Dal copione di Senza titolo: (…) Cesare (Lucio) – Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali. – (Dopo aver citato Marinetti, chiude il taccuino. Un lungo silenzio. Poi, esce dal suo perimetro detentivo, dalla sua scatola, torna verso la sua branda e continua…) – Delle ali. Anche nella mia carne, forse. Anche qui, dove tutto sembra fermo e dove non è possibile volare se non in sogno. –
Cesare (Lucio) – Ho sognato un carcere in cui ogni porta era un quadro, La coscienza di Cesare (Fabio): -ogni ora un colore, Cesare (Fabio) – ogni urlo una canzone, Cesare (Lucio) – e ogni pena una poesia. Cesare (Fabio) – Non pareti, ma pensieri. Cesare (Bruno)– Dove il tempo non si conta, non si ferma, Cesare (Lucio)– Dove i corpi danzano in scatole che si aprono, Cesare (Fabio) – Dove la punizione è costruire qualcosa di bello. Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro! Cesare (Lucio) – Un carcere del futuro Cesare (Fabio) – Un carcere del futuro…

(Foto di Marta Baciocchi)
Senza titolo-Manifesto per un carcere futurista non è stato solo uno spettacolo. È stato un lavoro estremo, sofferto: da loro, i detenuti, ma anche da noi. È stato un atto di resistenza dentro il momento più difficile che io abbia vissuto in quasi trent’anni di carcere. Il carcere, oggi, è una polveriera. La Polizia Penitenziaria è sottorganico, stremata da turni doppi per coprire la mancanza di personale. In Alta Sicurezza i detenuti sono chiusi nelle camere di pernottamento tornate celle. Nei transiti, negli spazi comuni, nei passeggi ovunque, d’estate, si bolle. E quando dico “si bolle” non parlo solo di calore fisico, ma di nervi che saltano, di umanità che rischia di perdersi. In questo scenario infernale, riuscire a mettere in scena Senza titolo è stato, lo dico senza retorica, un vero miracolo. Perché Senza titolo non è solo il racconto del carcere. È il tentativo disperato e necessario di rovesciare lo sguardo, di cambiare visuale, di non accettare il carcere come puro luogo di pena. Nel nostro Manifesto del carcere del futuro, scritto insieme ai detenuti e distribuito a tutto il pubblico, c’è un articolo che grida più forte di tutti il senso del nostro lavoro.
È l’ultimo del manifesto-[1], l’Articolo 18, e parla di teatro: -Il teatro è un’esplosione! Il teatro in carcere non è intrattenimento, è detonatore. Fa saltare le sbarre simboliche, scardina i ruoli fissi, apre crepe nei muri del giudizio e del pregiudizio. È un atto di verità che smonta la finzione della pena come fine. Sul palco, il detenuto non finge, si espone. Il teatro non cura, ma rivela; non salva, ma trasforma. Ogni prova è un rischio, ogni replica un’esistenza che si mette in discussione. La scena diventa il solo luogo dove un uomo può essere interamente sé stesso o altri, senza paura, senza numero, senza etichetta, dove le sue emozioni tornano ad essere. Fare teatro in carcere è atto politico, gesto umano, urgenza civile. È un patto tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi guarda e chi si fa vedere. È la prova vivente che la bellezza resiste anche dove tutto sembra spento. Per questo: non togliete il teatro alle carceri. Portiamolo ovunque. Facciamolo crescere, contaminate la giustizia con l’arte. Perché là dove nasce una scena, può finire una condanna.
Abbiamo costruito Senza titolo lavorando giorno e notte. Io e i detenuti insieme a Pina Segoni , Sara Ragni e Anna Flamini, abbiamo curato ogni dettaglio della mise en scène per uno spettacolo che sentivamo necessario. Non uno spettacolo da salotto ma un grido collettivo. Un’esperienza che nascesse dal corpo vivo dei detenuti e dalla loro urgenza di parola. La musica di Anna Flamini non è solo colonna sonora: è carne viva. Ha dentro il battito d’ansia, la malinconia, la furia, la nostalgia di casa. Si intreccia ai suoni registrati dal vero: porte blindate che sbattono, carrelli portavitto, chiavi nelle serrature, cancelli, passi veloci, brusii di voci lontane. Non sono effetti. È la vita vera del carcere che entra in teatro. È la voce del carcere. Come le scene, i costumi-pensieri, le cattedre patibolo, le grate i blindi tutto è stato prodotto a Maiano in un carcere che diventa teatro per qualche giorno e contamina lo spazio e il tempo della pena e si confronta con il pubblico del festival e la città. Lo spettacolo, frutto di un anno di lavoro laboratoriale, è dedicato alla memoria di Sergio Lenci, architetto visionario e progettista della Casa di Reclusione di Spoleto, di Rebibbia e di Livorno. Lenci fu vittima del terrorismo di Prima Linea per la costruzione di Maiano, colpevole di aver immaginato un carcere “troppo umano”: un’architettura in stretto dialogo con il paesaggio e la città, capace di ridurre il potenziale rivoluzionario tra i reclusi. Aveva concepito spazi penitenziari trasformabili, meno punitivi, una sorta di città di passaggio e non un luogo perenne destinato agli scarti della società, e sognava un futuro in cui il carcere stesso non sarebbe più esistito. Il suo sogno, bruscamente interrotto dalla violenza, rappresenta oggi la radice da cui proviamo a ripartire. Senza titolo è stato uno spazio di libertà di pensiero e di parola. Sul doppio palco, realtà e sogno si alternano: azioni palesi si intrecciano ad azioni surreali, in un contrasto emotivo ed estetico tra distorsioni e messe a fuoco. La narrazione, nella dimensione della realtà, segue Cesare, ex artista ora detenuto, che rivendica l’idea che il carcere non sia solo luogo di detenzione, ma anche spazio per ridefinirsi. La creatività e l’arte diventano mezzi per sfidare i limiti della condizione ristretta. La scena urbana reale, quella del carcere progettato da Lenci, fa da fondale ai due palchi bianco e nero, enfatizza questa trasformazione ed accoglie la scena di un interno, come se il pubblico guardasse tra le sbarre oblique delle finestre, dall’altro lato i Signori Consonante e i Signori Vocale con copricapi e costumi sacerdotali si arrampicano su cinque troni patibolo e si sfidano in tre ring linguistici, dove la parola è insieme arma, confessione e speranza, è una parola che scomparirà nel sesto quadro, il Signor O, .iu.e..e .e..o.e, detto Rinnegato, ergastolano, in carcere da 32 anni, interprete e autore del testo onirico, impastato di non senso, è inquisitore, testimone e imputato allo stesso tempo. Cesare e i compagni detenuti si interrogano: -La Giustizia non deve essere vendetta. La giustizia deve tendere alla bellezza. La giustizia può essere bella? La parola Bellezza risuona più volte dai megafoni degli speakers che fanno da contrappunto al: -…conta uomini, conta chiavi, conta cancelli conta…- : La domanda – se la giustizia possa essere bella – è il cuore pulsante del nostro spettacolo. Cesare è un ex artista, oggi detenuto, che sogna un carcere trasformato in spazio di bellezza e rinascita. Il suo nome rimanda subito a tanti altri Cesare in particolare: il Cesare dei Taviani e Cavalli a Rebibbia, il Cesare di Shakespeare, e il sonnambulo de Il gabinetto del dottor Caligari (1920). Quest’ultimo è il riferimento a noi più vicino. Entrambi vivono imprigionati: il Cesare sonnambulo di R. Weine è chiuso in una bara, strumento di morte nelle mani di Caligari; il nostro Cesare è rinchiuso in una cella scatola, sospeso tra sogno e realtà, tra desiderio di libertà e mura invalicabili. Sono figure parallele: corpi osservati, manipolati. Ma se il Cesare di Weine resta vittima di un potere tirannico, il nostro tenta di ribellarsi, di svegliarsi dal sonno in cui lo hanno confinato. Entrambi abitano mondi deformati: linee oblique e ombre nere nel film, sbarre, blindi e piani inclinati nel carcere. Ma nonostante tutto, il nostro Cesare sogna ancora di trasformare quelle sbarre in parole, in arte, in libertà. Nel crescendo drammatico, l’opera culmina con la costruzione del Manifesto del Carcere del Futuro, atto collettivo e corale che non si limita a evocare desideri astratti, ma si radica profondamente nella storia e nelle prospettive della giustizia penale italiana. Questo Manifesto prefigura il carcere non più come luogo esclusivamente punitivo, ma come un laboratorio di innovazione culturale e crescita personale, dove la pena perda la sua dimensione vendicativa per assumere una funzione di cura, di reinserimento e di riduzione di recidiva nel ritorno in libertà. La redazione del Manifesto si ispira esplicitamente agli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015–2016), promossi dal Ministero della Giustizia per ripensare il senso della pena, i 18 tavoli di Rebibbia coinvolsero magistrati, operatori, studiosi, volontari e società civile. Convinti che sicurezza e rieducazione non siano in contrasto, ma debbano camminare insieme; allo stesso tempo, inoltre il testo drammaturgico analizza e cita la grande stagione riformatrice della Legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario), che per la prima volta pose al centro il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Una legge che compie 50 anni e che, pur tra tante difficoltà, ha segnato un passaggio storico verso una giustizia più umana e costituzionale. È in questo solco che si colloca il Manifesto del Carcere del Futuro, composto volutamente di 18 articoli e un articolo introduttivo, lo zero. Il numero non è casuale: è un omaggio sia all’Articolo 18 della Costituzione, che garantisce la libertà di associazione sia ai 18 tavoli di Rebibbia… Ecco l’epilogo della nostra storia, un manifesto per cambiare con Senza Titolo abbiamo portato in scena la vita vera, abbiamo chiesto al pubblico di farsi attraversare da una domanda: La giustizia, quella vera, può essere anche un atto di bellezza? Io credo di sì. Anche se è difficile. Anche se costa lacrime, fatica, notti insonni, porte chiuse in faccia. E mi tornano in mente, potentissime, le parole di Peter Brook nella sua definizione di ciò che dovrebbe essere il teatro, anche e soprattutto il teatro in carcere: “Il teatro non è estraneo alla vita. Il vero teatro si occupa di esseri umani, di creare per loro una esperienza che va oltre l’ordinario, una sorpresa, così che quando lasci il teatro senti di aver ricevuto qualcosa che non avevi.” Ecco. Io spero che chi ha vissuto Senza titolo sia uscito portandosi via almeno una cosa: la convinzione che la giustizia non deve essere vendetta. Deve tendere alla bellezza. E può, forse, essere bella.
Ringrazio apertamente chi ci ha sostenuto nelle difficoltà: la Direttrice, la Comandante, il Magistrato di Sorveglianza, l’Area Educativa, tutta la Polizia Penitenziaria, l’ufficio di sorveglianza, gli agenti delle scuole, della MOF, della Falegnameria, della segreteria, del Nucleo, gli agenti GOM. Senza il loro coraggio e la loro disponibilità, questo spettacolo non sarebbe mai esistito.
Ringrazio Monique Veaute, Paola Macchi, Roberto e Ruggero Lenci, la fondazione Festival e la Fondazione Francesca Valentina e Luigi Antonini, i docenti e il dirigente del percorso di secondo livello artistico dell’IIS Sansi-Leonardi-Volta, lo spettacolo è nel programma di ARTI IN DIALOGO progetto dell'associazione culturale Atalante è stato in parte finanziato con i Fondi per il Bando Sostegno Spettacoli dal vivo anno 2024 PR FESR 2021-2027. Az. 1.3.4 della Regione Umbria.
Giorgio Flamini (direttore artistico di #SIneNOmine)

(Foto di Vinnie Porfilio)
[1] Art.0 -Scriviamo questo manifesto perché crediamo nel dialogo, nella possibilità di cambiare insieme. Scriviamo questo manifesto per parlare con voi, con le istituzioni, con la società tutta. Scriviamo perché crediamo che anche nella carne ferita dell’uomo dormano ali chiuse, pronte a schiudersi. Scriviamo perché non vogliamo distruggere, ma crescere, tornare trasformati, restituirci migliori, più vivi, più degni. Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1 – Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
Art.2 – Lavoro vero! Basta spazzare cortili senza senso. Manifattura, cucina, carpenteria, digitale, agricoltura, arte: lavoro dignitoso, utile, retribuito. Chi crea, si ricrea.
Art.3 – Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come «evasione buona». Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita. Art. 4 – Il trattamento è cammino! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
Art. 5 – Amore senza censura! Affetti, relazioni, figli, compagni, un bacio può essere rivoluzione. La cella non è un muro tra i corpi. La distanza è già pena, non va aumentata. Art.6 – Liberi fuori! Anche dentro! Le misure alternative sono libertà vigilata dal senso, non pena soft ma giustizia viva. Chi esce prima, spesso non torna più.
Art.7 – Riparare è umano! Giustizia è voce reciproca. Rei, vittime, comunità: si parla, si ascolta, si ripara. Chi chiede perdono può essere oltre la condanna. La vittima è al centro. Il corpo detenuto non è proprietà dello Stato. Chi soffre va curato, non punito due volte.
Art.12 – Proteggere i fragili! Anziani, disabili, trans, persone in crisi: il carcere non è uguale per tutti. Serve delicatezza, non indifferenza. Ogni corpo ha diritto alla sua misura.
Art. 13 – Il Terzo Settore è ossigeno! Volontari, associazioni, mediatori, facilitatori: non ospiti e visitatori ma costruttori . Il carcere non cambia da solo. Servono mani, sguardi, parole altre.
Art.14 – Alfabetizzare all’uso del digitale! Accesso, formazione, preparazione per il dopo. Corsi per tornare a vivere nel presente. Anni di carcere ti lasciano indietro: il carcere può accompagnarti al futuro.
Art. 15 – La pena è ovunque! L’esecuzione penale esterna non è fuga, è presenza altra: case, comunità,
lavori di pubblica utilità, istruzione. La pena si può scontare tra gli altri, non contro.
Art.16 – Cambiare lo sguardo! Media, giornali, TV: il carcere non è fiction. Non servono allarmi, ma alfabetizzazione emotiva. Chi sbaglia può cambiare. Chi giudica, lo consideri.
Art.17 – Anche la legge deve tendere alla bellezza! Norme, regolamenti, burocrazie: il carcere è pieno di scarti giuridici. Il codice deve respirare con il corpo.
Art18 – -: -Il teatro è un’esplosione!....
Si veda anche Il carcere futurista al Festival dei Due Mondi di Fabio Gianfilippi.
La foto in copertina è di Vinnie Porfilio.