GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L’autonomia del procedimento disciplinare dei magistrati ordinari ed i rapporti con il procedimento penale

    L’autonomia del procedimento disciplinare dei magistrati ordinari ed i rapporti con il procedimento penale

    di Mario Fresa

    Il tema dei rapporti tra il procedimento disciplinare e il processo penale, dei presupposti della sospensione del procedimento disciplinare e dei termini di decadenza dell’azione disciplinare è tornato prepotentemente alla ribalta nell’ultimo anno con alcune decisioni, interlocutorie e non, della Sezione disciplinare del C.S.M. e delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

    L’intervento approfondisce aspetti teorici e pratici quali il superamento, con la Riforma del sistema disciplinare del 2006 ed il rinvio alle norme del vigente c.p.p. “in quanto applicabili”, della c.d. pregiudizialità penale e della primazia del processo penale, i limiti della possibile sospensione del procedimento disciplinare ed i casi di sospensione ex lege dei termini di decadenza, i limiti del giudicato penale ed il concetto di identità del fatto, giungendo alla conclusione secondo cui, mentre il procedimento disciplinare per l’illecito conseguente a reato deve (rectius, può) rimanere sospeso sino al giudicato penale, le incolpazioni disciplinari autonome possono essere immediatamente oggetto di giudizio disciplinare, con eventuale condanna del magistrato incolpato  anche in pendenza del processo penale inerente la stessa vicenda.

     

     

     

    SOMMARIO: 1. Evoluzione storica. 2. La riforma del 2006 ed il superamento della primazia del processo penale. 3. Sospensione dei termini e sospensione del procedimento: una confusione da evitare. 4. I limiti del giudicato penale e l’identità del fatto (giuridicamente inteso). 5. Le fattispecie tipizzate disciplinari autonome e la decorrenza dei termini di decadenza. 6. La giurisprudenza disciplinare, di merito e di legittimità. 7. Conclusioni.  

     

     

     

        1. Evoluzione storica.

        Il tema dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale ha subito un profondo mutamento con l’entrata in vigore del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 nel senso della più completa autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale.

        Nel sistema disciplinare abrogato, l’art. 28, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 richiamava espressamente l’art. 3 c.p.p. abrogato (r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399) e ciò comportava conseguenze in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e penale in riferimento alle ipotesi di c.d. pregiudizialità penale.

        In effetti, il menzionato art. 3, nel nome di una allora indiscussa primazia del processo penale rispetto ad ogni altro tipo di processo, civile, amministrativo o disciplinare, prevedeva la sospensione necessaria del procedimento disciplinare (come qualsiasi altro processo), ogniqualvolta la “cognizione del reato influisce sulla decisione della controversia”.

        La giurisprudenza disciplinare aveva, correttamente, sempre interpretato il combinato disposto delle richiamate norme nel senso che l’esistenza della pregiudizialità penale potesse essere affermata non solo nel caso di identità dei fatti oggetto dei rispettivi giudizi, ma ogni qualvolta essi si inserissero nel contesto di una medesima vicenda storica.

        Tanto più che il disposto dell'ultimo comma dell'abrogato art. 59 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, secondo cui i termini previsti per il procedimento disciplinare a carico dei magistrati sono sospesi "se per il medesimo fatto viene iniziata l'azione penale", configurava un'ipotesi di sospensione necessaria del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale che non poteva essere interpretata restrittivamente, operando non solo in caso di identità tra i fatti oggetto dei due procedimenti, ma anche in presenza della loro comune riferibilità ad una medesima vicenda storica (Cass., sez. un., 28 marzo 2014, n. 7310).

     

        2. La riforma del 2006 ed il superamento della primazia del processo penale.

        Nel sistema vigente dal 2006, la prospettiva è radicalmente mutata.

        Anzitutto perché, nel frattempo, era stato abrogato il codice di procedura penale del 1930 e, a differenza di quello, con il nuovo codice di procedura penale (d.P.R. 24 settembre 1988, n. 447), entrato in vigore il 24 ottobre 1989, viene superato il principio della primazia del processo penale sugli altri processi, civili, amministrativi o disciplinari.

        In effetti, non esiste più una norma analoga a quella dell’art. 3 c.p.p. abrogato e, contrariamente al passato, in cui l’ordinamento manifestava un evidente favor per il processo penale, quale sede privilegiata per l’accertamento di un fatto, anche per via della quasi totale assenza di limiti in ordine all’assunzione delle prove, l’attuale assetto di rapporti tra i diversi sistemi processuali si fonda su un principio di tendenziale autonomia e separatezza dei giudizi, scelta dettata dalla necessità di assicurare la conclusione di ogni processo in tempi contenuti e tali da preservarne, secondo previsione costituzionale, una “ragionevole durata”.

        In quest’ottica, il vigente sistema disciplinare, al quale si applicano non più le norme dell’abrogato c.p.p., ma quelle norme del vigente c.p.p. “in quanto compatibili” (artt. 16, secondo comma, e 18, quarto comma, d.lgs. n. 109/2006), si muove anch’esso nel senso della più ampia autonomia dal processo penale, giustificata, per un verso, da una sorta di incompatibilità temporale tra i due procedimenti, essendo il procedimento disciplinare, per sua natura, assai più rapido ed incisivo di quello penale, anche per effetto dei plurimi e brevi termini decadenziali che ne caratterizzano ogni sua fase e, per altro verso, dai più ampi limiti posti dal vigente c.p.p. al principio del libero convincimento del giudice, che determinano una più ampia forbice tra “verità storica” dei fatti e “verità processuale”, con conseguente minore affidabilità del sistema penale in tema di accertamento di una “verità storica” utile a risolvere, con effetti di giudicato, qualsivoglia controversia, civile, amministrativa o disciplinare, riguardante la medesima vicenda storica.

     

        3. Sospensione dei termini e sospensione del procedimento: una confusione da evitare.

        L’ampia autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, la si evince chiaramente dal combinato disposto degli artt. 15, ottavo comma, lett. a) e 20, secondo e terzo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006.

        L’art. 15 (rubricato “termini dell’azione disciplinare”) non fa riferimento ad alcuna sospensione del procedimento, tanto meno necessaria, ma solo, all’ottavo comma, ad una sospensione dei termini del procedimento stesso, e ciò a differenza di quanto si riscontrava nella normativa previgente.

        Vi è una sola, specifica previsione di sospensione del procedimento e non solo dei termini (lett. d-ter), con riferimento alla ipotesi di sospensione (facoltativa) di cui al successivo art. 16, quarto comma, legata però alla fase pre-disciplinare, che è fase antecedente all’esercizio dell’azione disciplinare e, nella pratica, a casi in cui non risulti, allo stato degli atti, alcun elemento circostanziato o comunque idoneo a suffragare una ipotesi di illecito ex art. 4, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006 (illecito disciplinare conseguente a reato). Analoga sospensione non viene invece disposta quando il Procuratore generale, pur in presenza di un procedimento penale a carico del magistrato, abbia elementi circostanziati per procedere all’azione disciplinare con riferimento alle diverse ipotesi previste negli artt. 2 (illeciti funzionali) e 3 (illeciti extrafunzionali), proprio in quanto ipotesi autonome rispetto all’accertamento di possibili reati.

        Vi è inoltre una sola, specifica ipotesi di sospensione dei termini per “pregiudizialità” civile, penale o amministrativa, ma è una ipotesi di sospensione limitata ai due illeciti disciplinari (art. 2, primo comma, lett. g) ed h) del d.lgs. n. 109/2006) riguardanti, rispettivamente, la grave violazione di legge ed il travisamento del fatto, per negligenza inescusabile del magistrato. Va da sé che, trattandosi di eccezione al principio di autonomia del procedimento disciplinare, e non più di regola, la norma va interpretata restrittivamente, con esclusivo riferimento alle ipotesi in cui l’accertamento dell’illecito disciplinare dipenda inevitabilmente dall’accertamento di un reato. In ogni caso, si tratta sempre di sospensione dei termini e non del procedimento disciplinare, sospensione quest’ultima che, pur in ipotesi possibile, sarebbe da ricondurre ad ipotesi di sospensione facoltativa e non necessaria.

        L'art 20 (“rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio civile o penale”), al primo comma, dispone che l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione penale relativa allo stesso fatto, ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 15, ottavo comma.

        Ciò significa che i titolari dell’azione disciplinare possono sempre procedere all’esercizio dell’azione disciplinare, contestando la violazione dell’art. 4, lett. d) del d.lgs. n. 109/2006 (illecito conseguente a reato), pur in presenza di un’azione penale già esercitata.

        Non per questo il procedimento disciplinare dev’essere poi necessariamente sospeso giacché, in questa ipotesi, l’art. 15, ottavo comma, lett. a) prevede soltanto la sospensione dei termini e non del procedimento.

        E’ vero che, nella maggior parte dei casi, segue all’incolpazione elevata ai sensi dell’art. 4, lett. d) la sospensione del procedimento disciplinare, o in sede istruttoria per opera del Procuratore generale, o in sede di giudizio, per opera della Sezione disciplinare, ma questa sospensione, pur opportuna, non è necessaria ed è solo facoltativa, onde evitare una duplicazione di accertamenti in sede disciplinare ed in sede penale e, soprattutto, nei casi in cui si ritenga che l’istruttoria probatoria possa svolgersi nelle forme e nei modi più efficaci in sede penale.

        Ne è riprova di queste considerazioni la circostanza che, in un caso, la Sezione disciplinare (CSM, sez. disc., 19 aprile 2012 n. 46) non ha provveduto alla sospensione del procedimento volto all’accertamento dell’illecito di cui all’art. 4 lett. d) d.lgs. n. 109 del 2006 ed ha pronunciato sentenza di condanna senza attendere la decisione del giudice penale in relazione ad un reato di stalking (612 bis c.p.p.) commesso da un magistrato nei confronti di una collega.

        Il precedente giurisprudenziale, che ha trovato conferma presso le Sezioni unite (Cass., sez. un., 21 marzo 2013, n. 7042), è espressione proprio del principio di autonomia del processo disciplinare rispetto a quello penale e, conseguentemente, del fatto che, nel vigente ordinamento, non esiste più alcuna primazia del processo penale rispetto ai processi civili, amministrativi e disciplinari.

     

        4. I limiti del giudicato penale e l’identità del fatto (giuridicamente inteso).

        Certo, non si ignora che i successivi commi dell’art. 20 prevedono che hanno autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso qualsiasi sentenza penale irrevocabile di condanna e, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione.

        Tuttavia, tali previsioni vanno interpretate, appunto, in riferimento al principio generale di autonomia del giudizio disciplinare e tenuto conto che le incolpazioni disciplinari possono essere diverse dalle imputazioni elevate in sede penale.

        Venuta meno la c.d. pregiudizialità penale, venuta meno la primazia del processo penale su ogni altro tipo di processo, resta il fatto che un processo penale, ove conclusosi prima di un processo disciplinare, avrà effetti di giudicato su quel processo, entro i limiti previsti dalle richiamate norme del codice disciplinare, limiti che presuppongono, tra l’altro, non la mera comunanza fenomenologica della vicenda in esame, ma l’identità del fatto (giuridicamente inteso) giudicato in sede penale ed in sede disciplinare.

        Ciò non toglie che un processo disciplinare, eventualmente non sospeso, possa essere definito prima del processo penale, come la richiamata vicenda di stalking insegna. In questo caso, sarà l’Autorità penale a doversi porre il problema della valenza probatoria degli accertamenti effettuati in sede disciplinare in quella sede.

     

        5. Le fattispecie tipizzate disciplinari autonome e la decorrenza dei termini di decadenza.

        Nessun condizionamento tra il procedimento disciplinare e quello penale può sussistere, nemmeno in ipotesi, quando la diversa qualificazione e valutazione di fatti e condotte sia stata fatta ab initio dai titolari dell’azione disciplinare, attraverso la contestazione di autonomi illeciti, funzionali o extrafunzionali.

        In questo caso, le diverse fattispecie tipizzate disciplinari prescindono totalmente dagli accertamenti penali, che riguarderebbero condotte solo in apparenza o solo per una parte coincidenti con quelle contestate in sede disciplinare.

        Inoltre, non essendo prevista alcuna specifica ipotesi di sospensione dei termini ex lege, una eventuale sospensione del procedimento disciplinare sino all’esito del giudicato penale, adottata dal Procuratore generale in sede di istruttoria o dalla Sezione disciplinare in giudizio, non potrebbe determinare alcuna sospensione dei brevi e rigorosi termini decadenziali previsti dall’art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006, con l’inevitabile ed ulteriore conseguenza che, proprio a causa della menzionata incompatibilità temporale dei processi disciplinari e penali, il processo disciplinare, per sua natura più breve e rapido di quello penale, sarebbe destinato all’estinzione per intervenuta decadenza di legge.

     

        6. La giurisprudenza disciplinare, di merito e di legittimità.

        Queste considerazioni, sono state condivise da un orientamento della Sezione disciplinare che si è consolidato, pur faticosamente ed a volte contraddittoriamente, nel corso degli anni e che si è in questo senso espresso, per la prima volta, nel 2009 (CSM, sez. disc., 9 febbraio 2009 n. 28, che ha trovato conferma in sede di legittimità, Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292) in una vicenda nella quale il magistrato si era reso autore di plurime interferenze giudiziarie, attenzionate anche in sede penale.

        Un tappa importante di questo percorso giurisprudenziale è da considerare, tra le più recenti, l’ordinanza interlocutoria resa dalla Sezione disciplinare all’udienza del 12 ottobre 2017 in uno dei processi a carico dei magistrati addetti alla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, alcuni dei quali tuttora attinti in sede penale da ipotesi di reati di corruzione ed abuso d’ufficio e già sanzionati in sede disciplinare, tra l’altro, per l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti (art. 3 lett. a) del d.lgs. n. 109/2006) o per la violazione del dovere di astensione (art. 2, primo comma, lett. c) del medesimo codice disciplinare).

        Il principio di diritto che si è implicitamente più volte affermato in sede di merito è che se il titolare dell’azione disciplinare non abbia inteso contestare il reato in sé, ma una condotta riconducibile alle fattispecie previste dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. 109 del 2006, non opera né la sospensione dei termini, né, tanto meno, la sospensione del procedimento.

        Questo orientamento è stato affermato recentemente, in sede di legittimità, da Cass., sez. un., 8 ottobre 2018, n. 24673 che, a conferma della sentenza della Sezione disciplinare (CSM, sez. disc., 20 febbraio 2017, n. 112), ha ribadito in sostanza il principio della più completa autonomia tra fattispecie disciplinari non collegate a reato e fattispecie penali, ritenendo anzi che il mancato esercizio dell’azione disciplinare per fattispecie diversa da quella prevista nell’art. 4 lett. d) comporta la decadenza dell’azione disciplinare, non rinvenendosi alcun fondamento di sospensione del relativo termine in attesa della definizione del processo penale.

        La vicenda è davvero paradigmatica. Il Procuratore generale aveva esercitato l’azione disciplinare contestando l’illecito di cui all’art. 4 lett. d) in quanto era stata esercitata l’azione penale per reati fallimentari collegati alla distrazione di somme ingenti dal patrimonio della società fallita, poi transitate sul conto corrente intestato al magistrato. Egli aveva quindi sospeso il procedimento in attesa della definizione del processo penale.

        Dopo circa quattro anni, passata in giudicato la sentenza di assoluzione del magistrato, il Procuratore generale revocava la sospensione del procedimento e modificava l’originaria incolpazione contestando l’uso della qualità di magistrato al fine di perseguire un vantaggio ingiusto (art. 3 lett. a).

        La Sezione disciplinare prima e le Sezioni unite poi hanno ritenuto la decadenza dell’azione disciplinare per inutile decorso dei termini, non sospesi ex lege, in relazione all’ipotesi dell’illecito extrafunzionale, malgrado la sospensione del procedimento.

        Il fulcro del ragionamento delle Sezioni unite sta nel fatto che la successiva incolpazione si riferisce a fatto diverso rispetto a quello originariamente contestato: diversa è la condotta contestata e diverso è il disvalore disciplinare come stigmatizzato nelle due ipotesi. Secondo la Suprema Corte gli addebiti in sede disciplinare sono “esterni e separati” da quelli mossi in sede penale e, quindi, andavano contestati da subito e non dopo il decorso del termine decadenziale.

     

        7. Conclusioni.

        Il ragionamento svolto dalla Corte di cassazione deve necessariamente essere applicato in ogni ipotesi di addebito disciplinare diverso dall’illecito conseguente a reato, onde evitare - pur in presenza di eventuale provvedimento di sospensione - il decorso dei termini di decadenza.

        Il fatto contestato in sede disciplinare è infatti sempre diverso dal fatto contestato in sede penale, se rettamente inteso non come mera vicenda fenomenologica, ma come fatto giuridico, comprensivo tra l’altro tanto dell’elemento materiale, quanto dell’elemento soggettivo.

        Né potrebbe mai parlarsi, in questi casi, di possibile violazione del principio del ne bis in idem.

        Quando la notizia dell’esercizio dell’azione penale pervenga ai titolari dell’azione disciplinare, questi possono contestare l’illecito conseguente a reato e, eventualmente, gli illeciti funzionali o extrafunzionali che emergano in modo circostanziato dalla lettura degli atti trasmessi.

        I fatti contestati in via autonoma sono sempre diversi, da un punto di vista giuridico e non fenomenologico, da quelli contestati in sede penale.

        Pertanto, mentre il procedimento disciplinare per l’illecito collegato al processo penale deve (rectius, può) rimanere sospeso sino al giudicato penale, le incolpazioni disciplinari autonome possono essere immediatamente oggetto di giudizio disciplinare, con eventuale condanna del magistrato incolpato (per scorrettezze, violazioni di legge, abusi di qualità, frequentazioni illecite, ecc.).

        Se l’incolpato venga assolto in sede penale con sentenza irrevocabile per il reato addebitato, il Procuratore generale potrà formulare alla Sezione disciplinare richiesta di non luogo procedere per l’illecito conseguente a reato, in relazione al procedimento che era stato sospeso.

        Se l’incolpato venga invece condannato con sentenza penale irrevocabile, l’ipotesi originaria collegata all’art. 4 lett. d) dovrà necessariamente cedere il passo alle altre tre ipotesi previste dall’art. 4 in caso di condanna penale.

        Nell’uno e nell’altro caso, dunque, nessuna sovrapponibilità di condotte e nessuna possibile violazione del principio del ne bis in idem, perché non si tratterà mai dello stesso fatto posto a fondamento di due diverse condanne in sede disciplinare.

        Del resto, solo così interpretando le norme in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e processo penale si potrà pervenire ad un sistema di giustizia disciplinare efficace e capace di porre un freno effettivo alle gravi cadute di professionalità ed ai gravi comportamenti extrafunzionali che, talvolta, caratterizzano anche le condotte magistratuali, consentendo una rinnovata fiducia dei cittadini verso la giurisdizione ed i suoi protagonisti.

        Altrimenti, la giustizia disciplinare tornerà ad essere, come un tempo, una giustizia corporativa, magari forte con i deboli e debole con i forti, incapace di perseguire efficacemente condotte tipizzate dall’elevato disvalore deontologico ed attenta soltanto al perseguimento di illeciti formali, burocratici, comunque di poco conto nell’economia di una realtà giudiziaria sempre più complessa e variegata.

     

                                                                              

                      

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