1. La normativa censurata 2. La sua logica ispiratrice 3. L’intervento della Corte Costituzionale 4. Gli effetti immediati 5. La prospettiva
1. La normativa censurata
Il D.lgs. 4 marzo 2015 n.23, in attuazione della delega conferita con la l. n. 183 del 2014, aveva previsto per i licenziamenti non sorretti da giusta causa e giustificato motivo nel nuovo contratto c.d. a tutele crescenti (diversi da quelli discriminatori e disciplinari in cui sia insussistente il fatto materiale contestato) un’indennità pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità. L’art. 3 del d.l. 12 luglio 2018 n. 87 (c.d. decreto dignità) ha rivisto in aumento tali limiti, portandoli da un minimo di sei ad un massimo di 36 mensilità.
2. La sua logica ispiratrice
La riforma manifestava, in modo inequivoco, l'intendimento di garantire la certezza per l'impresa dell'entità del c.d. “costo di separazione”, così riducendo al minimo possibile l'alea dell'esito del giudizio e con questa l'entità del contenzioso giudiziale. In tal modo esso segnava una svolta significativa, non solo nell’ambito della valutazione demandata al giudice nell’individuazione del tipo e della misura della sanzione, ma anche nel rovesciare la prospettiva basata sul risarcimento del danno in funzione riparatoria e dissuasiva, in quanto, se è vero che secondo gli approdi dell'analisi economica del diritto, l'obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato, la sanzione, discrasica rispetto ai canoni tradizionali del risarcimento civilistico, non presentava un aspetto di effettiva deterrenza , così manifestando che altre erano state le priorità valorizzate nel caso dal legislatore.
Imponendo un indennizzo certo nel quantum, l’intervento era teso anche ad eliminare la discrezionalità del giudice, i cui approdi erano spesso ritenuti privi di affidabilità e di tenuta temporale.
3. L’intervento della Corte Costituzionale
La scelta così espressa dal legislatore non ha superato indenne il vaglio della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 194 del 25.9.2018 ha dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato ancorato solo all’anzianità di servizio.
I contrasti con la Carta Costituzionale sono stati individuati nella violazione dell’art. 3, sotto l’aspetto dell’ingiustificata identità di tutela assicurata per situazioni che possono essere molto diverse, quanto alla gravità del pregiudizio subito dal lavoratore. Inoltre, la qualificazione come indennizzo non fa perdere all’importo stabilito la primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato, e sotto tale aspetto la norma contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, stante l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo; essa neppure determina un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, così negando un equilibrato componimento degli interessi in gioco.
La previsione è stata ritenuta inoltre in contrasto con il «diritto al lavoro» , sancito dall’art. 4, primo comma, Cost. e con la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), che comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, che risulterebbero di difficile realizzazione in un sistema caratterizzato dalla mancanza di un’adeguata salvaguardia del posto di lavoro.
Valorizzando l’integrazione tra le fonti, la Corte Costituzionale ha infine ritenuto la norma in contrasto con gli artt. 76 e 117 della Costituzione, tramite l’art. 24 della Carta Sociale Europea del 3.5.96, ratificata dall’Italia con l. 30/99, che, in armonia con l’art. 35 della Costituzione, impegna le parti a bilanciare la facoltà di licenziamento senza valido motivo con il riconoscimento al lavoratore di un congruo indennizzo. Dopo avere richiamato le precedenti affermazioni sull’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e sul riconoscimento dell’autorevolezza delle decisioni del Comitato, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018), ha affermato che l’art. 24, che si ispira alla Convenzione OIL n. 158 del 1982, non fa che esplicitare sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, della Costituzione e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in coerenza con quanto affermato sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost.
4. Gli effetti immediati
l nuovo testo “sforbiciato” dalla Corte costituzionale è ora il seguente: “Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
L’ intervento della Consulta non impone quindi il risarcimento in forma specifica della reintegrazione, né rivede i limiti minimo e massimo dell’indennità come individuati dal legislatore, ma opera sul meccanismo della sua determinazione, che non sarà più automatico: in motivazione, indica il modo in cui il giudice dovrà quantificarla, all’interno dei limiti previsti, tenendo conto, oltreché dell’anzianità di servizio, anche degli altri criteri desumibili dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, vale a dire il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
5. La prospettiva
La disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo dettata dal Jobs act, pur denotando un arretramento del sistema di tutele, si è posto nel contesto di una regolazione europea della cd. governance economica, operando una comparazione di interessi e valori costituzionali con esito che propendeva per la valorizzazione delle esigenze dell’economia.
La Corte Costituzionale ha voluto ristabilire la logica che deve permeare tale comparazione ed individuare i limiti che incontra la discrezionalità del legislatore, ribadendo che il punto di equilibrio deve comunque essere trovato nell’equo contemperamento di valori contrapposti, senza che i diritti fondamentali posti a tutela della libertà e dignità delle persone, quali il diritto al lavoro, possano essere irragionevolmente compressi o sacrificati. Ha inoltre ribadito il ruolo fondamentale della discrezionalità del giudice, che “all’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa... risponde all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza”.
Sono principi fondanti, che responsabilizzano così il legislatore come i giudici e che riportano al centro dell’attenzione il sistema delle tutele e i valori della persona, principi dei quali , anche al di là del caso affrontato, dovremo tenere conto.
Paola Ghinoy