Il DDL Sicurezza e il carcere
Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)
Sommario: 1. Brevi considerazioni generali. - 2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore. - 3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. - 4. In materia di dotazione di videocamere. - 5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Ringrazio vivamente per l’opportunità di interloquire con la Commissione. Svolgo le funzioni di magistrato di sorveglianza da diciotto anni. Concentrerò quindi il mio breve intervento sulle disposizioni del disegno di legge, che incidono più direttamente sulla materia dell’esecuzione penale e del carcere.
1. Brevi considerazioni generali.
Non posso però esimermi da un, seppur succinto, riferimento più ampio ai complessivi contenuti del DDL Sicurezza proprio in rapporto alla attuale, grave, condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Dal mio, pur limitato, osservatorio, riscontro una condizione di sovraffollamento che non accenna a diminuire e il cui impatto grave sulla capacità degli istituti penitenziari di sviluppare percorsi risocializzanti, necessari per integrare il precetto costituzionale dell’art. 27 terzo comma della Costituzione, e utili alla sicurezza della collettività, è purtroppo evidente nel clima di tensioni interne, suicidi, e crescente fatica di lavoratori e persone detenute, nell’intravedere lo scopo della detenzione e una prospettiva. C’è un problema di spazi, ma c’è soprattutto una assoluta carenza di risorse umane: non solo polizia penitenziaria, ma di educatori, mediatori culturali, psicologi e medici.
In un quadro come questo gli interventi contenuti nel d.l. 92/2024 non hanno portato, e non sono destinati a portare, un sollievo effettivo, ed in tempi rapidi, al quadro descritto.
Viceversa, il ddl “Sicurezza” introduce una serie piuttosto numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore della platea dei soggetti attinti dalla penalità. In ultima analisi si produrrà ancora più esecuzione penale e ancora più carcere, a risorse del carcere invariate. La scelta cade ancora una volta su un uso vasto del diritto penale e, tra le opzioni sanzionatorie, ancora una volta su pene detentive, senza di fatto immaginare pene diverse dal carcere, ad eccezione di quelle pecuniarie.
La ricetta del carcere viene proposta rispetto a fattispecie molto diverse, in larga parte però relative a persone attinte a vario titolo da profili di marginalità sociale. È una utenza nota al mondo penitenziario, che però fa una enorme fatica ad offrire percorsi di integrazione, che sarebbero necessari, e che spesso deve limitarsi ad offrire branda e un po’ di vitto, in un contesto di crescente difficoltà di contrasto rispetto a degrado delle strutture.
2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore.
Passando alle specifiche disposizioni rivolte all’esecuzione penale, viene in primo piano l’art. 15, che prevede l’abrogazione di due commi dell’art. 146 cod. pen. e cioè le fattispecie di differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno. Le stesse ipotesi vengono trasfuse nell’art. 147, divenendo perciò ipotesi di differimento facoltativo della pena, soggetto ad una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che dovrà bilanciare il favor nei confronti del minore con la pericolosità sociale dell’interessata.
Per questa opzione è inserito un quinto comma che afferma che l’esecuzione penale non può essere differita sa dal rinvio derivi una situazione di “pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si tratta di una formula sostanzialmente mutuata dalla corrispondente fattispecie cautelare, in ordine alla quale una giurisprudenza della cassazione ritiene che le esigenze ricorrano anche “in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento” cfr. cass. 48999/2019.
La disposizione prevede ancora che, dove non possa aver luogo il differimento, l’esecuzione deve aver luogo presso un Istituto a custodia attenuata (Icam) se la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, e può avervi luogo, a meno che esigenze di eccezionale rilevanza non lo consentano, nell’ipotesi della madre di prole di età superiore ad un anno e inferiore a tre anni.
A fronte di un sistema normativo che negli anni, anche grazie agli interventi della Corte Costituzionale, ha progressivamente costruito un quadro di importanti tutele per la detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child” secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, l’intervento oggi proposto si pone in decisa controtendenza e segna inevitabilmente un arretramento rispetto al modello normativo sin qui proposto.
La Consulta ha per altro già riconosciuto come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che “l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico” (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).
Dal punto di vista tecnico, anche a normativa vigente, è possibile intervenire rispetto al differimento obbligatorio, prevedendo che lo stesso sia surrogato da una detenzione domiciliare, con ciò quindi tenendosi conto della necessità di contenere una pericolosità sociale della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. In nessun caso però può prevedersi la permanenza in carcere, sia pure presso un Icam. Si tratta di una previsione che affonda le radici nel codice penale scritto in epoca fascista, e che ha costituito fino ad oggi un baluardo culturale importante, qualificante, dei principi e dei valori che l’ordinamento tutela.
Da un esame della giurisprudenza formatasi in materia cautelare, quindi, c’è da attendersi dalla modifica normativa, se interverrà, che un certo numero di donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno faranno accesso ai nostri istituti penitenziari, aumentando il numero di bambini che vi nasceranno o vi trascorreranno i primi anni di vita. Non credo ci sia bisogno di dilungarsi sulle gravissime conseguenze che questo comporta rispetto al superiore interesse del minore, che in nessun caso può mai essere quello di permanere all’interno di una struttura penitenziaria.
Occorre per altro rappresentare che gli ICAM sono pochissimi nel territorio nazionale. Ciò significa che la permanenza in carcere inevitabilmente distaccherà le madri dai loro territori, e questo distacco significherà anche distacco dai nuclei familiari presenti, e da eventuali altri minori, seppur di età più adulta, che resteranno privati di una madre da loro fortemente allontanata. Vi è il rischio di far vivere alla donna detenuta drammatici conflitti, anche psicologici, tra prosecuzione della gravidanza e cura del minore neonato e inevitabile allontanamento dal nucleo familiare e dagli altri affetti sul territorio.
Vi è la certezza di far sobbarcare al dolente mondo carcerario il peso di persone che avranno uno speciale bisogno di assistenza psicologica e di supporto medico specialistico, con aggravio importante degli obblighi conseguenti in capo a tutti gli operatori coinvolti.
La misura della detenzione domiciliare si è appalesata in questi anni efficacissima per contemperare le contrapposte esigenze in campo. Un grave problema è stato piuttosto costituito dalla assenza di domicili idonei per alcune donne incinte o madri. In tal senso si dovrebbe potenziare il ricorso a case famiglia protette, già previste dalla legge, ma di fatto scarsissime sui territori (credo di conoscere l’esistenza di due sole case del genere in tutta Italia).
Segnalo che, dal punto di vista tecnico, come anche evidenziato nel dossier elaborato dal Senato, la previsione contenuta nel nuovo art. 147 co. 5 può dare adito a dubbi circa la possibilità di provvedere a surrogare il differimento con la detenzione domiciliare, prima che prevedere l’ingresso in ICAM. Andrebbe chiarito che vi è comunque sempre la possibilità di accedere, ove possibile, a quella diversa forma di esecuzione della pena (ai sensi dell’art. 47-ter co. 1-ter ord. penit.).
3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.
Qualche rapida considerazione sull’introduzione dell’art. 415-bis in materia di rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. Per quanto concerne la rubrica dell’articolo mi permetto di osservare che alcune possibili azioni per la maggior sicurezza degli istituti penitenziari sarebbero senz’altro immaginabili, ma le stesse appartengono soprattutto al novero degli interventi di potenziamento delle risorse umane e di quelle materiali, anche attraverso la dotazione di moderni e sicuri sistemi che schermino gli stessi rispetto alle comunicazioni via telefono cellulare, attraverso moderni scan personali come quelli in uso negli aeroporti, mediante la dotazione di elettricità idonea nelle camere detentive, per la sostituzione dei pericolosi fornelli a gas con fornelli elettrici etc. etc.
L’intervento qui immaginato ruota, invece, soprattutto sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. Molto si è già detto sulla parte della disposizione che fa riferimento anche a “condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Mi permetto di aggiungere la mia voce critica su questa previsione che, intanto, appare di difficile interpretazione e foriera di dubbi applicativi, anche per la scarsa determinatezza di espressioni utilizzate come il “contesto”, nozione decisamente troppo vaga per una previsione penale. Più in generale mi pare che la criminalizzazione della resistenza passiva, al pari di quella attiva, con distinguo tecnici difficilmente percepibili dall’utenza, possa creare effetti di paradossale escalation e possa rivelarsi un boomerang. Il momento in cui vi è infatti in atto una forma anche collettiva di resistenza passiva è quello del dialogo, quello in cui le migliori forze dell’amministrazione penitenziaria, in primis i Direttori, possono risolvere tutto senza danni più gravi. Lo scivolamento nell’area della penalità, invece che nell’ambito già segnato dalle sanzioni disciplinari, è a mio avviso grave dal punto di vista culturale ma anche assai controproducente dal punto di vista operativo.
È inoltre previsto l’inserimento di queste fattispecie: art. 415 e 415 – bis nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit., seppure nella c.d. seconda fascia. Ciò significa l’accesso inevitabile al carcere, a prescindere dal quantum di pena irrogata, e più elevate quote per poter accedere ad alcuni benefici penitenziari. Da tempo la dottrina ha posto mente alla necessità di uno snellimento dei cataloghi di reati contenuti nell’art. 4-bis ord. penit., in particolare per quelli che non hanno riferimento alla criminalità organizzata. Il legislatore ha tenuto conto di questo invito, in questi anni, soltanto con la lege 199/2022 di conversione del decreto legge c.d. “anti rave”, ma lo ha fatto esclusivamente per gli autori di reati contro la pubblica amministrazione (i c.d. colletti bianchi). La disposizione normativa si muove in senso distonico rispetto a questo obbiettivo di snellimento, determinando un effetto carcerogeno che, per come detto, è piuttosto drammatico a fronte dell’attuale condizione del mondo penitenziario. Indipendentemente dal quantum di pena irrogata, infatti, per chi ha commesso questi reati le porte del carcere si schiuderanno per un nuovo ingresso, o più probabilmente faranno prorogare il tempo di permanenza.
La strada già tracciata da alcuni anni di incremento delle fattispecie di reato proprio della persona detenuta tende a trasformare sempre di più il carcere in un luogo violento, dal quale si rischia di non uscire, perché si può incorrere in ulteriori reati, oltre quello per cui ci si è entrati. L’esperienza maturata con riguardo alla criminalizzazione del possesso e uso di un telefono cellulare ha per altro evidenziato come possa accadere che siano condannati per questi reati i soggetti più deboli, cui altri detenuti addossano la responsabilità dei fatti, con accertamenti molto difficili per l’autorità giudiziaria. È un meccanismo che potrebbe ripetersi anche qui, coinvolgendo in prima linea persone con disagio psichico, purtroppo largamente presenti nei nostri istituti penitenziari. Io credo che, invece, al carcere dovremmo guardare come a un luogo che, attraverso la valorizzazione delle individualità, non butta la chiave, ma cerca di trovarla. La chiave per restituire all’esterno persone migliori di quelle che sono entrate.
4. In materia di dotazione di videocamere.
Nell’art. 21 del d.d.l. è contenuta una disposizione relativa alla dotazione di videocamere al personale delle Forze di polizia. Si tratta di una disposizione senz’altro condivisibile. Tuttavia mi permetto di sottolineare la necessità di maggiore chiarezza rispetto ai contenuti del comma 2, secondo il quale “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza”. Il perimetro della disposizione, come per altro già sottolineato nel corso di audizioni che mi hanno preceduto, sembra riferibile a luoghi diversi dall’istituto penitenziario. E tuttavia la genericità della previsione imporrebbe di comprendere meglio. Da un lato infatti è stato segnalato da alcuni anni come per tutta una serie di spazi all’interno del penitenziario sia necessaria la presenza delle telecamere a garanzia di lavoratori e persone detenute. La Commissione Ruotolo nel 2021, istituita presso il Ministero della Giustizia, sottolineava l’urgenza di provvedere al più capillare completamento della dotazione, ancora carente in alcune carceri. Dall’altro occorre mettere in conto come una continua videosorveglianza, per persone detenute all’interno delle loro camere, ove non giustificata da peculiari ragioni, finirebbe per avere, a lungo protratta nel tempo, gravi effetti psicologici (andrebbe quanto meno aggiunto un riferimento alla necessità che l’uso della videocamera avvenga nel rispetto della dignità delle persone detenute o internate, affinché le stesse siano collocate in modo da non ritrarne le parti intime, ad esempio nel locale adibito ai servizi igienici). Sembra quindi necessario che la materia sia affrontata con maggior dettaglio. Soprattutto, appare fondamentale che la possibilità di utilizzare le videocamere non sia mai letta come facoltà di non utilizzarle, perché questo finirebbe per risolversi in un arretramento di tutela rispetto a un luogo, come il carcere, che è necessario sia trasparente a garanzia di tutti.
5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Soltanto per completezza meritano un cenno le disposizioni che si vogliono introdurre in materia di lavoro penitenziario e di apprendistato professionalizzante, rispetto alle quali, al di là di formulazioni particolarmente tecniche, e quindi di difficile lettura, può cogliersi un indirizzo positivo, che tuttavia merita di essere coltivato in concreto, sia mediante le modifiche regolamentari cui si rinvia, sia soprattutto attraverso un incremento significativo delle risorse, a fronte di un lavoro intramurario che continua a vedere impegnato un numero troppo esiguo di detenuti, per un numero troppo esiguo di ore settimanali ed in attività che non hanno orizzonti professionalizzanti.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria.