ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
«Non potendo eliminare con un sol colpo il flagello della guerra si cercò inizialmente di attenuarne i rigori inutili. L’interesse reciproco dei belligeranti li spinse perciò ad osservare, nella condotta delle ostilità, certe “regole del gioco": curare i feriti, proteggere donne e bambini[1].»
L’idea, nata a seguito dell’esperienza della Seconda guerra mondiale e delle gravi conseguenze del conflitto sulle popolazioni, era quella di creare, nell’ambito del diritto internazionale, un diritto che in tempo di conflitto armato, prevedesse la protezione delle persone che non prendono parte alle ostilità, ai beni che possono essere coinvolti e che ponesse limiti all’impiego di mezzi e metodi ai conflitti guerra.
Il diritto dei trattati di Ginevra e dell’Aja del 1948 e i protocolli addizionali del 1977 avevano codificato questi principi individuando i concetti di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio imponendo agli Stati , nel divenire parti della Convenzione di Ginevra del 1949, di rispettare quelle “regole del gioco”, sia perseguendo i responsabili delle violazioni al diritto internazionale umanitario (DIU), attraverso la propria giurisdizione penale oppure applicando il principio della giurisdizione universale[2]; sia infine rispondendone direttamente come Stati davanti alla giustizia internazionale.
Quello che accade nei conflitti in corso e il numero esponenziale delle vittime civili legittima la domanda se il diritto internazionale umanitario esista ancora o se quella idea di civiltà, forse utopistica, che fosse possibile una condivisione generalizzata della tutela dei diritti fondamentali anche in situazione di guerra, possa essere ancora perseguita.
Le reiterate violenze contro le donne e i bambini durante tutti i conflitti contemporanei farebbe pensare di no.
È di questi giorni la notizia che il Global Survivors Fund, lanciato nel 2019[3] per aiutare i sopravvissuti delle violenze sessuali legate ai conflitti ad avere accesso ai risarcimenti ed ottenere un sostegno economico, medico e psicologico, sarà attuato per la prima volta quest’anno in Ucraina in conseguenza alle richieste di centinaia di persone, per ora 500, prevalentemente donne e bambini, che hanno denunciato stupri di guerra ai loro danni da parte delle milizie russe.
Il riferimento a “coloro che sono sopravvissuti” testimonia tragicamente che allo stupro non sempre si sopravvive; e fa riflettere la tipologia delle vittime, individuate in particolare nelle donne e nei bambini, e cioè proprio coloro la cui tutela costituiva il nucleo ideale del DIU.
La notizia, con il suo evidente riferimento ad un crimine efferato, arma da guerra potente e a buon mercato, usata prevalentemente sul corpo delle donne su vasta scala nei conflitti di tutti i tempi ma praticata anche in quelli contemporanei, ha un unico aspetto positivo, che è quello di squarciare il velo che da sempre pesa su questo terribile fenomeno, finora non concretamente accertato e punito ma che certamente integra un crimine di guerra e contro l’umanità, atteso che nella lista, pur non esaustiva, individuata dall’art 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale[4] tale è ritenuto il danno all’integrità fisica e alla salute dei civili durante i conflitti.
Anche la fame (e il connesso rischio di carestia), come i fatti recenti mostrano all’evidenza, è un’arma di guerra, anche questa antica e a buon mercato e colpisce i civili non belligeranti e tra essi soprattutto donne e bambini.
L’UNICEF, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia, ha rilevato che in Palestina, a causa del conflitto, già da fine febbraio, il 90% dei bambini sotto i due anni e il 95% delle donne incinte o che allattano si trovano in condizione di “grave povertà alimentare”. E Save the Children ha dichiarato che le famiglie di Gaza sono costrette a mangiare foglie e resti di cibo contaminate dai topi per cercare di sopravvivere, e che il rischio morte per fame incombe su tutti i bambini che vivono attualmente a Gaza (1 milione circa).
Integrano gravi violazioni del diritto umanitario internazionale bloccare le consegne di acqua, cibo e carburante, radere al suolo intere aree agricole, così privando la popolazione della possibilità di accedere alla raccolta di essenziali fonti di sostentamento, impedire o rallentare l’assistenza umanitaria bloccando i convogli di aiuti e impedendo loro di accedere nei luoghi di distribuzione, colpendo i civili assembrati per approvvigionarsi, bloccare le forniture di elettricità e ostacolare ogni possibile sforzo per ripararli lasciando consapevolmente la popolazione civile senza nessuna fonte di energia; infine la distruzione degli ospedali dove sono ricoverate centinaia e centinaia di feriti e di malati[5].
La Corte Penale Internazionale ha già individuato tali azioni come crimini di guerra e contro l’umanità in relazione al conflitto russo ucraino, in particolare per la deportazione illegale di bambini dai territori occupati[6].
Ora, secondo lo Stato del Sud Africa queste violazioni perpetrate nel corso della guerra israelo-palestinese, molte delle quali imputate a Israele, integrano gli estremi del genocidio ai danni del popolo palestinese.
Il Sud Africa, infatti, ha presentato ricorso alla Corte Penale Internazionale contro Israele per violazione della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio (1951), sulla base della clausola che consente agli stati parte (tra cui sia il Sud Africa che Israele) di sottoporre alla Corte qualsiasi controversia che riguardi l’applicazione del DIU. Il Sud Africa ha accusato Israele di aver commesso plurime violazioni del diritto umanitario tra cui la più grave sarebbe la commissione di genocidio, diretta o per incitamento, o comunque per complicità, mancanza di prevenzione e di repressione dell’azione di singoli o gruppi.
Anche se difficile che la Corte possa addivenire ad una condanna per genocidio atteso che la normativa dettata dalla Convenzione è particolarmente rigida, richiedendo la prova dell’intento specifico e unico di sopprimere un gruppo o di una comunità, in fase cautelare la Corte ha emesso un’ordinanza con cui ha imposto a Israele di cessare ogni condotta di violazione del diritto umanitario e di ostacolo o blocco o impedimento degli aiuti umanitari, ordinando altresì l’invio di report sull’implementazione di queste misure.
Il ricorso e la successiva ordinanza, che sembra allo stato aver avuto qualche successo, sono stati letti come la manifestazione del risveglio della comunità internazionale in relazione all’applicazione del DIU, se non altro perché hanno comportato l’apertura di un’istruttoria che coinvolge le parti coinvolte e le obbliga a fornire spiegazioni.
E tuttavia, come dimostrato dalle audizioni istruttorie fatte dalla Corte, le giustificazioni addotte dalle parti in causa, accusati di essere responsabili di queste gravi violazioni, si fondano prevalentemente sul diritto ad agire con l’uso della forza per tutelare un proprio presunto diritto o per reagire all’attacco altrui
Per contro, il nucleo centrale del DIU, nato con lo scopo di limitare le sofferenze causate dalla guerra proteggendo e assistendo al meglio possibile le sue vittime, è che esso si rivolge alla realtà della guerra senza considerare le ragioni o la legittimità del ricorso alla forza, applicandosi alle parti che combattono indipendentemente dalle ragioni del conflitto, a prescindere dal fatto che la causa sostenuta dall’una o dall’altra parte sia giusta e senza che sia dato alcun rilievo alla parte cui le vittime appartengono.
E ciò sulla base della considerazione di fatto- sempre verificata, come appunto anche nei conflitti in corso - che nel caso di conflitto armato internazionale l’accertamento di quale sia lo Stato responsabile della violazione del principio del divieto del ricorso all’uso della forza sancito dalla Carta delle Nazioni Unite è pressoché irrilevante.
Per definizione, infatti, l’applicazione del DIU non è condizionato dall’accertamento di siffatta responsabilità poiché ciò porterebbe immediatamente al sorgere di una controversia e paralizzerebbe l’applicazione del DIU consentendo a ciascuno degli avversari di sostenere di essere vittima di un’aggressione e di aver solo reagito all’aggressione altrui.
Di questo “risveglio” ci sono anche altri segnali.
Tra questi la richiesta dell’Unione Europea, come soggetto della Comunità Internazionale autonomo rispetto agli Stati che la compongono, di avviare un’indagine indipendente sui cadaveri e le fosse comuni a Gaza. E, ancora di maggior rilievo, la richiesta del Procuratore Generale presso la Corte Penale Internazionale di spiccare mandati di arresto verso i capi di Hamas e i leader israeliani, premier e ministro della difesa.
Nel suo comunicato il Procuratore ha dichiarato che sulla base delle evidenze raccolte ed esaminate dal suo ufficio ci fondati motivi di ritenere Hamas responsabile di sterminio, omicidio, stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini di guerra e contro l’umanità nell’ambito dell’attacco contro la popolazione di Israele. E continua, nella seconda parte del documento, elencando le accuse di crimini di guerra rivolte ai vertici di Israele tra cui lo sterminio e la persecuzione di civili e la fame come metodo di guerra, nonché di aver privato intenzionalmente e sistematicamente la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza umana.
Oggi più che mai, si legge nella parte finale del comunicato, dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale umanitario, la base fondamentale della condotta umana durante i conflitti, si applica a tutti gli individui ed equamente. “Dimostreremo così concretamente che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore”.
Le reazioni “politiche” di questi giorni sono perplesse o piene di distinguo o nettamente contrarie e solo in pochissimi casi favorevoli.
E tuttavia, com’è stato autorevolmente detto, non bisogna dimenticare che la posta in gioco, oltre al rispetto della vita umana, da tutelarsi “trasversalmente” ovunque e quale che sia la parte in causa, è anche la credibilità del diritto internazionale.
[1] Jean Pictet, autore di Etudes et Essais sur le Droit International Humanitaire e le Principes de la Croix Rouge, uno degli ideatori dei Protocolli addizionali (1977) alla Convenzione di Ginevra del 1949.
[2] Chi commette gravi infrazioni al diritto internazionale umanitario può essere punito a prescindere dalla sua nazionalità e dal luogo in cui è stato commesso il fatto.
[3] Il Global Survival Fund è stato lanciato dai premi Nobel per la pace Denis Mukwege e Nadia Murad.
[4] L’art 8 dello Statuto della CIG contiene una lista generalmente accettata delle violazioni al DIU e sulle azioni che costituiscono crimine di guerra che, ancorché non esaustivo, indica come crimini di guerra la tortura dei civili, l’omicidio intenzionale, la deportazione, la distruzione di beni civili pubblici e privati, gravi violazioni all’integrità fisica e alla salute dei civili.
[5] Al Jazeera, il primo aprile, ha mostrato le immagini dell’Ospedale di Shifa a Gaza, punto di riferimento e di cura essenziale per la zona, con le sue 26 camere operatorie e i suoi 750 letti di degenza, già al collasso prima dell’attacco per il gran numero di feriti ricoverati, completamente raso al suolo e bruciato.
[6] Fonte ISPI (Istituto Studi per le Politiche Internazionali): Israele Hamas e la CPI: questione di giustizia. 21.5.2024
Immagine: Rifugiati e personale all'esterno dell'Ospedale Al-Shifa a Gaza City. Fonte AFP/Getty Images.
Abusi edilizi e autotutela: l’onere della prova in capo al privato. Nota a Cons. Stato, II, 1 febbraio 2024, n. 1016.
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstio giuridica all’esame del Consiglio di Stato. – 2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio. – 3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia. – 4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale. – 5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstiogiuridica all’esame del Consiglio di Stato.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito all’impugnazione, da parte del ricorrente, del provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciatogli dall’Amministrazione comunale e della conseguente ordinanza di demolizione dei manufatti ritenuti abusivi dalla stessa p.A.
Questi i fatti.
Il privato chiedeva al Comune il rilascio di un permesso di costruire piuttosto curioso: un p.d.c. «per presa d’atto», in modo da «acquisire una legittimazione postuma di una serie di modiche apportate alle predette unità e certamente risalenti a tempo immemorabile e comunque a prima del 1942»[1]. In quella istanza, il privato dichiarava, dunque, che gli immobili che intendeva regolarizzare erano stati così realizzati prima del 1942, ovvero prima dell’adozione della legge urbanistica fondamentale – la l. n. 1150/1942 – e, dunque, prima che fosse necessario un qualsivoglia titolo edilizio per la loro edificazione. Il permesso, pertanto, chiesto il 29 aprile 2016, era rilasciato il 14 luglio 2016.
La vicenda, probabilmente, non avrebbe avuto ulteriori sviluppi se non si fosse aperto – poco prima dell’istanza stessa – un procedimento parallelo di verifica dello stato dei luoghi, sollecitato dalla confinante controinteressata.
Era infatti accaduto che l’anno precedente, nel 2015, quello stesso privato avesse presentato al Comune una SCIA e – di poi, nell’arco dello stesso 2016 – una serie di C.I.L. in relazione ad alcuni manufatti localizzati in altra parte di quegli stessi immobili. L’Amministrazione comunale, effettuati i relativi sopralluoghi, avrebbe poi emanato una ordinanza di demolizione di quei manufatti, ritenuti abusivi, e, al contempo, aperto un procedimento di verifica del seguente permesso di costruire del 2016.
Il Comune aveva infatti notato – tra le altre cose – che tra la planimetria allegata alla SCIA del 2015 e quella allegata all’istanza di p.d.c. del 2016 c’erano discrete incongruenze le quali lasciavano intendere che tra il 2015 e il 2016 fossero state realizzate opere abusive che, poi, l’istante avrebbe voluto sanare tramite il permesso di costruire per «presa d’atto», retrodatando la planimetria al periodo ante 1942.
Prima di giungere all’esito del procedimento di autotutela sul permesso di costruire, l’Amministrazione comunale sollecitava più volte il privato a chiarire e attestare – comprovandola agli atti – la risalenza delle opere al periodo antecedente al 1942: stante l’assenza di un qualunque riscontro, la conclusione del procedimento diventava pressoché obbligata nel senso dell’annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciato[2].
Il provvedimento era pertanto oggetto d’impugnazione al Tar, che rigettava il ricorso sulla scorta della seguente motivazione: «secondo la giurisprudenza amministrativa l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spett(a) a colui che ha commesso l’abuso e ... solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi – i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni – trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione»; sicché «il soggetto che contesta la legittimità dell’ordinanza sindacale di demolizione di un manufatto abusivo ha l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima della legge n. 1150/‘42 (nel centro abitato), ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia»[3].
Non dandosi per vinto, il privato-ricorrente proponeva appello: il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, confermava la decisione del Tar in tutti i suoi aspetti, rilevando che la pur articolata ricostruzione dei fatti e degli interventi edilizi operata dall’appellante «non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili».
La questione giuridica concerne, dunque, il rapporto tra privato e p.A. in relazione all’onere della prova nel caso di abusi edilizi: posto che, come si vedrà, vige granitico il principio per cui spetta al privato l’onere di provare che gli interventi edilizi sine titulo sono risalenti a un torno di tempo anteriore al 1942 (così legittimandone l’esecuzione priva di titoli abilitativi di sorta), fino a che punto quest’onere può spingersi, alla luce dei principi di correttezza e buona fede nel rapporto con la p.A.?
2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio.
Il tema che sta sullo sfondo della vicenda concerne l’esercizio del potere di autotutela – nella forma dell’annullamento d’ufficio – in materia edilizia.
È ben noto l’assetto generale del potere sancito – dal 2005 – dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Solo per ripercorrere per apicibus la sua parabola evolutiva[4], basterà ricordare che in origine il potere di annullare d’ufficio i propri provvedimenti era considerato attributo immanente e permanente del più generale potere-dovere della p.A. di curare l’interesse pubblico. La natura giuridica del potere medesimo – se fosse espressione del potere originario di provvedere (e ri-provvedere, seppur in senso demolitorio) sul medesimo interesse pubblico; o se, viceversa, fosse espressione di un potere proprio di “annullamento” – erano questioni, tutto sommato, orbitanti rispetto alla certezza che annullare d’ufficio gli atti, motivatamente e in misura proporzionata, fosse comunque un potere immanente nella pubblica Amministrazione, che non necessitava d’esser sancito legislativamente.
L’ancoraggio al dato normativo è avvenuto, come anticipato, nel 2005, interpolando nella legge generale sul procedimento amministrativo alcune disposizioni sull’autotutela esecutiva (art. 21-ter) e altre sull’autotutela decisoria (art. 21-quinquies e 21-nonies in particolare, ma anche art. 21-quater concernente la sospensione del provvedimento): sono gli anni di una rinnovata attenzione al principio di legalità, ed è dunque essenziale che il potere non sia più immanente, ma espressamente regolato da disposizioni di legge, a tutela anche (o forse, soprattutto) del privato che ne subisce gli effetti giuridici[5].
Ne deriva una formulazione della norma che restituisce un potere ancora fortemente discrezionale[6]: l’Amministrazione può decidere se aprire un procedimento di annullamento d’ufficio di un proprio precedente provvedimento illegittimo[7]; quando farlo[8]; se annullare o meno[9]. Sono pochissime le ipotesi di Reduzierung auf Null della discrezionalità, generalmente ricondotte al diritto europeo e ad altre scarne evenienze nelle quali il mantenimento in vita del provvedimento illegittimo è «semplicemente insopportabile» (unerträglich)[10].
Senonché, dal 2011 in poi l’esigenza di reagire alla crisi economica attraverso un’adeguata politica di incentivazione degli investimenti, tale da rendere il Paese più appetibile, ha, coerentemente, indotto il legislatore a rivedere la disciplina dell’autotutela sugli atti amministrativi incidenti sull’esercizio delle attività economiche, spingendolo a prestare sempre maggiore attenzione alla tutela dell’affidamento determinato dal conseguimento dei titoli abilitativi. In quest’ottica, i successivi interventi legislativi si sono mossi nella logica di dare maggior fiducia agli investitori. In particolare, la l. 11 novembre 2014, n. 164 (di conversione del d.l. 11.9.2014, n. 133, c.d. decreto Sblocca Italia) e poi, soprattutto, la l. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e i suoi decreti attuativi (in particolare cc.dd. SCIA-1 e SCIA-2), si sono mossi in una logica – per un verso – di semplificazione amministrativa, ampliando la possibilità di ottenere titoli abilitativi per silentium o sulla base di un mero decorso temporale a fronte della presentazione di autocertificazioni; per altro verso, di irrigidimento dei poteri di autotutela, limitati fortemente nei presupposti ma soprattutto nell’arco temporale d’esercizio[11].
Sicché, l’annullamento d’ufficio ha, sì, mantenuto una dimensione discrezionale, restando tuttavia confinato alle sole ipotesi di provvedimenti illegittimi sotto il profilo sostanziale e comunque limitato nel tempo a 18 mesi dall’adozione di quei provvedimenti, oltre i quali v’è una prevalenza automatica dell’affidamento legittimo del privato e il provvedimento autorizzatorio non è più annullabile[12]. Nondimeno, il termine d’esercizio del potere è stato ulteriormente abbreviato[13]: 12 mesi, nell’attuale formulazione normativa, frutto del d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni-bis). È peraltro in cantiere un nuovo d.d.l. Semplificazioni, il cui schema è stato sottoposto al Consiglio dei Ministri il 26 marzo 2024, per cui il termine d’esercizio del potere di annullamento d’ufficio sarà ridotto ulteriormente a 6 mesi[14].
L’unica eccezione alla (sempre maggiore) perentorietà del termine sta nella possibilità che il privato non sia effettivamente titolare di un affidamento legittimo meritevole di tutela sulla stabilità del titolo abilitativo per aver egli stesso dolosamente o colposamente indotto in errore l’Amministrazione o aver dato falsa o mendace rappresentazione della realtà: lo stabilisce il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, in base al quale «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445». La disposizione, per il vero non particolarmente perspicua[15], ha dato la stura a un corposo orientamento giurisprudenziale che – spesso proprio in materia edilizia – legittima il potere di autotutela “tardivo” dell’Amministrazione a fronte di false rappresentazioni della realtà da parte del privato senza che neanche sia richiesto l’accertamento penale[16].
3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia.
Ora, il modello generale di autotutela (nel senso dell’annullamento d’ufficio) – pur se fortemente ridimensionato nei tempi d’esercizio – è comunque basato su un ampio potere discrezionale dell’Amministrazione, che trova limite nell’affidamento del privato (laddove legittimo) e spinge la p.A. a dover minuziosamente motivare il suo atto di secondo grado per giustificarne gli effetti giuridici demolitori.
Rispetto a questo quadro, l’autotutela edilizia presenta due peculiarità:
Il distacco sotto il primo profilo rispetto al modello generale è prefigurato – seppur prudentemente – dall’Adunanza Plenaria n. 7/2018[17]: pronunciatasi su una fattispecie anteriore all’introduzione del termine di 18/12 mesi (profilo che dunque resta fuori da quanto adesso si dirà), la Plenaria ha offerto un archetipo dell’autotutela edilizia piuttosto rigoroso.
Anzitutto, la motivazione.
Pur non aderendo supinamente alla teoria della motivazione in re ipsa[18], il Collegio sostiene che l’obbligo di motivazione del provvedimento di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio è senz’altro attenuato in ragione dei peculiari e rilevanti interessi pubblici sottesi all’adozione di un simile provvedimento[19].
Ma lo è ancor di più laddove l’illegittimità sia stata provocata dalla falsa rappresentazione della realtà da parte del privato (o costui abbia contribuito a falsarla, non contraddicendo l’Amministrazione ma restando inerte davanti a un suo errore): non essendoci alcun legittimo affidamento da proteggere e da bilanciare con gli interessi pubblici[20].
Quanto, poi, al profilo della doverosità: la norma speciale sull’autotutela edilizia (art. 39, d.P.R. n. 380/2001) e una certa lettura giurisprudenziale dell’art. 21-nonies configurano il potere di annullamento d’ufficio come doveroso in quanto espressione – più che di una potestà discrezionale – di un potere di vigilanza sull’edificazione corretta del territorio[21].
4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale.
S’è visto che l’annullamento d’ufficio del titolo abilitativo edilizio è senz’altro agevolato – quanto meno sotto il profilo motivazionale, oltre che rispetto al lasso temporale d’esercizio – quando non vi sia un ragionevole convincimento sulla stabilità del titolo da parte del privato: ciò accade, appunto, quando dai documenti – nonché dal contegno di questi – sia evincibile una mistificazione dello stato di fatto.
Non bisogna dimenticare che, sullo sfondo della vicenda qui in commento, campeggiano i principi di correttezza, collaborazione e buona fede che governano ormai pacificamente il rapporto amministrativo, codificate all’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 120/2020. Ne ha dato ampio spaccato l’Adunanza Plenaria, con la sentenza (da ultimo) 21 novembre 2022, n. 19[22]: «il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento».
La stessa Plenaria ha delineato i limiti di tutela dell’affidamento del privato, sempre alla luce dei detti principi: «deve innanzitutto premettersi che l’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato. […] per cui un affidamento incolpevole non è pertanto predicabile innanzitutto nel caso estremo […] in cui sia il privato ad avere indotto dolosamente l’amministrazione ad emanare il provvedimento. In conformità alla regola civilistica ora richiamata altrettanto è a dirsi se l’illegittimità del provvedimento era evidente ed avrebbe pertanto potuto essere facilmente accertata dal suo beneficiario».
Insomma, il privato contribuisce senz’altro – nel bene e nel male – al contenuto del provvedimento finale: nel caso in cui contribuisca nel male, gli è riconosciuta tutela nel caso questa circostanza sia avvenuta senza assoluta sua colpa e in modo per lui non riconoscibile.
Che fare, allora, nel caso di cui alla sentenza in commento? Come comportarsi, cioè, quando – a fronte della segnalazione del controinteressato al permesso di costruire – l’Amministrazione si avvede di incongruenze nelle planimetrie e chiede – invano – al beneficiario i relativi chiarimenti?
Nel caso di specie, l’Amministrazione si avvede che la consistenza dell’immobile in planimetria potrebbe non essere, effettivamente, risalente a un periodo ante 1942: la retrodatazione non è sufficientemente provata. O, meglio: lo era nel momento della richiesta del permesso; le allegazioni, tuttavia, a fronte della minuziosa segnalazione del controinteressato e del successivo sopralluogo, non bastano più e necessitano di prove più circostanziate.
Vale, insomma, il principio per cui «va posto in capo al proprietario (o al responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l’onere di provare il carattere risalente del manufatto, collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando l’art. 31, l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano; tale conclusione vale non solo per l’ipotesi in cui si chiede di fruire del beneficio del condono edilizio, ma anche – in generale – per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione, appunto, di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi; tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e amministrazione discende dall’applicazione alla specifica materia della repressione degli abusi edilizi del principio di vicinanza della prova poiché solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno dell’intero suo territorio»[23].
L’onere della prova per evitare la sanzione (o appunto l’annullamento d’ufficio – a questo punto, doveroso – del permesso di costruire “per presa d’atto”) grava, dunque, sul privato: ciò in quanto, secondo la giurisprudenza, è solo costui che può avere accesso a una documentazione comprovante la risalenza dell’intervento edilizio. Il Giudice amministrativo esclude che l’Amministrazione possa – da sé – fare quelle verifiche risalenti nel tempo e acquisire la certezza della datazione dell’intervento.
Ciò non implica, ovviamente, che anche laddove vi siano legittimi dubbi sull’epoca di realizzazione, l’Amministrazione possa provvedere senza interpellare il privato: il soggetto pubblico non può deflettere dal suo compito di provvedere – e, se del caso, sanzionare – prima di aver coinvolto il privato nel procedimento decisionale.
Laddove l’Amministrazione così agisse, sarebbe certo illegittimo il provvedimento conseguente. È il caso, per esempio, dell’illegittimità di un ordine di demolizione di un manufatto ritenuto abusivo, la cui edificazione ante normativa era invece stata provata dal privato con allegazioni fotografiche precise[24], considerate apoditticamente non sufficienti dalla p.A. comunale.
Nel caso di specie, al contrario, il Comune aveva dato prova di voler ascoltare le deduzioni del privato, chiedendogli più volte di comprovare la datazione dei presunti abusi edilizi precedentemente al 1942. Il privato, inerte e silenzioso rispetto alle sollecitazioni, aveva solo dedotto inizialmente in una relazione tecnica che «certamente» l’immobile aveva quella precisa conformazione da prima del 1942, senza però alcuna allegazione fotografica né altro tipo di testimonianza.
Lo stato storico dell’immobile, dunque, versava in una incertezza: risoltasi, però, anche a fronte del contegno inerte e silenzioso del privato, nella più che plausibile consapevolezza della non retro-databilità degli interventi edilizi.
5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
L’orientamento giurisprudenziale per cui è il privato, a dover provare all’Amministrazione la datazione degli interventi, è sorretto anche dal principio (di natura processuale) di vicinanza della prova, di cui agli artt. 63 e 64 c.p.a.
Ciò in quanto, come afferma la giurisprudenza, «la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è posta sul privato e non sull’Amministrazione, atteso che solo il privato può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone e, dunque, in applicazione del principio di vicinanza della prova) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto; mentre, l’Amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio. Tale prova deve, inoltre, essere rigorosa e deve fondarsi su documentazione certa e univoca e comunque su elementi oggettivi, dovendosi, tra l’altro, negare ogni rilevanza a dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o a semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate»[25].
Ora, l’applicazione di questo principio nel processo amministrativo – specie nel giudizio impugnatorio – mira a temperare la forte asimmetria che c’è tra la parte pubblica e quella privata: discostandosi dall’allegazione formalistica di cui all’art. 2967 c.c. e guardando, invece, alla prova tramite allegazione dei documenti nella cui disponibilità è ciascuna parte[26].
Ovviamente, in fattispecie come questa si dà per assodata l’idea che sia il privato, a detenere “ordinariamente” documenti e reperti in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione degli interventi edilizi: documenti che poi, in sede di giudizio, dovrebbero anche essere prodotti. Senz’altro è possibile ricostruire la storia di un immobile dagli atti notarili, per esempio; forse, nei casi fortunati, si ritrovano fotografie in grado di testimoniare quelle stesse circostanze. Non è detto, però, che sia sempre agevole.
Nondimeno, non si vede altra strada che questa: l’Amministrazione, oggettivamente, salvo caso fortuito, non è in grado di ritrovare, neanche nei propri archivi, la prova della consistenza di un immobile negli anni anteriori all’instaurazione di qualunque obbligo di licenza edilizia. Tuttavia, se ne può trovare, almeno, il primo titolo storicamente accertabile: in un’epoca nella quale non si faceva uso di autocertificazioni, probabilmente i documenti in possesso delle Amministrazioni possono fornire una prova piuttosto fedele.
In questo modo, probabilmente, si può semplificare l’attività probatoria del privato, conducendo in maniera meno incerta a un esito sanzionatorio-annullatorio del permesso di costruire o, al contrario, a un’archiviazione del procedimento, con mantenimento dell’edificato.
Laddove la prova della realizzazione degli immobili nel periodo precedente il 1942 non sia raggiunta, prevarranno senz’altro le tutele degli interessi pubblici alla regolare edificazione del territorio: l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire sarà – ça va sans dire – doveroso.
[1] È quanto contenuto nel ricorso di parte, come mostra la sentenza di primo grado, Tar Puglia, Lecce, I, 15 giugno 2021, n. 926.
[2] Questa la motivazione del provvedimento ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990:
«è stato disposto (…) l’avvio di procedimento amministrativo finalizzato alla verifica di legittimità del Permesso di Costruire n. 61/2016 (del) 14 luglio 2016 in quanto la consistenza dichiarata risulta essere superiore e diversa rispetto a quella indicata come stato di fatto nella SCIA n. 3/2015’ (…)
- in data 17 ottobre 2018, prot. n. 0054634, questo Ufficio ha inoltrato un primo sollecito, alle parti, a voler dimostrare l’effettiva consistenza e l’appartenenza degli ambienti che costituiscono incongruenza tra gli elaborati allegati alla SCIA n. 3/2015 e il PdC n. 61/2016;
- in data 14 febbraio 2019, prot. n. 0008834, questo Ufficio ha inoltrato un secondo sollecito, alle parti, a dare riscontro a richiesto con la precedente nota;
Dato atto che non risultano pervenute risposte dalle parti interessate.
Considerato: - che il titolo edilizio (PdC n. 61/2016 del 14 luglio 2016), per la connotazione particolare ‘per presa d’atto’ di immobile già esistente, necessariamente basa il suo presupposto principale sulla specifica attestazione delle parti aventi titolo in merito alla sua consistenza planivolumetrica e, susseguentemente, alla verifica da parte dell’ufficio, con riferimento alle caratteristiche tipologiche costruttive dell’immobile ed ai riscontri cartografici in atti; - che il mancato riscontro del richiedente, più volte sollecitato, fa venire meno il suddetto presupposto principale ai fini della validità del PdC n. 61/2016 … a maggior ragione in presenza di altro titolo edilizio (SCIA n. 3/2015) - sempre a nome dello stesso richiedente - che presenta la stessa porzione di immobile in modo differente nella sua consistenza; - che alla luce delle considerazioni sopra riportate, fatta salva ogni valutazione in merito, sugli aventi titolo per la porzione di immobile in argomento, e/o sulle interconnessioni con altri procedimenti urbanistico - edilizi in itinere, sempre riferiti all’immobile in argomento, appare inconfutabile la mancata puntuale definizione della effettiva consistenza dell’immobile oggetto del PdC n. 61/2016.
(…)
Determina l’annullamento del Permesso di Costruire…».
[3] Cfr. i rinvii giurisprudenziali a Tar Puglia, Lecce, I, 21 luglio 2020, n. 767; v. anche Cons. Stato, II, 5 febbraio 2021, n. 1109 e 8 maggio 2020, n. 2906, secondo cui «è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio (…) Tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità».
[4] La bibliografia sul punto è ovviamente sterminata. Sia sufficiente qui ricordare le ricostruzioni di M. Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, pp. 337 ss. Sulle problematiche sollevate dall’istituto dell’annullamento, cfr. anche S. D’Ancona, L’annullamento d’ufficio tra vincoli e discrezionalità, Napoli, 2015. Sulle incongruenze della disciplina della revoca, P.L. Portaluri, Note sull’autotutela dopo la legge 164/14 (qualche passo verso la doverosità?), in Federalismi.it, 2014; su una lettura dei poteri di autotutela demolitoria che consente di trovare tratti comuni tra revoca e annullamento d’ufficio, A. Gualdani, Verso una nuova unitarietà della revoca e dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2016. Si v. anche M. Allena, L’annullamento d’ufficio, Napoli, 2017. Per il profilo europeo sia consentito il rinvio anche a C. Napolitano, Autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018; da ultimo, M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in Ceridap, n. 4/2020.
[5] V. in proposito, B.G. Mattarella, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., pp. 1223 ss.; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015.
[6] Si ricorda la primigenia formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990: «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
[7] È granitico l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il potere di annullamento d’ufficio non può essere coartato dal privato, il quale – laddove l’Amministrazione non dia corso alla sua istanza – non potrà trovare tutela avverso il silenzio inadempimento della p.A., non configurandosi un obbligo di procedere e, dunque, un silenzio inadempimento: «Non sussiste in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita sull’istanza del privato diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela su un diniego di condono reso in ragione delle caratteristiche con il sito protetto e del conseguente parere negativo della Soprintendenza. Il potere di autotutela è infatti incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio-inadempimento ai sensi dell’art. 117 c.p.a., salvo i casi normativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad esigenze conclamate di giustizia» (ex multis, Cons. Stato, VI, 6 aprile 2022, n. 2564).
[8] Il rapporto tra annullamento d’ufficio e decorso del tempo, prima della sua formalizzazione in un lasso temporale specifico, era dettato esclusivamente dalla possibilità di ritenere consolidato l’affidamento legittimo del privato (per uno spaccato rispetto alla norma vigente all’epoca, F. Caringella, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, pp. 425 ss.). Per la giurisprudenza, sempre nell’applicazione della norma ratione temporis vigente, « L’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma peraltro il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio; l’onere motivazionale gravante sull’Amministrazione può ritenersi attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati» (Cons. Stato, VI, 20 settembre 2021, n. 6405 su fattispecie anteriore alla riforma normativa del 2015).
[9] Il potere di annullamento d’ufficio è ampiamente discrezionale nel merito, tanto da richiedere una motivazione spesso accurata in relazione all’interesse pubblico – concreto e attuale, diverso dal mero ripristino della legalità violata – da proteggere e alla sua prevalenza rispetto al contrario affidamento del privato. Per esempio, Cons. Stato, VI, 28 dicembre 2021, n. 8641: «I presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento, dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l’esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti: in ambito edilizio la motivazione esigibile deve essere integrata dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione».
[10] Si tratta della nota giurisprudenza derivante da Corte giust. UE, i-21 Germany GmbH (C-392/04) and Arcor AG & Co. KG (C-422/04) v Bundesrepublik Deutschland, 19 settembre 2006, che fa applicazione dell’art. 48 VwVfG. L’orientamento fu fatto proprio da una pronuncia rimasta isolata (peraltro in tema di edilizia): TRGA Trento, 16 dicembre 2009, n. 305, in Giur. merito, n. 5/2010, su cui v. A. Cassatella, Una nuova ipotesi di annullamento doveroso?, in Foro amm. TAR, n. 3/2010, pp. 802 ss.
[11] M.A. Sandulli, Autotutela, in Il libro dell’anno del diritto, Treccani, 2016. La limitazione temporale dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ha ripercussioni singolari sulla SCIA, nella quale il decorso del termine – stante una certa mobilità del dies a quo – è di per sé incerto, non essendovi estranee neanche vicende nelle quali il privato abbia segnalato uno stato dei fatti non veritiero: sul punto v., da ultimo, P. Otranto, Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387), in questa Rivista.
[12] Ex multis, Tar Campania, VIII, 02 novembre 2020, n. 4956: «Con riguardo ai titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, da compararsi con i contrapposti interessi dei privati, entro un termine ragionevole, termine che l’art. 6, l. n. 124 del 2015 ha da ultimo fissato in diciotto mesi. Pertanto, nonostante l’esercizio del potere di autotutela sia espressione di rilevante discrezionalità, l’Amministrazione non è comunque esentata dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti».
[13] Ci si limita a segnalare la forte abbreviazione del termine in era Covid-19. Il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 ha infatti disposto (con l’art. 264, comma 1 lettera b) che «Al fine di garantire la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini e delle imprese in relazione all’emergenza COVID-19, dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2020: [...] b) i provvedimenti amministrativi illegittimi ai sensi dell’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, adottati in relazione all’emergenza Covid-19, possono essere annullati d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro il termine di tre mesi, in deroga all’art. 21-nonies comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il termine decorre dalla adozione del provvedimento espresso ovvero dalla formazione del silenzio assenso. Resta salva l’annullabilità d’ufficio anche dopo il termine di tre mesi qualora i provvedimenti amministrativi siano stati adottati sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, ivi comprese quelle previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445».
[14] Cfr. Schema di disegno di legge recante disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese, approvato dal Consiglio dei Ministri del 26 marzo 2024 (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/sche/schema-ddl-semplificazione-cdm-26-marzo-2024.pdf) e relativa Relazione illustrativa (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-illustrativa-26-marzo-ddl-semplificazioni-cdm.pdf) e Relazione tecnica (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-tecnica-ddl-semplificazioni-26-marzo-2024_--002-.pdf).
[15] Si è molto discusso sul valore del mendacio e del falso, sulle figure di reato contemplate, sulla necessità di una sentenza penale di condanna per l’accertamento del reato. Tra tutti si v. M.A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica Amministrazione e illeciti edilizi, in Federalismi.it, n. 14/2015.
[16] Per esempio, Tar Campania, VII, 2 marzo 2023, n. 1337: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, configurabile anche in presenza, come nella specie, del solo silenzio su circostanze rilevanti, comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio introdotto, nell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, dall’art. 6, l. 7 agosto 2015 n. 124, senza che, a tal fine, sia neppure richiesto alcun accertamento processuale penale»; oppure Tar Lazio, Latina, I, 21 ottobre 2022, n. 807: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio, si configura quando l’erroneità dei presupposti del provvedimento non è imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato, dato che anche sul cittadino incombe pur sempre un obbligo di comportamento corretto ed in buona fede in adempimento dei doveri di solidarietà imposti dall’art. 2 Cost. Non sussistono, tuttavia, significativi profili di colpa grave ovvero di dolo del privato quando: da un lato, i non perspicui riferimenti normativi ben possono giustificare un’imprecisa ricostruzione dei requisiti posseduti; dall’altro lato, in presenza di inequivoca indicazione da parte dell’interessata, nonostante la consapevolezza dell’insufficienza del titolo la P.A. lascia trascorrere del tempo, così da far maturare un più che plausibile affidamento sulla validità del percorso seguito (nella specie, è stata ritenuta conseguenza di errore materiale la compilazione della domanda di condono nel 1986, laddove si è indicato come a uso ‘attività sportiva’ un manufatto di fatto utilizzato per ‘attività commerciale’, trattandosi di circostanza facilmente verificabile in ogni momento dall’Amministrazione e comunque nella specie corretta dall’istante nel 2009)».
[17] Si rinvia in proposito ai commenti di E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., n. 2/2018, pp. 404 ss.; N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., n. 5/2017, pp. 1103B; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., n. 2/2018, pp. 730 ss.; C. Pagliaroli, La motivazione del provvedimento di annullamento in autotutela di concessione edilizia in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 2/2017, pp. 379 ss.; Id., La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2018, pp. 92 ss.
[18] Ad. Plen., n. 8/2017: «In base a un primo orientamento, allo stato maggioritario, l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato. […] questa Adunanza plenaria ritiene che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti. Conseguentemente, grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti».
[19] Ad. Plen., n. 8/2017, cit.: «È ora possibile […] domandarsi se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati. Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo alla luce della pregnanza degli interessi pubblici sottesi alla disciplina in materia edilizia e alla prevalenza che deve essere riconosciuta ai valori che essa mira a tutelare. Vero è infatti che – per le ragioni dinanzi esposte – il decorso del tempo onera l’amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela di un titolo edilizio illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. È parimenti vero, però, che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica. Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo edilizio illegittimamente rilasciato in area interessata da un vincolo di inedificabilità assoluta o caratterizzata da un grave rischio sismico: in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie. Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere - per così dire - ‘autoevidente’), l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi. Non pare quindi condivisibile la tesi (talora affermata dalla giurisprudenza anche di questo Consiglio) secondo cui, anche in sede di motivazione dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai prodotti in via definitiva».
[20] Sempre Ad. Plen., n. 8/2017: «La giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio - anche in sanatoria - rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione […]. La giurisprudenza di questo Consiglio ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale […]. Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione. In tali ipotesi […] l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione. Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale), l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata».
[21] Ex multis, CGARS, 26 maggio 2020, n. 325: «Il potere di annullamento regionale del permesso di costruire, di cui all’art. 39, d.P.R. n. 327 del 2001, è una forma di autotutela speciale, riconducibile all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, salva la specialità del termine decennale di esercizio, che è tuttora vigente»; Tar Campania, IV, 6 aprile 2020, n. 1338: «L’Amministrazione comunale può esercitare il potere di vigilanza sulle attività urbanistico-edilizie nei termini di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990 senza dover comparare gli interessi privati coinvolti e l’(eventuale) affidamento al mantenimento di opere abusive maturato dal privato per effetto del (solo) decorso del tempo».
[22] Sulla quale sia consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell'affidamento: indicazioni ermeneutiche dall'Adunanza Plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022.
[23] Ex multis, Cons. Stato, II, 26 gennaio 2024, n. 858. La fattispecie concreta in questa sentenza consisteva nell’individuazione di abusi edilizi nel territorio circostante il centro abitato, sul quale la legge-ponte del 1967 aveva stabilito che le costruzioni dovessero avere un titolo edilizio. La medesima circostanza vale per gli edifici situati nel centro abitato, ma avendo come parametro normativo di riferimento la l. n. 1150/1942.
[24] Tar Friuli-Venezia Giulia, I, 10 novembre 2022, n. 476: «Il provvedimento ha ordinato la demolizione della tettoia sul presupposto della sua abusività, così assumendo che, ai fini della sua edificazione, fosse necessario munirsi di un titolo edilizio. Non affronta però la questione relativa alla data di realizzazione dell'opera e al correlato regime giuridico, che appare invece centrale nella presente vicenda. A tale proposito, i ricorrenti rappresentano che l'opera è stata edificata in data antecedente all'emanazione della c.d. legge ponte (l. 765 del 1967) e al primo piano regolatore del Comune di Lignano, entrato in vigore solo nel 1972. A comprova di tale affermazione, hanno prodotto documentazione fotografica (doc. 9) che, pur se di modesta qualità, consente di scorgere la tettoia di cui si discute e farla risalire ad una data antecedente quantomeno al 1969 (data del timbro postale sulla cartolina riprodotta nelle prime pagine del documento 9), se non addirittura al 1965 (come desumibile dall'indicazione "Lig 65/166" sul retro della cartolina, nonché dalla cartolina di cui al pag. 13 del documento, benché si tratti in questo caso di una data apposta dal compilatore della cartolina e non di un timbro postale). Anche nell'immagine aerea di cui al doc. 15, tratta dal sito del patrimonio culturale della Regione Friuli-Venezia Giulia, si intravede il manufatto, anche se la data dello scatto è indicata solo approssimativamente (tra il 1965 e il 1970). Tali elementi costituiscono rilevanti principi di prova circa l'anteriorità dell'opera al 1967 e quindi del suo risalire ad un'epoca in cui l'attività edilizia non era soggetta all'obbligo generalizzato di "chiedere apposita licenza al sindaco", introdotto solo dall'art. 10, l. 765 del 1967 (che ha riformulato l'art. 31 della l. 1150 del 1942). Il Tribunale ritiene, pertanto, che la circostanza fosse meritevole di considerazione da parte del Comune. Il Comune ha poi evidenziato che, anche assumendone l'edificazione in data anteriore alla legge ponte, la tettoia avrebbe comunque dovuto essere previamente assentita ai sensi dell'art. 31 della l. 1150 del 1942, nella versione vigente ratione temporis, che richiedeva in ogni caso la licenza edilizia per gli interventi da realizzarsi "nei centri abitati". Non è, però, dimostrato che l'edificio si trovasse, già all'epoca di realizzazione dell'opera, in area qualificabile come "centro abitato", mancando l'evidenza di una sua perimetrazione ad opera di provvedimenti precedenti al primo piano regolatore. In assenza di una sua formale identificazione ad opera dell'autorità, la nozione di "centro abitato" deve ricollegarsi a dati fattuali ed empirici (Cons. St., sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3656), che dovevano essere esaminati e valutati dall'amministrazione alla luce del contesto esistente al momento dell'intervento. Conclusivamente, il Tribunale ritiene che, a fronte di elementi che militano a favore di una realizzazione della tettoia ante 1967, era onere dell'amministrazione operare una più approfondita istruttoria circa la data di edificazione e la sua effettiva abusività (Cons. St., sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5988)».
[25] Ex multis, Tar Campania, VI, 17 novembre 2022, n. 7097 (corsivo nostro).
[26] F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l'esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2017, pp. 911 ss.: «nel processo, la vicinanza può costituire una regola probatoria idonea a contrapporre allo schema, evidentemente formale, dell'onere secondo allegazione di cui all'art. 2697 c.c., nel quale le parti restano identificate senza residui dalla posizione processuale che vanno ad assumere nel relativo giudizio, uno schema sostanziale nel quale, avendosi riguardo alla specifica realtà della fattispecie controversa, il carico probatorio viene ponderato “tenuto conto in concreto della possibilità per l'uno e l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione”. Il principio di “vicinanza alla prova” […] costituisce uno strumento più evoluto, in quanto assiologicamente meglio orientato e non ordalico, di risolvere il problema del divieto di non liquet: la vicinanza, infatti, flessibile per propria natura, implica – ed al contempo rende possibile – che il giudice risolva comunque la lite senza ricorrere all’éscamotage di soluzioni preconfezionate ed astratte dalla fattispecie concreta configurato dal formalistico criterio di cui all'art. 2697 c.c., intrinsecamente inidoneo a selezionare il reale. Tale principio, dunque, si configura, da un lato, come un corollario dei doveri di correttezza, buona fede e diligenza nell'adempimento delle obbligazioni (artt. 1175, 1176, comma 2º, e 1375 c.c.) e, dall'altro, come una derivazione del principio costituzionale del giusto processo e delle regole generali del codice di rito civile (in primis, il dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, inteso come onere delle parti, vicine alla fonte di prova, di collaborare allegando tempestivamente e nel rispetto delle regole di correttezza i mezzi istruttori, in un'ottica di economia processuale e di ragionevole durata del giudizio). Esso, quindi, “viene ad assumere il ruolo di correttivo (se non altro) delle applicazioni più rigide e pesanti del formalismo caratteristico della regola della prova secondo allegazione. Un ruolo, a nostro avviso, anzi necessario – sotto il profilo costituzionale, prima di tutto il resto – per combattere e smorzare le asprezze, in effetti notevoli, che il modello dell'onere viene propriamente a proporre”».
Sommario: 1. Premessa – 2. La “documentazione antimafia” – 3. Il “controllo giudiziario” - 4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario - 4.1. Demarcazione dei relativi presupposti - 4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze - 5. Conclusioni.
1. Premessa
“La mafia…..è un fatto umano... che si può vincere impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni” (Giovanni Falcone).
In quest’ottica, attraverso l’elaborazione del cd. “Codice Antimafia” (Decreto Legislativo 6.9.11 n. 159), il Legislatore ha inteso perseguire, a forza, il complesso obiettivo come sopra citato.
In un contesto così delicato, tuttavia, la principale questione che si pone è quella di riuscire ad assicurare il difficile bilanciamento fra due contrapposti interessi, entrambi aventi rilevanza costituzionale, quali la salvaguardia dell’ordine pubblico economico ed il diritto di iniziativa economica privata.
Se pertanto, da un lato, l’art. 84 comma 1 contempla il sistema della “documentazione antimafia”, la cui finalità è quella di estromettere dal contesto economico sano quelle imprese condizionate dalla criminalità organizzata, privandole della possibilità di poter contrarre con la Pubblica Amministrazione; dall’altro, l’art. 34-bis, introdotto a distanza di pochi anni (Legge 17.10.17 n. 161) dall’entrata in vigore del Codice, persegue la finalità di riallineare ad esso contesto economico sano quelle realtà imprenditoriali ritenute come soltanto “occasionalmente” inquinate dal fenomeno mafioso.
Il presente contributo, anche alla luce delle peculiari esperienze professionali maturate al riguardo, si propone di analizzare - premessi brevi cenni descrittivi sugli istituti - il rapporto (rectius: la correlazione) esistente fra i predetti differenti strumenti, che, pur essendo basati su distinti presupposti giuridici, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti da parte da parte del Giudice Amministrativo e del Giudice della Prevenzione, con ogni inevitabile conseguente inferenza.
2. La “documentazione antimafia”
Il sistema della documentazione antimafia è costituito (art. 84 comma 1 D.Lgs. 6.9.11 n. 159) dalle differenti categorie della “comunicazione antimafia” e della “informazione antimafia”.
L’emissione di tali provvedimenti comporta, tra l’altro, l’esclusione di un imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le Pubbliche amministrazioni, determinando a suo carico una particolare forma di incapacità giuridica (Consiglio di Stato, A.P. 6.4.18 n. 3).
Mentre la “comunicazione antimafia” si traduce, in via essenziale, nell'attestazione in ordine alla sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all'art. 67 del Codice Antimafia ed opera, in tal senso, alla stregua di uno strumento vincolato, avente una funzione di natura accertativa, che fotografa la cristallizzazione di una situazione espressamente tipizzata dal Legislatore; la “informazione antimafia” si fonda su di una valutazione, frutto dell’esercizio di un potere amministrativo avente contenuto ampiamente discrezionale, che, muovendo anche dalle “situazioni indizianti” elencate al comma 4 dell’art. 84, conduce alla elaborazione di un quadro indiziario dal quale poter desumere, sulla base di un criterio di natura probabilistica (“più probabile che non”), che l’attività d’impresa possa essere esposta ad un “tentativo” di infiltrazione mafiosa.
L’informazione antimafia, alla luce dell’ampiezza di esso potere valutativo, finisce per essere equiparata ad una misura di prevenzione sui generis, che anticipa massimamente la soglia di prevenzione.
Epperò, attesane la natura squisitamente cautelare, non è richiesta, ai fini della sua adozione, la prova di un fatto concreto, essendo ritenuta sufficiente, secondo il consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza amministrativa, la sussistenza di elementi “sintomatico-presuntivi”, integrati da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, dai quali sia deducibile, sulla base della predetta citata regola causale del “più probabile che non” ed alla luce di una loro considerazione “unitaria” e non già atomistica (cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri), il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata.
È dunque radicalmente estranea all’informazione antimafia qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio.
*
Sono almeno due, al riguardo, gli spunti di riflessione critica.
Da una parte, risalta l’occorsa elaborazione di un ormai granitico orientamento giurisprudenziale che, andando oltre il dato letterale del quadro normativo di riferimento, interpreta in senso ampio la nozione di “tentativo di infiltrazione mafiosa” [certamente non inteso quale compimento di “atti idonei, diretti in modo non equivoco, a commettere”], sostituendola, in sostanza, con quella di mero “rischio” di condizionamento e/o di ingerenza mafiosa.
Dall’altra, la predisposizione di un “sistema di prevenzione” fatto funzionare per tramite di uno strumento (rectius: provvedimento) di natura amministrativa, che, anche alla luce delle indicazioni rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella nota sentenza De Tommaso, sconta un evidente deficit di tipicità.
Il rischio che si verifica, in tal senso, è quello di comportare un’anticipazione dell’intervento dei pubblici poteri e della soglia della difesa sociale tale da “avanzare la frontiera della prevenzione” fino al punto di poter desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa da elementi financo immaginari od aleatori, da semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria e pur in assenza di azioni che appaiano idonee rispetto al supposto fine dell’interferenza e del condizionamento delle scelte imprenditoriali, ciò che consegnerebbe l’istituto dell’informazione antimafia ad un diritto della paura, che finirebbe per comminare una sorta di “pena del sospetto”.
La conseguente difficoltà è quella degli amministrati di poter agevolmente censurare dinanzi al Giudice Amministrativo le scelte compiute dall’Autorità Prefettizia e ciò attesi i noti limiti riguardanti il sindacato giurisdizionale involgente le scelte tecnico-discrezionali dell’Amministrazione.
3. Il “controllo giudiziario”
Muovendo nell’ottica di garantire il bilanciamento dei contrapposti interessi descritti in premessa, il Legislatore - anche, si ritiene, al fine di colmare gli inconvenienti di sistema sopra descritti - ha innovato il Codice Antimafia mediante l’introduzione dell’art. 34-bis, rubricato “controllo giudiziario delle aziende”.
Essa misura ha come obiettivo primario quello di ricondurre ad un ambito di piena consolidata legalità quella impresa, già raggiunta da un’informazione antimafia, ma affetta, secondo una valutazione che ne viene operata dal Giudice della Prevenzione, da un condizionamento e/o da una ingerenza mafiosa ritenuta di tipo solo “occasionale”, che può perciò essere estirpata mediante l’ausilio di un programma di sostegno attuato da un Giudice Delegato e da un Amministratore Giudiziario all’uopo nominati, chiamati ad affiancare il proprietario dell’azienda e ad esercitare dei poteri di controllo sull’attività d’impresa [siffatta misura va pertanto tenuta nettamente distinta dalla diversa fattispecie della “amministrazione giudiziaria” (art. 34), che implica la estromissione del proprietario dei beni e dell’azienda, sia pure temporaneamente (art. 34, comma 2), dall’esercizio dei propri poteri].
Il controllo giudiziario, indubbiamente qualificabile alla stregua di una “misura di salvataggio”, è perciò coadiuvante di un nuovo corso della gestione della azienda, finalizzato ad un suo recupero alla libera concorrenza, una volta affrancata dalle infiltrazioni mafiose che ne avevano condizionato l’attività.
Presupposti indefettibili per la sottoposizione di una data impresa alla misura di salvataggio in discorso, che, oltre che d’ufficio, può avvenire anche su istanza di parte (art. 34-bis comma 6), sono:
Il controllo giudiziario, rispetto all’informazione antimafia, che ne è l’antecedente logico-causale, costituisce dunque un post factum; e la sua disposizione, scevra da qualsivoglia automatismo, presuppone sempre e comunque l’accertamento, da parte del Giudice della Prevenzione, della sussistenza, unitamente agli altri presupposti come sopra passati in rassegna, del requisito della occasionalità del condizionamento mafioso, che implica, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898), la presenza di un contributo agevolatore avente carattere solo isolato e discontinuo [si evidenzia, per completezza, come il provvedimento con cui il Giudice della Prevenzione neghi eventualmente l’applicazione del controllo giudiziario richiesto sia impugnabile con ricorso alla Corte di Appello anche per il merito (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898)].
Dalla eventuale sottoposizione dell’azienda ad essa misura discende, ope legis (art. 34-bis comma 7), la sospensione degli effetti della informazione antimafia gravata dinanzi al Giudice Amministrativo, oltre che, per l’effetto, degli atti strettamente consequenziali alla stessa.
Siffatto effetto sospensivo, tuttavia, si produce solo pro futuro, non potendo il provvedimento giurisdizionale che dispone il controllo giudiziario avere portata retroattiva sui provvedimenti già eventualmente adottati in conseguenza dell’adozione del provvedimento interdittivo prefettizio (ex multis, Consiglio di Stato Sez. III 29.5.23 n. 5231).
Nel corso del periodo di controllo, che ha durata non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni (art. 34 bis comma 2), l’Amministratore Giudiziario all’uopo nominato riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell’attività di controllo al Giudice Delegato e al Pubblico Ministero [art. 34 bis comma 2 lett. b)].
Al termine del periodo di durata inizialmente previsto, il Giudice della Prevenzione, tenuto conto di quanto relazionato dall’Amministratore Giudiziario, può disporre la revoca della misura ovvero prorogarne - nel rispetto del predetto limite di durata massima triennale - il periodo di durata.
4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario
4.1. Demarcazione dei relativi presupposti
Informazione antimafia e controllo giudiziario, pur essendo fondati sui differenti presupposti giuridici come sopra passati in rassegna, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti, circostanza, quest’ultima, che, inevitabilmente, finisce per creare, di riflesso, delle inferenze nei rapporti tra i pur autonomi accertamenti delibati dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione.
Mentre il primo è chiamato a verificare la legittimità del provvedimento interdittivo prefettizio; il secondo verifica esclusivamente la sussistenza del requisito della occasionalità della agevolazione mafiosa, sì che la relativa valutazione si fonda su parametri non sovrapponibili alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione, che costituisce invece presupposto del provvedimento interdittivo prefettizio.
Deve infatti essere radicalmente esclusa la sussistenza in capo al Tribunale di Prevenzione di poteri di controllo dei presupposti della interdittiva antimafia, stante che, in tal caso, si finirebbe per introdurre nel sistema una duplicazione del controllo sulla legittimità della misura interdittiva stessa (sul punto, Cass. Penale Sez. VI, 9.5.19 n. 26342).
Ciò premesso, la questione che si pone è allora quella di stabilire se e in che misura le risultanze dell’accertamento compiuto dal Giudice della Prevenzione possano incidere sull’esito del giudizioamministrativo incoato avverso il provvedimento interdittivo prefettizio costituente l’antecedente logico-causale della misura del controllo giudiziario.
Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito come la pronuncia resa dal Giudice della Prevenzione non valga a produrre un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, escludendo, per l’effetto, che il provvedimento prefettizio possa essere sindacato alla luce delle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, avente una diversa prospettiva d’indagine (sul punto, Consiglio di Stato Sez. III 4.2.21 n. 1049).
Il rischio concreto che, tuttavia, consegue ad un ragionamento siffatto è che l’ordinamento possa divenire, a spese dell’amministrato, “schizofrenico”, dando origine al paradosso, già verificatosi nella prassi, per cui, da un lato, il Giudice Amministrativo ritenga non illogica la prognosi inferenziale elaborata dall’Autorità Prefettizia, negando, per l’effetto, la concessione della misura cautelare della sospensione dell’efficacia della gravata informazione antimafia; e, dall’altro, il Giudice della Prevenzione ritenga, dal canto suo, l’impresa istante non sottoponibile alla misura del controllo giudiziario muovendo dal presupposto che l’ingerenza mafiosa posta a fondamento del provvedimento interdittivo prefettizio sia inesistente e non raggiunga pertanto neppure la soglia della “occasionalità”.
Ipotesi, queste ultime, che, in entrambi i casi, concretamente impediscono l’esercizio dell’attività d’impresa.
Ed ecco il paradosso cui si accennava: laddove l’azienda fosse ritenuta un po’ più asservita all’ingerenza mafiosa da parte del Giudice della Prevenzione, sarebbe avvantaggiata nelle more della definizione del giudizio di merito dinanzi al Giudice Amministrativo, stante che, in tal caso, avrebbe la possibilità di proseguire, sia pure sotto il controllo del Giudice Delegato, l’attività d’impresa [il che comporta altresì una evidente disparità di trattamento con quelle altre imprese che, in quanto ritenute come occasionalmente agevolate (e quindi, a stretto rigore, aventi una posizione peggiore agli occhi dell’ordinamento), possono proseguire l’attività d’impresa in regime di controllo giudiziario].
È allora in questa fase che le due differenti delibazioni compiute dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione devono, di riflesso, finire per “influenzarsi”.
Si invoca, al riguardo, una recente pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (sentenza 4.1.23 n. 13), nell’ambito della quale il Giudice Amministrativo d’appello, che aveva inizialmente negato la concessione della misura cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza di I grado, accoglieva infine il proposto ricorso in appello [annullando, in accoglimento del ricorso di I grado, l’informazione antimafia] proprio a partire dalle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllogiudiziario.
Risalta come, in tale specifico contesto, il Giudice Amministrativo (del tutto correttamente, a parere di chi scrive) non abbia potuto non tenere conto della valutazione compiuta dal Giudice della Prevenzione, spintosi sino al punto di negare l’ammissibilità dell’impresa richiedente al controllo giudiziario ma non già, si badi, in considerazione di un supposto ed ormai cronico e strutturale asservimento dell’impresa alla ingerenza mafiosa, bensì rilevando, in senso contrario, l’insussistenza in radice dello stesso presupposto della solo “occasionale agevolazione”.
È stato in altri termini evidenziato come, a venire in rilievo, fosse un operatore economico scevro da qualsiasi condizionamento, oltre che allineato al contesto economico sano.
Se pertanto è astrattamente condivisibile la valutazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui la delibazione sull’ammissibilità al controllo giudiziario non produce un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, è tuttavia altresì innegabile che siffatta delibazione possa (rectius: debba) produrre, di riflesso, una qualche inferenza nell’ambito dell’autonomo giudizio amministrativo.
4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze
Si è già avuto modo di chiarire come l’informazione antimafia rappresenti l’antecedente logico del controllo giudiziario; e che l’adozione di quest’ultima misura giurisdizionale implichi la automatica sospensione - ma solo pro futuro - degli effetti del provvedimento interdittivo prefettizio.
Per altro verso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha altresì recentemente chiarito come l’ammissione di una data impresa alla misura del controllo giudiziario non comporti l’obbligo di sospendere (art. 295 c.p.c.) il giudizio amministrativo incoato avverso l’originario provvedimento prefettizio, stante che, in tal caso, verrebbe snaturata la funzione tipica del processo, da strumento di tutela delle situazioni giuridiche soggettive ed attuazione della legge, a mero strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela (Consiglio di Stato, A.P. 13.2.23 n. 7).
Diviene allora di assoluto interesse, in un siffatto contesto, individuare, da un lato, il percorso che dovrà essere seguito dall’azienda che abbia favorevolmente concluso, riallineandosi al contesto economico sano, il periodo di controllo giudiziario; e, dall’altro, le sorti della originaria informazione antimafia (oltre che del ricorso proposto avverso la stessa dinanzi al Giudice Amministrativo) che aveva condotto alla adozione di essa misura di salvataggio.
Soccorrono, sul punto, le previsioni di cui agli artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia.
È infatti opinione di chi scrive che, a fronte della favorevole definizione del controllo giudiziario, l’azienda sia onerata di richiedere alla competente Autorità Prefettizia di procedere, sulla base del combinato disposto delle predette norme, ad aggiornare, avuto riguardo ad esso fatto sopravvenuto, l’esito dell’informazione antimafia già gravata dinanzi al Giudice Amministrativo e già costituente l’antecedente della conclusasi procedura di controllo giudiziario.
Fermo restando come l’Amministrazione abbia l’obbligo - coercibile ai sensi e per gli effetti degli attt. 31 e 117 C.P.A. (sul punto, T.A.R. Emilia Romagna - Parma 15.2.22 n. 41) - di provvedere su di essa richiesta nei modi e tempi di legge (art. 2 Legge 7.8.90 n. 241), deve tuttavia essere evidenziato come, in questa fase, l’azienda finirà per patire gli effetti di quello che può essere definito un vero e proprio vulnus normativo.
Ed invero, nelle more della definizione della incoata procedura di aggiornamento, si (ri)verificherà, attesa, sul punto, l’assenza di qualsivoglia indicazione contenuta in seno all’art. 34-bis del Codice Antimafia, la riespansione dell’efficacia dell’originaria interdittiva conseguente al fatto, in sé considerato, della mera conclusione della procedura di controllo giudiziario e ciò pur e nonostante il suo esito positivo.
L’incredibile paradosso è che l’impresa che aveva potuto ritualmente esercitare la propria attività durante il periodo di controllo giudiziario, attesa l’automatica sospensione degli effetti della presupposta informazione antimafia, sarà, per così dire, “svantaggiata” dalla favorevole definizione di essa procedura che le aveva consentito di esercitare l’attività d’impresa, con la conseguenza che la stessa non potrà operare fintantoché non sarà favorevolmente definito altresì il procedimento incoato ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia mediante il rilascio di un’informazione liberatoria.
In tal caso, il ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo non potrà che essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere [l’azienda avrà infatti raggiunto l’obiettivo di “superare”, sia pure mediante l’aggiornamento basato sul fatto sopravvenuto dell’esito positivo della procedura di controllo giudiziario, l’originario provvedimento interdittivo prefettizio, con la ovvia conseguenza che da esso ricorso non potrà più trarre alcun tipo di utilitas].
Laddove invece, come spesso accade, l’Autorità Prefettizia, pur e nonostante l’esito favorevole del controllo giudiziario, dovesse negare l’aggiornamento richiesto, l’azienda dovrà necessariamente gravare il “diniego di aggiornamento” dinanzi al Giudice Amministrativo, richiedendo, attesa l’urgenza derivante dal vulnus come sopra descritto, l’adozione di una misura cautelare propulsiva (cd. remand).
In tal caso, appare quanto mai complesso individuare, in termini di assoluta certezza, le sorti del ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo.
Certamente lo stesso diverrebbe improcedibile laddove l’azienda non procedesse a tempestivamente gravare l’opposto diniego di aggiornamento.
Quanto, invece, ad una pronuncia di merito, si ritiene che la stessa non potrebbe che essere di segno negativo.
Invero, la disposizione del controllo giudiziario [non in disparte la posizione di acquiescenza prestata a fronte della volontaria sottoposizione ad essa misura di salvataggio], unitamente alla favorevole definizione di tale procedura, consistita nella rimozione di quelle situazioni che avevano determinato l’adozione della informazione antimafia, varranno, in concreto, a dimostrarne l’originaria legittimità.
Non si ritiene pertanto residui spazio, in definitiva, per una pronuncia di accoglimento del ricorso nel merito.
5. Conclusioni
È auspicabile, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sin qui descritto, che il Legislatore abbia ad intervenire sulla questione del rapporto intercorrente fra gli istituti dell’informazione antimafia e del controllo giudiziario, superando, segnatamente, il vulnus normativo conseguente alla favorevole definizione di quest’ultima procedura ed alla riespansione degli effetti dell’originario provvedimento interdittivo prefettizio.
Se è vero - come è vero - che la favorevole definizione di essa predetta procedura produce l’effetto di riallineare l’impresa al contesto economico sano, non è adeguato, a parere di chi scrive, che, nelle more della definizione del procedimento di aggiornamento ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia, la stessa venga in concreto privata della possibilità di esercitare l’attività d’impresa.
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti, Trent’anni dopo. L’Ingegneria costituzionale e le Riforme di Alessandro Mangia.
Brevissime note sulla riforma costituzionale del premierato
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. La riforma della Costituzione detta del premierato (modifica degli artt. 59, 88, 92, 94 Cost.). 2. Dubbi sulla sua capacità di realizzare gli obiettivi pretesi, primo fra tutti quello della stabilità dei Governi. 3. Ed infatti, sintetico esame di quattro diverse impasse nel quale il primo ministro, ancorché eletto dal popolo, si può trovare con il nuovo art. 94 Cost. 4. Ulteriore esame dei limiti della riforma rispetto agli altri obiettivi dichiarati nella relazione tecnico/esplicativa. 5. Il mutato rispetto alla nostra Costituzione e l’esigenza di evitare riforme n’importe quoi.
1. La riforma della Costituzione detta del premierato (modifica degli artt. 59, 88, 92, 94 Cost.).
Si ha in discussione, in questa XIX legislatura, un disegno di legge di riforma costituzionale che prende il nome di Premierato.
Con esso si propone di modificare quattro articoli della Carta costituzionale, ed esattamente gli artt. 59, 88, 92, 94.
Il contenuto della riforma è stato illustrato da questa rivista con una nota redazionale del 17 maggio scorso, cui poi sono seguite delle pubblicazioni di commento.
Non starò quindi a dilungarmi su aspetti strettamente preliminari.
Ricordo solo che le modifiche degli artt. 59 e 88 possono essere considerate minori, mentre certamente le riforme principali sono quelle che riguardano gli artt. 92 e 94.
Sostanzialmente, le principali novità possono essere così riassunte:
a) il popolo eleggerà direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale si presenterà alle elezioni con una propria lista di candidati;
b) le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio dei ministri dovranno avvenire contestualmente;
c) le votazioni saranno disciplinate da una nuova legge elettorale, che dovrà attribuire alla lista più votata, seppur nel rispetto dei principi di rappresentatività e governabilità, un premio di maggioranza che garantisca ai vittoriosi il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere;
d) Il Presidente della Repubblica conferirà necessariamente al Presidente del Consiglio dei ministri eletto dal popolo l’incarico di formare il Governo;
e) il Parlamento darà la fiducia al Governo e, ove non dovesse succedere, il Presidente della Repubblica rinnoverà l’incarico sempre al Presidente del Consiglio eletto dal popolo, il quale si ripresenterà, così, per la seconda volta, dinanzi alle Camere, e se queste nemmeno per la seconda volta dovessero dargli la fiducia, ebbene: “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”;
f) infine, con un’apposita clausola denominata “anti-ribaltone”, nelle ipotesi nelle quali dovesse venir meno la carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica avrebbe comunque l’obbligo di conferire il nuovo incarico sempre al Presidente del Consiglio eletto, “o ad un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto”; e se nemmeno questi dovessero ottenere la fiducia in questo secondo mandato, allora, di nuovo: “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. (nuovo art. 94 Cost.).
2. Dubbi sulla sua capacità di realizzare gli obiettivi pretesi, primo fra tutti quello della stabilità dei Governi.
Che dire di questa riforma?
Gli obiettivi sono illustrati nella relazione tecnico/esplicativa e sono chiari: si vuole evitare “l’instabilità dei Governi” nonché “garantire il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale”.
Tuttavia a me non sembra che le nuove norme siano in grado di perseguire questi obiettivi, se non in modo molto modesto e marginale; e mi sembra che anche solo una semplice analisi del testo sia sufficiente per giungere ad una simile conclusione.
In sostanza, le differenze che introducono i nuovi artt. 92 e 94 Cost. rispetto all’esistente (e salva la valutazione della legge elettorale, che al momento, non esistendo, non può essere oggetto di commento) possono essere così indicate:
a) il Presidente della Repubblica non potrà più scegliere il primo ministro ma dovrà necessariamente nominare il leaderdel gruppo politico che ha vinto le elezioni.
Di fatto, però, nessuno può negare che sia già così, e che i Presidenti della Repubblica abbiano, per lo meno dagli anni ’90, nominato sempre il leader del gruppo vittorioso, nel rispetto della volontà popolare.
Si potrebbero fare esempi di nomine fatte ob torto collo; ma nessun Presidente della Repubblica ha mai pensato di nominare un capo di governo diverso da quello risultato vittorioso nella dialettica elettorale.
b) Il Parlamento, per contro, dovrà, in prima battura, e secondo il 3° comma dell’art. 94 Cost., dare la fiducia al proprio leader, e anche questo, direi, è (normalmente) già così.
Ma, successivamente, in base sempre all’ultimo comma della stessa disposizione costituzionale, non sembra che il Parlamento non possa sfiduciare il governo e il suo leader, e ciò potrà avvenire, ad esempio, anche solo a seguito della mancata approvazione di una legge sulla quale il Governo abbia posto (espressamente o meno) la fiducia; per giungere a diversa conclusione bisognerebbe sostenere che questa riforma impedisca al Parlamento di non approvare le leggi presentate dal Governo, ma credo che nessuno sia disposto a spingersi fino ad un tal punto, che di fatto sottrarrebbe al Parlamento la funzione legislativa.
La novità, allora, sarà che in questi casi il primo ministro potrà essere sostituito solo con altro primo ministro appartenente al medesimo gruppo politico o a gruppo politico collegato; e se questo secondo primo ministro, non otterrà, o successivamente perderà, la fiducia, allora il Parlamento si scioglierà.
Premesso che, anche oggi, i più direbbero che in questi casi è inevitabile ridare la parola agli elettori, ma, a parte ciò, lo scioglimento del Parlamento non potrà non comportare il venir meno anche del primo ministro e la necessità che il popolo, ai sensi dell’art 92 Cost., sia chiamato di nuovo alle urne non solo per rieleggere il Parlamento ma anche per rieleggere il primo ministro.
Quindi il Parlamento, dopo la prima fiducia, mantiene la possibilità di far cadere il governo.
È vero che questo avrebbe un costo che fino ad oggi non ha avuto, cioè lo scioglimento del Parlamento; tuttavia si tratta di un rischio, e/o di un costo, che ha anche il primo ministro, che cade in questi casi insieme al Parlamento; ed in ogni caso questo rischio non v’è sempre, poiché la riforma non prevede lo scioglimento delle Camere nel passaggio tra il primo ministro eletto e il primo ministro successivo appartenente al medesimo gruppo politico o a gruppo politico collegato.
Non so, mi sembra, come si dice, che, alla fine, la montagna abbia partorito il topolino; e lo stesso mi sembra emergere dall’analisi delle singole questioni riportate nella relazione tecnico/esplicativa della riforma.
Valga al riguardo quanto segue.
3. Ed infatti, sintetico esame di quattro diverse impasse nel quale il primo ministro, ancorché eletto dal popolo, si può trovare con il nuovo art. 94 Cost.
Il primo tema, appunto, è quello della stabilità del primo ministro e/o del Governo.
La relazione tecnico/esplicativa assicura che “attraverso l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri” si ottiene “la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”.
Però, ripeto, questa stabilità a me sembra relativa.
Penso si debba ribadire, in via preliminare, che lo scioglimento del Parlamento comporta automaticamente anche la cessazione della carica del primo ministro.
V’è infatti da ritenere che, sciolte le Camere; si debba tornare a votare, e non è pensabile che il popolo possa votare le nuove Camere senza unitamente votare anche il primo ministro, poiché le votazioni devono essere unitarie: “Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente” (così il nuovo art. 92 Cost.); né la nuova Costituzione prevede da nessuna parte che possano darsi elezioni delle Camere separate da quelle del primo ministro.
E allora, se possiamo convenire che, anche a seguito di questa riforma, resta la regola che lo scioglimento delle Camere comporta il venir meno del Governo, debbano darsi, a mio sommesso parere, almeno quattro diverse ipotesi di instabilità del primo ministro anche a seguito di questa svolta di premierato.
3.1. La prima, ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost., si ha quando il governo della coalizione che abbia vinto le elezioni si presenta, con il primo ministro, dinanzi alle Camere per ottenere la fiducia; se le Camere non prestano la fiducia, il Presidente della Repubblica deve confermare il primo ministro eletto nel compito di formare il governo, e se anche questo nuovo Governo non ottiene la fiducia, il Presidente della Repubblica provvede a sciogliere le Camere.
Dunque, seppur sotto la condizione dello scioglimento del Parlamento, l’entrata in carica del primo ministro eletto resta comunque subordinata ad una mozione di fiducia, in assenza della quale, come al gioco dell’oca, tutto deve ricominciare.
3.2. Ovviamente il primo ministro eletto otterrà la fiducia dalle Camere e il suo Governo potrà così iniziare a lavorare.
Questo, tuttavia, e come abbiamo già detto, non esclude che, dopo tempo, il primo ministro eletto possa essere egualmente sfiduciato dal Parlamento.
Ciò è evidente, ed è altresì circostanza confermata nell’ultimo comma dell’art. 94 Cost: peraltro, in questi casi, diversamente dal precedente, il Parlamento che sfiducia il primo ministro eletto non sopporta lo scioglimento, ma solo deve trovarsi un nuovo primo ministro che lo sostituisca, con l’unico limite che questo nuovo primo ministro deve far parte del gruppo politico in collegamento con il presidente eletto sfiduciato.
Dunque, il primo ministro eletto può non ottenere la fiducia alla sua prima presentazione alle Camere, oppure può perdere la fiducia nel corso del suo mandato; nel primo caso ciò comporta lo scioglimento delle Camere, ma nel secondo caso il Parlamento non si scioglie, ma solo si nomina un nuovo primo ministro.
3.3. Il primo ministro subentrato al primo ministro eletto, di nuovo, sempre ai sensi del quarto comma dell’art. 94 Cost., può essere parimenti sfiduciato dalle Camere nel corso del suo mandato.
Di nuovo, in questo caso, si ha lo scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica; ma, seppur sotto questa condizione, resta fuori da ogni possibile discussione che anche il secondo primo ministro, così come già il primo ministro eletto, può essere sfiduciato dal Parlamento se non trova la fiducia che è necessaria per esercitare la funzione governativa.
3.4. Infine, non deve dimenticarsi che la riforma ha ritoccato solo in parte l’art. 88 Cost., prevedendo sì la soppressione dell’inciso “o anche una sola di esse”, però lasciando inalterata l’altra parte della norma costituzionale che prevede che: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”.
Dunque, noi avremmo, con questa riforma, (potremmo dire) due ipotesi di scioglimento delle Camere “dovute”, in quanto in quei casi il Presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere, e queste due ipotesi sono, lo ripetiamo, quella nel quale il primo ministro eletto non ottiene la fiducia ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost., e quella nel quale non ottiene la fiducia il nuovo primo ministro dopo la cessazione della carica da parte del primo ministro eletto; ma, oltre a queste ipotesi di scioglimento dovute delle Camere, resta l’ipotesi di scioglimento delle stesse (potremmo sempre dire) discrezionale da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 88 Cost.
Anche a fronte di quest’ultimo scioglimento delle Camere si avrà parimenti la caduta del governo, e quindi un’ulteriore ipotesi di cessazione della carica del primo ministro.
3.5. In sintesi, anche con questa riforma si danno dunque quattro ipotesi di impasse per il primo ministro:
a) quando il primo ministro eletto non ottiene la fiducia dalle Camere alla sua presentazione dopo la vittoria elettorale ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost.;
b) quando il primo ministro eletto perde la fiducia del Parlamento nel corso del suo mandato ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 94 Cost., ed in questi casi la sfiducia può esser data senza lo spettro dello scioglimento delle Camere;
c) quando il primo ministro nominato dopo la cessazione del mandato del primo ministro eletto viene egualmente sfiduciato dal Parlamento ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 94 Cost;
d) e infine quando il primo ministro eletto, oppure il primo ministro che segue il primo ministro eletto già sfiduciato, cessano dalle loro funzioni perché il Presidente della Repubblica scioglie le Camere ai sensi dell’art. 88 Cost.
4. Ulteriore esame dei limiti della riforma rispetto agli altri obiettivi dichiarati nella relazione tecnico/esplicativa.Oltre al tema della stabilità del primo ministro, a me sembra poi che anche gli altri obiettivi descritti nella relazione tecnico/esplicativa siano in verità di difficile concretizzazione con questi nuovi artt. 92 e 94 Cost.; e qui, brevemente, sottolineo a mio parere i punti.
4.1. Circa l’indirizzo politico, la relazione tecnico/esplicativa precisa che “la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”,
In verità, i nuovi artt. 92 e 94 Cost. assicurano (rectius: cercano di assicurare) al primo ministro cinque anni di esercizio del mandato, ma non assicurano affatto che il primo ministro rispetti il programma politico con il quale si è presentato agli elettori e in forza del quale gli elettori lo hanno votato; poiché, par evidente, che se il primo ministro dovesse, dopo le elezioni, e in qualunque successivo momento, mutare orientamenti o assumere indirizzi diversi da quelli prospettati in campagna elettorale, e il Parlamento lo segue, non succederebbe niente, né la Costituzione riformata prevede correttivi per ipotesi del genere.
4.2. Discorso analogo può valere per il Parlamento.
La relazione tecnico/esplicativa avverte che lo scopo della riforma è quello di risolvere “problematiche ormai risalenti, cioè….. l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il transfughismo parlamentare”.
Anche qui, se il giorno dopo le votazioni, o qualche tempo dopo le votazioni, parte dei parlamentari transfuga, e non è più disponibile a seguire l’indirizzo politico del primo ministro e a obbedire alle sue direttive, semplicemente quella maggioranza che il primo ministro aveva nella fase di partenza, la perde poi nel corso del tempo, e può essere sostituito con un nuovo primo ministro, seppur di un gruppo politico collegato.
La nuova costituzione, tra l’altro, lascia invariata la disposizione dell’art. 68 Cost. secondo la quale “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
Ed inoltre, è chiaro, la sostituzione del primo ministro eletto con un nuovo primo ministro ha, inevitabilmente, un passaggio delicato, visto che l’espressione usata dall’art. 94 Cost di candidato in collegamento, è elastica, e potrà essere oggetto di dubbi e/o interpretazioni; e si discuterà, così, se veramente un parlamentare in procinto di divenire nuovo primo ministro può dirsi o meno collegato al primo ministro eletto sfiduciato.
4.3. Si tiene a precisare, poi, che, se si arriva ad un secondo primo ministro, questi, non solo deve far parte dello stesso gruppo politico del primo, ma deve anche perseguire la stessa politica.
Si legge nella relazione: “il Presidente del Consiglio dei ministri in carica può essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”.
Però, anche sotto questo profilo, si tratta di una rassicurazione molto relativa: i programmi di indirizzo politico esposti in campagna elettorale sono normalmente molto generici e vaghi, inevitabilmente incompleti; essi possono essere oggetto poi di future interpretazioni e punti di vista; inoltre potrebbero sorgere nel corso del mandato questioni e problematiche nuove, che necessitano di essere affrontate.
Se dovesse sorgere contrasto tra il primo ministro eletto e la maggioranza del Parlamento, l’art. 94 Cost. non impedirebbe comunque al Presidente della Repubblica di nominare un nuovo primo ministro, con l’unico limite che questo si sia presentato all’epoca agli elettori nella stessa lista politica, o comunque collegata, del primo ministro sfiduciato.
Poi, però, è inevitabile, questo nuovo primo ministro collegato, con la maggioranza parlamentare, potrà fare, liberamente, un po’ tutto quello che riterrà di dover fare, magari sotto la rabbia del primo ministro eletto e sfiduciato, che, ridotto a semplice parlamentare, assisterà a tutto ciò in disparte.
In sintesi, può dirsi che la norma non impedisce al Parlamento di ribaltare il primo ministro eletto dal popolo e scegliersi poi (o comunque avere) un altro primo ministro; la sola condizione è che questo nuovo primo ministro appartenga ad uno schieramento politico collegato a quello del primo ministro eletto; garanzia davvero poco consistente se si pensa alla versatilità della vita politica.
4.4. Afferma ancora la relazione che questa stabilità è altresì necessaria per “concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”.
Ora, anche questa affermazione trascura un dato, che è quello che oramai gli indirizzi politici di medio-lungo periodo e l’attuazione di riforme organiche, sono, in grandissima parte, in mano all’Unione europea e alle politiche comuni, a fronte delle quali la libertà di determinazione degli Stati membri si è sempre più ridotta, o addirittura sparita dopo l’approvazione del PNRR, che oggi regola gran parte dell’agenda governativa e parlamentare.
A questo proposito è utile ricordare che già con la legge 24 dicembre 2012 n. 234, l’Italia si è data la regolamentazione della sua partecipazione alla formazione e all’attuazione della normativa relativa alle politiche dell’UE.
L’art. 30 di quella legge prevede che il nostro governo recepisca le direttive europee e modifichi o abroghi quelle in contrasto con le normative UE.
Ed inoltre, come è noto, il nostro ordinamento si deve uniformare ai pareri motivati indirizzati all’Italia dalla Commissione europea e a recepire in via regolamentare le direttive.
In concreto, poi, il Governo, ogni anno, deve presentare un disegno di legge che assicuri il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento dell’Unione europea.
L’ultimo disegno di legge è stata approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 maggio 2024 e ha preso in considerazione gli atti dell’UE pubblicati a partire dal mese di luglio 2023 fino al mese di maggio 2024; il disegno di legge si compone di tre capi e 17 articoli e consentirà il recepimento di 20 direttive e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale relativamente a 13 regolamenti europei.
Precedentemente la legge 21 febbraio 2024 n. 15 “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti normativi dell’Unione europea” è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 46 del 24 febbraio 2024, e ha consentito il recepimento di 20 direttive e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a 9 regolamenti europei.
Da ricordare altresì che la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiana è supportato dal Dipartimento per gli Affari europei proprio al fine di gestire le attività inerenti all’attuazione degli obblighi assunti nell’ambito dell’Unione.
Se poi stiamo al PNRR, relativamente al quale merita menzionare il decreto legge 31 maggio 2021 n. 77, convertito dalla legge 29 luglio 2021 n. 108, vediamo immediatamente come l’art. 1 preveda che si debba semplicemente attuare: “il regolamento UE 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, nonché del Piano Nazionale integrato per l’Energia e il Clima 2030 di cui al Regolamento UE 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018”; ed ancora: “Le disposizioni contenute nel presente decreto in quanto direttamente attuative degli obblighi assunti in esecuzione del Regolamento UE 2021/241 sono adottate nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di rapporti dello Stato con l’Unione europea”.
Se, infine, si constata che la stragrande maggioranza dei decreti e delle leggi approvate dal nostro Governo e dal nostro Parlamento altro non sono che adeguamenti alle normative europee, va da sé che è un po’ velleitario asserire che il premierato è funzionale ad elaborare e attuare riforme organiche…….delle prospettive e del futuro della Nazione, visto che il premier, in verità, non altro deve fare, quasi sempre, se non adeguarsi all’Europa.
4.5. Si è asserito, ancora, che la riforma è altresì finalizzata a superare la situazione che così viene descritta: “Gli anni recenti si caratterizzano per un marcato astensionismo e per una sempre più evidente disaffezione verso la politica dei cittadini, i quali si trovano impossibilitati a distinguere e imputare correttamente le responsabilità nell’ambito di un sistema decisionale vischioso: aspetto che si riflette in una forte comprensione della capacità di selezionare, giudicare, e dunque confermare o non confermare, la classe dirigente alle urne”.
Ora, a parte la circostanza che è fastidiosa questa infantilizzazione degli elettori, che non capiscono niente se le cose non sono semplici e chiarissime, sinceramente, poi, ritenere che l’astensionismo alla politica dipenda dal fatto che il nostro sistema è ancora troppo parlamentare, e che il passaggio ad un premierato farebbe venir meno questa astensione, mi sembra un po’ demagogico.
V’è da ritenere, tutto al contrario, che l’astensionismo sia piuttosto il frutto della percepita inaffidabilità della politica, o fors’anche della sua mediocrità, la quale certo difficilmente può cambiare passando da un sistema di governo all’altro.
4.6. Infine, anche con riferimento alla riforma dell’art. 59, 2° comma Cost., volto a sopprimere la figura dei senatori a vita diversi dagli ex Presidenti della Repubblica, mi sembra parimenti che l’intento proclamato nella relazione sia forzato e non veritiero.
Si legge nella relazione che: “nella logica di portare la legittimazione democratica al più ampio numero possibile di istituti della forma di governo, si supera la categoria dei senatori a vita. Un intervento, quest’ultimo, reso inevitabile nella già menzionata prospettiva di stabilità delle maggioranze, dell’intervenuta riduzione del numero dei senatori, che ha ulteriormente ridotto il margine delle maggioranze in quel ramo del Parlamento”.
In verità, non si vede proprio come la presenza dei senatori a vita possa compromettere la stabilità della maggioranza o la rappresentatività e governabilità del primo ministro.
I senatori a vita sono 5, mentre i senatori, anche dopo la riduzione del loro numero, sono attualmente 200 (art. 57 Cost.), mentre i deputati sono attualmente 400 (art. 56 Cost.); come 5 membri possano avere una effettiva rilevanza a fronte di 600 parlamentari è difficile capire; né, dalla nascita della nostra Repubblica, sapremmo, per il passato, indicare un solo caso nel quale un governo è caduto, o una legge è stata affossata, per la presa di posizione di uno o più senatori a vita.
Direi, così, che si possa escludere che la soppressione del 2° comma dell’art. 59 Cost. trovi in ciò la ragion d’essere.
E sarei, al contrario, più propenso a credere che una tale determinazione sia invece il frutto di un’idea, oggi purtroppo abbastanza diffusa, secondo la quale non esistono meriti insigni o altissimi, e soprattutto che questi non debbano essere riconosciuti; non siamo più una società che premia l’originalità (o l’individualità) di scienziati, artisti, o letterari, cosicché nessuno tra loro, per il comune sentire, merita di sedere in Senato, e magari intralciare con qualche intervento, o presa di posizione, quanto la politica va a fare.
5. Il mutato rispetto alla nostra Costituzione e l’esigenza di evitare riforme n’importe quoi.
Ebbene, alla luce di tutto ciò, sommessamente, la domanda è questa.
Ha un senso modificare la Costituzione per fare riforme di questo tenore?
Io credo di no; e credo peraltro che di tutto si abbia bisogno in questo momento storico meno che di rafforzare i poteri del capo del governo, sia questo di destra oppure di sinistra.
E mi rattrista vedere come, negli anni, si sia fortemente mutato il senso del rispetto verso la nostra Costituzione.
Non è un vizio della destra, è un vizio di tutti; ed infatti le modifiche costituzionali che già si sono avute in questi anni sono state più il parto della sinistra che della destra.
Un tempo v’era un altro rispetto per la Costituzione, un tempo nessuno pensava di potere intervenire su di essa con questa facilità, di modificare, n’importe quoi, quel costrutto che i nostri costituenti, usciti dall’esperienza del fascismo, avevano faticosamente messo insieme dopo la guerra.
Tutti si ricordavano che la Costituzione era nata dalla lotta alla dittatura, e costituiva per questo un testo fondamentale e intoccabile; tutti si ricordavano quello che con immortali parole Piero Calamandrei aveva detto il 26 gennaio 1955 agli studenti di Milano: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione”.
Oggi questa sacralità della Costituzione si è persa, e tutti credono di aver titolo e formazione per modificare quello che i nostri costituenti ci hanno lasciato.
Io trovo tutto questo preoccupante.
Sinceramente, così come non vedevo necessarie le modifiche della Costituzione che recentemente si sono avute, allo stesso modo non vedo proprio la necessità di arrivare a questo riforma c.d. di premierato.
Cento anni senza Giacomo Matteotti
10 giugno 1924 - 10 giugno 2024
Il 10 giugno del 1924 l'onorevole Giacomo Matteotti fu aggredito in pieno giorno, sequestrato e ucciso da un gruppo di appartenenti alla Ceka, polizia segreta al soldo di Benito Mussolini, per reprimere con la violenza il dissenso e qualunque forma di critica al Governo in carica. Il deputato pagava con la vita la sua lucida e intransigente opposizione al regime.
Nel giorno in cui ricorre il centenario della sua uccisione, Giustizia Insieme vuole onorare la memoria di questo eroe civile riproponendo tutti gli articoli che sono apparsi sulla Rivista per ricordarne la figura e l'attualità del suo sacrificio e della sua testimonianza.
Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.