affermazione espressa dalla Cassazione, secondo cui ‘... pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali...” sembra essere il testamento spirituale che il Collegio presieduto da Gabriella Luccioli affida alla magistratura del terzo millennio.
    Un giudice tanto laico quanto portatore di valori, al di sopra dei quali si staglia la dignità della persona. Nel diario ad essa più volte Gabriella Luccioli si riferisce, dimostrando anche ai più scettici come questo “supervalore”, pur nel suo complesso e a volte scivoloso carattere plurale, costituisce sempre fonte insostituibile ed inesauribile alla quale il giudice, il buon giudice, deve attingere.
    Il capitale umano che Gabriella Luccioli offre e lascia a tutti noi è notevole. Tanti gli insegnamenti, i suggerimenti e i moniti che possono trarsi dal diario.
    Fra questi uno, pur non espresso verbis, ma tuttavia chiaramente percepibile come autentica precondizione e garanzia assoluta dell’indipendenza del giudice rappresentato dal diritto-dovere di ogni giudice a non ‘chiedere aiuto’ alcuno negli sviluppi di carriera. Lo fa, ancora una volta, silenziosamente, consapevole dei costi che questa scelta può determinare e che il giudice deve comunque sopportare per mantenere, integra, la propria dignità.
    Un messaggio, questo, che si staglia in un panorama attuale della magistratura in cui, a volte, atteggiamenti carrieristici e improntati alla capitalizzazione di incarichi e prebende allontanano il giudice da quella figura di giudice accettato dalla società che Rosario Livatino, nelle sue scarne ma preziose pagine, ci ha donato.
    Gabriella Luccioli lascia, peraltro, una magistratura sempre di più al femminile, profondamente trasformata dai tempi del suo ingresso e della sua prima esperienza giudiziaria  proprio grazie alla tenacia straordinaria di quel movimento culturale transnazionale al quale lei stessa, all'interno della giurisdizione ma fuori da contesti correntizi, ha dato vita con la costituzione dell'ADMI dedicandovi preziose risorse, capaci di produrre anche fecondi risultati sul piano normativo come testimoniano, fra l’altro, non solo importanti modifiche ordinamentali, ma anche l'introduzione della legge del 2001 n. 154 in materia di Misure contro la violenza nelle relazioni familiari.
    L’apertura ad un diritto che si compone di una pluralità di tasselli, siano essi di matrice nazionale o sovranazionale, consegna a tutti noi la piena dimostrazione di quanto sconfinato sia il diritto delle Corti, raccogliendo una suggestione di Maria Rosaria Ferrarese e di quanto la Luccioli sia stata ambasciatrice universale, attenta e scrupolosa del diritto dei nostri tempi, stabile ma in movimento come un'aquila in volo, per dirla con Aharon Barak.
    In conclusione Gabriella Luccioli ha colto la capacità performante della dignità umana e dei diritti fondamentali offrendo, con garbo affiancato a fermezza e determinazione, il suo essere giudice non austera o severa o compresa del suo ruolo, ma semplicemente seria, equilibrata, responsabile e al contempo comprensiva ed umana, come diceva Livatino.
    Roberto Conti

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    Essere ponte

    Spiegare la “denegata giustizia” è l’incombenza più complicata per il giudice. Per qualunque giudice.
    E quando il giudice è penale (e quando sei pubblico ministero)  le cose sono un tantino più ostiche.
    Illustrare i motivi  per i quali, all’esito di un processo, l’imputato è stato assolto quando chi lo chiede è il familiare di una vittima che  aspetta una condanna  per restituire un po’ di pace al proprio animo trafitto da una perdita è argomento dimenticato dai manuali di diritto, e in generale difficile  da apprendere nell’esercizio della funzione.
    Semplicemente nessuno ci avverte che all’improvviso potresti avere degli occhi che puntano nei tuoi e che ti chiedono commossi: perché non abbiamo avuto giustizia?
    A me è successo dopo 10 anni di funzione, non tantissimi, ma  neanche pochissimi ed ho boccheggiato, preso fiato, implorato i miei sentimenti di prestarmi  le  parole giuste da offrire a due genitori che aspettavano la mia risposta come un balsamo consolatorio.
    Ho iniziato male: ho spiegato il rito, la funzione delle prove, la necessità che tutte le dichiarazioni, i riscontri convergessero verso un'unica direzione, che la condanna si giustifica solo se non v’è un  “ragionevole dubbio”  e che quando gli elementi probatori sono insufficienti l’assoluzione evita  che un innocente vada in galera...ma mi rendevo conto che ogni frase pronunciata si dissolveva nell’aria prima di poter essere ascoltata.
    E lo sguardo perso dei miei interlocutori mi ha spinto ad andare oltre.
    Quando entriamo in campo noi pm è già troppo tardi. Un equilibrio si è rotto, qualcosa non ha funzionato ed è irrimediabilmente perso. Lo penso ogni volta che ho a che fare con gli omicidi, con  i reati di stalking, di maltrattamenti in famiglia, di abusi sui minori  in cui trovare il colpevole è una vittoria che non fa esultare.
    Ma questa è l’intima essenza del nostro operato: essere la naturale prosecuzione dei mali della società.
    Ed un conto è intervenire all’inizio del male, un conto è intervenire quando esso è talmente radicato e forte da aver sovvertito radicalmente il tutto.
    Invece che parlare di procedura quindi  ho iniziato a parlare di qualcosa di immediatamente più diretto e comprensibile.
    Non è vero che non c’è stata giustizia: il processo c’è stato. E non è neanche vero che la giustizia non sia stata giusta, sulla base delle prove acquisite è stata resa una sentenza giusta.
    Ma non si è fatta giustizia perché nessun colpevole è stato condannato. E questo perché la società, non è stata  al nostro fianco.
    Con  parole più consistenti ho quindi dato la mia risposta: “ i colpevoli dell’omicidio di vostro figlio non sono stati trovati perché chi sapeva non ha parlato. Lo Stato ha fatto il suo, la collettività, gli amici che sanno, tutti coloro che hanno saputo non hanno  fatto la loro parte”.
    La loro reazione mi ha confermato l’efficacia della risposta; ma ciò nonostante non mi sono sentita a mia volta assolta.
    Noi pm siamo al di là di una linea di confine, dietro la quale ci sono gli amici, i familiari, le istituzioni, le chiese, le scuole, e tante altre cose.
    Il  nostro è un amaro destino perché vediamo solo quel che passa da noi, quando l’azione di tutti coloro al di là del limite non sono  riusciti a trattenere  quella persona dall’altra parte:quella bella luminosa e rassicurante  che (sfortunatamente per noi) non arriva mai negli uffici.
    Una donna maltrattata, spinta  di là, tra le  nostre braccia, non è  solo una vittima di un uomo maltrattante ma è il segno della  sconfitta dei suoi familiari che non le hanno detto per tempo di lasciare il compagno violento, del suo medico di famiglia che non se ne è accorto, della scuola che non le ha insegnato ad essere selettiva nei sentimenti, del prete che le ha ripetuto di portare pazienza e di chiunque poteva fare qualcosa per lei e non l’ha fatto (ed è questo a mio avviso  il vero carico  inesigibile: il sentirsi l’unica salvifica spiaggia).
     E così fino a quando ciò che si vede dalle finestre sarà dimenticato ci sarà un'altra stesa di proiettili vaganti.
    Fino a quando chi sa non parla ci sarà un altro orco che uscirà dalle favole.
    I magistrati non possono nulla senza una società al loro fianco.
    Ma per avere la società al proprio fianco bisogna essere credibili, e per essere credibili ci vuole il cuore che si coniuga in impegno, e dedizione ( e, per i fortunati, anche in  passione)
    Non il sacrificio umano o l’eroismo ma  semplicemente il fare bene.  
    Ed allora se si è scelto di essere giudici si deve pensare ogni giorno che la nostra indagine, il nostro processo andrà bene solo se si lavora mettendo il cuore  in ciò che si fa, non solo per quella specifica indagine o per quel specifico processo ma per tutte le indagini ed i processi che gli altri faranno, in una visione ancestrale della giustizia in cui il singolo deve essere parte di un ingranaggio complessivo, che non ricorda più i nomi.
    Ma anche questo, che pur non è poca cosa, non basta.
    Manca un pezzo.
    Con lo stesso cuore  bisogna  attraversare il confine, murare   l’ufficio ed andare nella vita di quei numeri che contrassegnano i fascicoli, cogliendone l’essenza umana nella  società, nelle scuole, nelle istituzioni, a portare come si può un contributo di vicinanza di idee ed una testimonianza di presenza.
    Essere magistrato è essere un ponte, ed ogni volta che i cittadini non sono al nostro fianco, ogni volta che non riusciamo a fare giustizia  significa che non siamo stati sufficientemente bravi a collegare le due rive.
    Elisa la mia giovane  mot volontaria è stata più fortunata di me: ha sentito la risposta prima ancora del decreto di nomina.

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