È morto Bruno Cavallone, illustre processualista, discepolo di Enrico Tullio Liebman, il più “sistematico” degli allievi di Chiovenda.
Appassionato del tema delle prove, di cui, insieme a Taruffo, è stato il più grande studioso dell’età post carneluttiana, aveva però dedicato molti dei suoi scritti a temi extradogmatici, impegnandosi, come già altri celebri processualisti, nel settore della law and literature, contaminando quello che Satta chiamò il mistero del processo di reminiscenze dickenziane talora ludiche talaltra drammatiche, come nella fantastica borsa di Miss Flite.
Inclito cultore della poesia e della letteratura inglese, amava i versi di John Donne (una lingua inglese forbita e ignorata, diceva con nostalgia) e si divertiva ancora oggi con le vignette originali dei Peanuts, alla cui traduzione in italiano aveva dedicato fatiche non solo giovanili.
Aveva studiato funditus la storia del processo e della scienza processuale; insieme a Giuseppe Tarzia aveva commentato tutti i progetti legislativi di riforma del processo civile che si erano susseguiti dal codice del 1865 alla vigilia di quello del 1940.
Da anni, insieme a Carmine Punzi, dirigeva la Rivista di diritto processuale, dopo essere succeduto al suo amico Edoardo Ricci nella prestigiosa carica che era stata originariamente di Chiovenda e di Carnelutti e che anche il suo maestro Liebman aveva ricoperto. Era orgoglioso di dirigere la Processuale sulle orme degli amati Patres ed attribuiva rilievo soprattutto ad una rubrica, che curava personalmente, intitolata “Storia e cultura del processo” che arricchiva ogni tanto (e sistematicamente in occasione dell’ultimo numero di ogni anno, di norma pubblicato in periodo natalizio), di un suo contributo personale, cui in quell’occasione usava dare il titolo festoso di Christmas Card.
Nel periodo immediatamente antecedente alla pandemia, aveva partecipato con entusiasmo ai convegni in ricordo di Mortara e Lessona che si erano celebrati in Cassazione e al CSM. In una di queste occasioni mi disse che la nipote di Calamandrei, Silvia, e la figlia di Cappelletti, Matelda, gli avevano messo a disposizione il carteggio inedito di lettere che Carnelutti e Calamandrei si erano scambiati tra gli anni Venti e gli anni Quaranta.
Era entusiasta di poter ricostruire le vicende storiche della fondazione e dei primi anni della Rivista e pubblicò sull’argomento tre gustosissimi saggi, intitolati “Una fondazione asimmetrica”, “Una convivenza difficile”, “Una rinascita tormentata”. Dopo la pandemia era tornato a Roma una sola volta, nell’ottobre 2022, per ricevere, in Corte costituzionale, insieme al condirettore Carmine Punzi, il Premio Selvaggi per la stampa storico-giuridica, quell’anno attribuito alla Processuale. In quell’occasione, sorridendo, mi disse, riprendendo il filo di una conversazione telefonica di pochi giorni prima, che aveva finalmente scoperto chi era l’ “inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi” di cui Calamandrei aveva parlato con disprezzo nella Recensione al Trattato di Lessona recante la Prefazione di Chiovenda. Nel confidarmi il nome, mi pregò però di non rivelarlo a nessuno poiché non aveva ancora trovato la prova inconfutabile, la “pistola fumante”. Il nome lo avrebbe svelato in uno degli ultimi scritti, con la spoglia eleganza della sua inimitabile prosa.
Con rammarico non aveva potuto essere presente, invece, nel 2023, in Aula Magna, al convegno del Centenario sulla Cassazione unica, ma la sua densa relazione, illustrata “da remoto”, sarà il saggio d’apertura del Volume, in corso di stampa, in cui gli atti di quel convegno saranno pubblicati.
Addio, caro Professore, la Sua dottrina non sarà dimenticata, insieme alla grazia della Sua classe di gran gentiluomo; e io Le sarò sempre riconoscente, con deferenza di discepolo, per la gradita frequenza con cui pazientemente mi onorava della Sua interlocuzione sulla storia della nostra scienza.