GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    CEDU e cultura giuridica italiana. 6) La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista.

    CEDU e cultura giuridica italiana. 6) La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista.


     

    Le interviste di Giustizia Insieme

    CEDU e cultura giuridica italiana. 6) La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista.

    Roberto Giovanni Conti intervista

    Marina Castellaneta, ordinaria diritto internazionale Università di Bari

    Angela Di Stasi, ordinaria diritto Unione europea Università di Salerno e titolare della Cattedra Jean Monnet Jean Monnet (Commissione europea): Judicial Protection of Fundamental Rights in the European Area of Freedom, Security and Justice

    Antonello Tancredi, ordinario diritto Unione europea Università di Palermo- in atto in servizio presso l’Università di Nizza.  

    1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3.Le risposte. 4. Le conclusioni. 5. L’intervista in pdf.

     

    1.Le domande

     

    1) Qual è, a Suo giudizio, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?

    2) L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?

    3) Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti ed al margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale, dopo l’entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU?

     

    2. La scelta del tema.

    Roberto Giovanni Conti

    Nel viaggio culturale che Giustizia Insieme ha iniziato sulla CEDU tocca, oggi, alle studiose e agli studiosi del diritto dell’Unione europea e del diritto internazionale fermarsi a riflettere sul ruolo della Corte dei diritti dell’Uomo nel sistema interno e sulle dinamiche che governano i rapporti fra tale organo ed i giudici nazionali.  

    È sufficiente esaminare i contenuti delle audizioni in corso presso le commissioni parlamentari competenti sulla ratifica ed esecuzione dei Protocolli nn.15 e 16 per avere un’idea di quanto il percorso di avvicinamento ad una cultura informata alla salvaguardia dei diritti di matrice convenzionale risulti ancora tortuoso e complesso.

    Marina Castellaneta, Angela Di Stasi e Antonello Tancredi hanno qui contribuito a rendere quel percorso più lineare e accessibile, muovendo dalle coordinate di sistema per poi affrontare, a cascata, gli aspetti pratici e concreti che coinvolgono gli operatori del diritto nell’esercizio delle loro funzioni.

     

    Le risposte.

    1) Qual è, a Suo giudizio, il futuro dei rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo?

    Marina Castellaneta

    Negli ultimi anni abbiamo assistito a un profondo cambiamento in quest’ambito, che ha portato a un mutamento direi epocale: ormai, più che di rapporti tradizionali tra organi giurisdizionali di diversi ordinamenti, si deve parlare di un costante e proficuo dialogo tra giudici nazionali e Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condotto anche a un ampliamento, seppure per via indiretta, dell’ambito di applicazione dei diritti fondamentali contenuti nella Convenzione europea e nelle stesse carte costituzionali, con l’individuazione di nuovi obblighi imposti agli Stati e con l’intersecazione tra giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’Unione europea e delle Corti costituzionali, nonché delle Corti supreme. Ed invero, talune pronunce della Corte europea, in particolare nell’ambito di materie come il riconoscimento di diritti a coppie dello stesso sesso o la circolazione degli status in materia di maternità surrogata, hanno inciso sulla giurisprudenza interna e sullo stesso legislatore nazionale.

    In futuro, tuttavia, non è da escludere un’incidenza maggiore in senso inverso perché le corti costituzionali o, più in generale, le corti supreme nazionali, potrebbero svolgere un ruolo trainante su tematiche nelle quali manca un consenso in materie sensibili, ma ormai centrali nella vita degli esseri umani, tra gli Stati parti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È il caso dell’eutanasia sulla quale la Corte europea si è pronunciata dichiarando irricevibili taluni ricorsi, sostenendo che non vi è consenso tra gli Stati sulla circostanza che nel diritto alla vita sia incluso anche il diritto a rinunciare alla vita, con ciò riconoscendo un ampio margine di apprezzamento alle autorità nazionali. È evidente che alcune pronunce interne possano in futuro svolgere un ruolo propulsore verso un cambiamento in questo e altri ambiti. Così, si dovrebbe realizzare una sempre più ampia confluenza tra principi e diritti delle costituzioni nazionali e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, senza dimenticare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

    In via generale, dal punto di vista della Corte europea, la definizione della Convenzione come strumento vivente, le cui norme devono essere lette alla luce della giurisprudenza dello stesso organo giurisdizionale internazionale, ha fatto sì che la Corte abbia assunto una funzione essenziale nell’indicare alcuni principi che devono essere tenuti in considerazione e applicati non solo per rispettare il testo pattizio, ma anche per garantire il principio di sussidiarietà. Ciò comporta che gli stessi giudici comuni hanno un obbligo di seguire le statuizioni della Corte europea per garantire l’applicazione effettiva del testo convenzionale e rispettare il vincolo di conformità imposto dal rispetto degli obblighi pattizi assunti con la ratifica della Convenzione.

    Un ruolo di fondamentale importanza, oggi più che in passato, è quello delle Corti costituzionali e, una sfida importante, è il raggiungimento di un equilibrio nel dialogo tra Corti che, in effetti, in alcuni casi, rischia di essere compromesso. Per limitarci all’analisi dell’Italia, se certamente una svolta fondamentale si è avuta con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 rese dalla Consulta che ha sancito il carattere sub-costituzionale delle norme convenzionali, con altre pronunce più recenti si è rischiato un freno all’integrazione tra i due sistemi. La sentenza n. 49/2015, infatti, ha rischiato di condurre a un ridimensionamento delle sentenze della Corte di Strasburgo dando rilievo, in modo non previsto dall’articolo 46 della Convenzione europea, alle sole sentenze pilota e alla giurisprudenza consolidata. La risposta della Corte europea si è avuta con la sentenza della Grande Camera del 28 giugno 2018 nel caso G.I.E.M. e altri contro Italia (ricorsi n. 1828/06 e altri) con la quale Strasburgo, occupandosi della confisca senza il preventivo accertamento della colpevolezza dei destinatari della misura, ritenuta in contrasto con il principio nulla poena sine lege e con il diritto di proprietà ha, seppure in termini tenui, criticato la pronuncia della Corte costituzionale n. 49/2015. I giudici internazionali, infatti, hanno affermato che “…the Court would emphasise that its judgments all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot therefore depend on the formation by which they were rendered”.

    Su questo snodo centrale, poiché si procede per passi, la Corte costituzionale, con la pronuncia n. 63/2019, ha ripensato, a mio avviso, alla propria affermazione precedente. Se nella sentenza n. 49/2015 si dava rilievo solo alla giurisprudenza consolidata e alle sentenze pilota ritenendo che unicamente queste fossero idonee a integrare il parametro interposto, con la sentenza n. 63/2019 relativa all’applicazione retroattiva della lex mitior in caso di sanzioni amministrative con funzioni punitive, la Corte, sottolineando altresì l’importante cambiamento realizzato con la sentenza Scoppola con l’applicazione del principio di retroattività in mitius grazie all’articolo 117 della Costituzione e all’interpretazione della Corte europea con riguardo all’articolo 7 CEDU, ha attuato l’indicato principio anche alle sanzioni amministrative con natura e finalità punitiva. Così, la Consulta ha seguito quanto affermato con la sentenza n. 68/2017 precisando che è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la Convenzione se non con riferimento a casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo.

    Quest’apertura è, a nostro avviso, da valutare positivamente perché condurrà verso una visione unitaria dei diritti fondamentali senza divisioni tra Corti, con effetti positivi anche in altri contesti in cui operano altri organi di garanzia internazionali.

    Vorrei segnalare, inoltre, il ruolo centrale della Cassazione italiana che, nel rafforzamento del dialogo tra Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici nazionali, grazie al Protocollo d’intesa tra Corte europea e Corte di Cassazione, permette un’ampia diffusione della giurisprudenza anche ai fini di una migliore e costante attuazione della Convenzione europea, consentendo – come si legge nel Protocollo - una più agevole “inclusione della giurisprudenza della Corte dei diritti umani nell’ordinamento nazionale, offrendo altresì l’opportunità di un interscambio sui conflitti già in atto o potenziali”.

    Un quadro così positivo non si trova però in tutti i Paesi e questo potrebbe incidere negativamente sul funzionamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Basti pensare alla Russia che, tra l’altro, ha il maggior numero di condanne da parte di Strasburgo. L’adozione della legge federale del 2015 che amplia i poteri della Corte costituzionale russa a discapito delle pronunce della Corte europea non solo compromette il dialogo tra corti, ma anche l’attuazione dei diritti convenzionali.

     

    Angela Di Stasi

     

    Per rispondere muoverò da una considerazione, per così dire, di “sistema”, in parte scontata.

    In uno spazio giuridico e giudiziario europeo nel quale i confini tra gli ordinamenti sembrano smarrire la loro classica funzione di separazione, oggi l’esercizio della giurisdizione – e perfino la definizione dell’ambito di esercizio del potere appartenente ai giudici – non possono non doversi misurare con una rivisitazione della classica configurazione del binomio Stato-diritto.

    Alla luce di siffatto contesto di riferimento multilivello i rapporti fra giudice nazionale e Corte di Strasburgo sono indubbiamente destinati ad intensificarsi, nell’ottica di un dialogo biunivoco  (tanto preventivo che successivo) che, tuttavia, con ragionevole probabilità, continuerà ad annoverare, sotto l’attenta lente di osservazione della nostra Corte costituzionale, momenti di criticità non privi di assonanze giurisprudenziali. Un dialogo che costituisce il logico corollario della circostanza che i giudici nazionali sono anche giudici del “diritto convenzionale”, primi garanti dei diritti e delle libertà fondamentali sanciti nella Convenzione europea (ma anche previsti nelle Costituzioni nazionali) alla stregua di un modello di tutela integrato improntato sul rispetto del principio di sussidiarietà tra ordinamento nazionale e sistema convenzionale.

    La sussidiarietà, come regola aurea del rimedio giurisdizionale internazionale o sovra-statuale (ai sensi dell’art. 35 par. 1 ma anche in attuazione degli artt. 1 e 13 della CEDU), diventa così lo strumento per “proteggere” l’ordinamento giuridico statuale consentendo allo Stato di “porre rimedio” alla violazione direttamente al suo interno e, al tempo stesso, alla Corte europea di “risolvere” anche filoni di contenzioso creatisi sul medesimo tema. Il tutto laddove le autorità giurisdizionali interne (ai sensi dell’art. 6 della CEDU) sono, esse stesse, sottoposte al controllo della Corte di Strasburgo rispetto alla garanzia di un corretto esercizio della giurisdizione in ambito nazionale e di un’equa amministrazione della giustizia. Come è noto, infatti, il sistema convenzionale (pur incentrandosi sull’accertamento, in via giurisdizionale, delle violazioni dei diritti e delle libertà in esso contemplate) affida, in primis, alle autorità nazionali la possibilità di prevenire (e rimediare a) siffatte violazioni. Pertanto – salva l’evoluzione ermeneutica dell’obbligo del previo esaurimento delle vie di ricorso interno (di cui si dirà più avanti) – assurge rilevanza primaria l’effettiva concretizzazione del principio della cd. «shared responsibility» tra Stati parte della Convenzione (e loro giurisdizioni) e Corte di Strasburgo: in buona sostanza una responsabilità condivisa tra il livello internazionale ed il livello interno del sistema europeo di garanzia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che si fonda sulla rafforzata fiducia tra autorità giurisdizionali nazionali ed europee.

     

    Proprio nell’ottica di favorire il dialogo preventivo tra le “più alte giurisdizioni” nazionali e la Corte europea dei diritti dell’uomo si è inquadrata l’adozione del Protocollo 16 (che, ancorché in vigore dal 1° agosto 2018, come è noto, non è stato ancora ratificato dall’Italia), il quale legittima le autorità giudiziarie al vertice del sistema giudiziario di uno Stato parte della CEDU a richiedere un parere su “questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli”.

     

    A mio avviso, quale prospettiva ineludibile, risulta auspicabile il rafforzamento del “judicial dialogue” tra giudici nazionali e Corte europea, con il potenziamento degli strumenti di raccordo preventivo inter judices (il riferimento è ai diversi protocolli di intesa che intercorrono tra quest’ultima e le più alte giurisdizioni italiane, quali Corte costituzionale, Corte di Cassazione, Corte dei Conti, Consiglio di Stato) e la ratifica, da parte dello Stato italiano, del Protocollo 16: il tutto al fine di creare una sorta di “rete giudiziaria” che, prevenendo (o almeno riducendo) l’insorgere di “conflitti” tra giurisdizioni nazionali e giudice internazionale possa consentire la massima espansione delle tutele nella direzione dello sviluppo di un “patrimonio costituzionale (pan)europeo”.

     

    Antonello Tancredi

    Dal punto di vista della Corte di Strasburgo mi sembra chiaro che, oramai da anni, il potenziamento della tutela erogata (in termini di tempestività e di efficacia della stessa) sia affidato inter alia ad una più puntuale presa in considerazione della sua res interpretata da parte dei giudici nazionali. Anche in quest'ottica, del resto, va vista l'introduzione attraverso il Protocollo n. 16 del meccanismo dell'avis consultatif, che consente appunto alla Corte di Strasburgo di fornire ex ante una guida interpretativa che origina sì dalla richiesta di un giudice nazionale di ultima istanza, ma che in realtà mira – come osservato in scritti scientifici dall'attuale Presidente Sicilianos – a rafforzare l'effetto erga omnes partes della sua giurisprudenza. La circostanza, inoltre, che il parere non sia reso su una questione astratta ma nel contesto di un caso concreto, e quindi che possa concorrere a produrre una regola applicabile nella vicenda processuale a quo ma anche in altre vicende caratterizzate da un sufficiente livello di comunanza tassonomica, sarà utile a mitigare una delle obiezioni più comunemente sollevate (ad esempio dalla Corte costituzionale tedesca nel caso Görgülü, dalla nostra Consulta nella sentenza n. 49/2015 e dalla Corte suprema del Regno Unito nel caso Horncastle) contro la rilevanza della res interpretata e cioè la mancanza di pertinenza del precedente interpretativo fornito da Strasburgo. Il parere reso dalla Grande Camera, inoltre, è suscettibile di vincere un altro argomento tradizionalmente invocato dalla giurisprudenza nazionale “resistente” (non solo quella della nostra Corte costituzionale), ovverosia il carattere non sufficientemente consolidato delle letture provenienti da Strasburgo. Se non lo era prima (perché in effetti altrimenti non avrebbe senso chiedere un parere), consolidata la lettura lo potrà (non necessariamente dovrà) divenire dopo. Tanto più se le affermazioni (anche innovative) della Grande Camera sono considerate di per sé espressive del diritto vivente europeo (si veda, in tal senso, la sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale in tema di ne bis in idem). L'instaurarsi, dunque, di un circuito di dialogo diretto tende altresì a indebolire, se non a vincere, resistenze a livello di attuazione interna del parametro convenzionale che ne hanno sin qui affievolito la presa.  

    Sulla via di un deciso potenziamento dell'effetto di res interpretata, tuttavia, si frappongono alcuni ostacoli. Certamente si pone un problema di conoscenza della giurisprudenza di Strasburgo e di attenzione verso la sua evoluzione, tutti compiti che in Italia il giudice interno, invero, sovente svolge già egregiamente, a giudicare dal numero e dalla qualità delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale incentrate sulla CEDU come parametro interposto. D'altro canto, questa opera  di doverosa ricognizione e presa in conto degli orientamenti interpretativi provenienti da Strasburgo è, talvolta, tutt'altro che agevolata da un certo grado d'incoerenza interna della giurisprudenza prodotta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per quanto infatti la Corte EDU abbia messo in campo tutta una serie di meccanismi di controllo volti a evitare problemi di questo genere, la questione della consistency - come sottolineato nella Dichiarazione adottata dalla Conferenza degli Stati parte a Copenhagen nel 2018 – continua a condizionare l'applicazione interna degli standards convenzionali, e quindi in ultima analisi l'efficacia della tutela. Per fare un solo esempio, qualche anno fa la Corte costituzionale, dovendosi pronunziare sulla vicenda riguardante l'abrogazione della fascia della vice-dirigenza nell'organizzazione del lavoro pubblico, si trovò, tra l'altro, a dover fare applicazione della giurisprudenza CEDU secondo cui il diritto a un processo equo previsto dall’art. 6 della Convenzione include il diritto a vedere eseguita una decisione giurisdizionale vincolante e definitiva. Tale affermazione, inizialmente operata nella sentenza Hornsby c. Grecia con particolare riferimento proprio ai procedimenti amministrativi, era tuttavia stata seguita da una serie di applicazioni che ne avevano limitato la portata tramite la graduale previsione di una serie di eccezioni a portata variabile (nel senso che incorporavano bilanciamenti tra loro diversi degli interessi in gioco). In un primo filone (v. ad esempio Immobiliare Saffi c. Italia), la Grande Camera iniziò ad ammettere che gli Stati contraenti in circostanze eccezionali – come ad esempio quelle legate al mantenimento dell’ordine pubblico che ricorrevano nel caso di specie - avvalendosi del margine di apprezzamento loro riconosciuto, potessero intervenire per ritardare l’esecuzione di una decisione giudiziaria, a condizione però che tale ritardo non compromettesse l’essenza del diritto protetto dall’art. 6. In altre pronunce (Sabin Popescu c. Romania), il carattere non assoluto del diritto al giusto processo protetto dall’art. 6 fu, invece, invocato per giustificare la possibilità di restrizioni, purché le stesse rimanessero all’interno di un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine perseguito. Infine, in un ulteriore filone di giurisprudenza riguardante casi in cui Stato convenuto era prevalentemente la Romania (a partire da Costin c. Romania), la Corte (in particolare la sua Terza sezione) valorizzò l’impossibilità oggettiva di dare esecuzione al giudicato come circostanza che avrebbe potuto giustificare la mancata attuazione dello stesso, senza peraltro precisare cosa dovesse intendersi per “impossibilità oggettiva” (v. SC Ruxandra Trading SRL c. Romania, par. 57), ed in particolare se dovesse trattarsi esclusivamente di impossibilità materiale (com'era nel caso Costin) o anche giuridica, possibilità, quest'ultima, invece prospettata, ad esempio, nella sentenza Nicola Silvestri c. Italia (par. 62). L'unica condizione per invocare tale giustificazione era quella di aver informato il richiedente dell'impossibilità di dare esecuzione all'obbligo statale, attraverso una decisione giudiziaria o amministrativa. Posta dinanzi all'affermazione giurisprudenziale di queste diverse gradazioni del diritto ad ottenere l'esecuzione di un decisione interna definitiva come riflesso dell'equo processo, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 214/2016, si è attestata sull'ultimo filone descritto (punto 4.1.2 del considerato in diritto) ritenendo che la mancata esecuzione di una sentenza del TAR Lazio divenuta definitiva fosse giustificata e non ledesse l'art. 6 CEDU. In situazione di questo genere – e cioè di convivenza tra filoni giurisprudenziali che incorporano bilanciamenti non del tutto corrispondenti degli opposti interessi in gioco – è chiaro che la coesistenza di diverse soluzioni convenzionali offre al giudice interno una possibilità, peraltro legittima (dal momento che, come ricordato nella sentenza G.I.E.M., tutte le sentenze della Corte hanno lo stesso valore vincolante e la stessa autorità interpretativa), di “posizionamento”, che può essere influenzata anche dalla costellazione dei principi rilevanti nell'ordinamento interno.  

    Infine, va segnalato come la centralità del ruolo del giudice interno vada rafforzandosi in virtù di due linee di tendenza della giurisprudenza di Strasburgo che non c’è spazio per analizzare in dettaglio: l’affermazione per cui la Corte EDU non intende necessariamente sovrascrivere il suo bilanciamento a quello già svolto dal giudice interno, a condizione che il giudizio di proporzionalità svolto da quest’ultimo rispetti il metodo convenzionale (v. la sentenza Ndidi c. Regno Unito del settembre 2017, par. 76); e la circostanza che sempre più spesso il rispetto della legalità convenzionale sia affidato all’apertura di spazi di valutazione che vanno inevitabilmente (e fiduciosamente) affidati caso per caso al giudice interno (si pensi alla vicenda dell’ergastolo ostativo ed alla pronunzia Viola c. Italia (n. 2)).

       

     

    2) L’autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale da ogni altro potere dello Stato in che misura è assimilabile a quella dei giudici incardinati nella Corte edu?

     Marina Castellaneta

    L’essenza della democrazia, la tutela dei diritti umani e il rispetto della rule of law hanno, per la Corte europea dei diritti dell’uomo, due pilastri fondamentali: l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo e la libertà di informazione. Non è un caso che entrambi i settori siano oggi sotto attacco in alcune democrazie. Basti pensare alla Polonia e all’Ungheria, con sempre più incisivi tentativi di controllo dell’esecutivo nei confronti della magistratura. Sono molto chiare, in tal senso, le osservazioni presentate il 3 settembre 2019 dal Commissario per i diritti umani Dunja Mijatovic, la quale ha segnalato che le misure legislative adottate in Ungheria, funzionali a limitare l’indipendenza della magistratura, costituiscono un pericolo per la democrazia e ha richiesto un rafforzamento di un sistema di autogoverno della magistratura. Analoghe preoccupazioni sono state evidenziate nel rapporto sulla Romania e sulla Polonia. Va detto che sulla questione dell’indipendenza dei giudici nazionali è necessario mantenere un controllo che oggi si mostra particolarmente efficace sia per l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo sia della Corte di giustizia dell’Unione europea, oltre che, naturalmente, da parte delle corti supreme nazionali. Basti pensare, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, alla sentenza della Grande Camera del 27 maggio 2014 (Baka contro Ungheria, ricorso n. 20261/12) con la quale la Corte ha accolto il ricorso dell’ex Presidente della Corte suprema, Andras Baka, condannando l’Ungheria (altro esempio è la sentenza del 22 novembre 2016, nel caso Erményi contro Ungheria, ricorso n. 22254/16).

    In via generale, comunque, l’indipendenza della magistratura nei Paesi membri del Consiglio d’Europa come l’Italia è garantita dal sistema di selezione concorsuale e dal meccanismo di autogoverno della magistratura.

    Il discorso sul piano della selezione dei giudici dinanzi alla Corte europea è diverso.

    L’indipendenza e l’autonomia dei giudici della Corte europea sono un tema molto importante per il buon funzionamento della stessa Corte e per l’applicazione della Convenzione. In qualche modo lo sono anche in misura maggiore rispetto all’ordinamento interno considerando che la Convenzione è uno strumento vivente e, quindi, si forma sulla giurisprudenza dei giudici internazionali. Non c’è dubbio, quindi, che l’eccellenza nella preparazione dei giudici, anche sotto il profilo del diritto internazionale, indispensabile per interpretare correttamente le norme convenzionali secondo quanto previsto dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 e per avere un quadro di insieme del contenuto dei diritti sul piano internazionale, svolge un ruolo centrale nel buon funzionamento della Corte. Certo, la procedura di selezione dei giudici della Corte europea risente del fatto che ha il suo fondamento in un trattato e, quindi, i Governi hanno scelto le modalità di selezione dei giudici in modo da mantenere un controllo. L’elezione spetta, come è noto, all’Assemblea parlamentare che si basa sulla terna presentata dai rispettivi Governi: la selezione, quindi, malgrado i numerosi interventi migliorativi, è di natura politica. Per rafforzare le garanzie di indipendenza e di imparzialità, nel corso degli anni, sono stati adottati diversi atti funzionali a limitare la discrezionalità degli Stati e indirizzarla verso decisioni volte ad assicurare scelte di alta professionalità e moralità. Così come è stato imposto il rispetto dell’uguaglianza di genere, con la conseguenza che nella lista presentata dai Governi deve essere sempre presente una donna (per una precisa ricostruzione dell’iter che porta all’elezione dei giudici, rinvio al documento dell’Assemblea parlamentare del 27 novembre 2019, SG-AG(2019)05 Rev2, reperibile nel sito http://www.assembly.coe.int).

    Mi sembra opportuno ricordare il Protocollo n. 14 che ha portato a una durata più lunga del mandato dei giudici e a un mandato unico, interventi che vanno nel senso di un rafforzamento dell’indipendenza degli stessi giudici. Così come è certamente positiva, direi ad integrazione della scarna norma contenuta nella Convenzione (articolo 22), l’istituzione del Panel di esperti voluto dal Comitato dei ministri nel 2010, l’adozione delle Linee guida sulla selezione dei candidati a giudice della Corte del 28 marzo 2012 e il Comitato per la selezione dei giudici istituito nel 2015 da parte dell’Assemblea parlamentare (Committee on the election of judges). In ogni caso, i 20 membri titolari sono nominati dall’Assemblea parlamentare e, quindi, l’influenza politica non può essere esclusa. Non sono sicura invece che una pregressa attività pratica sia essenziale per la scelta del giudice e non credo che dovrebbe essere applicata in modo rigido perché si corre il rischio di escludere giuristi eccellenti che potrebbero contribuire in modo determinante allo sviluppo dei diritti umani, considerato che, almeno a mio avviso, il ruolo della Corte non può essere – e non lo è – quello di decidere unicamente la violazione in un singolo caso, ma piuttosto rendere le norme convenzionali vive nella società attuale.

    Ritengo molto importante cercare il più possibile di armonizzare le procedure di selezione a livello nazionale, garantire le audizioni dei candidati e la massima trasparenza sull’iter seguito.

    D’altra parte, nella dichiarazione di Copenaghen del 13 aprile 2018 si è preso atto dei miglioramenti compiuti dagli Stati nella selezione dei giudici, precisando, però, che ci sono sicuri margini di miglioramento. In particolare, i Governi non dovrebbero più consegnare la lista dei tre candidati giudici all’Assemblea parlamentare prima che il Panel abbia espresso la propria opinione. Credo, al tempo stesso, che anche le procedure interne al Consiglio d’Europa potrebbero essere migliorate e forse si potrebbe ipotizzare un intervento anche di organi indipendenti esterni.

     

    Angela Di Stasi  

    É risaputo che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, quali fondamento dello Stato di diritto e requisiti ineludibili per il corretto funzionamento della democrazia ed il rispetto dei diritti umani, informino il nostro sistema costituzionale (laddove, in particolare, l’art. 104 sancisce che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”). É altrettanto noto che siffatta autonomia e indipendenza della giurisdizione nazionale si riverberi, sul fronte esterno, rispetto alle giurisdizioni internazionali.

    Orbene, se le peculiari differenze tra la struttura e le caratteristiche della giurisdizione nazionale e quelle di una giurisdizione internazionale – quale costituisce la Corte EDU – rendono solo parzialmente configurabile un tentativo di assimilazione,  è noto che la garanzia dei caratteri dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici incardinati presso la Corte di Strasburgo costituisca la risultante di un ancora perfettibile processo di specificazione (ora cristallizzato nel Regolamento della Corte del 2016) della scarna disciplina contenuta al riguardo  nella CEDU. Quest’ultima, negli artt. da 20 a 23, si limita, infatti, a fissare principi di carattere generale per quanto riguarda le condizioni di esercizio delle funzioni giudicanti ed i requisiti che i giudici devono possedere al fine di poter esercitare il mandato apprestando parimenti alcune indicazioni generali relative alla procedura della loro elezione.

     

    La correzione delle criticità riscontrate in varie prassi statuali si è tradotta in un complesso di raccomandazioni e risoluzioni da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e, in specie, nell’adozione delle Linee guida adottate nel 2012 dal Comitato dei ministri nonché nell’istituzione del  Comitato per la selezione dei giudici nel 2015, rinvenendo ulteriori pressanti ragioni giustificative in ragione della centralità acquisita dalla Corte europea nel sistema convenzionale (a partire dall’entrata in vigore nel 1998 del Protocollo 11) laddove il successivo Protocollo 14 avrebbe esteso la durata del mandato dei giudici (da sei a nove anni) e soprattutto, rendendolo non rinnovabile, si sarebbe mosso a vantaggio della tutela dell’indipendenza della Corte. In particolare l’accresciuta rilevanza della Corte, quale monade istituzionale, aveva reso ancor più delicata la questione delle procedure di selezione e di nomina, le quali costituiscono uno strumento essenziale di garanzia della professionalità e dell’indipendenza dei giudici laddove solo un’adeguata procedura selettiva, fondata su criteri oggettivi e trasparenti, può garantire il possesso, da parte degli stessi, delle competenze e dei requisiti necessari per assolvere correttamente al loro mandato.

     

    Se, in generale, la CEDU fa dell’indipendenza del tribunale uno degli elementi del diritto fondamentale ad un “processo equo” e, al tempo stesso, la giurisprudenza costante della Corte EDU attribuisce all’indipendenza del giudice il rango di condicio sine qua non per il mantenimento della democrazia e della preminenza del diritto, la rilevanza dei requisiti dell’autonomia e dell’indipendenza è confermata nell’art. 3 del citato Regolamento della Corte atteso che la formula del giuramento, da parte del giudice europeo, richiede l’esercizio delle sue funzioni “con onore, indipendenza ed imparzialità”, mentre essi risultano rafforzati nel successivo art. 4 in tema di incompatibilità che, in ossequio al disposto convenzionale, prevede che durante il mandato i giudici non possono esercitare alcuna attività politica o amministrativa, né alcuna attività professionale incompatibile con il proprio dovere di indipendenza ed imparzialità.

     

     

    Mentre l’indipendenza si traduce nei tre corollari dell’indipendenza organizzativa, personale e funzionale, l’accertamento dell’imparzialità (sovente associata a quella dell’indipendenza nella giurisprudenza della Corte) richiede  una valutazione sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo: sotto il primo occorre che il giudice sia esente da pregiudizi personali o di parzialità; sotto il profilo oggettivo, invece, è necessario che egli fornisca garanzie sufficienti per escludere ogni legittimo dubbio al riguardo (caso Hauschildt) laddove l’elemento di imparzialità soggettivo si ritiene presunto fino a prova contraria, mentre per quello oggettivo «anche l’apparenza può avere un certo rilievo» (sentenza Krivoshapkin).

     

    In conclusione, ad onta del fatto che l’esigenza di ancorare le procedure di selezione dei giudici a principi di democraticità, trasparenza, non discriminazione ed affidabilità e, più in generale, la salvaguardia della loro autonomia ed indipendenza (sia durante l’esercizio del mandato che alla conclusione dello stesso), abbiano già trovato significativi correttivi, la loro garanzia richiede ancora un elevato tasso di vigilanza (anche con riferimento ai criteri nazionali di selezione) e auspicabili ulteriori interventi correttivi.

    D’altra parte sull’autonomia e l’indipendenza del giudice si gioca una partita complessa – di perdurante se non crescente attualità –  che rischia di compromettere l’affidabilità e la credibilità della stessa giurisdizione (sia essa nazionale che internazionale). Mi limito a ricordare, da un lato, che il 7 febbraio 2018 è stato diffuso dal Consiglio consultivo dei giudici europei il Rapporto sull’indipendenza e l’imparzialità del potere giudiziario. All’interno di esso, sulla base della attenta valutazione effettuata all’interno di diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, emergeva come ancora meritassero particolare attenzione la salvaguardia dell’indipendenza funzionale con riguardo alla nomina e all’inamovibilità dei giudici, l’indipendenza nell’organizzazione, le questioni legate all’imparzialità (comprese le regole deontologiche e l’applicazione di provvedimenti disciplinari), nonché quelle riconducibili alla retribuzione e al rapporto tra giudici e media. Dall’altro, ancorché resi in altro contesto giurisdizionale, non possono dimenticarsi i decisa della Corte di Giustizia dell’Unione europea (v. sentenza A.K. e a. del 19 novembre 2019 e sentenza Commissione/Polonia del 24 giugno 2019) che hanno riguardato  rispettivamente l’indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema polacca  e quella della Corte stessa.

    Antonello Tancredi

     

    Direi che il parallelo non è agevole da tracciare per la differenza dei contesti in cui, rispettivamente, giudici interni e giudici internazionali operano. Se infatti, nel primo caso, l'indipendenza è soprattutto il riflesso della separazione dei poteri, nel secondo è una garanzia che tende certamente a rafforzare la promessa di una tutela effettiva dei diritti dell'uomo (fonte della legittimità performativa su cui riposa, tra le altre cose, l'edificio della Corte EDU), ma che s'inquadra in un contesto internazionale al cui interno il principio di rappresentatività gioca ancora un qualche ruolo. Una serie di disposizioni della Convenzione europea, infatti, non si spiegherebbero se non inquadrate in una perdurante logica di rappresentatività avente natura “funzionale”: dalla regola di un giudice per ogni Stato (con conseguenza cessazione del mandato se lo Stato di nazionalità del giudice denuncia la Convenzione, come accadde al giudice greco nel 1970, ovvero si estingue per smembramento, come accadde al giudice cecoslovacco nel 1992, rieletto poi per la Slovacchia), a quella per la quale il giudice statale è membro di diritto della Camera e della Grande Camera in cui gli affari del suo Stato di provenienza sono trattati, ivi inclusi i procedimenti dinanzi alla Grande Camera attivati da richiesta di parere consultivo, alla figura del giudice ad hoc. Naturalmente i giudici siedono a titolo individuale e la loro indipendenza è garantita da tutta una serie di presidi ben noti, a partire dal mandato unico “lungo” di nove anni. Tuttavia, come si diceva, la logica della rappresentatività continua a giocare un qualche ruolo affianco a quella dell'indipendenza, anche se da più di vent'anni non si pone più il problema di “indurre” gli Stati membri della CEDU ad accettare la competenza giurisdizionale della Corte nei loro confronti attraverso la “promessa” che le specificità del loro ordinamento saranno tenute nel debito conto. Il sistema, tuttavia, è ancora interessato ad avere un giudice che abbia approfondita conoscenza della prassi e dell'ordinamento giuridico dello Stato in questione. E tuttavia, perplessità accompagnano tradizionalmente la circostanza che il giudice nazionale (e in principio i Presidenti di sezione) in quanto membri di ufficio della Grande Camera si pronunzino due volte sullo stesso ricorso, una posizione che è stata definita da alcuni giudici “disconcerting” (v. l'opinione parzialmente dissidente espressa dal giudice Costa nel caso Kyprianou c. Cipro). Essi infatti si trovano dinanzi al dilemma se aderire all'opinione già espressa nella Camera (ovviamente quando il caso è riferito alla Grande Camera ai sensi dell'art. 43 CEDU) o modificare la loro opinione avvalendosi del senno di poi (come pure qualche volta è successo). Ma al di là dei dilemmi personali, il problema che si pone è quella del rispetto del criterio di imparzialità nel caso di partecipazione dello stesso giudice a diversi stadi di un medesimo processo, per come questo criterio è stato via via elaborato ed applicato dalla Corte di Strasburgo nei confronti dei giudici degli Stati membri della CEDU. In merito, peraltro, è difficile dare risposte univoche giacché la Corte EDU tende a sottolineare come la valutazione dell'imparzialità vada svolta caso per caso, sulla base di circostanze specifiche come il numero di giudici complessivamente coinvolti nella decisione, il numero di giudici coinvolti in entrambe le decisioni rispetto al numero totale dei componenti il collegio, il loro ruolo e funzione (ad es., se presiedevano o meno il collegio o meno) ecc.

    In una prospettiva più generale, poi, va detto che l'istituto della presenza ex officio del giudice nazionale è stato concepito nell'ambito delle classiche controversie interstatuali allo scopo di garantire l'eguaglianza procedurale tra Stati sovrani ed anche per fare in modo che gli Stati accettassero la giurisdizione di un determinato tribunale internazionale. Per tale ragione, ad esempio, se uno Stato parte di una controversia dinanzi alla Corte internazionale di giustizia non ha un giudice della sua nazionalità che siede in quella Corte potrà nominare un giudice ad hoc. Ci si può tuttavia domandare se tutto ciò sia trasponibile in un sistema di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo che invece ha portata oggettiva e scavalca la logica dei diritti ed obblighi reciproci tra Stati membri. È noto, ad esempio, come la Corte inter-americana dei diritti dell'uomo limiti la nomina del giudice ad hoc ai ricorsi inter-statali, escludendola invece per i ricorsi individuali (si veda il parere del 2009 sull'art. 55 della Convenzione americana dei diritti dell'uomo). Altri organi di tutela dei diritti umani, come il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite o il Comitato sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, sollevano il rappresentante nazionale dalla partecipazione ai lavori del Comitato se si discute un caso che coinvolge lo Stato di nazionalità.

    Ovviamente, poi, sussiste la questione riguardante le procedure di composizione della terna di candidati nazionali a giudice della Corte EDU da sottoporre al vaglio dell'Assemblea parlamentare (del resto le modalità di nomina costituiscono il primo dei criteri impiegati dalla Corte EDU per valutare l’indipendenza dei giudici interni). Si discute, in particolare, della misura in cui tali procedure siano influenzate dagli esecutivi degli Stati membri ovvero rispondano a criteri di trasparenza, equità, non-discriminazione, rule of law, responsabilità, il cui rispetto è stato più volte auspicato appunto dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Su questo piano oramai sono stati compiuti diversi passi in avanti, per quanto ancora si registri una certa mancanza di uniformità tra i vari Stati membri del Consiglio d'Europa. Forse l'unica cosa che si può dire a tal riguardo è che la circostanza che il voto assembleare sia oramai regolarmente preceduto da colloqui coi candidati che si svolgono a livello di sotto-commissione del Comitato sugli affari giuridici dell'Assemblea, dovrebbe consigliare di far parallelamente svolgere dei colloqui con un Comitato di esperti indipendenti anche nell'ambito delle procedure nazionali tese a selezionare i componenti della terna di candidati, come del resto già avviene ad esempio in Paesi come la Gran Bretagna o il Lussemburgo. Le audizioni sono infatti considerate essenziali per acquisire percezione effettiva e concreta della qualificazione dei candidati sotto il profilo delle competenze specifiche e delle capacità linguistiche e contribuiscono a diffondere quantomeno l'impressione di una depoliticizzazione della procedura nel suo complesso.

     

     

    3) Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro, con particolare riferimento alla gestione dei ricorsi diretti ed al margine di apprezzamento? E quali quelle che si porranno al giudice nazionale, dopo l’entrata in vigore del Protocollo n.16 annesso alla CEDU?

     

    Marina Castellaneta

    La Corte europea è certamente pronta a nuove sfide, ma forse non lo sono tutti gli Stati. Ad esempio, trovo inspiegabile il ritardo italiano nella ratifica in particolare del Protocollo n. 15, adottato il 24 giugno 2013, che modifica, tra gli altri cambiamenti apportati, la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, riducendo da 6 a 4 mesi rispetto alla pronuncia definitiva il termine di presentazione del ricorso alla Corte di Strasburgo, il criterio di ricevibilità relativo al pregiudizio importante e, soprattutto, procede all’inserimento del principio di sussidiarietà e del margine di apprezzamento nel testo convenzionale. Inoltre, il Protocollo elimina la possibilità per uno Stato o per la vittima di bloccare il deferimento dell’affare alla Grande Camera. Va detto che tale Protocollo non è ancora in vigore perché manca la ratifica di due Stati: Bosnia ed Erzegovina e Italia. Sembra, tuttavia, che l’Italia sia ormai vicina alla ratifica, anche se resta il fatto che arriva ultima.

    Anche sulla mancata ratifica da parte dell’Italia del Protocollo n. 16, in vigore dal 1° agosto 2018 (oggi per 13 Stati), per quanto l’istituzione del meccanismo simile al rinvio pregiudiziale alla Corte Ue, possa presentare alcuni aspetti critici, non comprendo i ritardi nell’adesione. Mi sembra che l’Italia si privi di uno strumento utile al rafforzamento del dialogo tra Corti, con un vantaggio non solo ai fini della corretta interpretazione della Convenzione in uno specifico caso, ma anche per la prevenzione di eventuali violazioni della Convenzione. Inoltre, la circostanza che ormai il Protocollo n. 16 sia operativo fa sì che malgrado i giudici non possano trarre vantaggi dal sistema, debbano in realtà tenere conto dei pareri forniti su richiesta delle corti supreme di altri Stati. Se è vero, infatti, che il parere fornito dalla Grande Camera non è vincolante (art. 5 del Protocollo) è anche vero che è difficile che un giudice nazionale si distacchi dalle conclusioni raggiunte dalla Grande Camera perché si aprirebbe la strada per un ricorso a Strasburgo. Mi pare opportuno ricordare la pronuncia n. 13000 della Corte Cassazione, prima sezione civile, depositata il 15 maggio 2019, nella quale, in un caso di procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero dopo la morte del padre, la Suprema Corte, concludendo nel senso che nell’atto di nascita deve essere indicato il  nome del padre, ha sottolineato la necessità che su tali questioni si tenga conto del dialogo costante tra corti supreme degli Stati europei ed extraeuropei, nonché del dialogo con la Corte di giustizia dell’Unione europea e con la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha “determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica”. È, sostanzialmente impossibile, pertanto, non tenere conto dei pareri della Grande Camera resi su richiesta di organi giurisdizionali di altri Stati.

    Per quanto riguarda la questione della gestione dei ricorsi diretti, è evidente che gli Stati o hanno difficoltà ad applicare correttamente la Convenzione o, in alcuni casi, non vogliono applicarla. I ricorsi pendenti dinanzi alla Corte, già attribuiti a una Camera, al 30 novembre 2019, erano ben 41.850, in crescita rispetto ai 40.650 del 2018 e i ricorsi pendenti ben 59.850 rispetto ai 56.350 del gennaio 2019. È evidente che per un organo giurisdizionale di soli 47 giudici, con fondi destinati al funzionamento della struttura limitati, è difficile fare di più rispetto a ciò che già fa. E qui che giocano un ruolo centrale i giudici nazionali: è sempre più necessaria una maggiore attenzione alla giurisprudenza della Corte europea, che deve essere garantita ad ampio raggio e non soltanto con riguardo ai casi italiani. In questo senso il Ministero della giustizia dovrebbe fare di più per la diffusione delle sentenze e delle decisioni, assicurando anche una rapida e precisa traduzione dei testi. A me sembra centrale anche la formazione che certamente è assicurata ai giudici dal sistema di formazione previsto dalla Scuola superiore della magistratura, ma  la preparazione deve essere assicurata ben prima, sin dalle aule universitarie. Qui purtroppo constato che, molto spesso, il diritto internazionale non ha lo spazio che dovrebbe avere e che ha invece in altre università nel mondo e questa scelta, purtroppo, talvolta, non avviene per ragioni formative e culturali. Il caso italiano mi sembra singolare anche perché gli studenti, invece, richiedono una sempre maggiore presenza del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea, fondamentali nella formazione del giurista.

    Passando alla questione del margine di apprezzamento non c’è dubbio che esso sia essenziale nella definizione dei contorni del rapporto tra giudici interni e Corte europea e, quindi, il previsto inserimento nel testo convenzionale disposto dal Protocollo n. 15 è un passo significativo anche perché si codifica quanto avvenuto per via giurisprudenziale. Restano però i problemi circa la definizione del perimetro applicativo. La Corte europea, sia per garantire il pieno rispetto del principio di sussidiarietà, sia perché ritiene che, in via generale, gli Stati si trovino in una posizione migliore nel valutare la necessità di una deroga, prevista nelle norme convenzionali, a un diritto, da parte delle autorità nazionali, si riserva di intervenire solo laddove ritenga che vi siano forti ragioni per sostituirsi alla valutazione effettuata a livello nazionale. Sul punto, a mio avviso, occorrerebbe una maggiore chiarezza anche per precisare le chiavi di lettura del margine di discrezionalità concesso agli Stati. Mi sembra, però, che in alcuni casi, dove sono in gioco diritti la cui violazione incide non solo sulla realizzazione delle stesse norme convenzionali, ma sulla democrazia nel suo complesso, Strasburgo tenda a ridurre il margine di apprezzamento e ad affermare, ritenendo il bilanciamento effettuato dai giudici nazionali non conforme ai criteri di Strasburgo, che vi siano “strong reasons to substitute the Court’s view for that of the domestic courts”. Di recente, ciò si è verificato con la sentenza del 24 settembre 2019 resa nei casi Antunes Emídio e Soares Gomes da Cruz contro Portogallo (ricorsi n. 75637/13 e n. 8114/14), in una questione relativa alla tutela della reputazione di un politico che si riteneva diffamato da un giornalista che aveva usato un linguaggio provocatorio, ritenuto offensivo da parte dei giudici nazionali  i quali, pur richiamando la giurisprudenza di Strasburgo, avevano compresso la libertà di informazione.

    Questo bilanciamento, tra margine di apprezzamento – nelle sue gradazioni, da ampio a ristretto – e “strong reasons” di sostituzione da parte della Corte rispetto all’operato dei giudici nazionali, mi sembra che sia un tema da seguire con attenzione, provando anche a tracciare i principi che si stanno via via affermando nella giurisprudenza di Strasburgo.

     

    Angela Di Stasi

        Considerato che la Corte europea ha vantato, da sempre, un elevato tasso di “sintonia” con il diritto vivente – impegnata come è a rendere living la Convenzione europea mediante un’interpretazione dinamica ed evolutiva delle norme convenzionali e di quelle contenute nei Protocolli addizionali – ritengo che nel prossimo futuro siano prevedibili plurime “sfide” che si aggiungono a quelle con le quali si è dovuta misurare in questi anni (in primis la gestione del numero alluvionale dei ricorsi) . Sicuramente la Corte EDU non potrà evitare “sfide tematiche” riguardanti la trattazione di fattispecie non compiutamente codificate nel sistema convenzionale: senza pretesa di esaustività basti citare la tutela del diritto al rispetto della vita privata a fronte dei processi di digitalizzazione e di informatizzazione dei dati, la protezione dei diritti fondamentali in internet, la tutela dell’ambiente, il regime giuridico dello status filiationis come conseguenza delle diffuse tecniche di fecondazione assistita, il diritto all’autodeterminazione (es. fine vita), la garanzia dei diritti fondamentali rispetto al fenomeno migratorio.

    In tali ambiti materiali sono ricomprese tematiche che impongono, sovente, alla Corte di Strasburgo un delicato bilanciamento fra interessi contrapposti e, soprattutto se “eticamente sensibili”, di fronte alla mancanza di “consenso europeo” la conducono a far ampio ricorso al margine di apprezzamento di ogni singolo Stato.

    Sotto questo profilo l’eventuale (e per il momento solo futuribile) entrata in vigore del Protocollo 15 – che, come è noto, richiede la ratifica da parte di tutti gli Stati della CEDU –  potrebbe correre il rischio di rafforzare il già consistente ricorso al margine di apprezzamento  nazionale, riscontrabile oggi nel case law della Corte europea come mera creazione giurisprudenziale della stessa. Nel Protocollo 15, ricorrendosi ad una scelta redazionale abbastanza singolare, ne è previsto invece un riferimento espresso (unitamente al principio di sussidiarietà) in un nuovo considerando che si andrebbe ad aggiungere alla fine dell’attuale Preambolo della CEDU.

     

    A tali “sfide” – suscettibili di riverberarsi ulteriormente sull’ampliamento del richiamo al margine di apprezzamento – se ne potrebbero aggiungere ulteriori di carattere procedurale (o di carattere procedural-sostanziale) come costituisce quella legata alla eventuale dilatazione della casistica – per ora limitata – del cd. ”ricorso diretto” alla Corte in deroga rispetto all’obbligo del previo esaurimento dei rimedi interni quando la violazione sia imputabile ad un atto legislativo nazionale: il tutto come conseguenza dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un ricorso diretto alla Corte costituzionale. Trascurando una casistica più risalente (caso Scordino) che determinò anche l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (Sentenze nn. 1338, 1339, 1340, 1341 del 26 gennaio 2004) l’evoluzione ermeneutica, verificatasi nella giurisprudenza convenzionale, rispetto ai contenuti di tale obbligo e la sua “relativizzazione” alla luce “delle peculiari circostanze di fatto del ricorso, del contesto giuridico e politico nel quale esso si colloca e della situazione personale del ricorrente” (v., inter alia, sentenza Lethinen c. Finlandia) hanno rinvenuto in due casi italiani (Costa e Pavan c. Italia e Parrillo c. Italia) una significativa applicazione. Allo stato mi sembra che, in assenza di una prassi significativa in materia e tenuto conto della specificità dei diritti fondamentali oggetto delle due pronunce richiamate, la paventata creazione di una “pregiudiziale di convenzionalità”, come prodotto di una sorta di modifica tacita dell’art. 35 della CEDU, costituisca un’ipotesi – ancorché non escludibile – eccezionale, inidonea in quanto tale a creare un pericoloso “cortocircuito” tra Corti nei rapporti tra sistema convenzionale e ordinamenti nazionali.

     

    Quanto alla eventuale entrata in vigore per l’Italia del Protocollo 16 (qualora si riuscisse a portare a compimento un accidentato percorso legislativo che, nella recentissima attualità, si arricchisce di numerose audizioni da parte delle Commissioni Giustizia e Affari esteri della Camera) è immaginabile che ne possa derivare un potenziamento del ruolo “costituzionale” della Corte, come sottolineato peraltro anche nel Rapporto esplicativo allo stesso: un ruolo che richiederebbe di essere ricondotto all’insegna di un corretto ed equilibrato dialogo costruttivo tra autorità giudiziarie nazionali  e Corte di Strasburgo nonché nel pieno rispetto dell’autonomia organica e funzionale tra le giurisdizioni.

    Al riguardo, vista la solo recente entrata in vigore del Protocollo 16, la prassi non fornisce il conforto di dati rilevanti. Escludendo il secondo rinvio alla Grande Camera della Corte europea  da parte della Corte costituzionale armena (pendente), può forse rivestire un qualche interesse la verifica dei follow-up seguiti al primo parere reso ad esito della richiesta sollevata dalla Corte di Cassazione francese il 5 ottobre 2018, in tema di status filiationis e maternità surrogata (caso Mennesson).

    Il parere costituisce, a mio avviso,  un confortante  esempio della messa alla prova del Protocollo 16 sia con riferimento ai tempi (assolutamente) ragionevoli, sia con riferimento alle ricadute di un parere che, come è noto, non è vincolante.

    Con esso il giudice francese aveva chiesto alla Corte di chiarire se rientrasse nel margine di apprezzamento delle autorità nazionali il rifiuto di trascrivere nei registri di stato civile un atto di nascita relativo ad un bambino nato all’estero da maternità surrogata che designasse come madre quella non biologica e come padre quello biologico e, se il ricorso all’adozione piuttosto che alla trascrizione ottenuto all’estero consentisse di rispettare la Convenzione.

    I principi informatori del primo parere preventivo (che contiene peraltro un espresso riferimento alla sentenza resa dalla Grande Camera nel caso Paradiso Campanelli c. Italia) sono stati adeguatamente presi in considerazione giacché il 4 ottobre 2019 la Cour de Cassation francese ha stabilito che una maternità surrogata realizzata all’estero non è di ostacolo al riconoscimento in Francia di un legame di filiazione tra i figli e la madre intenzionale. Ora, nel caso di specie, solo la trascrizione dell’atto di nascita straniero consente di riconoscere siffatto legame rispettando il diritto alla vita privata dei figli. Con ciò la Cassazione francese non ha voluto generalizzare la trascrizione dell’atto di nascita come momento costitutivo dello status filiationis, ma lo ha circoscritto a casi particolari, rimanendo comunque, l’adozione la strada maestra. Va segnalato infine che la pronuncia è suscettibile di effetti rilevanti se si tiene conto che vi è stata l’approvazione, da parte dell’Assemblea nazionale, di un emendamento all’art. 4 della legge sulla bioetica che autorizza il riconoscimento automatico di figlie e figli nati, al di fuori della Francia, con maternità surrogata.

    Più in generale  il primo parere preventivo è emblematico della rilevanza delle questioni sollevabili e della utilità degli strumenti di raccordo preventivo inter judices nella costruzione di un auspicabile modello integrato di tutela dei diritti umani. Inoltre, se è vero che esso non è vincolante tuttavia, considerato che non pregiudica la possibilità per le parti di esperire un ricorso individuale ex art. 34 della CEDU, lo stesso finisce per tradursi in un “vincolo di fatto” per i giudici interni, nel timore di un’eventuale futura condanna.

     

    Antonello Tancredi

    Lo strumento della richiesta di parere che, con l'entrata in vigore del Protocollo n. 16, un giudice interno di ultima istanza può rivolgere alla Corte EDU è una scommessa che vive di sottili equilibri. È una scommessa perchè dà una nuova dimensione al principio di sussidiarietà puntando a produrre effetti positivi sia dal lato delle Corte di Strasburgo che da quello delle corti nazionali. Se infatti Strasburgo si attende di prevenire piuttosto che curare, irrobustendo la propria res interpretata con effetti erga omnes partes, e quindi diminuendo il proprio carico di lavoro nel medio-lungo periodo, vantaggi non irrilevanti potrebbero profilarsi in principio anche sul versante del giudice interno. La possibilità, infatti, di provocare un'interpretazione in caso di dubbio, di apparente contraddizione della giurisprudenza CEDU, o di situazione che non si presta ad un'applicazione piana della stessa potrà senz'altro potenziare il ruolo di garante primo dei diritti che è proprio di tale giudice. Il giudice di ultima istanza potrà, inoltre, richiedere un parere prima di decidere se, secondo l'ordine delle operazioni indicato dalla Consulta a partire dalle sentenze “gemelle” del 2007, vi è margine per un'interpretazione conforme ovvero non resti altra strada che rimettere la questione di legittimità della legge interna alla Corte costituzionale. Corte costituzionale che, a sua volta, potrà affrontare una eventuale questione di legittimità alla luce dell'interpretazione offerta dai giudici di Strasburgo, potendo trarre beneficio dallo scioglimento di un dubbio, il superamento di una molteplicità di indirizzi giurisprudenziali non perfettamente corrispondenti (v. la risposta al primo quesito), o dal consolidarsi di una lettura o dall'adattamento di un principio ad un caso concreto. Né mi pare che lo strumento in questione riveli i suoi benefici solo sul lato passivo, scommettendo cioè su un giudice interno più fedele ed efficace esecutore del verbo di Strasburgo, il che sminuirebbe la ratio della sussidiarietà. Al contrario, il meccanismo può potenzialmente aprire spazi importanti per far sentire la propria voce a Strasburgo. Sotto questo profilo, e volendo impiegare l'alternativa teorizzata da Hirschman tra voice ed exit, potrebbe dirsi che la richiesta di parere conferisce voice, partecipazione, possibilità di rappresentare il proprio patrimonio giuridico e costituzionale al giudice di Strasburgo, onde scongiurare il rischio di una exit, di una rottura tra i due livelli. É quindi in questa fase ascendente della procedura che il dialogo probabilmente fornirà i suoi frutti più preziosi, e che il giudice nazionale potrà più utilmente far sentire, appunto, la propria voce (voce che Strasburgo dovrà essere attenta a cogliere, come d’altronde è già avvenuto in passato), prospettando nuove letture, nuove soluzioni, anche evoluzioni giurisprudenziali. Del resto, se si leggono le linee-guida sull'attuazione della procedura in oggetto che sono state approvate dalla Corte EDU in formazione plenaria il 18 settembre 2017, si dice chiaramente che la richiesta di parere deve contenere, ove possibile ed appropriato, le opinioni e le analisi del tribunale interno richiedente circa la questione sottoposta. Riporrei, invece, minori speranze nella possibilità – pur formalmente esistente - di mantenere una propria voce autonoma nella fase discendente della procedura, una volta cioè che il parere è stato reso dalla Grande Camera. Proprio per gli obiettivi che la procedura si pone (diminuzione del carico di lavoro, superamento delle resistenze nell'attuazione erga omnes degli orientamenti interpretativi assunti a Strasburgo, maggiore effettività della tutela), è chiaro che il sistema non auspica ‒ diciamo così ‒ particolari opposizioni ad una ricezione il più possibile conseguente del parere. La circostanza che sia appunto un parere, per definizione privo di carattere vincolante, lascia certo formalmente aperta la porta alla possibilità per la Corte richiedente, o altri tribunali nazionali che si trovassero dinanzi a questioni simili, di prescegliere una diversa interpretazione. In via di fatto, tuttavia, ciò che è pur sempre possibile resta improbabile sia perché la richiesta di parere è frutto di un scelta discrezionale, sia perché, come ricorda ad esempio il Reflection Paper sulla proposta di estensione della propria competenza consultiva reso pubblico dalla Corte EDU nel 2012, resta sempre aperta la via del ricorso individuale successivo, per valutare il quale la Corte darebbe applicazione alla lettura contenuta nel parere disatteso, lettura che sarebbe ormai entrata a far parte del corpo della sua giurisprudenza (per un primo esempio in tal senso, si veda la decisione resa il 19 novembre 2019 nel caso C. et E. c. Francia), viaggiando con le insegne della res interpretata, com'è ricordato nel Rapport explicatif che accompagna il Protocollo n. 16. Insomma un parere disatteso potrebbe diventare inevitabilmente una sentenza di condanna produttiva, questa volta sì, di un vincolo rigido di conformazione ex art. 46 CEDU, prospettiva che l’operatore interno non potrà mancare di valutare al giusto. Ne discende che la possibilità di far ascoltare la propria voce senz'altro esiste (a condizione, certo, di ratificare il Protocollo n. 16), anzi direi che la riuscita in vivo del meccanismo in parola dipenderà proprio dall’attenzione che ciascun livello giurisdizionale saprà prestare agli impulsi che proverranno dall’altro, ma per il giudice interno verosimilmente esiste soprattutto in sede di richiesta. Tale esito è vieppiù rafforzato dalla circostanza che la lettura offerta dalla Grande Camera potrebbe, con ogni probabilità e come già detto, essere considerata produttiva di un orientamento che, proprio in virtù del parere, è sufficientemente “pertinente” e (quantomeno nell’id quod plerumque accidit) ha vocazione alla stabilità tale da poter far scattare l'obbligo conformativo del giudice italiano, anche agli occhi della Corte costituzionale (se e nella misura in cui la Consulta, a sua volta, deciderà di attenersi ai criteri indicati nella sentenza n. 49/2015). Del resto il primo parere reso dalla Corte EDU il 10 aprile 2019 su richiesta della Corte di cassazione francese ha prodotto “a valle” esiti in linea con i principi in esso contenuti, ed anche più protettivi sul piano degli effetti. La stessa Corte di cassazione, in Adunanza plenaria, con sentenza n. 648 del 4 ottobre 2019 (10-19053), ha, infatti, rigettato la domanda di annullamento della trascrizione nel registro di stato civile di Nantes degli atti di nascita costituiti all'estero designanti come madre legale la madre intenzionale non biologica rispetto alla quale il legame familiare era consolidato. In tal modo è stato recepito il parere reso dalla Corte nella parte in cui esso afferma che il diritto al rispetto della vita privata ex art. 8 CEDU richiede che sia permesso il riconoscimento del rapporto giuridico di filiazione con la madre intenzionale, ed anche nella parte in cui ammetteva la possibilità di prescegliere forme di riconoscimento diverse dalla registrazione del certificato di nascita formato all'estero, come ad esempio l'adozione, purché permettessero una decisione rapida, certa ed effettiva, rispettosa del superiore interesse del fanciullo. Proprio in applicazione di tale ultimo criterio, infatti, i giudici francesi hanno escluso la perseguibilità di modalità di riconoscimento alternative alla trascrizione dei certificati di nascita nel caso di specie. Echi indiretti del primo parere reso dai giudici di Strasburgo paiono rintracciarsi, peraltro, nella sentenza n. 12193, resa l’8 maggio 2019 a sezioni unite dalla nostra Corte di cassazione, almeno nella parte in cui si prospetta la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale intenzionale e garantire l’interesse del minore attraverso il ricorso a strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, diversi dalla trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero dopo il ricorso alla gestazione per conto d’altri.

    Quanto, infine, alla gestione del margine di apprezzamento, altra incarnazione del principio di sussidiarietà, essa è al centro di analisi critiche oramai da anni. Sovente la Corte è accusata di mascherare il suo potere discrezionale dietro l'interpretazione consensuale, strumentalizzando il consensus europeo a seconda che intenda estendere o ridurre il margine di apprezzamento statale. Per giungere a tale esito, i giudici di Strasburgo neutralizzerebbero l'assenza di consensus tra gli Stati membri quando decidono di promuovere un'interpretazione evolutiva; al contrario, neutralizzerebbero l'esistenza di consensus onde riconoscere margine di apprezzamento; ovvero, in altre situazioni ancora, costruirebbero un consensus “sostitutivo” valorizzando al massimo una tendenza, fatta emergere anche guardando ad altri strumenti internazionali. Inoltre, è noto che la dimensione del margine varia a seconda della natura dei diritti in questione: ristretta per la tutela della sfera privata e dell’identità, più ampia, ad esempio, in materia tecnico-scientifica, etica o economico-sociale. Ciò può produrre differenze di tutela dello stesso diritto tra Stati membri differenti, oltre ad orientamenti non sempre prevedibili. Pare condivisibile l'opinione di chi sostiene (Sudre) che invece di utilizzare in maniera ambigua un argomento consensuale i cui limiti e confini spesso sfuggono ad ogni determinazione, il giudice di Strasburgo dovrebbe limitarsi a riconoscere che quando sono in gioco difficili questioni concernenti le società europee, che sollevano delicati interrogativi di ordine morale ed etico su cui i legislatori nazionali non hanno ancora preso una posizione chiaramente orientata, esso non può sostituirsi a tali legislatori.

     

    Le conclusioni.

    Roberto Giovanni Conti

    Ariose e ricche di stimoli, le risposte delle persone intervistate confermano l’accresciuto ruolo del diritto convenzionale sul “piano interno” del diritto. Esaminare i problemi di funzionamento o di sistema della Corte edu è sempre più un esercizio tutt’altro che teorico o riservato agli studiosi, andando ad impattare con le vicende giudiziarie interne, con i limiti che il giudice domestico incontra quando in gioco entrano i diritti fondamentali. In questa prospettiva, la considerazione del ruolo pregnante della Corte edu viene vista essa stessa come “causa” di accrescimento del ruolo delle Corti costituzionali nazionali su una serie di temi in cui manca il consensus all’interno dei Paesi contraenti, ma anche del giudice nazionale, dopo che proprio la Corte costituzionale ha chiarito il suo compito di interpretazione conforme alla CEDU pur in assenza di diritto vivente proveniente da Strasburgo(Castellaneta). Il punto non è affatto secondario ma, al contrario, conferma l’esistenza di quella shared responsability (Di Stasi) fra le Corti, nazionali e sovranazionali, ormai tutte osmoticamente collegate in un’attività che le vede sempre più protagoniste nella ricerca ed affermazione dei diritti umani.

    Se è questa la prospettiva che esce dalle risposte, si comprende la centralità delle forme di cooperazione e dialogo che possano mettere in collegamento le Corti stesse.

    Tutte le risposte hanno concordato sulle centralità di tali forme di dialogo, tanto di quelle esistenti per il tramite dei Protocolli stilati dalle Corti nazionali con la Corte edu che di quelle che dovrebbe istituzionalizzare il Protocollo n.16.

    Nessuna delle risposte sembra lasciare dubbi sull’utilità tanto del Protocollo n.15 che del Protocollo n.16. In questo Castellaneta, Di Stasi e Tancredi sembrano essere in piena sintonia con quella parte della dottrina costituzionalistica ( fra gli altri, di recente, A. Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale, in Diritticomparati, Gennaio 2020) che si è spesa per rimuovere i dubbi circa l’utilità dello strumento ed i pericoli che esso determinerebbe che altra parte della dottrina ha invece paventato (v. M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l'autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in Sistemapenale, 27 novembre 2019).

    Le riflessioni odierne costituiscono un ulteriore sviluppo del ragionamento già iniziato su Giustizia Iniseme da Guido Raimondi e Vladimiro Zagrebelsky - La Corte edu vista dai suoi giudici    , a  cura di R.G. Conti, 19 dicembre 2019 -  aggiungendosi alle altre voci favorevoli – v. R. Sabato, Audizione  -in Sistemapenale - presso le Commissioni parlamentari riunite per l’esame dei ddl. Nn. 1124 e 35 e, volendo R. Conti, nelle conclusioni in calce all'intervista a Guido Raimondi e Vladimiro Zagrebelsky, cit. e in Chi ha paura del Protocollo n.16 – e perché?, in Sistemapenale, 27 dicembre 2019-.

    Questo clima favorevole, d’altra parte, trova fondamento nei vantaggi che la richiesta di parere preventivo sembra potere realizzare  rispetto al chiarimento e completamento del quadro del diritto vivente della Corte edu, favorendo con il parere sia la possibilità del richiedente di focalizzare la posizione rispetto al tema convenzionale del giudice nazionale alla luce del contesto interno di riferimento, sia alla Corte edu di fornire risposte  precise a quesiti precisi. Ciò che consentirebbe, altresì, il superamento di quei possibili contrasti interni alla giurisprudenza convenzionale che sono essi stessi forieri di incertezze (Tancredi) e che spesso comprimono il ruolo della giurisprudenza convenzionale, chiamando il giudice a scelte che poi, inevitabilmente, prestano il fianco a critiche anche sotto il profilo del rispetto del quadro convenzionale stesso.

    In definitiva, il contatto diretto del giudice nazionale col caso e la presa in carico della richiesta di parere preventivo da  parte della Corte edu  avrebbero plurimi vantaggi valorizzando i dialoganti, ciascuno nel proprio ambito.

    In questa prospettiva sussidiarietà e centralità dell’interpretazione da parte della Corte edu vengono a fondersi e ad amalgamarsi, per modo che non vi può essere l’una senza l’altra. Si tratta di un rapporto di reciproco scambio, di un’alleanza che non elimina né intende eliminare affatto le diversità ma che, tutta al contrario, si alimenta costantemente per effetto dell’agire dell’una Corte grazie all’attività dell’altra. E benissimo ha fatto Marina Castellaneta a ricordare un frammento di Cass.n.13000/2019 quando sottolinea che determinato il processo di continuo scambio fra le giurisdizioni  che caratterizza l’attuale contesto storico favorisce “…la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica”.

    Ora, fin prima dell’entrata in vigore del Protocollo n.16 questo rapporto viveva su binari che non consentivano alcun contatto diretto del giudice nazionale con quello convenzionale. Il Protocollo n.16 ha inteso creare tale possibilità di confronto diretto ( e franco) fra i giudici nazionali e la Corte edu. E bene si fa a cogliere gli aspetti positivi e fecondi (Tancredi, insieme a Castellaneta e Di Stasi) senza sottacere la finalità dello strumento e la centralità della Corte edu in sede di risposta alla richiesta di parere. Molto intrigante la riflessione di Antonello Tancredi  quando ritiene che “… la richiesta di parere conferisce voice, partecipazione, possibilità di rappresentare il proprio patrimonio giuridico e costituzionale al giudice di Strasburgo, onde scongiurare il rischio di una exit, di una rottura tra i due livelli.”

    È, quest’ultima, una nitida rappresentazione dell’an sotteso al varo del Protocollo n.16, dalla quale emerge in maniera nitida la straordinaria forza assunta dal giudice nazionale allorché decide di rivolgersi alla Corte edu attraverso una decisione che è intrisa di dialogo alla pari, di messa a disposizione  dell’esperienza nazionale, di riflessione proveniente da una giurisdizione di ultimo livello, in tesi capace di offrire una prospettiva unitaria del sistema interno all’attenzione dei giudici di Strasburgo. Una giurisdizione, dunque, che non abdica al proprio ius dicere ma che, anzi, intende qualificarlo, arricchirlo e rafforzarlo.

    Resta ovviamente da verificare il problema, pure oggi nuovamente sottolineato, della tendenza della Corte edu  a superare i bilanciamenti operati a livello nazionale con altre forme di bilanciamento  quando il giudice europeo  ritiene che la soluzione espressa in ambito nazionale non sia conforme alla CEDU. Ma questo tema, insieme ad altri problemi di coordinamento delle diverse voci delle giurisprudenze nazionali e sovranazionali, è forse davvero improbo tentare di risolvere in questa sede ed via sistematica o astratta, né può avere ricadute sulla questione della ratifica dei Protocolli di cui si è detto.

    Non meno complesso risulta il tentativo di modulare la portata della giurisprudenza convenzionale, come si è detto casistica per antonomasia, differenziando la forza  vincolante delle pronunzie della Corte edu sul piano delle ricadute nei confronti delle giurisdizioni nazionali.

     Non sembra peregrino, infatti, come già si è provato ad affermare in altra occasione, distinguere  le questioni che attengono alla applicazione ed interpretazione della CEDU sui quali si pronunzia la Corte edu  lasciando, invece, al piano della decisione del caso concreto l’attuazione dei detti principi operata dalla stessa Corte europea nella vicenda oggetto di esame. Tale distinzione potrebbe dunque servire a selezionare le parti delle decisioni della Corte edu che il giudice nazionale ha il dovere di tenere in considerazione, escludendo la valenza ermeneutica dei punti  della decisione che attuano il principio nel caso concreto e che risultano destinate ad operare (solo) all’interno del ricorso azionato innanzi a sé – o di quelli identici - e non all’esterno, per altre vicende.

    Di non minore impatto risultano le riflessioni offerte al tema dell’autonomia e indipendenza dei giudici.

    Si è spesso parlato sulla natura giurisdizionale e politica della Corte costituzionale per differenziarne ruolo e funzioni rispetto alla giurisdizione comune. Dibattito che oggi più che mai torna all’attenzione degli operatori, all’indomani del varo delle modifiche regolamentari sul tema dell’amicus curiae e dell’intervento di terzi nel giudizio costituzionale.

    Ora, le tre personalità dell’Accademia di matrice europeista-internazionalistica non mancano qui di scandagliare  il perché e il come dell’autonomia e indipendenza del giudice sovranazionale, collocandola nella sua corretta dimensione (quella sovranazionale) e al contempo sottolineando i nodi problematici che emergono dalla disciplina relativa alla scelta del giudice nazionale che va a ricoprire il posto spettando al giudice nazionale che viene sostituito.

    Le peculiarità della giurisdizione di Strasburgo cominciano così ad essere conosciute e messe al servizio della comunità degli operatori giudiziari, abbattendo quella cortina fumogena che aveva inteso confinare la CEDU ed il suo giudice all’interno delle ovattate stanze degli studiosi ed invece portando quel sistema materialmente dentro alle Corti nazionali. Le quali ultime, peraltro, partecipano a pieno titolo a queste riflessioni, proprio perché da quelle Corti sovranazionali traggono alimento alla loro stessa autonomia e indipendenza.

    Cardini ed ancoraggi, questi ultimi, dei quali il giudice di Strasburgo – come anche la Corte di Giustizia- si fanno garanti, in una prospettiva che pone al centro il rule of law. Di straordinario rilievo è stato, a tal proposito, il riferimento alle vicende che hanno riguardato l’ex Presidente della Corte suprema ungherese, Andras Baka, che ha fatto Marina Castellaneta. Ciò val quanto dire che salvaguardare l’indipendenza dei giudici delle Corti sovranazionali significa proteggere l’autonomia delle giurisdizioni nazionali.

    Dunque sempre di più dialogo e cooperazione, in una prospettiva che non può ritenersi confinata nelle aule delle Corti di ultima istanza ma che, per essere feconda e proficua, deve necessariamente coinvolgere i giudici di merito e, prim’ancora, le generazioni che si formano all’interno delle Università e negli ordini professionali.

    Una fame di formazione in materia che anche le risposte oggi raccolte contribuisce ad evidenziare ed alimentare.



     

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