Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Lorenza Carlassare: contro la logica del potere
di Giuditta Brunelli
Sommario: 1. Pensiero e metodo di una Maestra del diritto costituzionale – 2. La rilettura del concetto mortatiano di “costituzione materiale” e il passaggio dall’ordinamento liberale al regime fascista – 3. Sovranità popolare e rifiuto della democrazia d’investitura – 4. La riflessione sulle trasformazioni del sistema delle fonti – 5. Forma di Stato, effettività dei diritti sociali e ruolo della Corte costituzionale – 6. Nel segno della Costituzione.
1. Pensiero e metodo di una Maestra del diritto costituzionale
Quando penso a Lorenza Carlassare, all’originalità e all’attualità del suo pensiero, non posso fare a meno di ricordare ciò che per Virginia Woolf caratterizzava la grande letteratura, il «grande libro»: la capacità di aggiungere qualcosa alla nostra visione della vita (V. Woolf, Diario di una scrittrice, Roma, minimumfax, 2005, p. 142). Qualcosa che sarà destinato a restare. Molto di ciò che Lorenza Carlassare ha scritto presenta questa natura: si colloca in una posizione di singolare coerenza e rigore nel panorama del costituzionalismo italiano contemporaneo, quasi sempre offrendo un punto di vista innovativo, talora in aperta polemica con tesi comunemente (e acriticamente) accettate, e dunque capace di proporre punti di vista inediti. La sua opera, tanto nell’insegnamento quanto nella ricerca, si è sempre mossa entro un orizzonte nel quale la Costituzione rappresenta la forma vivente dell’esperienza giuridica e politica. L’idea che attraversa tutta la sua produzione è quella di un diritto costituzionale come pratica di libertà, capace di limitare il potere, di restituire senso e misura all’agire politico e di valorizzare la partecipazione consapevole dei cittadini.
Questa prospettiva si radica in una concezione della scienza giuridica che rifiuta ogni neutralità apparente. Il costituzionalista, per Carlassare, non è un tecnico del diritto, ma un interprete critico dei rapporti di potere che si inscrivono nelle norme. Tale impostazione emerge con particolare chiarezza nelle Conversazioni sulla Costituzione (nelle diverse edizioni Cedam, a partire dal 1996 fino al 2020), testo che può essere considerato la chiave di volta del suo pensiero: un punto di incontro fra didattica e ricerca, dove la riflessione teorica si intreccia con l’esperienza pedagogica e con l’impegno civile. L’opera, nata con intento formativo, aspira a fornire allo studente una «chiave di lettura del diritto costituzionale» che metta in luce «i legami tra il diritto e la realtà», rifiutando la frammentazione della materia e riportando ogni concetto al suo sfondo politico e ideologico. «La Costituzione non è un testo come gli altri: è carica delle ideologie che provengono dalla Storia. Occorre trasmettere i suoi valori, che assumono la forma di principi, perché essi sono il portato del costituzionalismo» (Carlassare su Carlassare: conversazione con una costituzionalista, di G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, in Nel segno di Lorenza Carlassare. Testimonianze e ricordi, a cura di G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Ferrara, Volta la carta, 2023, p. 26). E, in effetti, nelle[u1] varie edizioni delle Conversazioni sulla Costituzione, nel corso del tempo integrate e arricchite di nuovi argomenti, resta inalterato l’impianto di fondo: un’attenzione particolare a determinati concetti (i princìpi fondamentali e i diritti, lo Stato di diritto, la sovranità popolare, la rigidità costituzionale), principi e istituti (il principio di legalità, la riserva di legge) e per la storia costituzionale (con una particolare rilettura, come vedremo, della costituzione materiale in senso mortatiano, utilizzata per riflettere sul problema della continuità o rottura dell’ordinamento giuridico).
Da tutto questo emerge il nucleo metodologico della riflessione carlassariana: la convinzione che lo studio del diritto costituzionale coincida con la ricerca dei suoi principi, e che soltanto a partire da essi si possa comprendere la struttura complessiva dell’ordinamento. In realtà, Carlassare diffidava delle enunciazioni astratte sul “metodo”. Eppure, come spesso accade ai grandi Maestri, la sua prassi didattica e scientifica finisce per configurarne uno, preciso e riconoscibile. «Non esiste un metodo ideale», afferma, «ma un modo serio di studiare», che consiste nel riconoscere i fili rossi della materia e nel collegare i concetti alla realtà che li genera (Carlassare su Carlassare, cit., p. 29). L’insegnamento si traduce così in un esercizio di libertà critica. «Detesto l’idea di nozione», scrive; «mi interessa il sapere. Il sapere si regge su principi; lo studente deve avere chiara la fisionomia di questi principi e maneggiare il legame che li collega gli uni agli altri». I principi, aggiunge, «sono come attaccapanni ai quali puoi appendere le nozioni; ma se non possiedi i principi ti esponi all’anarchia delle parole» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 27).
Del metodo di ricerca giuridica di Carlassare, come ho avuto modo di sottolineare in altra sede (G. Brunelli, La storia costituzionale come metodo: la lezione di Lorenza Carlassare, in Democrazia e costituzionalismo. In ricordo di Lorenza Carlassare, a cura di R.E. Kostoris e G. Rivosecchi, Torino, Giappichelli, p. 81 ss.), fa parte la centralità attribuita alla storia costituzionale e ai giuristi del passato, le cui tesi riemergono sovente nei suoi scritti (cito soltanto Giuseppe Compagnoni, Gaetano Arangio-Ruiz, Federico Cammeo), nella convinzione, più volte ribadita, che soltanto volgendo lo sguardo al passato sia possibile comprendere come sono nati i concetti e gli istituti e spiegarne le successive evoluzioni. La padronanza della storia, e della storia costituzionale in particolare, è dunque essenziale in sede scientifica. Basti pensare, per fare un solo esempio, al commento all’art. 88, sullo scioglimento delle Camere, nel Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, nel quale una parte ampia e analitica dello studio è dedicata ad una attenta ricostruzione della prassi statutaria e della dottrina coeva, usate poi come termini di raffronto per l’esperienza di epoca repubblicana (Art. 88, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Tomo II, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1983, spec. p. 16 ss.).
Ma quella della storia è una conoscenza altrettanto decisiva in ambito didattico (ulteriore conferma che i due aspetti non sono scindibili nel pensiero carlassariano). Penso di nuovo alle Conversazioni sulla Costituzione, manuale di ridotte dimensioni nel quale tuttavia non poche pagine sono dedicate alla storia costituzionale, con una particolare attenzione per il passaggio dal regime liberale al regime fascista, e poi al regime democratico costituzionale. Interrogata sul punto dagli allievi ferraresi nell’intervista – già citata – con cui si aprono gli Scritti in suo onore pubblicati da Jovene nel 2009, Carlassare rispondeva di voler spiegare agli studenti, in maniera molto semplice ma essenziale, alcuni passaggi che riteneva fondamentali nella nascita del fascismo. E aggiungeva: «Quelle sono pagine che avrei sviluppato molto volentieri» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 28). Del resto, il tema dell’avvento del fascismo e della continuità o rottura dell’ordinamento è sempre stato al centro dei suoi interessi, con un punto di vista molto originale di cui dirò subito.
2. La rilettura del concetto mortatiano di “costituzione materiale” e il passaggio dall’ordinamento liberale al regime fascista
Tra i temi più interessanti della sua riflessione vi è quello della costituzione materiale, di cui propone una lettura peculiare e di indubbia utilità nella valutazione dei c.d. passaggi di regime. La Studiosa ha posto in rilievo in modo esplicito la centralità nella propria formazione giuridica del volume di Costantino Mortati (La costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1940), uno di quegli scritti «che vanno sempre alla ricerca di ciò che sta dietro alle cose» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 15). E in uno dei suoi saggi di maggiore rilievo (La “rivoluzione” fascista e l’ordinamento statutario, in Diritto pubblico, 1996, fasc. 1, p. 43 ss.) è proprio la tesi mortatiana che, opportunamente ricalibrata, le consente di individuare in modo efficace il momento in cui si è prodotta la rottura dell’ordinamento. Nel saggio l’Autrice – dopo aver sottolineato l’incertezza delle diverse interpretazioni al riguardo – passa in rassegna una serie di mutamenti (il ripudio dichiarato dello Stato di diritto, della sovranità popolare e della democrazia, la soppressione dei diritti di libertà, la rottura del principio di eguaglianza e, sul piano degli atti formali, il diniego di firma dello stato d’assedio da parte del sovrano, l’incarico irregolare dato a Mussolini e poi sanato dal conferimento della fiducia parlamentare), considerandoli «anticipazioni, segnali, di quella che sarà nella sostanza un’investitura di potere costituente: la legge “Acerbo”» (La “rivoluzione” fascista, cit., p. 49). Per Carlassare, infatti, la legge elettorale Acerbo del 1923, che assicurava i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa, rappresentò una trasformazione formale e insieme sostanziale, compiuta attraverso vie legalmente corrette. L’apparente continuità normativa celava la continuità delle forze sociali dominanti, il permanere degli stessi interessi e valori sotto principi mutati. «Il vecchio ha legittimato il nuovo», scrive, «anzi, lo ha generato».
La teoria della costituzione materiale viene in tal modo accolta ed applicata con una «significativa variante»: le forze che plasmano la costituzione non si identificano necessariamente con i partiti politici, ma con le forze sociali dominanti, i cui interessi attraversano i regimi e sopravvivono al loro mutamento. Da ciò deriva la distinzione, cruciale, tra principi travolti e interessi conservati, che consente di parlare di continuità materiale anche laddove i principi giuridici sono stati distrutti.
3. Sovranità popolare e rifiuto della democrazia d’investitura
Il tema della sovranità popolare appartiene per Carlassare al nucleo stesso dello Stato democratico di diritto. Essa ne difende una nozione estesa, che non coincide con il semplice esercizio del voto. Sarebbe riduttivo «pensare che in una democrazia le forme della partecipazione si risolvano nell’esercizio dei diritti politici in senso stretto. Anche attraverso l’esercizio di altri diritti – in particolare la manifestazione del pensiero, dell’opinione minoritaria, del dissenso e della critica politica – è possibile a ciascuno esercitare influenza e su coloro che andranno a votare e su coloro che saranno eletti» (Conversazioni sulla Costituzione, Padova, Cedam, 2020, p. 40). Ciò comporta il rifiuto dell’idea che “popolo” sia solo il “corpo elettorale”: di esso fanno parte anche i minori, che possono «iscriversi ai partiti, far propaganda, manifestare nelle riunioni, esercitare la critica politica» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, pp. 80-81). E oggi ne fanno parte anche gli immigrati, che possono esprimere le loro esigenze e attivarsi per ottenere provvedimenti e garanzie, sia attraverso l’esercizio della libera manifestazione del pensiero sia attraverso manifestazioni o cortei. In definitiva, appartengono al demo «tutti coloro i quali esercitano la loro influenza sul governo dello Stato attraverso l’esercizio delle libertà» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, pp. 28-29).
Da una simile concezione discende il rifiuto radicale della democrazia d’investitura e del sistema elettorale maggioritario (abbiamo del resto appena ricordato come proprio nell’approvazione della legge elettorale ipermaggioritaria del 1923 Carlassare avesse ravvisato un esercizio di potere costituente, tale da comportare la distruzione dell’ordinamento liberale e la sua sostituzione con un regime di tipo autoritario). In uno dei suoi scritti a cui teneva in modo particolare, intitolato appunto Maggioritario (in Costituzionalismo.it, fasc. 1, 2008), Lorenza Carlassare conduce una critica serrata ai sistemi elettorali maggioritari a partire da uno scritto di Edoardo Ruffini del 1927, Il principio maggioritario (ripubblicato da Adelphi nel 1976). Ruffini segnalava il rischio che, in determinati contesti, il principio maggioritario si trasformasse nel suo assurdo inverso, il principio minoritario. Quell’assurdo inverso, nel pensiero della nostra Autrice, si manifesta proprio in sede elettorale. Riferito, infatti, all’elezione di una o più persone, il principio maggioritario si snatura: «eletto è chi ottiene più voti rispetto agli altri candidati, anche se si tratti di una minoranza di voti entro il collegio, purché sia la minoranza più alta. In materia elettorale, “maggioritario” assume un significato specifico, contrapposto a “proporzionale”: un sistema che nel tradurre i voti in seggi consente ad una lista di ottenere più seggi di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale, falsando la rappresentanza e travolgendo il senso profondo del sistema rappresentativo» (Maggioritario, cit., par. 1).
Vi è dunque un’idea assai precisa della democrazia rappresentativa: essa vive solo nella misura in cui il Parlamento sia in grado di esprimere il pluralismo politico e sociale (inclusivo della rappresentanza declinata dal punto di vista del genere: vedi B. Pezzini, Lorenza Carlassare, un anno dopo: sulla rappresentanza politica, in Rivista AIC, n.1/2024, spec. p. 151 ss.) in assenza di meccanismi (quali il premio di maggioranza) talmente distorsivi dei risultati elettorali da porre in discussione il principio stesso di eguaglianza del voto (come ha del resto riconosciuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2014). In un altro saggio di grande importanza, Sovranità popolare e Stato di diritto (in Valori e principi del regime repubblicano, a cura di S. Labriola, I, 1, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 163 ss.), Carlassare censura con forza la peculiare interpretazione italiana del sistema maggioritario, che si traduce nel prevalente richiamo all’esigenza «di riferirsi sempre e comunque alla maggioranza uscita dalle elezioni. Quasi che queste fissassero un punto fermo e immodificabile, congelando nel tempo la volontà popolare, senza considerazione alcuna per le situazioni reali e il dinamismo della politica». È invece necessario, nel corso della legislatura, «consentire mutamenti di indirizzo politico in corrispondenza di eventuali spostamenti di indirizzo dei cittadini». Il che esclude in radice «l’idea dell’elezione come “delega” e dunque la “democrazia d’investitura”» (Sovranità popolare, cit., p. 178). La democrazia, per Carlassare, è un processo continuo di controllo e revisione del potere.
4. La riflessione sulle trasformazioni del sistema delle fonti
Sovranità popolare e Stato di diritto sono strettamente intrecciati al discorso sulle fonti del diritto, come discorso che verte essenzialmente sulle relative procedure. Se «la democrazia si è sempre caratterizzata per esigere l’attribuzione in esclusiva al popolo, dapprima, e ai suoi rappresentanti poi, di una sola funzione, la creazione del diritto», ne deriva che «chi dispone delle fonti è il padrone del sistema» (Sovranità popolare, cit., 194). Per questo, lo studio delle fonti del diritto viene sempre condotto in rapporto alla forma di governo, al rapporto tra organi. Da qui la lettura rigorosa della riserva di legge come limite posto dalla Costituzione allo stesso legislatore, che nelle materie ad esso riservate non può spogliarsi dei propri poteri normativi a favore di fonti governative secondarie, ed anche primarie (decreti legislativi, decreti legge) ove si tratti delle riserve assolute proprie dei diritti fondamentali. Da qui anche l’interpretazione in senso sostanziale del principio di legalità, che esige una previa norma a disciplina del potere della pubblica amministrazione, per garantire ai singoli il diritto al ricorso contro l’atto eventualmente lesivo dei loro diritti o interessi legittimi.
Davvero troppo ampio sarebbe il discorso sull’importanza della concezione di Lorenza Carlassare in questa materia, a partire almeno dalla notissima ed esemplare monografia Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità (Padova, Cedam, 1966), in cui viene denunciata la sopravvivenza di ideologie non compatibili con il disegno costituzionale delle fonti del diritto, e ancor prima con il principio democratico e lo Stato di diritto, respingendo con nettezza la tesi tradizionale del primato dell’esecutivo e dell’originarietà dei suoi poteri. Tesi che non cesserà mai di contestare, anche negli studi successivi. Il vero nodo – scrive nella voce Legalità - «è sempre il medesimo che si celava dietro la finzione dell’interesse nazionale, dell’interesse pubblico come dato obiettivo, e, quindi, direttamente rilevabile dagli organi amministrativi senza bisogno della mediazione degli organi (politici) rappresentativi: chi sceglie quale dei molteplici interessi e sovente contrapposti sia da privilegiare, con quali criteri ne va operata la selezione, comparazione, composizione». Nei sistemi democratici la risposta non può che essere una: «il popolo o, per esso, gli organi che ne sono diretta espressione» (Legalità (principio di), in Enc. giur. it., XVIII, Roma, Treccani, 1990, p. 3).
Mi limito qui a sottolineare l’estrema modernità della voce Fonti del diritto pubblicata nell’Enciclopedia del diritto nel 2008. Nel primo paragrafo (intitolato Le trasformazioni del sistema delle fonti) compare un vero e proprio catalogo ragionato delle molte e complesse novità, con le quali la Studiosa non esita a confrontarsi, immaginando anche soluzioni inconsuete, ma pur sempre orientate dal rispetto rigoroso del dettato della Costituzione (essendo scontata la critica alle molte e gravi deviazioni dal modello costituzionale, che come tali vanno trattate). Al catalogo si affianca un discorso sul metodo, su cui è utile soffermarsi. Anche se tutto sembra da ripensare, ciò non significa affatto mettere in causa le costruzioni teoriche generali: «Da esse, anzi, ogni indagine deve necessariamente partire per tentare la comprensione e la sistemazione del “nuovo”, cercando di discernere la parte “stabile” da quella in movimento. Su alcune questioni classiche, dunque, non è necessario tornare; basta darne conto. È sulla parte ancora magmatica che la dottrina deve ora impegnarsi, e non è compito lieve» (Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc.dir., Annali II-2, Milano, Giuffrè, 2008, p. 537). Così, affrontando l’interrogativo se possa oggi parlarsi di un diritto giurisprudenziale, giunge alla conclusione che il contributo della giurisprudenza alla conformazione stessa del sistema induca «a considerarla fonte nel senso improprio in cui lo è la consuetudine, dove fatto e norma coincidono, pur nelle diversità evidenti. Costante nel tempo il diritto consuetudinario (…), in continua evoluzione il diritto giurisprudenziale, essenzialmente dinamico, che spesso precede il diritto legislativo». E ricorda come su questioni di grande rilievo la giurisprudenza ordinaria sia stata «modello e spinta per il legislatore»: basti pensare al danno biologico o alla tutela dell’ambiente salubre (Fonti del diritto, cit., p. 545).
Altrettanto rilevante e non privo di aspetti innovativi è il ragionamento sul nuovo assetto delle fonti nell’art. 117 Cost., sia con riguardo al mutato rapporto fra leggi statali e regionali sia con riferimento ai profili internazionali e sovranazionali (in argomento rinvio a M. D’Amico, Le fonti del diritto tra ieri e oggi: il pensiero di Lorenza Carlassare, in Rivista AIC, 1/2024, p. 211 ss., spec. p. 228 ss.).
5. Forma di Stato, effettività dei diritti sociali e ruolo della Corte costituzionale
Un altro asse portante della riflessione di Carlassare riguarda la connessione ineludibile tra forma di Stato e diritti fondamentali e l’effettività dell’esercizio e della tutela di questi ultimi, al di là della proclamazione costituzionale. I diritti fondamentali «qualificano la forma di Stato, sono parte ineliminabile della Costituzione repubblicana che, ripudiata la priorità dello Stato sulla persona, già negata dalla Rivoluzione ma subito ripresa dalla reazione e poi esaltata dal fascismo, riaffermato il carattere servente dello Stato, strumento attraverso il quale i membri del popolo sovrano esercitano la sovranità, ha dato vita ad un sistema di democrazia pluralista, in cui, finalmente, i diritti formalmente proclamati potessero essere effettivi per tutti: gli artt. 2 e 3 Cost., in entrambi i loro commi, danno un senso all’intero sistema» (Forma di Stato e diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 1995, p. 56). Il discorso si completa con la considerazione che la tripartizione tradizionale fra diritti civili, politici e sociali, probabilmente ancora utile a livello didattico-descrittivo, deve in realtà ritenersi superata dal condizionamento reciproco e dalla inscindibilità degli uni dagli altri. Il che comporta che l’effettività della tutela valga anche per i diritti sociali: il loro depotenziamento cambierebbe la forma della democrazia sociale delineata dalla Carta costituzionale e una loro eventuale reformatio in peius porterebbe ad uno stravolgimento della forma di Stato, perché intaccherebbe la stessa essenza della liberal-democrazia (Forma di Stato, cit., p. 44).
Lo Stato sociale, insomma, altro non è che il necessario modo di essere di uno Stato di diritto che (a differenza di quello ottocentesco) sia anche democratico. «Se la caratteristica saliente sta nell’esistenza di diritti sociali accanto ai diritti di libertà, e dunque nell’erogazione di prestazioni da parte dello Stato (o di enti pubblici) a favore dei cittadini, l’unica conclusione che se ne può trarre è che esso non sia altro che lo Stato democratico finalmente realizzato» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, cit., p. 21). Queste premesse teoriche la condurranno nel 2013 e nel 2015 all’elaborazione di due saggi di estremo rilievo, dei cui contenuti non mancano echi nella giurisprudenza costituzionale successiva (in particolare nelle sentenze n. 275/2016 e n. 195/2024): Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2013 e Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, ivi, fasc. 3/2015, p. 136 ss. Di fronte alla scarsità di risorse e alla costante evocazione della questione dei costi in funzione di ridimensionamento dei diritti a prestazione, Carlassare afferma: «La Costituzione non è cambiata. Le difficoltà economiche non ne cancellano norme, principi, valori. Restando questi immutati, la crisi può produrre un unico effetto importante: rendere più grave e rigoroso l’obbligo di un oculato impiego delle risorse e l’obbligo di destinarle innanzitutto ai bisogni primari, alla realizzazione delle priorità costituzionali, lasciando ad altri obbiettivi ciò che eventualmente rimane». Essa distingue così destinazioni di fondi costituzionalmente doverose, destinazioni consentite e destinazioni addirittura vietate. E il controllo sulla destinazione delle risorse è affidato alla Corte costituzionale, intesa (secondo l’insegnamento di Crisafulli, ripreso poi da Paladin) come correttivo della forma di governo parlamentare e come limite all’indirizzo politico espresso dal raccordo governo-parlamento: «Già la Costituzione rigida è un limite alla maggioranza, e la Corte ne è il presidio: l’indirizzo politico non può svolgersi del tutto liberamente, perché incontra nei princìpi costituzionali un ostacolo che la Corte rende effettivo» (L’influenza della Corte costituzionale, come giudice delle leggi, sull’ordinamento italiano, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 11, Seminario 2000, Torino, Giappichelli, p. pp. 80-81. Vedi anche E. Lamarque, Lorenza Carlassare: un anno dopo: il ruolo della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 1/2014, p. 177 ss.). « Si tratta – scrive Carlassare – di chiarire i percorsi processuali, e di indurre la Corte a passare più spesso e con maggior forza dalle affermazioni teoriche alla loro applicazione: da tempo le sentenze costituzionali hanno precisato in modo corretto e chiaro la direzione imposta dalla Costituzione; da tempo hanno sottolineato il legame stretto fra esercizio effettivo dei diritti civili e politici e realizzazione dei diritti sociali: non è di oggi l’affermazione dell’ “interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici” [sent. n. 286/1987]» (Priorità costituzionali, cit., par. 4). E non manca di indicare anche la tecnica interpretativa che il giudice delle leggi potrebbe utilizzare: se la discrezionalità del legislatore non è assoluta e la ragionevolezza non ha da intendersi soltanto come “coerenza” a livello legislativo, ma in primo luogo come coerenza ai principi costituzionali, «lo schema trilatero – costruito da Livio Paladin per non lasciare al giudizio della Corte margini troppo indefiniti – potrebbe essere utilmente applicato mettendo in relazione i principi costituzionali, la norma che toglie risorse indispensabili a un obiettivo prioritario, la norma che destina risorse a un obiettivo ignorato o vietato dalla Costituzione. Agganciando il controllo sulle scelte a un riferimento sicuro – le priorità costituzionali – i limiti giuridici alla discrezionalità del legislatore (o al suo arbitrio) si precisano meglio e possono, attraverso la Corte, divenire effettivi» (Diritti di prestazione, cit., p. 154). (Sulle potenzialità e i limiti dell’applicazione in quest’ambito dello schema trilatero teorizzato da Paladin vedi G. Rivosecchi, Rapporti economici, equilibrio di bilancio e diritti a prestazione nella Costituzione. In ricordo di Lorenza Carlassare in Rivista AIC, n. 3/2025, p. 173 s. Sul tema dei diritti sociali, i vincoli di bilancio e le priorità costituzionali nel pensiero di Lorenza Carlassare vedi C. Salazar, Sui diritti sociali e il principio di solidarietà, in Rivista AIC, n. 1/2024, spec. p. 198 ss.).
6. Nel segno della Costituzione
Lorenza Carlassare aveva un’esigenza profonda di trasmettere il sapere con grande chiarezza e lucidità di pensiero, non solo agli studenti universitari, ma più in generale ai cittadini. Ne è testimonianza il volume Nel segno della Costituzione. La nostra Carta per il futuro, edito da Feltrinelli nel 2012. Si tratta di un volume di alta divulgazione, che nasce da un’urgenza: quella di sottolineare l’attitudine della Costituzione repubblicana a porsi ancora oggi come un progetto di società, un programma per il futuro, un programma umano, contro la società disumana, discriminatoria e diseguale che sempre più drammaticamente si sta delineando. Si tratta di un testo appassionato ed appassionante, che trasmette il senso profondo della Carta come documento unitario, intessuto di principi fondamentali (eguaglianza, dignità della persona, diritti inviolabili, democrazia, laicità, pace) tra loro intimamente integrati, in un disegno organico e coerente. In esso si mette in luce la grave manipolazione che subiscono, nel dibattito pubblico, le parole stesse della Costituzione: «Persino parole come libertà, eguaglianza, legalità, costituzionalismo, imparzialità, onore, diritti e doveri, dignità della persona e riservatezza possono essere usate in modo da neutralizzarne il valore o addirittura servirsene in direzione inversa, alterandone il senso. Come avviene oggi, in particolare, con democrazia, concetto impropriamente inteso come dominio della maggioranza, ignorando volutamente l’aggettivo che la qualifica: democrazia “costituzionale”. Il costituzionalismo, si sa, non piace al potere che non vuole essere sottoposto a regole e limiti» (p. 13). Il diritto costituzionale, dunque, come un’arte civile, che esige da chi la studia e la insegna non soltanto competenza, ma coraggio.
