“Il diritto alla speranza davanti alle Corti” di Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto, una lettura in attesa della Corte Costituzionale su ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
Recensione di Fabio Gianfilippi
La speranza è costruzione. Building bridges, l’installazione monumentale di Lorenzo Quinn per la Biennale Venezia del 2019, campeggia sulla copertina di Il diritto della speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, volume con una prefazione del prof. Francesco Palazzo e gli interventi di cinque giuristi da tempo impegnati, da punti di vista diversi (docenti universitari, giudici di legittimità e di merito), nella riflessione critica sullo spazio dell’ergastolo nel nostro sistema costituzionale e convenzionale, in particolare nella sua forma c.d. ostativa, prevista per i condannati in relazione ai delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit.
Sei paia di braccia si intrecciano, enormi, a lanciare ponti impercorribili sulle acque dell’Arsenale. Ognuna simboleggia un sentimento universale che, appunto, costruisce. Tra questi, ovviamente, la speranza. E’ un tempo, il nostro, in cui le mani non possono stringersi, a causa del virus. Un tempo in cui si fa fatica persino a concepire il venirsi incontro. Costruire ponti tra persone, idee e punti di vista diversi richiede allora il genio dell’artista e un sovrappiù di lungimiranza.
L’immagine scelta, che non è qui mero orpello, ci conduce alla lettura di un testo che, séguito degli studi già pubblicati nell’anno 2019 da Dolcini, Fassone, Galliani, Pinto de Albuquerque e Pugiotto, con il titolo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, continua ad approfondire lo stato dell’arte in materia di ergastolo ostativo, estendendo la sua indagine al regime differenziato in peius di cui all’art. 41- bis ord. penit., per più ragioni strettamente connessi. Non tanto, e non solo, perché gli ergastolani ostativi siano sottoposti a quel regime, poiché anzi ve ne sono non pochi che, anche da molto tempo, non sono più considerati, o non lo sono mai stati, portatori di una pericolosità sociale tanto qualificata da richiedere l’imposizione di quel regime eccezionale di sospensione di molte regole trattamentali. Piuttosto perché una pena perpetua non aperta, in difetto di collaborazione con la giustizia, ai permessi premio o alla liberazione condizionale e un regime differenziato in cui si prevedano limitazioni meramente afflittive e non funzionali agli scopi del 41-bis, pongono interrogativi urgenti in materia di diritti fondamentali, che hanno già condotto a pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale che si sono rapidamente succedute negli ultimi anni. Un materiale che si è già rivelato fertile di conseguenze in sede giurisprudenziale, di merito e legittimità, con il quale è dunque essenziale confrontarsi.
Le riflessioni sullo stato dell’arte. Il testo che si commenta è dunque, attraverso i diversi contributi che lo compongono, innanzitutto livre de chevet sul senso costituzionale delle pene, anche come antidoto a vecchie tentazioni carcerocentriche e al sempre nuovo populismo penale, incapace di leggere nell’individualizzazione del trattamento e nella discrezionalità rimessa alla magistratura di sorveglianza la formula in grado di inverare l’art. 27 della Costituzione e di garantire perciò anche la sicurezza della collettività (vd. la riflessione di Dolcini, Pena e Costituzione).
E si fa poi vero e proprio bedeker indispensabile per leggere criticamente le pronunce più recenti ed incisive sul tema emesse innanzitutto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Si affronta dunque la sentenza Provenzano c. Italia che, se ribadisce ancora una volta la compatibilità del regime del 41-bis con i principi fondamentali della Convenzione, richiede allo Stato una immancabile valutazione specifica ed attualizzata della necessità dell’imposizione del regime anche nei confronti di un soggetto gravemente malato, la cui capacità di mettersi in relazione con i sodali all’esterno, e dunque la sua pericolosità concreta, deve essere puntualmente vagliata, e non può essere oggetto di proroghe automatiche (vd. i contributi di Magi, L’incidenza delle condizioni di salute ai fini della ingiustiza del trattamento carcerario differenziato e Galliani, Una sentenza scontata. Il caso Provenzano e l’individualizzazione del regime detentivo differenziato). E si approfondisce la sentenza Viola n. 2 c. Italia, che affronta, come noto, il tema della non compatibilità con i principi convenzionali, ed in particolare con l’art. 3 CEDU, dell’ergastolo ostativo, in quanto costituente una pena che, poggiando sulla presunzione di pericolosità sociale costituita dall’assenza di collaborazione con la giustizia, sottrae al condannato un riesame nel merito del proprio percorso di ravvedimento, con ciò confliggendo con la tutela della dignità umana (vd. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana; Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena; Galliani e Pugiotto, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (a proposito della sentenza Viola c. Italia n. 2).
Le riflessioni si volgono poi verso la sentenza Corte Cost. 23 ottobre 2019 n. 253, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti (vd. i contributi di Galliani e Magi, Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici e Pugiotto, La sent. 253/2019 della Corte Costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria) cui si aggiunge il significativo approfondimento anche sulla sentenza Corte Cost. 5 novembre 2019 n. 263, che interviene con un “secondo colpo di piccone” sul regime delle ostatività, considerandolo, almeno per il settore minorile, incompatibile del tutto, e non soltanto come presunzione assoluta invece che relativa, con la funzione costituzionale assegnata in quel contesto alla pena (vd. Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte Costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sent. nn. 253 e 263 del 2019).
La documentazione. La seconda parte del testo contiene una importante selezione di decisioni della Corte Costituzionale intervenute a rimuovere singole limitazioni, ritenute non funzionali agli scopi del 41-bis, che vi erano state introdotte, nel testo del co. 2-quater, con la l. 94/2009. Le formule utilizzate dalla Consulta, richiamando propri precedenti, sono eloquenti: “anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”.
Sono inoltre offerti ai lettori la Relazione della Commissione parlamentare antimafia sul 4-bis alla luce della sent. Corte Cost. 253/2019, che contiene anche proposte di riforma del testo (non esenti da critiche, almeno nella misura in cui non tengono in adeguato conto il riparto naturale di competenza nella materia di sorveglianza, e la sua ratio di prossimità alla persona condannata, per consentire al giudice di conoscerne approfonditamente il percorso trattamentale), nonché di ulteriori recenti contributi della giurisprudenza di legittimità e di merito sui regimi ostativi.
Una posizione centrale è di fatto attribuita all’ordinanza della Corte di cassazione 3 giugno 2020 n. 18518 con la quale la S.C. ha proposto questione di legittimità costituzionale degli art. 4-bis e 2 dl 152/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
La pronuncia della Corte Costituzionale è attesa per il prossimo 24 marzo e gli Autori pubblicano in questo contesto, dopo le ampie riflessioni contenute nella prima parte del testo sulla sent. 253/2019, di cui la questione pendente è considerata un seguito naturale, anche i cinque Amici Curiae che, significativamente, Antigone, Macrocrimes, Nessuno tocchi Caino, L’Altro Diritto e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, hanno voluto presentare alla Consulta in quel procedimento.
In un certo senso tutto il percorso di approfondimento critico, che costituisce lo speciale valore dell’opera in commento, conduce verso questo ulteriore significativo passaggio di un cammino che, mediante successive approssimazioni, evoca la speranza del superamento dell’ergastolo ostativo e se ne fa portatrice, pur nella consapevolezza dei rischi involutivi del sistema, non taciuti nella sua Prefazione da Francesco Palazzo.
Leggendo l’ordinanza di rimessione. La lettura dell’ordinanza di rimessione della S.C. n. 18518 restituisce d’altra parte il senso di una naturale evoluzione delle argomentazioni utilizzate dalla Corte nella sent. 253/2019. Si nutre dei riferimenti leggibili nella giurisprudenza costituzionale circa la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio, in quell’occasione liberato dalla preclusione assoluta connessa alla mancanza di collaborazione con la giustizia, e restituito alla prudente ed informata discrezionalità del magistrato di sorveglianza, e di fatto chiede che quell’esperimento non resti un esercizio vano di libertà temporanea, ma costituisca il mattone utile a rendere percorribile una strada di ben più ampia prospettiva, che conduca appunto alla trasformazione della pena perpetua in una misura come la liberazione condizionale, che riconduce il condannato pienamente nella società. Una strada, sia pure difficile e tutta in salita, che non somigli a certe ciclabili nelle nostre città che, per l’errore del pianificatore, finiscono contro un muro.
Il permesso premio, con gli occhi di un magistrato di sorveglianza, ha in effetti una evidente funzione di stimolo all'approfondimento dei risultati raggiunti ed apre naturalmente alla possibilità che il fruirne nel tempo e con regolarità, in assenza di eventuali involuzioni comportamentali, faccia emergere un sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato e produca uno sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati, influenzi condotte di aperta dissociazione o persino condotte collaborative. Perché ciò possa effettivamente avvenire, però, deve essere preservata una prospettiva al fondo della strada, rappresentata dalla speranza di accedere ad una misura alternativa, come nel caso di specie la liberazione condizionale. Ciò consente di riempire di nuova efficacia i benefici premiali concessi e di un senso più profondo l’esercizio di responsabilità che è richiesto a chi ne beneficia nel far rientro regolarmente in carcere e nel rispetto pieno delle prescrizioni.
Se il percorso è aperto a questa conclusione si evita che il condannato si adagi nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte e si stimolano gli operatori penitenziari, affinché investano pienamente tempo e risorse sulla osservazione scientifica della personalità anche del condannato alla pena dell’ergastolo, non svuotando il senso del tempo trascorso in detenzione, che indefettibilmente deve tendere alla rieducazione (e nel caso sottoposto alla Corte Cost. si parla di una pena perpetua iniziata circa venti anni fa).
L’ordinanza della cassazione appare in tal senso anche in sintonia con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, maturato a partire dal caso Vinter e a. c. Regno Unito, secondo la quale sussiste l'obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un riesame certo della perpetuità della sua pena, conoscendone dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che sia prevista dunque una periodica verifica dei progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, al fine di valutare la permanenza dei motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione, e dettagliato, rispetto ad una posizione in tutto speculare a quella oggi rimessa al vaglio della Consulta, nella sentenza Viola n. 2 c. Italia.
Quest’ultima pronuncia, così approfondita nelle già citate riflessioni della prima parte del Diritto alla speranza davanti alle Corti, è d’altra parte a sua volta particolarmente informata alla nostra giurisprudenza costituzionale, in un virtuoso mescolarsi di temi concordanti, e mostra la peculiare attenzione dei giudici di Strasburgo alla drammaticità del fenomeno mafioso nel nostro paese, a differenza di quanto superficialmente affermato a caldo, dopo la notizia della sentenza. Ed è proprio riguardo alla mafia che la Corte Edu afferma che: “la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti”. (par. 130).
Il condannato all’ergastolo ostativo, nelle parole della Corte Edu, finisce invece per trovarvisi, poiché è posto “nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo di ordine penologico che giustifichi il suo mantenimento in detenzione (…), mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna (…) la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena.”(cfr. par. 128 e 129).
La questione torna dunque oggi ad interpellare il giudice delle leggi, chiedendogli di proseguire nell’intrapreso percorso di relativizzazione delle preclusioni contenute nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., soltanto in questo modo coerenti al disegno costituzionale per il quale la funzione di risocializzazione della pena non può mai essere pretermessa, neppure a fronte del più terribile dei reati, con una conseguente piena restituzione alla magistratura di sorveglianza del compito di valutazione nel merito delle posizioni dei condannati che le sono affidati.
Nel caso della liberazione condizionale, oggi in questione, ciò significherebbe consentirle di esaminare l’eventuale sussistenza del ravvedimento richiesto dalla norma, e declinato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso ben colto dalla CEDU, mediante la ricerca nel condannato di “comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi e aderisca a nuovi modelli di vita socialmente accettati” (cfr. cass. 45042/2014) o ancora “comportamenti positivi dai cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato.” (cass. n. 486/2015 e 11331/2019). Senza dubbio molto più della buona condotta richiesta per l’ottenimento di un permesso premio, ma insieme anche altro rispetto alla collaborazione con la giustizia (diversa quest’ultima anche concettualmente, per come comprensibile dalla disciplina speciale di concessione dei benefici nei confronti dei collaboratori di giustizia, che richiede il ravvedimento come requisito ulteriore: cfr. cass. 19854/2020).
Si tratterebbe di proseguire in un percorso, si diceva, che è certamente informato e nutrito dalle decisioni della CEDU, ma che affonda le sue radici nella consolidata giurisprudenza costituzionale, che ci restituisce una lettura dell’esecuzione penale come un tempo destinato inevitabilmente ad accogliere i cambiamenti, positivi e negativi, della persona, che deve essere in grado di conoscere dal momento in cui commette il reato (cfr.sent. Corte Cost. 32/2020) quando e come potrà vedersi rivalutato ed apprezzato per ciò che, dopo il reato, anche il più terribile (cfr. sent. Corte Cost. 149/2018) è oggi. Al fondo di una pena che porti pure il nome dell’ergastolo, dovrebbe dunque sempre residuare l’alternativa tra la perpetuità, che inevitabilmente attenderebbe chi non volesse mettere seriamente in discussione il proprio stile di vita e pensiero antisociale, e la speranza di poter incontrare un giorno pienamente la società.
E’ ancora una volta la sentenza Viola a ricordarci come, in assenza di un momento di rivalutazione come quello che nel nostro ordinamento sarebbe offerto dalla liberazione condizionale, appaiano insufficienti allo scopo gli strumenti della grazia presidenziale, per altro mai comminata ad un condannato alla pena dell’ergastolo “ostativo”, ed anche il rimedio della sospensione della pena per motivi di salute, che risponde a finalità umanitarie e che comunque è sempre sottoposto a una rivalutazione in tempi brevi e, a seguito del recente dl 28/2020 convertito in l. 70/2020, all’immediato ripristino della carcerazione, ove si riscontri un qualche miglioramento delle condizioni che lo hanno determinato.
L’intervento della Corte potrebbe dunque restituire compiutamente le disposizioni normative contenute nell’art. 4-bis ord. penit. ad una funzione di stimolo al discernimento del giudice e di necessario approfondimento istruttorio sotto il profilo della pericolosità sociale attuale dell’interessato, come originariamente nel 1991. Non più uno stigma indelebile, salvo che con la gomma abrasiva della collaborazione con la giustizia, ma un meccanismo, per quanto presidiato da regole probatorie che gli Autori del libro non mancano di sottoporre a critica, per come elaborate dalla stessa Corte Costituzionale con la sent. 253/2019, e verosimilmente da riproporsi qui, che consenta al giudice di interrogarsi sulle molteplici, e spesso drammatiche, ragioni per le quali la collaborazione non sia apparsa all’interessato una soluzione praticabile (posto comunque che neque captivus tenetur alios detegere, verrebbe da dire con la Consulta), e non lo privi della speranza, senza la quale la pena perde l’abbrivo che è indispensabile perché si possa intraprendere un credibile percorso di responsabilizzazione.
Le mani che si incrociano sulle acque della laguna veneta aprono alla lettura di un testo che è tutto percorso dal filo rosso di questa speranza, il cui diritto è evocato in modo esplicito nella stessa ordinanza n. 18518 di rimessione alla Corte Costituzionale. Braccia e mani che richiamano un fare e un costruire, un dinamismo che deve essere il proprium della pena, che si dipana nel tempo e cui, nell’orizzonte costituzionale e convenzionale, non può bastare inibire ed incapacitare, essendo chiamata a tentare (e verrebbe da dire incessantemente) di rifondare e, a un certo punto, svolto il suo compito, a lasciare il passo ad un rientro proficuo della persona nella società.