…E se morisse l’utopia!
di Licia Fierro
Il termine utopia letteralmente equivale a “NON LUOGO” (où tòpos) e fu inventato in età moderna da Tommaso Moro, il quale se ne servì per indicare e descrivere un’isola immaginaria, appunto Utopia, il luogo che non c’è. Nell’isola che Moro tratteggia gli uomini sono felici perché vivono in pace in una comunità tollerante, dove tutto è improntato sui valori del bene e della giustizia, dove nessuno soffre la fame e perciò non esistono l’invidia e la prevaricazione. Quando Moro sottolinea l’assetto istituzionale di Utopia come repubblica aristocratica egli riconosce esplicitamente come punto di riferimento la Repubblica di Platone, il testo originario cui tutti gli utopisti hanno attinto per costruire modelli ideali di Stato. C’è da dire che Platone era convinto che lo Stato ideale e perfetto non è mai esistito, forse non esisterà mai e tuttavia è necessario inseguirlo, tendere ad esso, guardare la realtà non sub specie temporis ma sub specie aeternitatis. Quest’idea della perfettibilità è connaturata alla letteratura utopica quasi in tutti i tempi. E se in alcuni momenti della storia sono risultate prevalenti le trattazioni esclusivamente teoriche, costruite dagli addetti ai lavori senza immediate finalità pratiche, è pur vero che già a partire dalla metà del ‘700 con l’affermarsi della concezione progressista della storia, l’utopia assume la valenza di pensiero rivoluzionario. Per tutti basti pensare a Babeuf e Buonarroti e alla Congiura degli Eguali in cui emergono i motivi ispiratori di gran parte dei movimenti rivoluzionari del secolo successivo. L’Ottocento, mi si potrebbe obiettare, è stato per la questione che ci interessa un secolo bifronte: da un lato i grandi tentativi dei filantropi di costruire in luoghi precisi comunità di vita e di lavoro (si guardi a R. Owen e al suo esperimento di New Harmony in America), dall’altro la critica feroce ai caratteri oppressivi di queste medesime comunità ideali. In sostanza se ne attaccavano i fondatori considerati o megalomani, o schiavi delle loro illusioni, o nuovi oppressori di uomini schiacciati da modelli rigidi, da vere e proprie coazioni a ripetere. E quando si sviluppò il movimento culturale e politico del socialismo utopistico, Marx aveva già chiare le risposte, come si evince da un suo testo importantissimo “La miseria della filosofia” in risposta al libro di Proudhon “La filosofia della miseria”. I socialisti utopisti, e Proudhon in particolare, continuano secondo Marx ad utilizzare categorie hegeliane nel modo di presentare l’evoluzione delle società e il loro sviluppo storico come storia “delle idee”, ovvero come costruzioni concettuali sovrapposte alla “storia reale”. In quel testo nato e concepito come critica a Proudhon, Marx già segna i punti fondamentali della sua concezione materialistica della storia come definitivo abbandono del metodo e dei risultati della dialettica hegeliana di cui pure, in gioventù, si era nutrito. Certo anche a lui non fu estranea l’idea della progettazione per il futuro, anche lui che è stato il filosofo della prassi rivoluzionaria, ha poi delineato i caratteri di una società post-rivoluzionaria. Voglio significare che l’utopia in quanto progetto costruttivo non è una fantasticheria vuota. Dicevo spesso ai miei studenti: che nessuno uccida le vostre utopie, coltivatele perché senza impegnarsi per modificare il mondo non c’è futuro per nessuno. Occorre credere nella spinta propulsiva dell’azione trasformatrice e altrettanto fuggire da modelli assoluti che si presentano come sistemi dove tutto è regolato in modo rigido perché si presume che qualcuno o pochi non solo possiedono il segreto della perfezione, ma agiscono e decidono gradualmente fuori dal patto sociale su cui sono fondate le democrazie mature. Mi piace, in tale ottica, ricordare le numerose interviste che Karl Popper rilasciò a radio, televisioni, riviste e quotidiani tra il 1983 e il 1994 in cui affrontava il tema del futuro “possibile” e metteva in guardia da ciò che poi è realmente accaduto: dai pericoli della democrazia, alla caduta del comunismo, dal pacifismo all’unificazione europea, all’atteggiamento da tenere con gli ecologisti. In tutte quelle interviste lo sguardo del filosofo era proteso verso il futuro, anche se del futuro nessuno sa nulla e non sono possibili previsioni. Si avvertono echi del pensiero di Nietzsche, il quale condannava l’esaltazione del passato come “storia monumentale” utile solo a consolarsi della mediocrità del presente, quando Popper pone una cesura netta tra passato e futuro: «il passato possiamo e dobbiamo giudicarlo, il futuro possiamo influenzarlo». Si profila, dunque, come dovere morale l’impegno a creare le condizioni per costruire un mondo migliore. L’atteggiamento di fronte al futuro non deve essere dominato dalla domanda “che cosa accadrà?” quanto piuttosto dalla domanda: che cosa dobbiamo fare per rendere il mondo almeno migliore?” Nell’intervista a Il Mondo, 21 maggio 1990, a cura di Giuseppe Leuzzi, Popper sosteneva che la democrazia moderna è parte dell’ideologia dell’illuminismo ed essa affermava sostanzialmente questo: «io e i miei amici non abbiamo bisogno di un re o di una polizia, bastano le leggi». Sul piano politico Kant aveva tratto la conclusione che ci dovrebbe essere tanta libertà per ogni persona quanta è compatibile col fatto che viviamo insieme. La democrazia è dunque un fatto politico e morale. La questione morale è diventata sotto le dittature, sotto Hitler o Mussolini, questa: se e in che misura obbedire al capo. Come sostiene Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”, «il principio di autorità certamente tende a ridurre o limitare la libertà ma mai ad abolirla, il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla». Questo è avvenuto nel “secolo breve” tutto compresso nei sistemi totalitari. Riteniamo di essere oggi immuni, ovvero vaccinati da questi virus? Il mondo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili di leibniziana memoria e perciò l’utopia acquista significato solo se si guarda con metodo marxiano alle società umane esistenti e se ne possono modificare in progress le strutture economiche e di conseguenza le relazioni umane che esse determinano. Sempre che la Costituzione e le leggi non vengano disattese o peggio calpestate secondo finalità e interessi di governi in carica. Perciò è necessario evitare che in numerosi Paesi, compreso il nostro, emergano conflitti continui anche e soprattutto a livello istituzionale. I poteri nello stato di diritto sono separati e indipendenti e tali devono restare. I pessimisti diranno che è un’utopia!
(L'immagine è un'illustrazione presente nell'edizione del 1516 di Utopia di Thomas More.)