Il delitto Pinelli e il diritto alla verità*
Intervista di Paola Filippi a Carlo Smuraglia
Sommario: 1. La scelta dell’intervista.- 2 le domande. – 3. Le risposte. – Le conclusioni.
1.La scelta dell’Intervista.
La notte tra il 15 e 16 dicembre del 1969 Giuseppe Pinelli morì precipitando dalla finestra della questura di Milano. Era stato fermato il 12 dicembre del 1969, poche ore dopo l’esplosione della bomba a piazza Fontana e portato lì dove sarebbe morto.
Sono passati cinquant’anni e non si conosce la dinamica della caduta o meglio chi la cagionò. La morte di Giuseppe Pinelli è ancora la Morte accidentale di un anarchico, come la scrisse Dario Fo, senza verità.
Nessuno si è pentito, nessuno ha parlato, nessuno dopo 10 anni, 30 anni o ora dopo 50 anni, ha pensato: è ora di confessare.
Il Presidente Napolitano – come ci ricorderà Carlo Smuraglia- ha detto che Giuseppe Pinelli è stato vittima due volte, “prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”.
Ma Giuseppe Pinelli non è vittima due volte bensì tre volte, è stato leso anche il diritto di verità nella dimensione plurale in cui tale valore si declina: quello immortale di Pinelli e dei suoi familiari ed anche quello collettivo della società civile, al cui interno viene sempre più emergendo un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato.
Con l’intervista a Carlo Smuraglia, professore e avvocato, consigliere del Csm nel quadriennio 1986-1990, senatore della Repubblica, difensore di parte civile della famiglia Pinelli, Giustizia Insieme oggi vuole rendere onore e ricordare Giuseppe Pinelli.
L’omicidio impunito di Giuseppe Pinelli di cinquant’anni fa offre un altro spunto di riflessione -dopo l’intervista a Giovanni Tamburino alla quale l’intervista di Carlo Smuraglia come vedrete si collega- sulla funzione giurisdizionale, sull’indipendenza, sul rispetto della dignità umana e dell’habeas corpus.
La responsabilità di tutti gli operatori di giustizia verso il diritto alla verità.
Carlo Smuraglia, come leggerete, ci introduce con sapienti tratti descrittivi, all’Italia degli anni settanta in uno scenario apparentemente molto diverso dall’attuale. Ma il monito, attraverso il cenno ai fatti di Genova del 2011 e al caso Cucchi, richiama al realismo: quanto è accaduto può ripetersi.
1.Le domande
1.Gentilissimo Prof. Carlo Smuraglia, lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969. Vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagini e se, secondo lei, ci fu un momento in cui, nel corso delle indagini, i magistrati furono vicini alla verità?
2.Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
3. Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
4. Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani, li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
5. Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
6. Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
7. Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
8. Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
3. Le risposte
Gentilissimo prof. Carlo Smuraglia lei è stato avvocato di parte civile nel procedimento penale aperto a seguito della morte di Giuseppe Pinelli, avvenuta la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, vorremmo far conoscere ai lettori di Giustizia Insieme e dalla sua voce i particolari di quella vicenda, ancora oscura dopo cinquant’anni. Cosa si ricorda di quell’incarico, da chi lo ricevette e quando, quanto durò il procedimento, quali furono le indagine e se, secondo lei, ci fu un momento in cui nel corso delle indagini i magistrati furono vicino alla verità?
Carlo Smuraglia : alla prima domanda rispondo – come in altri casi simili - richiamandomi a quanto ho scritto in un mio piccolo libro del 2018 (“Con la Costituzione nel cuore “, edizioni del Gruppo Abele), in particolare alle pagine 106 – 107 (che allego, per comodità). Aggiungerei: L’estraneità totale, rispetto ai fatti, di Giuseppe Pinelli fu ampiamente riconosciuta dalla sentenza istruttoria redatta dal dott. D’Ambrosio, ma - in più - alcuni anni dopo dal Presidente della Repubblica Napolitano, in occasione di una giornata della memoria (9 maggio 2009), che non solo restituì completamente la piena dignità a Giuseppe Pinelli, confermando la sua totale estraneità rispetto ai fatti, ma lo definì come “innocente, vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un’ improvvisa, assurda, fine”
Quello per la morte di Giuseppe Pinelli fu un processo di grande delicatezza, anche per le sue implicazioni politiche. Lo seguii dall'inizio per conto della vedova e delle figlie, allora bambine. Pinelli era morto, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, precipitando da una finestra della Questura dove era stato illegittimamente trattenuto e interrogato. Le prime indagini si conclusero rapidamente con un decreto di archiviazione: furono indagini frettolose e lacunose. C'era una gran fretta di chiudere la vicenda perché, sul versante istituzionale, tornava comodo a molti sostenere che si era trattato di un suicidio, sia per confermare la matrice anarchica della strage e la responsabilità di Pietro Valpreda (allora in carcere) sia per salvaguardare l'operato della polizia. Il Questore di Milano — dopo la morte di Pinelli — se ne uscì con una frase diventata famosa: «Apprezzavo molto Pinelli. Era un cavaliere dell'ideale e quando gli abbiamo detto che Valpreda aveva confessato, ha gridato: "per l'anarchia è finita" e si è buttato dalla finestra». Una cosa davvero vergognosa. Ma in quel contesto anche una parte della magistratura non colse la gravità dell'accaduto, tant'è che le indagini si conclusero rapidamente.
A quel punto la vedova Pinelli, consigliata dagli amici che la sostenevano, si rivolse a me e ad alcuni altri avvocati per ottenere la riapertura dell'istruttoria e per costituirsi nel processo come parte civile. Decidemmo di rivolgerci alla Procura generale di Milano, retta da un magistrato di grandissimo prestigio, Luigi Bianchi d'Espinosa, noto negli ambienti culturali e politici come democratico, liberale e grande giurista. La vedova Pinelli presentò una denuncia per omicidio nei confronti degli agenti e dei funzionari presenti nella stanza della Questura durante l'interrogatorio del marito, o vicini, come il commissario Luigi Calabresi. Accadde allora una cosa grave e anomala: il difensore degli imputati mi denunciò per calunnia. La cosa era insidiosa e mirava a bloccare il processo. Peraltro, la vedova Pinelli — sentita dai magistrati — si assunse la responsabilità diretta del contenuto della denuncia, dichiarando che io mi ero limitato a fornirle consigli sul piano strettamente giuridico e confermando in pieno la sua volontà che i colpevoli fossero puniti. Ciononostante, rimasi, per ben due anni, nel processo come imputato, prima di uscirne totalmente prosciolto.
Il clima fuori dal tribunale era molto pesante. La vicenda di questo anarchico caduto da una finestra della Questura suscitò subito interesse, passioni e aspre polemiche. Camilla Cederna, giornalista e inviata de L 'Espresso, fu tra i primi, insieme a Corrado Stajano, ad accorrere in Questura quando si diffuse la notizia della morte di Pinelli. Da allora, pur essendosi fino a quel giorno occupata di tutt'altro, si impegnò in prima persona, promosse e partecipò a eventi su quel tema di grande risonanza. Ci furono tantissimi dibattiti pubblici, ci fu lo spettacolo teatrale di Diario Fo, si impegnò gran parte del mondo della cultura: una parte della stampa capi’, infine, che bisognava fare chiarezza.
Titolare del processo era nel frattempo diventato il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio. Su nostra richiesta venne disposta la riesumazione del cadavere di Pinelli ma, purtroppo, era ormai passato troppo tempo e non fu possibile acquisire elementi utili a chiarire la dinamica dei fatti. Si fecero anche molte prove per stabilire, in base alla traiettoria della caduta, se questa fosse propria di un corpo inerte oppure se si potesse ipotizzare una spinta. Purtroppo, gli esperimenti non produssero risultati significativi, anche perché poco sotto la finestra c'era un cornicione e ciò rendeva possibile che il corpo di Pinelli non fosse caduto direttamente al suolo ma fosse rimbalzato dopo averlo urtato. Un esperto consulente costruì — su nostra richiesta — un manichino del peso e delle dimensioni di Pinelli, che fu gettato dalla finestra e rimbalzò sul cornicione prima di precipitare al suolo, rendendo impossibile una conclusione tecnicamente valida. Si fecero anche delle simulazioni con un tuffatore che cadeva da un trampolino in una piscina. Si compirono, cioè in questa seconda fase, molti sforzi per giungere alla verità, ma non ci si riuscì e il processo si concluse con un proscioglimento generale.
Quanto segnò la sua attività professionale l’essere stato l’avvocato di parte civile di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: la vicenda “Pinelli” ha segnato profondamente la mia vita professionale, per essere stato testimone di una grave tragedia e di una ingiustizia, ma anche la mia vita personale, perché ho conosciuto e frequentato una persona di estrema dignità come Licia Pinelli e le sue figlie coraggiose, Silvia e Claudia, ed anche perché ho visto e seguito di persona il lavoro di un gruppo di giornalisti seri ed indipendenti, che, a partire dalla tragica notizia, fecero di tutto per raggiungere la verità e per informare i cittadini, trovandosi, non di rado, contro corrente.
Sono cose che non si dimenticano ed incitano ad essere ancora più rigorosi nella vita, nella professione e nella politica. Insomma, ne sono uscito “diverso” e certamente non in senso peggiorativo. Si è alimentata ulteriormente la mia convinzione di sempre, che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, a qualunque costo.
Quali sono le persone che nell’ambito di quel procedimento hanno inciso di più sulla sua memoria in positivo e quali quelle che hanno inciso in negativo?
In qualche modo, ho già risposto: sulle esperienze e frequentazioni devo aggiungere anche il mio fortissimo apprezzamento per diverse persone che hanno aiutato Licia e le figlie a sopravvivere a tanto dolore, offrendo un’amicizia e un sostegno incomparabili.
Ho valutato negativamente, invece, il comportamento di tutti coloro che non cercarono la verità, ed anzi tentarono di ostacolarla o comunque si comportarono in modo disumano. Ricordo fra l’altro, il Tribunale civile, che respinse la domanda legittima di risarcimento di Licia Pinelli, fondata sul semplice principio di affidamento (un uomo non può entrare vivo in un palazzo delle istituzioni ed uscirne praticamente senza vita), e addirittura la condannò alle “spese di giustizia”.
Nel corso della sua carriera ha frequentato molti magistrati italiani li ha visti lavorare e ha lavorato a fianco a loro, quali furono le difficoltà che secondo lei incontrò l’autorità giudiziaria italiana?
Carlo Smuraglia: le difficoltà per l’accertamento della verità furono rappresentate dal tentativo di chiudere rapidamente una vicenda “scottante”, lasciando sospetti e dubbi sulla stessa condotta di Pinelli, per lungo tempo. Ma il “potere” politico aveva deciso che la colpa doveva essere degli anarchici e questo prevalse su tutto, fino a quando, in vari momenti e in varie forme, si è potuto stabilire che in Piazza Fontana c’era stata una strage voluta e messa in atto dai fascisti e “tollerata” da una parte delle stesse istituzioni. Naturalmente questo giudizio negativo non coinvolge tutti quei Magistrati del Veneto e di Milano, che fecero il possibile per stabilire ed acquisire la verità sulla strage e sulla morte di Pinelli.
Dalla fine degli anni sessanta ad oggi come è cambiata la magistratura in termini di indipendenza?
Carlo Smuraglia: Non vorrei fare confronti. A me sembra che, nel complesso, la Magistratura abbia oggi un livello notevole di indipendenza, comunque da conservare ed irrobustire, nell’interesse della collettività. Peraltro io, che sono profondamente interessato non solo alla giurisdizione, ma anche e soprattutto alla “cultura” della giurisdizione, penso che occorra lavorare ancora di più per ottenere il massimo dell’indipendenza “interiore” del Magistrato. Questo richiede una particolare cultura e una particolare formazione, sulle quali penso che dovrebbe svolgere ancora più intensamente il suo ruolo la Scuola Superiore della Magistratura.
Sono inoltre convinto che non sempre la “cultura della giurisdizione”, nel senso più ampio e completo, riesce ad affermarsi, anche e soprattutto nelle nuove leve. Occorre sempre una piena consapevolezza della importanza, delicatezza e responsabilità del Magistrato, evitando ogni forma di alterigia, che poi finisce per allontanare il cittadino, anziché avvicinarlo alla giustizia.
Ci sono stati episodi analoghi al malore attivo di Giuseppe Pinelli?
Carlo Smuraglia: mi risulta che ci siano stati in altre epoche e in altri Paesi, episodi di persone “cadute” dalle finestre dei palazzi delle istituzioni, ma non conosco esattamente i casi in questione. Quanto al “malore” (l’aggettivo “attivo” non è nella sentenza, ma è frutto di successive semplificazioni), si trattò solo di un’ipotesi, priva di qualsiasi rilevanza giuridica, formulata da un Giudice Istruttore, peraltro noto per la sua preparazione e la sua indipendenza. Fu solo un ragionamento (superfluo) per indicare la possibile soluzione di un caso per il quale non erano emerse prove concrete di responsabilità e non era possibile ipotizzare un suicidio. Un tentativo di spiegazione, che peraltro suscitò molti malumori e accuse che ritengo infondate. Insomma, D’Ambrosio avrebbe forse fatto meglio a non prospettarla in un provvedimento, ma si può capire anche l’intima difficoltà di un Magistrato che si senta impotente a “spiegare” le ragioni di un evento così tragico.
Potrebbe accadere ancora quello che accadde il 16 dicembre 1969?
Carlo Smuraglia: Per escludere ogni rischio, bisogna che le istituzioni, ad ogni livello, si ispirino in modo profondo, coerente e senza incertezze, alla sostanza della democrazia, che implica rispetto per la persona e per la dignità, oltre che per la vita. Le vicende di Genova del 2011 – sotto questo profilo – preoccupano, perché oggi non dovrebbero essere concepibili comportamenti che la Corte europea di diritti ha definito come torture. E lo stesso va detto per il caso Cucchi. E’ necessario che la democrazia venga vissuta come il fondamento della convivenza civile, nel pieno rispetto della persona, in ogni momento e sotto qualunque profilo. In questo senso, si sono fatti certamente dei passi in avanti, ma la nostra democrazia ha ancora bisogno di penetrare più a fondo nelle istituzioni. Altrimenti, tutto è possibile, anche se dovremmo ormai considerarci vaccinati, dopo un dopoguerra come quello che abbiamo vissuto (stragi, tentativi di golpe, terrorismo, abusi d’autorità, ecc.).
Cosa pensa della ricorrente proposta di separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante, come potrebbe influire sul giusto processo? In che modo lo può essere anche per la parte civile?
Carlo Smuraglia: sono nettamente contrario alla separazione delle carriere. Il Pubblico Ministero deve restare all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo. Il rischio, separando, è quello di “asservire” il Pubblico Ministero all’esecutivo o quanto meno, di avvicinarlo troppo ad esso, a scapito dell’indipendenza
4. Conclusioni
Carlo Smuraglia è stato uno dei protagonisti positivi di questa storia, uno di coloro che non si sono mai arresi.
Come Davide davanti a Golia, l'avvocato Smuraglia davanti a questo delitto ad opera di ignoti in un palazzo dello stato, non ha piegato il capo.
Un avvocato, processato per calunnia, che non ha esitato ad agire secondo coscienza davanti alla tragica ingiustizia di quel fine anno del 1969, i cui semi infetti hanno avvelenato la storia successiva del nostro paese con altre vittime illustri.
Le sue parole sollecitano più di quanto ci saremmo aspettati, non la rabbia, ma l’equilibrata riflessione sulle cause, i rischi che vicende analoghe si ripetano, la necessità di predisporre strumenti di difesa.
Per la polizia giudiziaria, per l’avvocato e per il magistrato la soluzione è nel rispetto e nell’ascolto.
Carlo Smuraglia, in perfetta consonanza con lo spirito di Giustizia Insieme, si è rivolto agli avvocati ricordando loro che un buon avvocato deve credere in quello che fa e comportarsi sempre secondo coscienza, ai magistrati, per i quali richiama l’essenzialità della “cultura” della giurisdizione, per arrivare alla massima espansione dell’indipendenza “interiore” del Magistrato.
Attento alla cultura della giurisdizione segnala quanto è importante che il Pubblico Ministero resti all’interno del sistema processuale al pari degli altri Magistrati, perché l’unitarietà della giurisdizione - quale che sia il ruolo dei suoi componenti - deve essere sempre garantita, nell’interesse e in nome del popolo e il tragico delitto Pinelli è una buona occasione per ricordarlo.