Oggi si parla della “presa delle funzioni”, della presa delle funzioni qui, a Catanzaro e in Calabria.
E credo che per parlare di questo, dell’esperienza che qui vi aspetta, il discorso debba esser fatto al passato e al presente, ma soprattutto al futuro, guardando all’esperienza che è stata, ed è, ma ancor di più all’esperienza che potrebbe essere.
Per questa ragione il mio intervento è un discorso su quelli che mi sembrano essere i punti critici dell’esercizio della giurisdizione in questa sede. Una critica, quindi, che da un lato è una autocritica e, dall’altro, un appello a chi ha appena preso le funzioni qui per tentare di mettere in moto qualche cambiamento.
Sono quattro le parole che possono sintetizzare quello di cui vorrei parlare. Le prima parola è numeri. La seconda è timore. La terza è dialogo. La quarta parola, invece, la lascio per la conclusione.
La prima parola è “numeri”, intesi come scusa e pretesto.
“I numeri sono alti perché le iscrizioni e pendenze elevate, dai numeri si giudica la giustizia e quindi la giustizia si assicura garantendo buoni numeri”. Tra le tante cose che si dicono, il rumore di sottofondo che spesso si sente durante le giornate di lavoro è questo.
In una realtà giudiziaria come quella attuale - in cui si tenta di svuotare il mare con una disorganizzata conchiglia - l’affanno costante, e proclamato, sui numeri determina inevitabilmente un approccio all’esercizio della giurisdizione basato sulla perenne emergenza.
Questo ha due conseguenze immediatamente percepibili.
La prima è che i numeri, e quindi l’approccio d’emergenza, sono la scusa per ogni cosa, per ogni prassi, anche la più svilente e deleteria. E ciò perché, si dice, non si può fare altrimenti. Udienze-mercato con decine e decine di procedimenti; gestione del ruolo con la finalità prevalentemente della statistica; decadente qualità delle decisioni e della gestione delle udienze (che forse non bisogna dimenticare è il principale veicolo attraverso cui la cittadinanza vede e percepisce i magistrati e la giustizia); un complessivo caos che aumenta in modo ipertrofico e ingiustificato il potere del magistrato (che con un rinvio, sempre giustificato dal “carico del ruolo”, può decidere le sorti di un procedimento); l’impossibilità di individuare le effettive responsabilità di una mala gestione dei ruoli e delle sezioni.
La scusa dei “numeri” porta a trasformare tutto in carta. Le cause sono carte da “smaltire” (e di “smaltimento” parlano i piani di gestione), i diritti dei cittadini sono carte, le persone sono carte e le responsabilità sono solo sulla carta. Con la conseguenza che anche la giustizia diventa di carta, una tigre di carta che perde progressivamente la fiducia e il rispetto della cittadinanza.
La seconda conseguenza è che i “numeri”, l’approccio d’emergenza sui “numeri”, determinano nel magistrato, soprattutto alle prese con le prime funzioni, quell’occupazione costante che contribuisce a formare e a consolidare il disinteresse e la mancanza di partecipazione dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione. Esercizio della giurisdizione che significa anche organizzare la giurisdizione, progettare la giurisdizione e non limitarsi a scrivere provvedimenti.
E così non c’è il tempo per fare la spesa, figuriamoci se c’è tempo per dialogare, discutere e occuparsi di cambiare prassi, organizzazione, di politica giudiziaria, figuriamoci se c’è tempo di curare orientamenti o sentenze che possano contribuire alla giurisprudenza.
La giurisdizione così perde l’apporto soprattutto delle sue forze più fresche, e smorza gli entusiasmi, affogando tutto nei numeri e nell’emergenza perenne. Risulta sempre più difficile risolvere i problemi alla radice e la Giustizia si mostra debole nel cambiare se stessa, debolissima nel contribuire al progresso della società in cui opera.
La seconda parola è “timore”, intesa come presenza.
E’ il timore dello spauracchio del disciplinare, delle valutazioni di professionalità, di intoppi nella carriera.
Un timore che si fonda, credo, su tre cose: ritmi che rendono l’errore inevitabile e il senso di stare in difetto costante; la scarsa trasparenza delle regole, dei dati, dei procedimenti e delle logiche delle decisioni dei direttivi e dell’autogoverno; la diffusa pratica della vicinanza correntizia usata in modo, diciamo, poco ortodosso.
Il risultato è che il sistema attuale si è sviluppato in un modo tale che chi non dovrebbe temere niente, chi esercita la giurisdizione in modo serio, comunque un poco teme e in qualche modo si ritira, si mette da parte.
Colui che, invece, dovrebbe temere - chi non esercita seriamente la giurisdizione - vivacchia abbastanza indisturbato, raggiunge le giuste statistiche, si occupa di presenziare all’evento giusto, nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a mettersi una mano sul cuore.
Il timore è poi anche quello di scontentare, di cambiare.
E non mi riferisco alle sentenze ma a al timore di prendere decisioni relative a come si esercita la giurisdizione. Decisioni che scontentano colleghi, direttivi o il foro ma che possono cambiare tante prassi e tanti atteggiamenti di compromesso al ribasso che bloccano la giurisdizione effettiva in favore di una giurisdizione burocratica e difensiva.
E c’è da dire che tante volte il magistrato, soprattutto se di prima nomina e con almeno quattro anni davanti nella stessa sede, è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a preferire di accettare la prassi o la decisione sbagliata per non mettere a rischio i rapporti con colleghi e direttivi che dovrà vedere ogni giorno in ufficio.
La terza parola è “dialogo”, inteso come assenza.
Il dialogo, il confronto partecipato sui problemi e le soluzioni, manca tra magistrati, tra i direttivi, tra le sezioni, tra i diversi uffici, manca con la cittadinanza.
La mancanza di dialogo è sia causa che effetto della totale assenza di progettualità.
I problemi della giurisdizione sono male inquadrati e affrontati con soluzioni precarie e istantanee, di regola autoritative, che mostrano la loro fragilità dopo poco tempo.
Non vi sono progetti che riguardano l’esercizio della giurisdizione, la giurisdizione non è progettuale, non vi è coinvolgimento, soprattutto dei magistrati di prima nomina, in un pensiero organizzato ed orientato ad un futuro più lungo del problema che si presenta quel giorno alla porta.
Il Tribunale si riduce così ad essere un posto in cui si esercita solo il potere della decisione, invece di essere un luogo in cui si esercita la responsabilità della giurisdizione.
L’ultima parola è “opportunità”, parlo dell’ opportunità di cambiare tante cose.
L’esperienza calabrese è per tanti versi unica, da nessuna parte vi è un così alto tasso di giovani all’interno degli uffici che provengono da esperienze diverse da ogni parte d’Italia. Da nessuna parte si assumono così rapidamente ruoli delicati ed importanti.
La giurisdizione poi, qui in Calabria, è qualcosa di davvero importante, ha una netta forza conformativa nei confronti della società che va oltre il diritto.
Quel che voglio dire è che la presa delle funzioni qui, deve essere considerata come presa delle responsabilità che la giurisdizione comporta, non solo la presa d’atto che bisogna scrivere dei provvedimenti.
La maggior parte di noi qui in Calabria - e concludo - sono di passaggio, e sappiamo bene che fra qualche anno ce ne andremo. Ma questo non significa che non possiamo fare qualcosa e soprattutto lasciare qualcosa.