ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Dino Petralia a Il cognome delle donne di Aurora Tamigio, Feltrinelli 2024.
Un romanzo del tempo. Dove il tempo ha la stessa dimensione del luogo ed entrambi la forza inebriante e agghiacciante dell’eternità.
Si, perché in questa storia di donne lo scorrere del tempo nel minuscolo paese dell’entroterra siciliano, tra stenti, sogni e vittorie, è solo un pretesto, un artifizio descrittivo per celebrare un’immanente sovranità esistenziale: il coraggio vitale di Rosa, inventatasi oste generosa e insieme medico al bisogno, capace di parlare ai morti e predire il futuro, l’industriosa pazienza di Selma e le sue tre figlie, Patrizia, Lavinia e Marinella, un trio familiare tutto al femminile in perfetta simbiosi d’energia, in cui la grinta sfidante della prima ha la stessa potenza vivificante della candida curiosità del mondo di Lavinia e così pure dell’ardore della più piccola, al cospetto di una modernità che incalza.
Cinque donne, attorno alle quali, in un girotondo di figure maschili in servizio permanente effettivo di comparse, soffia leggero l’alito di una paesanità struggente e tormentata. E al tempo stesso attraente e magica.
Un romanzo lungo di pagine ma breve di lettura, senza l’enfasi della saga o la retorica del tema, dal tratto semplice e raffinato insieme di un’intimità sapiente di antica sicilianità.
I crediti di lavoro e gli interessi dopo l'intervento delle Sezioni Unite
di Luigi Cavallaro
Relazione all’incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura sul tema “I crediti di lavoro e gli interessi: l’intervento delle Sezioni Unite” (Napoli, Castel Capuano, 12 luglio 2024).
Sommario: 1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c. - 2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta - 3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta? - 4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c. -
1. Le Sezioni Unite sugli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4°, c.c.
La questione degli interessi legali dovuti in caso di ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria è stata recentemente oggetto di un duplice intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, a seguito di due distinte rimessioni pregiudiziali ex art. 363-bis c.p.c. da parte del Tribunale di Milano e del Tribunale di Parma.
Entrambe le rimessioni avevano tratto origine da altrettanti processi esecutivi: nel caso del Tribunale di Milano, la parte opponente si era doluta che, a fronte di una statuizione di condanna del giudice civile, che recava il pagamento della sorte e degli interessi legali, la parte creditrice avesse precettato a titolo d’interessi un importo comprensivo non solo degli interessi legali per come calcolati ai sensi del 1° comma dell’art. 1284 c.c., ma anche di quelli determinati a norma del successivo 4° comma dell’art. cit., che – com’è noto – prevede che “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”; e la stessa cosa era accaduta nel caso del Tribunale di Parma, salvo che, trattandosi di un’opposizione all’esecuzione in materia di lavoro, la parte opponente aveva più radicalmente contestato che il 4° comma dell’art. 1284 sia applicabile ai crediti di lavoro.
I due quesiti rivolti alle Sezioni Unite concernevano, perciò, anzitutto, la possibilità che, quando il giudice della cognizione non abbia specificato gli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi a dire “interessi legali” o “di legge”, il giudice dell’esecuzione possa ritenere che a partire dalla data di proposizione della domanda possano considerarsi liquidati anche quelli di cui al 4° comma dell’art. 1284; in secondo luogo, se l’art. 429, comma 3°, c.p.c., nella parte in cui stabilisce che alla condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro debbano aggiungersi “gli interessi nella misura legale” (oltre che il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito), costituisca norma speciale rispetto all’art. 1284, comma 4°, c.c., con conseguente inapplicabilità di quest’ultimo ai crediti di lavoro, oppure se, al contrario, il rinvio che l’art. 429 c.p.c. opera nei confronti dell’art. 1284 c.c. debba valere nella sua interezza, includendo cioè anche il 4° comma e gli interessi legali maggiorati a far data dalla domanda giudiziale.
A dire il vero, il quesito rivolto dal Tribunale di Parma alle Sezioni Unite concerneva anche una questione ulteriore, se cioè il 4° comma dell’art. 1284 dovesse applicarsi ai soli crediti da rapporto contrattuale o anche a quelli di fonte extracontrattuale, come i danni da risarcimento da fatto illecito. Ma la curiosità del Tribunale parmense (come anche la nostra) è andata delusa, perché le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12449 del 2024, hanno risposto negativamente al primo dei due quesiti pregiudiziali (quello del Tribunale di Milano) e, una volta affermato che, se il titolo esecutivo giudiziale dispone il pagamento di “interessi legali” senz’altra indicazione, la misura degli interessi maturati dopo la domanda resta fissata nel saggio previsto dall’art. 1284, comma 1°, c.c., hanno ovviamente dovuto dichiarare inammissibile il duplice quesito posto dal nostro collega: e per la banale e troncante ragione che il titolo esecutivo, nel suo caso, recava condanna al pagamento della somma “oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo”, senza altro specificare (si veda Cass. S.U. n. 12974 del 2024).
Mi spiace solo dovervi dire che questo sfortunato esito del rinvio pregiudiziale che più ci interessava non mi permette di chiudere qui il mio intervento e andarci a bere un buon caffè e chiacchierare d’altro: perché le Sezioni Unite, decidendo nel merito il rinvio pregiudiziale di Milano, hanno comunque svolto alcune considerazioni che potrebbero tornare utili nell’affrontare la questione che aveva posto il Tribunale di Parma: che riguarda, certo, l’applicabilità dell’art. 1284, comma 4°, c.p.c. ai crediti di lavoro privato, ma appena più oltre anche l’applicabilità degli interessi maggiorati ai crediti di lavoro pubblico e di previdenza e assistenza sociale.
Il passaggio argomentativo delle Sezioni Unite che più interessa ai nostri fini è contenuto nel terzo paragrafo della motivazione, lì dove si legge che “il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale”: ciò infatti equivale a dire che, ai fini dell’applicazione del tasso maggiorato di cui al 4° comma dell’art. 1284, è richiesto l’accertamento della sussistenza di presupposti ulteriori rispetto all’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, che le Sezioni Unite individuano rispettivamente nell’assenza di una determinazione negoziale della misura degli interessi, nell’individuazione del momento di proposizione della domanda giudiziale e, soprattutto, nella “natura della fonte dell’obbligazione”: che, dicono le Sezioni Unite, può essere “la più varia” e richiede perciò uno “specifico accertamento da parte del giudice della cognizione”, che concerne “la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio” e può condurre ad esiti differenti a seconda che si tratti di “obbligazioni contrattuali” o “derivanti da responsabilità extracontrattuale” o ancora “crediti di lavoro”, per i quali, ricordano ancora le Sezioni Unite, vale la “specifica disciplina” di cui all’art. 429, comma 3°, c.p.c.-
Il messaggio, insomma, pare piuttosto chiaro: non basta che il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione sia sanzionato con gli interessi legali perché possa automaticamente scattare, a far data dalla domanda giudiziale, l’obbligo di pagamento degli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c.; è necessario, piuttosto, indagare anzitutto quale sia la “natura” dell’obbligazione di cui si discute e verificare se l’attribuzione degli interessi maggiorati sia con essa compatibile.
2. Gli interessi legali sui debiti di valore e su debiti di valuta
Quando abbiamo studiato il diritto privato, ci siamo imbattuti tutti in una distinzione che inizialmente ci è parsa a dir poco astrusa: quella tra debiti di valore e debiti di valuta. Ricordate? I debiti di valuta sono quelli che hanno per oggetto una somma di denaro e sono perciò soggetti al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., con la conseguenza che – come leggiamo ad es. nel Manuale di diritto privato di Galgano – l’obbligazione di pagare mille euro, sorta dieci anni or sono e con scadenza ad oggi, resta obbligazione di pagare mille euro, anche se nel frattempo il potere d’acquisto della moneta, ossia la quantità di beni che si possono acquistare con quei mille euro, dovesse essere diminuita per effetto dell’inflazione o, al contrario, dovesse essersi accresciuta in conseguenza di una deflazione.
“Debiti di valore” sono invece quei debiti in cui la somma di denaro è dovuta non come bene in sé, ma in quanto valore di un altro bene, come ad es. il valore del bene danneggiato o distrutto a causa di un fatto illecito: e ciò perché qui il denaro viene in rilievo semplicemente in quanto equivalente economico del bene danneggiato o distrutto, il cui valore dev’essere stimato dal giudice per quel che è al momento della liquidazione. Vale a dire che, se è pronunciata oggi la condanna al risarcimento di un danno cagionato dieci anni or sono, il giudice liquiderà una somma pari al valore odierno (e non al valore di dieci anni fa) del bene distrutto dal danneggiante o pari al costo odierno, (e non al costo di dieci anni fa) delle riparazioni necessarie per eliminare le conseguenze dannose del fatto illecito altrui. “Il concetto – spiega ancora Galgano – è che al danneggiato dovrà essere corrisposta a una somma che gli permetta di riacquistare un bene equivalente alle odierne condizioni di mercato o che gli permetta di affrontare ai costi odierni le spese di riparazione”.
Perché ho riesumato questa antica (e per molti, prima ancora che astrusa, inutile) distinzione? Semplicemente perché è assai diversa la disciplina degli interessi legali a seconda che ci si trovi in presenza di un debito di valore o di un debito di valuta.
Per la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, i debiti di valuta sono assoggettati al regime dell’art. 1224 c.c., che, in caso di inadempimento, prevede per il creditore il diritto al risarcimento del danno in misura pari almeno al saggio legale d’interesse di cui all’art. 1284, salva la prova del maggior danno da svalutazione monetaria, che può ritenersi presunto in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. S.U. n. 19499 del 2008); in questi casi, l’obbligazione d’interessi ha natura accessoria e soprattutto autonoma rispetto a quella concernente il capitale, tant’è che deve formare oggetto di apposita domanda giudiziale, in assenza della quale è precluso al giudice liquidarli d’ufficio (così già Cass. n. 977 del 1999).
Affatto diversa è la regola per ciò che concerne i debiti di valore: qui, infatti, gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito (Cass. S.U. n. 8520 del 2007); e ciò non soltanto comporta che essi debbano essere liquidati anche d’ufficio, cioè indipendentemente da un’apposita domanda della parte creditrice, ma soprattutto che la misura in cui vengono attribuiti può (e anzi deve) prescindere dal saggio legale tutte le volte in cui la loro attribuzione si risolva in una inammissibile locupletazione del creditore. Prova ne sia che, in una vicenda in cui era stata invocata proprio l’applicazione dell’art. 1284 comma 4° c.c. a far data dalla proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale, la Cassazione ha affermato che, a tal fine, è necessario dedurre e dimostrare che il maggior saggio degli interessi di cui al 4° comma dell’art. 1284 sia più adeguato all’entità effettiva del danno subito: gli interessi “compensativi”, infatti, hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori regolati dall’art. 1224 c.c., giacché valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo e la liquidazione, e la loro corresponsione non è in alcun modo automatica o presunta iuris et de iure, occorrendo invece che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento (Cass. n. 19063 del 2023).
Detto altrimenti, la disciplina degli interessi legali è completamente differente a seconda che ci si trovi davanti ad un debito di valore o ad un debito di valuta, il che retroagisce significativamente sulla possibilità che il ritardo nell’adempimento possa essere sanzionato con gli interessi legali maggiorati di cui all’art. 1284, comma 4° c.c. La qual cosa, finalmente, ci porta alla questione che più propriamente ci riguarda: i crediti di lavoro sono debiti di valore o sono debiti di valuta?
3. La retribuzione: debito di valore o debito di valuta?
Se andiamo a vedere i lavori parlamentari da cui trasse origine l’art. 429 comma 3° c.p.c., ci accorgiamo subito di quale fosse l’intento del legislatore: la sua formulazione attuale, secondo cui, quando pronuncia sentenza di condanna a favore del lavoratore, il giudice deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno subito dal lavoratore per la diminuzione di valore dei suo credito, si deve ad un emendamento proposto, nella seduta del 22 giugno 1971, dal deputato comunista Franco Coccia, il quale spiegò la sua proposta emendativa (che fu poi accolta dalla maggioranza) con l’intento di introdurre nel nostro sistema il principio che la retribuzione costituisce “credito di valore e non di valuta” e di sganciare in tal modo la liquidazione del danno da ritardo dalla disciplina dell’art. 1224 c.c.
Proprio per ciò, i primissimi (e più acuti) commentatori della riforma scorsero nitidamente nella norma non solo il principio secondo cui la rivalutazione monetaria veniva ad essere liquidata a prescindere dalla prova in concreto di qualunque danno, ma altresì la regola che tale liquidazione doveva prescindere dalla costituzione in mora del debitore: il che non era meno importante, sol che pensiamo che la mora, per i crediti di lavoro, non consegue affatto alla scadenza del termine per l’adempimento, com’è invece per la maggior parte delle obbligazioni pecuniarie in grazia del combinato disposto degli artt. 1182, comma 3°, e 1219, comma 2°, n. 3, c.c., giacché il luogo dell’adempimento dell’obbligazione retributiva era (e ancora è) costituito di regola non già dal domicilio del creditore, ma dal luogo di esecuzione della prestazione lavorativa.
D’altra parte, questa marcata differenziazione della disciplina dei crediti di lavoro rispetto a quella delle altre obbligazioni pecuniarie non mancò di suscitare subito dubbi di costituzionalità per violazione del principio di parità di trattamento, né di riproporne nei trent’anni successivi, via via che, a causa delle complesse vicende storiche e sociali che ha attraversato il nostro Paese, mutava il tessuto ordinamentale di riferimento. Ed è proprio nelle risposte che diede la Corte costituzionale a questi dubbi (mi riferisco soprattutto alle sentenze nn. 13 del 1977, 207 del 1994 e 459 del 2000) che possiamo provare a rinvenire qualche elemento di risposta al quesito circa la natura dei crediti di lavoro.
Se volessimo ricapitolare il significato di queste tre pronunce, potremmo dire che il meccanismo dell’art. 429 comma 3° c.p.c. possiede per la Corte costituzionale una triplice funzione: anzitutto, di conservazione del valore della prestazione dovuta al lavoratore, allo scopo di ripristinarne il potere di acquisto in termini di beni reali; in secondo luogo, di recupero dell’arricchimento illegittimamente conseguito dal datore di lavoro mediante l’inadempimento; in terzo luogo, di “remora” all’inadempimento stesso. Tutte e tre, dice la Corte, concorrono a configurare una forma speciale di tutela, che è costituzionalmente necessitata e si riflette sulla stessa natura dell’obbligazione retributiva.
Ora, che la norma in esame recasse una regolamentazione sostanziale di carattere speciale rispetto all’art. 1224 c.c. fu colto già nel corso della discussione parlamentare, sebbene all’indomani della sua adozione un nutrito gruppo di processualisti, capitanato da Elio Fazzalari, ancora sostenesse che il giudice non avrebbe potuto condannare alla rivalutazione monetaria in assenza di specifica domanda e in mancanza di prova del maggior danno. E che il significato sostanziale della previsione fosse quello di parificare i crediti di lavoro ai crediti di valore fu colto da un civilista (e lavorista) del calibro di Francesco Santoro-Passarelli, il quale, già nella ventiseiesima edizione delle sue Nozioni di diritto del lavoro (1973), scrisse limpidamente che il debito di retribuzione non si poteva più considerare come “un debito di moneta o pecuniario, al quale trovi applicazione il principio nominalistico”, ma aveva assunto “natura di debito di valoreanche se espresso in termini pecuniari”: più o meno, potremmo aggiungere, come il debito degli alimenti, il cui oggetto, dovendo proporzionarsi alle necessità del creditore alimentando e dunque necessariamente in relazione alle variazioni del potere d’acquisto della moneta, non è – nella notissima ricostruzione ascarelliana – propriamente costituito da una determinata somma di denaro, ma da un “valore”, che può corrispondere, in momenti diversi, a somme di denaro diverse.
È nondimeno risaputo che la tesi dell’avvenuta trasformazione del debito retributivo in debito di valore non ha incontrato il consenso maggioritario né della dottrina né della giurisprudenza: e ciò indipendentemente dal fatto che, specie nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di “debito di valore” ha assunto un significato affatto differente da quello che intendeva ascrivergli Tullio Ascarelli, finendo per identificarsi con quei debiti in cui l’oggetto originario della prestazione non è costituito da una somma di denaro, sebbene poi l’obbligazione possa essere adempiuta mediante la prestazione di una somma di denaro.
È però singolare, e se si vuole perfino sintomatico, che l’applicazione pratica dell’art. 429 comma 3° c.p.c. abbia finito per equiparare quoad effectum il debito retributivo ai debiti di valore, precisamente sul rilievo che il meccanismo di adeguamento previsto dalla norma avrebbe fatto sì che la rivalutazione e gli interessi costituiscano “componenti essenziali” della prestazione retributiva, che spettano per il solo fatto oggettivo del ritardo nell’adempimento e indipendentemente dalla colpa dell’obbligato: ciò, infatti, equivaleva in sostanza a riconoscere che, prendendo a prestito proprio parole di Ascarelli, la svalutazione della moneta non viene in questo caso in considerazione come “danno” da risarcire, ma solo per permettere al lavoratore di conseguire quel “valore” che costituisce oggetto del debito (e di qui la regola secondo cui il lavoratore non deve dare alcuna dimostrazione del “maggior danno” che la svalutazione stessa ha comportato).
Si deve semmai ricordare che le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere il contrasto nuovamente insorto nella Sezione Lavoro sulle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, pur non mancando di rilevare che il debito di valore costituisce “categoria non legale, comunemente accettata per decenni nella pratica del foro ma ultimamente da qualcuno contestata”, hanno deciso di comporlo affermando che gli interessi debbono calcolarsi sulla somma via via rivalutata (Cass. S.U. n. 38 del 2001): che è, com’è noto (e come le stesse Sezioni Unite non hanno mancato di ricordare), la modalità tipica con cui si procede al risarcimento del danno nelle obbligazioni da illecito extracontrattuale, che dei debiti di valore costituiscono esempio paradigmatico.
La questione, ai nostri fini, potrebbe essere tutt’altro che irrilevante. Come abbiamo già ricordato, nei debiti di valore gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, come invece nei debiti di valuta, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”, tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito; ed è proprio per ciò che, come abbiamo pure ricordato, la Cassazione ha recentemente escluso che, quando si verte in materia di risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, gli interessi maggiorati di cui al 4° comma dell’art. 1284 c.c. possano essere riconosciuti indipendentemente dalla prova che la loro attribuzione valga ad adeguare il risarcimento dovuto all’entità effettiva del danno subito.
Trasferendo questi principi nel campo dei debiti retributivi, si potrebbe allora sostenere che, dal momento che il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi previsto dall’art. 429 comma 3° c.p.c. costituisce semplicemente una tecnica liquidatoria della prestazione retributiva corrisposta in ritardo, il maggior saggio degli interessi legali di cui all’art. 1284 comma 4° c.c. non potrebbe essere rivendicato se non sul presupposto – da provarsi in concreto – che il minor saggio di cui al comma 1° è insufficiente, unitamente alla rivalutazione monetaria, a ricostituire il “valore” della retribuzione non corrisposta; ed è evidente che, se hanno ragione le Sezioni Unite (mi riferisco qui a Cass. S.U. n. 38/2001, cit.) a sostenere che il cumulo di rivalutazione monetaria e interessi assolve ex se al compito di coprire integralmente il danno emergente e il lucro cessante derivante dall’inadempimento (ovvero, secondo l’ottica qui prospettata, di restaurare il “valore” della retribuzione inadempiuta), la disposizione in esame, salvo casi di specie veramente eccezionali, resterebbe praticamente estranea alla materia dei crediti di lavoro.
4. I debiti retributivi come obbligazioni pecuniarie speciali e gli interessi maggiorati ex art. 1284, comma 4° c.c.
Naturalmente, si può revocare in dubbio la stessa distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore o comunque perorare il suo abbandono come relitto d’un tempo che fu: in passato è stato fatto da giuristi della statura di Rosario Nicolò e Giuseppe Ferri e più recentemente da altri studiosi che vi hanno volto la riflessione.
Si potrebbe per contro argomentare che, se non s’intende abbandonare quella distinzione, ben difficilmente si può continuare a sostenere che il debito retributivo non debba appartenere ai debiti di valore, ma è discussione che ci porterebbe troppo lontano. Preferisco dunque esplorare l’ipotesi che quanto abbiamo detto fin qui sia del tutto implausibile e che i crediti di lavoro debbano considerarsi alla stregua di normali obbligazioni pecuniarie, ad onta del caveat delle Sezioni Unite del maggio scorso. Significa forse che si apre la strada (e anzi un’autostrada) per un’applicazione pura e semplice del saggio d’interesse previsto dal 4° comma dell’art. 1284?
È perfino ovvio rilevare che nulla osterebbe, sul piano meramente letterale, a che il rinvio agli interessi legali, che leggiamo nel terzo comma dell’art. 429 c.p.c, debba riferirsi all’intero contenuto dell’art. 1284 c.c., e dunque anche alla previsione del suo 4° comma.
Tuttavia, se è vero che la lettera di una disposizione normativa non esime l’interprete dal compito di inquadrare i singoli istituti nella sistematica giuridica (lo hanno detto le Sezioni Unite in una memorabile pronuncia, la n. 5379 del 1988), è altrettanto ovvio che, quand’anche si vogliano considerare i debiti di lavoro come normali debiti pecuniari, non si può prescindere dal fatto che di essi il legislatore ha dettato una disciplina per più aspetti derogatoria rispetto a quella dell’art. 1224 c.c.; e la caratteristica tipica delle discipline derogatorie è, notoriamente, quella di resistere ad innovazioni legislative extratestuali, quand’anche concernano norme generali in esse eventualmente richiamate: anzi, la loro attitudine a regolare in via esclusiva la classe di fattispecie che disciplinano è tale che, in talune circostanze, può far sì che la norma generale richiamata resti addirittura cristallizzata nel testo antecedente a successive modifiche che l’abbiano riguardata, quasi si trattasse di un rinvio recettizio. Lo abbiamo visto nella vicenda dell’art. 18 St. lav., le cui modifiche ad opera della legge n. 92/2012 sono state ritenute non applicabili ai rapporti di pubblico impiego.
Ora, è risaputo che la ratio che ispirò il frettoloso legislatore a introdurre il 4° comma dell’art. 1284 c.c. risiedeva nell’esigenza di “evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale di interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato”. E perfino banale è constatare che lo strumento approntato a tal fine ha una veste smaccatamente sanzionatoria: se è vero che, da due secoli e mezzo a questa parte, il sistema della responsabilità civile si è faticosamente costruito sul principio secondo cui il necessario ripristino dell’equilibrio patrimoniale del creditore vittima dell’illecito non può giustificare alcun suo indebito arricchimento, mi pare francamente difficile sostenere che un saggio d’interesse pari al tasso di riferimento della Banca centrale europea maggiorato di otto punti percentuali sia volto semplicemente a “ripristinare” il patrimonio del creditore; più realistico mi pare supporre che si sia voluto introdurre una vera e propria pena privata a carico del debitore, sull’assunto che la misura prevedibile del risarcimento, essendo prima ancorata al (solo) saggio d’interesse legale, non costituisse una ragione sufficiente per indurlo ad astenersi dall’inadempimento, in quanto – per ipotesi – inferiore al lucro ritraibile dall’inadempimento stesso.
Sennonché, è proprio tale funzione sanzionatoria ad entrare in tensione con la speciale disciplina approntata per la tutela dei crediti retributivi da lavoro privato: basterà qui ricordare che, nel risolvere il contrasto relativo alle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 38/2001, hanno espressamente affermato che già il calcolo degli interessi sul capitale via via rivalutato impone al datore di lavoro un aggravio rispetto alla mera ricostituzione del “valore” della retribuzione non corrisposta, che può giustificarsi solo in relazione a quella funzione di “remora” (ossia di pena privata) che abbiamo visto essere tipica del 3° comma dell’art. 429 c.p.c.; ed è evidente che, sommando indiscriminatamente a questa anche gli interessi “punitivi” previsti dal comma 4° dell’art. 1284 c.c., ci troveremmo di fronte ad un cumulo sproporzionato di pene private, che potrebbe essere sospettabile di incostituzionalità per irrazionalità manifesta.
Ragioni di tempo mi impediscono anche solo di accennare ad una questione intimamente connessa con quella di cui qui abbiamo discusso, vale a dire se la disciplina dell’art. 1284 comma 4° sia applicabile ai crediti da lavoro pubblico e a quelli di previdenza e assistenza, per i quali – come sappiamo – non opera il meccanismo di liquidazione del danno di cui all’art. 429, 3° comma, c.p.c., ma il diverso regime di cui all’art. 16, comma 6, l. n. 412/1991: su questo non posso che rinviarvi ad uno scritto che dovrebbe essere già stato messo a vostra disposizione (https://accademiaassociazionecivilisti.it/il-valore-del-lavoro-la-disciplina-dei-crediti-retributivi-tra-rivalutazione-monetaria-interessi-legali-e-interessi-punitivi/), nel quale anche gli argomenti qui sommariamente trattati hanno trovato più completa esposizione. Non senza, naturalmente, ringraziarvi per l’attenzione.
Immagine: Victor Dubreuil, The Eye of the Artist, ca. 1898 — Source.
Sul tema si leggano anche: Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati. Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte di Giovanni Canzio Audizione di Claudio Castelli in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, L'audizione di Armando Spataro alla Camera dei Deputati del 25 gennaio 2024 sulla separazione delle carriere dei magistrati, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico di Costantino De Robbio, Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile di Armando Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare di Armando Spataro, La mafia si combatte con investimenti tecnologici, non con la separazione delle carriere di Maurizio De Lucia, Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti. Intervista di Marta Agostini al prof. David Brunelli.
Separare... cosa?
di Marcello Basilico
Il disegno di legge governativo sulla giustizia mira a costituzionalizzare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Ma quello di “carriera” è concetto estraneo al percorso professionale dei magistrati. L’improprietà terminologica è grave, poiché il lessico costituzionale non può essere equivoco. Ma la questione è anche di sostanza, per il rischio di legittimare così nuovi interventi orientati a delineare un assetto verticale della magistratura, di cui si sono avute diverse avvisaglie negli ultimi anni.
Sommario: 1. Premessa. 2. Un concetto o uno slogan? 3. Cos’è la carriera. 4. Il superamento della gerarchia tra i magistrati. 5. La distinzione dei magistrati soltanto per funzioni. 6. Categorie e promozioni. 7. Separare cosa?
1. Premessa.
In un convegno organizzato dal Senato della Repubblica per celebrare i 60 anni della Costituzione Tullio De Mauro ricordò come i costituenti avessero vinto quello che Italo Calvino chiamava il “terrore semantico”, l’ottica, cioè, per cui, ad esempio, fiasco di vino si doveva chiamare, con maggiore appropriatezza, contenitore vitreo di sostanza vinosa. La vittoria fu sancita dal fatto che, delle circa 9.300 parole del testo originario della Costituzione, il 93 per cento veniva dal vocabolario di base della lingua italiana, il vocabolario di massima frequenza conosciuto già nella scuola elementare[1]. Il lessico costituzionale, insomma, era chiaro e netto.
Stessa attenzione andrebbe riservata ai termini impiegati nelle leggi di revisione della Costituzione, che della brevità e della limpidezza lessicale fa la sua forza. In verità nei nuovi articoli 111 e 117, modificati rispettivamente nel 1999 e nel 2001, l’operazione non sembra riuscita alla perfezione.
Il fatto è che mettere mano alla Costituzione richiede accortezza, non fosse altro per conservare al testo una sua coerenza anche retorica, nel rispetto dell’impegno profuso nel 1947: ogni singola parola venne allora soppesata nella consapevolezza del valore epocale – aggettivo assai abusato, ma in questo caso dovuto – dell’opera costituente. Parafrasando il Buddha, verrebbe da dire che solo le parole sincere hanno il potere di cambiare (in meglio) il mondo.
Ora pare che stiamo per misurarci con la riforma della giustizia, il cui architrave sarà rappresentato, nelle intenzioni del Governo, dalla tanto sospirata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. La si vagheggia da tempo e l’attuale maggioranza politica annuncia che il tempo propizio è venuto.
Nel battage che l’accompagna, la separazione delle carriere viene presentata come premessa necessaria a riformare la giustizia per renderla giusta ed efficiente. Trascuro volutamente il tema concernente la coerenza della misura rispetto all’obiettivo enunciato, largamente trattato dai favorevoli come dai contrari, tra i quali ultimi mi annovero. Preme invece soffermarsi su un profilo del testo riformatore per nulla o poco esaminato, ma non meno rilevante e, vorrei dire, sintomatico del vero disegno riformatore, al punto che la ripetizione quasi ossessiva di quella formula magica provoca in chi scrive un effetto quasi urticante. In effetti, della “separazione delle carriere” dovrebbe preoccupare l’oggetto (le “carriere”) tanto quanto lo strumento (la “separazione”).
2. Un concetto o uno slogan?
Il disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 29 maggio (Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare) intende modificare, all’art. 2, il testo dell’art. 102 della Costituzione, inserendo in coda al primo comma le seguenti parole: “, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Una volta riformata, dunque, la norma reciterebbe: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme dell’ordinamento giudiziario, le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”.
In Costituzione verrebbe dunque introdotto il termine “carriera” anche per i magistrati. Attualmente esso è presente soltanto nel testo dell’art. 98, terzo comma, con riferimento ai militari in servizio attivo[2]. Sembra quasi ovvio osservare che le diversità professionali tra gli uni e gli altri sono abissali.
La locuzione “separazione delle carriere dei magistrati” è entrata ormai nell’uso comune. Vi era così intitolato il quesito sottoposto a referendum il 12 giugno 2022; il d.d.l. di presentazione parlamentare (a firma Stefani e aa.) del 26 gennaio 2023 reca il titolo “Modifica all’articolo 87 e al titolo IV della parte seconda della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”; lo stesso è a dirsi per quello di iniziativa popolare, promosso dall’Unione delle Camere penali e presentato il 31 ottobre 2017.
Sono esempi tra i tanti.
Lo stesso vale per il linguaggio della politica e delle istituzioni[3]. L’impressione, però. è che della “separazione delle carriere” si parli come di uno slogan, dimenticando che essa comporterebbe un’operazione di politica giudiziale complessa, andando a toccare svariati tasselli della costruzione ordinamentale; potendo essere realizzata in molti modi, essa indica quindi un obiettivo, non un contenuto normativo preciso. Se poi si esce dall’astrazione vessillifera, ci si accorge invece dell’impostura che cela l’inflazionata locuzione.
3. Cos’è la carriera.
Nella sua etimologia la parola “carriera” risale alle vie percorse dai carri, da un tardo latinismo (carraria), acquisito dal provenzale antico (carriera): la carriera richiama lo spazio segnato per la corsa dei cavalli coi carri[4]. Da qui il passaggio, nel mondo giuridico ed economico, al percorso, alla via prescelta nella vita lavorativa, professionale o militare.
La carriera designa un percorso concepito per gradini, rivolto a un avanzamento progressivo. “Fare carriera”, del resto, significa progredire, migliorando il livello del proprio status lavorativo. Lo sviluppo della carriera implica più responsabilità, migliore retribuzione, mansioni più qualificanti.
La carriera è insomma, da sempre, la via della progressione lavorativa nel campo di un’attività organizzata per gradi o per livelli, impostata, dunque, secondo un ordine gerarchico[5]; tale definizione è rimasta invariata anche dopo gli studi che, negli ultimi cinquanta anni, si sono focalizzati più sulla sfera individuale che sulla dimensione organizzativa del termine[6]: “carriera” conserva tuttora un significato più specifico della locuzione generale “percorso professionale”, poiché connotato da passaggi ordinati verticalmente.
Nel nostro ordinamento giuridico il rapporto di lavoro subordinato, privato e pubblico, si fonda sulla gerarchia, che si esprime attraverso l’esercizio datoriale di poteri di direzione, di disciplina e di conformazione della prestazione – nei limiti stabiliti dalla legge e dal contratto collettivo e/o individuale – all’organizzazione dell’impresa o dell’ente di appartenenza.
La progressione del prestatore di lavoro secondo inquadramenti contrattuali ascendenti è sancita dalla legge (artt. 2103 c.c., 13 segg. e 52 d. lgs. 165/2001): la retribuzione aumenta in ragione della crescente qualificazione della prestazione. Le tradizionali categorie legali del lavoro subordinato delineate dall’art. 2095, co. 1, c.c. (dirigenti, quadri, impiegati, operai), pure se superate negli assetti organizzativi più avanzati, sono state forse addirittura rivitalizzate dal Jobs act del 2015[7].
Nel lavoro pubblico, neppure l’introduzione delle qualifiche funzionali da parte della legge 312/80 – in un’epoca in cui si esaltava il superamento della gerarchia come unico modello di rapporto tra il personale della p.a. – scalfì il disegno verticale dello sviluppo professionale, a cominciare dal fatto che la dirigenza fu esclusa da quell’operazione innovativa.
Nulla di tutto ciò vale per i magistrati, per quanto anch’essi siano dipendenti pubblici. La peculiarità deriva non solo e non tanto dal fatto che la disciplina delle loro mansioni (rectius, funzioni) sia affidata alla legge e non alla contrattazione collettiva (artt. 105 e 108, co. 1, Cost.), ma, prima ancora, dal principio che li vuole tra loro distinti “soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, co. 3, Cost.).
Va notato che il disegno di legge costituzionale approvato il 29 maggio non ripropone l’abrogazione di quest’ultima norma, così come invece prevedevano alcuni progetti di revisione precedenti tra cui quello d’iniziativa popolare promosso dalle camere penali. Si tratta di una delle, poche, buone notizie, giacché l’indistinzione dei magistrati se non per funzione rappresenta il principale bastione a difesa della loro indipendenza interna[8].
4. Il superamento della gerarchia tra i magistrati.
La genesi dell’art. 107, comma terzo, risale al progetto al progetto presentato da Giovanni Leone per conto della Democrazia Cristiana nella seconda sottocommissione della Commissione dei 75, nell’ambito di una “visione nuova del potere giudiziario, distinto in organi e non in gradi” e finalizzato a completare definitivamente lo “sganciamento dalla equiparazione agli impiegati dello Stato”; nell’ordine giudiziario così ristrutturato – si legge nella relazione – “non vi è gerarchia, ma solo delimitazione delle sfere di attribuzione”[9].
Nel corso della discussione sviluppatasi nell’Aula, Leone stesso, cogliendo le perplessità sorte sulla locuzione “e non di gradi”, ne propose la soppressione a nome della Commissione, ribadendo che “c’è una gerarchia nella Magistratura, ma si tratta di una gerarchia di funzioni giurisdizionali, senza peraltro rinnegare quel minimo d’interna gerarchia amministrativa che è indispensabile in seno a ciascun collegio”.
La svolta impressa dai costituenti mirava a superare l’influenza che, in un ordine giudiziario che li distingueva per gradi (art. 4 del RD 12/1941, nel testo originario), i magistrati di appello potevano esercitare su quelli di primo grado e quelli di Cassazione potevano esercitare su entrambi[10]. A questa influenza, misurata sulla valutazione dei provvedimenti dei colleghi, si aggiungeva il rapporto esistente tra Ministro della giustizia e magistratura, col risultato di una tendenza conservatrice e conformista delle decisioni giurisdizionali.
A ben vedere, l’abolizione di ogni vincolo gerarchico è frutto dell’interpretazione dell’art. 101, co. 2, Cost.[11]: la soggezione “soltanto” alla legge comporta che il magistrato sia gerarchicamente vincolato alla legge, non ad altri magistrati[12] e, tanto meno, ad un’altra autorità.
Il principio stesso di inamovibilità (art. 107, co. 1) è inconciliabile con l’esistenza di un ordine gerarchico nella magistratura[13], il quale ammette la facoltà del superiore di trasferire o spostare di posizione il sottoposto; sono i poteri che configurano lo jus variandi riconosciuto al datore di lavoro e che riguardano la scelta del luogo, del contenuto Vae delle modalità della prestazione lavorativa.
Il magistrato non vi è assoggettato. Egli può essere trasferito o assegnato a una diversa funzione solo nei casi e con le garanzie previsti dalla legge.
Più in generale, l’assetto costituzionale riconosciuto al magistrato risulta inconciliabile con una relazione gerarchica, che conferisce agli organi superiori uno spiccato potere di ingerenza e di sorveglianza sugli atti di quelli inferiori. Di questo potere è tipica espressione l’ordine amministrativo, contenente comandi o divieti[14].
5. La distinzione dei magistrati soltanto per funzioni.
Se, dunque, l’assenza di vincoli gerarchici interni è già desumibile dai principi di soggezione esclusiva alla legge e di inamovibilità, l’effetto della distinzione dei magistrati soltanto in base alle funzioni è ulteriore.
Nel 1970 la Corte costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha dato delle norme dell’ordinamento giudiziario che concepivano la tradizionale relazione tra i magistrati una lettura secondo Costituzione, poiché l’art. 107, co. 3, e la legge 392/1951 (la cosiddetta legge Piccioni che diede attuazione al dettato costituzionale) esclude che tra loro vi sia “una subordinazione gerarchica del tipo di quella che regola i rapporti tra i funzionari della pubblica amministrazione .. incompatibile con la natura stessa della loro funzione”[15].
Nell’occasione la Corte ha definito i riferimenti ai “gradi” (artt. 4, co. 1, e 39, co. 1, RD 12/1941) e ai pretori “in sottordine” rispetto al titolare dell’ufficio (artt. 31 e 34 RD 12/1941) come espressivi di “una terminologia arcaica .. ora da ritenersi del tutto impropria”.
Il significato dei termini di legge, dunque, va adeguato a quel dettato costituzionale. È sulla scorta di questo insegnamento che possono essere lette altre disposizioni.
Ciò vale, innanzi tutto, per le funzioni direttive e semidirettive. Tornando a occuparsi del sistema delineato dal regio decreto sull’ordinamento giudiziario, la Corte costituzionale ha escluso che esso “ponga i magistrati nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali in un rapporto di subordinazione e tanto meno alla dipendenza gerarchica del pretore dirigente né attribuiscono esclusivamente a questo le funzioni inerenti alla attività giudiziaria della Pretura né tanto meno gli conferiscono i poteri di interferire nell'attività giudiziaria svolta dagli altri magistrati”[16].
La dirigenza – ha spiegato la Consulta – comporta solo attribuzioni di direzione del l’ufficio giudiziario e di distribuzione del lavoro tra le sezioni nonché quelle di carattere amministrativo e di sorveglianza sull’andamento generale dei servizi; sono funzioni, assegnate nei limiti delle norme costituzionali, da svolgersi esclusivamente per obbiettive ed imprescindibili esigenze di servizio al solo scopo di rendere possibile il funzionamento dell’ufficio.
L’evoluzione legislativa successiva non legittima una visione differente da quella così sintetizzata. La riforma avvenuta col d. lgs. 160/2006 ha valorizzato la componente organizzativa nella dirigenza giudiziaria, nel rispetto necessario dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio[17]; la temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive (artt. 45 e 46 d. lgs. 160/2006) ha una duplice finalità: evitare che si consolidino relazioni tra i magistrati di un ufficio orientate in senso gerarchico e favorire una rotazione nelle posizioni di rilievo organizzativo che preservi il carattere orizzontale della traiettoria professionale di ciascun magistrato.
Nei fatti i due scopi non sono stati raggiunti. Un complesso di minuti interventi normativi che nell’ultimo decennio hanno privilegiato un approccio verticistico al tema organizzativo (in nome di un efficientismo spesso frainteso) e l’aspettativa crescente di molti per l’incarico direttivo o semidirettivo rendono dubbio il fatto che l’indistinzione solo per funzioni rappresenti un valore che sia stato davvero introiettato. Si tratta però di una distorsione dovuta a una molteplicità di fattori convergenti, che agiscono su un piano diverso da quello strettamente giuridico. Essi dimostrano piuttosto la necessità che, per dare concretezza al modello costituzionale, sia necessario rendere effettiva la temporaneità della dirigenza giudiziaria.
Le considerazioni svolte sono riferibili anche al pubblico ministero, al quale del resto, in quanto “magistrato” è certamente rivolto l’art. 107, c. 3, Cost.[18]; il fatto che nel capoverso successivo si sia sentita la necessità di precisare che sono attribuite le “garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario” è stato variamente interpretato dalla dottrina costituzionalistica[19], senza che alcuno abbia dubitato che esso possa comportare l’indistinzione anche delle posizioni del p.m. se non per funzioni.
La riforma Cartabia (l. 71/2022), attuata col d. lgs. 44/2024 non ha modificato le disposizioni di apertura contenute nell’art. 1 d. lgs. 106/2006 e, in particolare, il primo comma, in base al quale il procuratore della Repubblica è “preposto all'ufficio del pubblico ministero” e, in quanto tale, è“titolare esclusivo dell'azione penale e la esercita nei modi e nei termini fissati dalla legge”.
Sull’ampiezza delle attribuzioni derivanti dalla posizione così riconosciuta al procuratore e sul tenore della sovraordinazione che essa determina rispetto agli altri magistrati dell’ufficio molto si discute. Il sesto comma dell’art. 1 testé menzionato, così come modificato dall’art. 13 della l. 71/2022, rende chiaro che la relazione tra procuratore e sostituti è imperniata sulle esigenze funzionali e organizzative: al primo compete predisporre il progetto organizzativo dell’ufficio con cui determina “le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”.
La circolare approvata dal CSM il 26 giugno 2024 conferma che questa potestà va oltre la sfera organizzativa; essa trova fonte nella legge (anche nell’art. 70, co. 3., OG), la quale, tracciandone i limiti, rimette al Consiglio superiore la verifica della sua osservanza da parte del dirigente. Muovendo da tale premessa si ribadisce “che i poteri del procuratore della Repubblica sono giustificati dall’esigenza di garantire il buon funzionamento dell’ufficio e il miglior risultato dell’azione che compete all’ufficio stesso, sul piano della rispondenza alla domanda di giustizia; coerentemente, quindi, le attribuzioni dello stesso procuratore si giustificano nella misura in cui effettivamente concorrano a connotare nel senso dell’impersonalità l’ufficio di Procura, non potendo invece sfociare in una personalizzazione della funzione requirente in capo al titolare dell’ufficio stesso, incompatibile con il principio di impersonalità, unità ed indivisibilità che è proprio dell’ufficio del pubblico ministero”[20].
La preposizione attribuita al procuratore della Repubblica si lega quindi all’impersonalità dell’azione penale da parte del rappresentante l’ufficio ed è limitata dalla soggezione solo alla legge anche del pubblico ministero[21], collegata all’obbligatorietà dell’azione penale[22]. Anche dopo la riforma del 2006, la posizione accentratrice e apicale del dirigente resta circoscritta alla sfera funzionale; essa non comporta una gerarchia in senso amministrativistico, quale è stata in precedenza ricordata, non esplicandosi in ordini, istruzioni, atti di coordinamento, di vigilanza, di annullamento o di decisione[23].
Ma ciò che risulta indiscusso e decisivo, ai nostri fini, è che ogni forma di sovraordinazione all’interno dell’ufficio requirente non comporta l’esistenza di “gradi” diversi. Quelle di procuratore, di procuratore aggiunto e di sostituto procuratore sono “funzioni” distinte, non livelli ascendenti di una scala professionale.
6. Categorie e promozioni.
In Costituzione vi sono altri due termini che si prestano a una possibile lettura dissonante dal tenore dell’art. 107, c. 3.
Il primo si rinviene nel quarto comma dell’art. 104, là dove individua i magistrati ordinari componenti del CSM tra gli appartenenti alle varie “categorie”. È opinione comune (e condivisibile) che il termine sia stato utilizzato in ragione della finalità di assicurare al Consiglio superiore una presenza sufficientemente plurale di magistrati in base alla loro estrazione professionale[24]. Di questa lettura ha dato conferma la Corte costituzionale, definendo indiscutibile il fatto che dal quarto comma dell’art. 104 discenda il divieto di escludere in partenza qualsiasi categoria di magistrati, quanto ad entrambi gli aspetti, attivo e passivo, dell’elettorato concernente il Consiglio superiore[25].
La categoria sembra richiamare la distinzione, tradizionale per il mondo lavorativo dell’epoca, che il legislatore aveva riportato pochi anni prima nel codice civile: “I prestatori di lavoro si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai” (art. 2095). L’esperienza ha dimostrato come tale classificazione risulti però irrilevante senza l’integrazione delle fonti ulteriori. Nel caso del lavoro privato, queste risiedono nella contrattazione collettiva, che identifica le singole qualifiche o posizioni economiche in seno a ciascuna “categoria”; ciò si è verificato anche nel lavoro pubblico per le categorie contrattualizzate, al punto che in molti settori si è arrivati a regolamentare separatamente almeno la categoria superiore, quella dirigenziale.
Per i pubblici dipendenti non soggetti al d. lgs. 165/2001, invece la fonte, diretta o indiretta, è la legge. Tra costoro, i magistrati sono soggetti a una sola legge, di fonte costituzionale e di conseguenza, necessariamente, all’art. 107, co. 3.
La seconda parola con cui fare i conti è nell’art. 105 che, elencando i compiti del CSM, include anche le “promozioni”. Il termine sembra divergere da un’interpretazione dell’art. 107, c. 3, preclusiva di una carriera ascendente, giacché promuovere esprime l’atto di conferire a un soggetto il passaggio a un livello superiore[26].
La premessa forse scontata, ma comunque obbligata, di questa sintetica riflessione sull’art. 105 sta nel fatto che l’elenco dei quattro oggetti di disciplina affidati al Consiglio è concepito in funzione di tutela della magistratura; si tratta, cioè, di attribuzioni espresse al fine di escludere ogni ingerenza nelle rispettive materie da parte del potere esecutivo[27].
In concreto l’attuazione di questa regola costituzionale è andata nel senso della conciliazione col disposto dell’art. 107, co. 3. Con le leggi Breganze (570/66) e Breganzone (831/73), infatti, è stato abbandonato definitivamente un regime di avanzamento professionale all’interno di ruoli chiusi, con selezioni gestite da magistrati di grado superiore, per abbracciare un sistema di valutazione affidato al Consiglio superiore, nel quale l’anzianità svolge un ruolo determinante. A seguito delle riforme Castelli (d. lgs. 160/2006) e, soprattutto, Mastella (l. 111/2007), la verifica quadriennale comporta una progressione solo economica, dissociata dalla funzione svolta.
Vizi e virtù del meccanismo valutativo che si è andato da allora consolidando sono controversi, ma attengono al piano fattuale. Sul piano giuridico, gli interventi di allora, al pari della più recente riforma Cartabia, che ha conservato le basi di quell’impianto, rappresentano l’approdo definitivo della distinzione solo per funzioni, la quale comporta un vaglio periodico che riconosca non una progressione ascensionale, ma un livello professionale di base.
Il disegno di legge costituzionale (lo chiameremo Meloni-Nordio?), approvato il 29.5.2024, propone la modifica dell’art. 105 sostituendo il termine “promozioni” con la locuzione “valutazioni di professionalità”, nella consapevolezza, evidentemente, della necessità d’una correzione di rotta nel rispetto dell’ordinamento vigente.
7. Separare cosa?
Tra gli argomenti più utilizzati per disvelare il disegno che si cela dietro le proposte di separazione delle carriere v’è la constatazione del ridottissimo numero di passaggi dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa[28]. Con le limitazioni poste dalla legge 71/2022 la separazione è già nei fatti[29].
Se, dunque, la volontà di sancire comunque una separazione senza eccezioni induce a sospettare sul destino che si vorrebbe presto o tardi assegnare all’indipendenza del pubblico ministero, diffidenza analoga è giustificata dall’impiego deliberato del termine “carriera”. Come s’è visto, esso esprime un significato completamente estraneo allo statuto costituzionale del magistrato.
Si diceva che i segnali della formazione lenta, ma progressiva, di una visione verticale della magistratura sono però concreti. Vengono ovviamente dalla politica legislativa, che, cogliendo e drammatizzando l’insoddisfazione diffusa per un sistema di valutazione della professionalità ritenuto poco rigoroso e spendendo a dismisura gli argomenti dell’efficientismo, tende a infarcire i testi processuali e ordinamentali di norme che valorizzano la presenza di vertici internamente agli uffici e nei rapporti tra gli uffici, vertici in grado di controllare, segnalare, indirizzare le condotte e le decisioni dei magistrati. È sufficiente ricordare le fattispecie di portata disciplinare o valutativa introdotte dal 2021 e basate sulla sorveglianza affidata ai dirigenti in ordine alla produttività, ai ritardi, alle anomalie giurisprudenziali dei colleghi.
Segnali vengono dall’esecutivo, che centellina e distribuisce le risorse, regolamenta le funzioni telematiche, adotta strumenti di gestione del personale, orientando così non solo le proprie funzioni organizzative verso obiettivi propri, ma anche, nei fatti, l’esercizio stesso delle funzioni giurisdizionali.
Vengono infine – va riconosciuto – dalla magistratura stessa, che ha subito un cambio di mentalità con le riforme ordinamentali del 2006 e 2007 espresso in modo vistoso da alcuni atteggiamenti consolidatisi col tempo: da un lato, l’incompleto appagamento per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali (causato anche dalla progressiva difficoltà che si incontrano nel lavoro quotidiano) con la ricerca affannosa di incarichi direttivi o direttivi, recepiti come apicali e rivendicati anche col ricorso al giudice amministrativo quando l’ambizione risulti inappagata; dall’altro, la tendenza crescente a demandare al dirigente dell’ufficio giudiziario ogni attenzione per le esigenze di organizzazione e di funzionalità degli uffici, rinunciando anche alle forme di partecipazione previste dall’ordinamento (partecipazioni alle riunioni; osservazioni su provvedimenti che non intacchino la posizione interna personale; segnalazioni e dialogo coi Consigli giudiziari).
Questa delega in bianco è lo specchio del ripiegamento su stesso da parte del magistrato, sempre più concentrato sul proprio fascicolo, sul rapporto esclusivo coi propri collaboratori diretti, sulla propria statistica. Ed è la spia caratteristica della china burocratica intrapresa, tanto temuta e chiaramente avvertita nella categoria.
Verticismo e burocraticità sono lati della stessa figura: il disegno di una magistratura che contraddice il modello costituzionale, di un ordine autogovernato e titolare di un potere diffuso.
C’è, forse, un disegno organico dietro questa deriva. Più probabilmente v’è una congiuntura che favorisce spinte storicamente insofferenti verso il controllo di legalità. In ogni caso, è lecito prefigurarsi uno sbocco non favorevole alla tenuta concreta del principio d’indipendenza nel concreto esercizio della giurisdizione. Ad arginare la deriva – che va facendo breccia anche tra le fila della magistratura – può contribuire un lessico trasparente e sorvegliato. Massimamente in Costituzione.
Cominciamo dunque a parlare (e a pensare), se mai, di una separazione delle funzioni, non delle carriere; e, sulla stessa falsariga, ad eliminare dal mondo linguistico-giudiziario parole come “vertici” o “capi” (procuratore della Repubblica basta e avanza a designare la funzione), delle quali pure si abusa talvolta persino nelle circolari del CSM. Sono parole ingannevoli e pericolose, poiché legittimano una visione incostituzionale della magistratura.
[1] Di tutti gli interventi del convegno “Il linguaggio della Costituzione” è reperibile la trascrizione integrale in www.senato.it, consultato l’8.8.2024.
[2] La norma recita: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”.
[3] Si veda, tra gli innumerevoli casi, la dichiarazione del Ministro della giustizia Carlo Nordio su Il Messaggero, ed. del 23 giugno 2024, pag. 3: “le carriere vanno separate e il Csm va riformato”.
[4] Cfr. i vocabolari Treccani on line e Il nuovo de Mauro on line, consultati il 24.6.2024.
[5] Cfr. Dizionario della lingua italiana, di G. Devoto e G.C. Oli, Le Monnier, 1971.
[6] Per riferimenti alle teorie dello sviluppo vocazionale di Donald E. Super, cfr. A. Di Fabio, Psicologia dell’orientamento. Modelli, metodi e strumenti, Giunti, 1998.
[7] Cfr. ad es. D. Garofalo, Lo jus variandi tra categorie e livelli, in massimariogiurisprudenzadellavoro.it, consultato il 28.6.2024.
[8] Per una critica alla proposta abrogativa si veda G. Silvestri, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, Forum, in Rivista “Gruppo di Pisa”, 2024, fasc. 1, 364.
[9] Le parole di G. Leone, riportate nel resoconto della seduta del 5 dicembre 1946 in www.dellarepubblica.it/item/105 (consultato il 7.9.2024), sono lucide e illuminanti: “La diversità di sfera giurisdizionale non può identificarsi con diversità di potere. È canone universalmente accettato dalla dottrina quello dell’unità della giurisdizione: potere giudiziario in senso pieno e assoluto è quello del giudice conciliatore, come quello della Corte di cassazione. Da ciò dipende il ripudio del concetto gerarchico del potere giudiziario e la conseguente ripartizione per gradi”.
[10] S. Bartole, Il potere giudiziario, in G. Amato e A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico. II) L’organizzazione costituzionale, Il Mulino, 1997, 461. Cfr. anche V. Mele, I «gradi» del magistrato, in Quad. giust., 1982, 16, 1 ss.
[11] Così F. Bonifacio e G. Giacobbe, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, La magistratura, tomo 2, Art. 104-107, Zanichelli e Soc. ed. del Foro italiano, 1986, 165.
[12] La metafora è di Q. Camerlengo, “Soltanto per diversità di funzioni”? I magistrati ordinari tra carriera e prestigio, in Quad. costituzionali, 2014, 2, 287.
[13] Così M. R. Morelli, Commento all’art. 107, in V. Crisafulli e L. Paladin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, CEDAM, 1990, 662.
[14] Cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, 1982, 556.
[15] Corte cost., 3 giugno 1970, n. 80.
[16] Corte cost., 18 luglio 1973, n. 143.
[17] L’art. 12, co. 12, d. lgs. 160/2006 definisce l’attitudine direttiva come “capacità di organizzare, di programmare e di gestire l’attività e le risorse in rapporto al tipo, alla condizione strutturale dell'ufficio e alle relative dotazioni di mezzi e di personale; è riferita altresì alla propensione all'impiego di tecnologie avanzate, nonché alla capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e dei funzionari, nel rispetto delle individualità e delle autonomie istituzionali, di operare il controllo di gestione sull'andamento generale dell'ufficio, di ideare, programmare e realizzare, con tempestività, gli adattamenti organizzativi e gestionali e di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto di organizzazione tabellare”.
[18] Sul punto si legga Corte cost. 28 gennaio 1991, n. 88.
[19] Per una sintesi al riguardo cfr. G. D’Elia, Il pubblico ministero, in Wolters kluwer, One legale, 2024, 14.
[20] La circolare richiama N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione CEDAM 1996, pag.46, nota n.79, in cui si evidenzia che nell'assetto organizzativo prefigurato da impersonalità, unità e indivisibilità esistono potenzialità che possono facilitare il funzionamento degli uffici del p.m. secondo esigenze di speditezza ed economicità, segnalando quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 462/1993, in occasione di un conflitto di attribuzioni sollevato da un ufficio di Procura nei confronti della Camera dei deputati: il conflitto era stato dichiarato ammissibile, disattendendo l’eccezione sollevata dall’avvocatura dello Stato per il fatto che il ricorso non fosse stato sottoscritto dal titolare dell'ufficio. La Consulta ha ritenuto che “se è vero che il ricorso porta in calce la sottoscrizione del Procuratore della Repubblica aggiunto e non quella del Procuratore titolare, è anche vero che lo stesso ricorso risulta intestato alla Procura della Repubblica come ufficio unitario del pubblico ministero legittimato al conflitto”, dovendo presumersi che il ricorso fosse stato formulato dal procuratore aggiunto nell'esercizio del potere di supplenza del titolare di cui all'art. 109 ordinamento giudiziario e d'intesa col titolare stesso. In sostanza, evidenzia l’autore, il principio di unità e indivisibilità, ben lungi dal presentare conseguenze gerarchizzanti, ha permesso alla procura di non vedersi dichiarare in limine inammissibile il ricorso.
[21] Così Corte cost. 88/91, cit., che afferma espressamente che anche il magistrato del p.m., al pari del giudice, è soggetto soltanto alla legge, ai sensi dell’art. 101, co. 2, Cost.; in senso contrario, si è poi pronunciata la sentenza 420/1995, in cui però la Consulta, più che stabilire l’inapplicabilità di questa norma – di fronte a un ricorso a tutela dell’autonomia del p.m. nell’attività d’indagine e nell’esercizio dell’azione penale – sembra avere ascritto rilevanza assorbente alle attribuzioni sancite dall’art. 112 Cost. nel conflitto tra poteri dello Stato.
[22] Così ancora Corte cost. 462/1993 e, a commento, C. Salazar, L’organizzazione interna delle procure e la separazione delle carriere, in A. Pace, S. Bartole, R. Romboli (a cura di), Problemi attuali della giustizia in Italia, Jovene, Napoli, 2010, p. 195. Sugli invalicabili limiti costituzionali a una struttura verticale delle procure si veda già R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario forense. Volume I. Antologia di scritti, 2002, p. 307. Più di recente M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in Questione giustizia, 2018, 1, 79.
[23] S. Battini, L’organizzazione, in S. Cassese (a cura di), Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, 2006, 71.
[24] F. Bonifacio e G. Giacobbe, cit. 167.
[25] Corte cost. 1987, n. 82, la quale ritiene peraltro che in ciò non si esaurisca il significato della norma dell’art. 104, c. 4: “Al contrario, dal tenore testuale di essa, dai lavori preparatori, dalle letture che ne sono state fatte durante un trentennio, in sede giurisprudenziale e legislativa, risulta univocamente che i magistrati di cui si compone il Consiglio superiore vanno pur sempre distinti per categorie; sicché l'opposta tesi corrisponde – almeno per alcuni suoi profili –
non tanto ad una diversa interpretazione dell'art. 104, quarto comma, quanto ad un modello organizzativo non coincidente con quello indicato dalla stessa Carta costituzionale”.
[26] Osservazioni perspicue sul punto si devono ad A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Il Mulino, 1974, 26, e P. Grossi, orientamenti attuali di giurisprudenza costituzionale nell’interpretazione degli artt. 105, 107 comma 3° e 104 comma 4° Cost., in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, CEDAM, 1985, I, 467.
[27] In tal senso si espresse Meuccio Ruini illustrando all’Assemblea il testo dell’art. 105 Cost. e definendo le materie rimesse al CSM come “i quattro chiodi, i punti essenziali su cui il Ministro non può ingerirsi”.
[28] Nel triennio 2021/23 sono passati dalla funzione giudicante a quella requirente 31 magistrati; 59 hanno seguito il percorso inverso. Considerata una media annua di 30 complessivi, si può dire che il passaggio di funzione ha interessato meno dell’1% dei magistrati in servizio (fonte C.S.M., 2024).
[29] Così G. Azzariti, La separazione delle carriere dei magistrati, in Osservatorio costituzionale, 2023, 2, 7.
L’incostituzionalità delle proroghe legali delle concessioni balneari per violazione della “direttiva servizi” (nota a Corte cost. n. 109/2024)
di Matteo Timo
Sommario: 1. Premessa: la questione di legittimità costituzionale – 2. La decisione assunta dalla Corte costituzionale – 3. (Segue) La declaratoria di incostituzionalità – 4. Osservazioni conclusive
1. Premessa: la questione di legittimità costituzionale
Con la pronuncia in rassegna la Corte costituzionale torna, nuovamente, sul dibattuto tema delle proroghe legali delle concessioni demaniali marittime e lacuali ad uso turistico-ricreativo, meglio note con l’espressione di sintesi “concessioni balneari”.
L’occasione per l’ennesima pronuncia nel senso dell’illegittimità del peculiare regime delle proroghe ope legis è fornita al Giudice delle leggi da un ricorso, promosso dal Presiedente del Consiglio dei ministri, avverso la legge regionale siciliana n. 2 del 2023[1] e, in particolar modo, in merito al disposto degli artt. 36 e 38.
Le disposizioni gravate dal Governo attengono, invero, a tematiche solo indirettamente connesse a quelle del rinnovo e della proroga delle concessioni, sicché la lettura della pronuncia in parola offre un peculiare spaccato delle scelte normative che, nella materia che ci occupa, possono presentare difformità dal dettato costituzionale e, come vedremo, dal parametro interposto rappresentato dal diritto eurounitario.
Lungi dall’imporre una proroga dei titoli in essere, l’art. 36 della l.r. siciliana n. 2/2023, seppur rubricato “Modifiche di norme in materia di concessioni demaniali marittime”, interviene, invero, sui termini del procedimento amministrativo volto alla presentazione dell’istanza per il rinnovo della concessione in essere e alla conferma della medesima istanza. Con maggior precisione, la disposizione regionale de qua fissava un nuovo termine per il deposito della domanda di proroga dei titoli demaniali in essere: termine equiparato a quello per la conferma delle istanze già presentate. Giova a tal riguardo precisare che la proroga legale delle concessioni balneari siciliane era stata disposta, con separata legge regionale n. 24/2019[2], al 31 dicembre 2023, in aderenza al disposto della legge n. 145/2018[3], quest’ultima abrogata – in quanto dichiarata più volte incompatibile con il diritto dell’Unione europea[4] – dalla legge n. 118/2022[5].
Quanto al disposto dell’art. 36 della l.r. siciliana n. 2/2023, esso prevedeva che il termine del 31 agosto 2021 di presentazione delle istanze di rinnovo, originariamente imposto dalla l.r. n. 17 del 2021[6], fosse sostituito dal nuovo termine del 30 aprile 2023. Analogo termine veniva previsto, come sopra anticipato, per la conferma delle istanze di rinnovo già presentate negli anni precedenti.
Il Governo ricorrente interpretava la suddetta “sostituzione” del termine, quale “proroga” del medesimo e, pertanto, quale risultato di una disposizione che «“corrobora la proroga delle concessioni demaniali marittime fino al 31 dicembre 2033”, nonostante i citati commi 682 e 683 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 siano stati abrogati, per “incompatibilità con l’ordinamento unionale”, dall’art. 3, comma 5, lettera a), della legge 5 agosto 2022, n. 118»[7]: vale a dirsi che, nell’ottica del Governo italiano, la proroga del menzionato termine procedimentale costituisce barriera alla piena applicazione del diritto dell’Unione europea, analoga a quella rappresentata dalla proroga ope legis dei titoli concessori.
In conclusione, ne deriva, ad avviso del ricorrente, la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. per lesione del paramento interposto costituito dalla nota disposizione di cui all’art. 12 della cd. “direttiva servizi”[8], ritenuta dall’Esecutivo autoapplicativa in forza dell’interpretazione datane dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[9] e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea[10].
Quanto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 38 della legge siciliana in parola – peraltro afferenti a tematiche altre rispetto a quelle di cui al presente scritto – è opportuno precisare come la Corte costituzionale abbia dichiarato la cessazione materia del contendere, attesa la sopravvenuta abrogazione dell’articolo citato, sicché nei paragrafi successivi sarà possibile concentrarsi esclusivamente sull’esame dei vizi dell’art. 36 l.r. siciliana n. 2/2023.
2. La decisione assunta dalla Corte costituzionale
La pronuncia della Corte costituzionale in commento appare apprezzabile quantomeno sulla scorta di tre profili che dalla medesima sono stati approfonditi: innanzitutto, per il contributo fornito alla ricostruzione della natura giuridica dell’attività dello “stabilimento balneare”; successivamente, per la rielaborazione e, di conseguenza, per il massimo riconoscimento delle interpretazioni fornite tanto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, quanto dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato; da ultimo, per aver nettamente sancito l’illegittimità costituzionale delle proroghe legali per violazione del diritto eurounitario (concepito alla stregua di “parametro interposto”) e non, come sovente accaduto in passato, per lesione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza[11].
Nel seguire gli argomenti come poc’anzi riportati – peraltro, desumibili anche dall’ordine di trattazione di cui alla pronuncia annotata – il Giudice delle leggi ha avuto modo di porre l’accento[12] sulle singolarità che connotano quel peculiare imprenditore[13] che è lo stabilimento balneare: peculiarità che, come si è avuto modo di osservare in altra sede[14], discendono dall’esercizio di un’attività imprenditoriale, dal carattere lucrativo, ma presupponente il godimento esclusivo di un bene demaniale scarso, in deroga al suo uso naturale, ossia quello “comune”, aperto alla collettività indistinta[15].
A tal riguardo, la Corte ha osservato come lo stabilimento balneare eserciti «attività economiche che, come nel caso delle concessioni demaniali, utilizzano a fini imprenditoriali la disponibilità esclusiva di un bene pubblico caratterizzato dalla “scarsità” della relativa risorsa», attività d’impresa per le quali «il diritto dell’Unione europea sottopone il rilascio del titolo autorizzativo a stringenti condizioni, atte a favorire il ricambio tra gli operatori e a rimuovere gli ostacoli all’ingresso nel mercato di riferimento».
La rielaborazione fornita sul punto dalla Corte costituzionale appare apprezzabile, dapprima, per la sua aderenza al dettato normativo – al d.l. n. 400/1993, ma altresì alla direttiva servizi –, il quale espressamente attribuisce la natura imprenditoriale alle attività turistico-ricreative prestate dallo stabilimento balneare sulle coste e sulle rive. Inoltre, la lettura della pronuncia ben sottolinea il carattere strumentale del bene pubblico per l’esercizio dell’impresa, sia quale elemento indispensabile per la prestazione dell’attività economica, sia quale area demaniale che è messa nella sola “disponibilità” dell’imprenditore, attraverso il titolo “autorizzatorio” (rectius concessorio, qualora si utilizzi la terminologia interna), per archi di tempo limitati. Infine, e prima ancora di entrare nel merito della legittimità costituzionale della disposizione regionale impugnata, la sentenza n. 109/2024 immediatamente attribuisce al bene demaniale il carattere della “scarsità”, sottoponendo la concessione del medesimo alle «stringenti condizioni» prescritte dall’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, vale a dirsi espletamento della procedura di selezione imparziale e trasparente, nonché rilascio del titolo per una durata limitata, senza rinnovo automatico e senza attribuzione di privilegi al concessionario uscente.
In questo frangente, la Consulta si colloca nel solco tracciato dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di giustizia, ribandendo concetti e qualificazioni giuridiche che sono state proprie, negli ultimi anni, della ricostruzione pretoria della concessione balneare. Peraltro, a pochi giorni di distanza dal deposito della sentenza de qua, l’interpretazione fornita ha ricevuto un ulteriore consolidamento ad opera di un nuova decisione della Corte di giustizia (sentenza 11 luglio 2024[16], su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato), la quale – sebbene chiamata a pronunciarsi sul tema della devoluzione gratuita al demanio delle opere inamovibili edificate dal concessionario[17] – ha rimarcato alcune delle linee fondamentali del regime italiano dei beni pubblici, evidenziando come il carattere precario della concessione sia funzionale alla stessa inalienabilità del demanio: «il principio di inalienabilità implica segnatamente che il demanio pubblico resta di proprietà di soggetti pubblici e che le autorizzazioni di occupazione demaniali hanno carattere precario, nel senso che esse hanno una durata determinata e sono inoltre revocabili»[18].
Ancora – e questo si dimostra essenziale nel meglio comprendere il nesso fra il titolo amministrativo, l’attività economica prestata sul demanio e i connessi rischi imprenditoriali – la CGUE rileva che, in osservanza al summenzionato principio di inalienabilità, la regolazione normativa applicabile alle concessioni demaniali «fissa, senza alcun possibile equivoco, i termini dell’autorizzazione all’occupazione che viene concessa. Ne consegue che [l’operatore] non poteva ignorare, sin dalla conclusione del contratto di concessione, che l’autorizzazione all’occupazione demaniale che le era stata attribuita aveva carattere precario ed era revocabile».
Alla luce del secondo profilo d’interesse che si è delineato all’inizio del presente paragrafo, la Corte costituzionale, seppur succintamente, evoca, facendole proprie, la conclusioni cui sono pervenute la Corte di giustizia e l’Adunanza plenaria. Per quanto concerne la giurisprudenza dell’Unione europea, oggetto di richiamo è tanto la celeberrima pronuncia Promoimpresa del 2016[19] che, per prima, ha statuito la non conformità delle proroghe legali all’art. 12 della direttiva servizi, quanto la più recente sentenza del 20 aprile 2023[20], in ordine alla quale il giudice costituzionale italiano giunge ad affermare che essa «ha ricordato che l’art. 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE impone agli Stati membri, in termini incondizionati e sufficientemente precisi, l’obbligo di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente tra i candidati potenziali e vieta di rinnovare automaticamente un’autorizzazione rilasciata per una determinata attività».
In merito, invece, alle due sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, la Corte costituzionale ne accoglie l’elaborazione, senza, peraltro, menzionare la pronuncia delle Sezioni Unite[21] che – in sede di ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione – ha cassato la pronuncia n. 18: il Giudice delle leggi pare, quindi, porsi nel filone interpretativo[22] che riconosce la bontà sostanziale del portato della Plenaria, indipendentemente dai vizi di rito rilevati dalla Cassazione. In questo senso, con la pronuncia qui in commento, la Corte costituzionale evoca i punti fondamentali delle due sentenze e, in particolare, osserva che: in primo luogo, è stato accertato il contrasto tra il modello delle proroghe legali e il diritto dell’Unione in materia di libertà di stabilimento e di non discriminazione degli operatori economi, con il conseguente obbligo di procedere alla disapplicazione della normativa nazionale; in secondo luogo, è stata dichiarata l’insussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto concessorio in capo all’operatore uscente.
Così ragionando, la Consulta si appropria sia delle risposte pregiudiziali, sia dell’elaborazione della Plenaria, al fine di ricostruire il portato sostanziale del parametro interposto – ossia dell’art. 12 della direttiva servizi – nell’intento di impiegarlo per sondare, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. la disposizione regionale impugnata. È proprio sull’obbligo del legislatore, statale e regionale, di uniformarsi ai vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione, che la Consulta procede al vaglio di compatibilità tra la normativa siciliana e la direttiva servizi.
3. (Segue) La declaratoria di incostituzionalità
È possibile così accedere al terzo dei profili che ci si era proposti di sondare all’inizio del paragrafo precedente, vale a dirsi quello concernente l’illegittimità costituzionale delle proroghe legali. A tal scopo, è doveroso osservare come la pronuncia in esame rappresenti in qualche modo un mutamento della giurisprudenza costituzionale, giacché la Consulta è messa nella condizione di entrare nel merito della suddetta costituzionalità o meno delle proroghe ope legis. Con quanto scritto si vuole sottolineare che, negli anni passati, è stato più volte invocato l’intervento della Corte nell’intento di sondare la conformità a Costituzione del meccanismo delle proroghe legali, statuite a livello regionale. Tuttavia, in quei casi il parametro richiamato o, in qualche maniera, prescelto dalla Corte – dichiarando assorbiti gli altri – è stato quello dell’art. 117, commi 2, 3 e 4, Cost., nella misura di appurare se la potestà legislativa regionale fosse sufficientemente estesa da ricomprendere la disciplina degli usi marittimi/lacuali. Di tal guisa, la Consulta è addivenuta, in numerose pronunce[23], alla conclusione che gli usi del demanio, ivi compresa la concessione del medesimo ad uso particolare, sia annoverabile nella materia “tutela della concorrenza” rimessa alla legislazione esclusiva dello Stato. Conseguenza dell’appena riportato iter argomentativo sono state le molteplici declaratorie di incostituzionalità di leggi regionali per violazione dell’art. 117, comma 2, Cost.
Per tal via, pur nel riconoscere tra le righe una certa valenza alle logiche proconcorrenziali[24], la Corte ha pressoché sempre assunto una posizione “formale”, edificata sul corretto riparto della potestà legislativa, di fatto evitando di entrare nel “merito” della legittimità costituzionale delle proroghe ex lege e, piuttosto, rimettendo alla legge dello Stato la disciplina della materia[25]. La circostanza è di tutta evidenza nella misura in cui la pronuncia in esame – “cambiando il registro” e adottando il parametro più “sostanziale” dei vincoli comunitari di cui al primo comma dell’art. 117 Cost. – non trova numerosi precedenti in materia cui ancorarsi. In effetti, una volta ricostruito, come prima si è avuto modo di vedere, il portato dell’art. 12 della direttiva servizi, i giudici costituzionali rinvengono solo due precedenti idonei ad essere impiegati per dichiarare fondata la questione promossa avverso la disposizione siciliana: di essi, uno risale alla sentenza n. 180 del 2010[26]; l’altro, di cui alla più recente sentenza n. 233 del 2020[27], concerne, invero, le acque minerali e termali e la Corte ne estende il principio di diritto alla materia delle concessioni balneari.
Con la prima delle sentenze menzionate la Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità di una normativa della Regione Emilia-Romagna concernente la regolazione del demanio marittimo e del mare territoriale, giungendo alla conclusione che siffatta regolazione «viola l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza. Infatti la norma regionale prevede un diritto di proroga in favore del soggetto già possessore della concessione, consentendo il rinnovo automatico della medesima. Detto automatismo determina una disparità di trattamento tra gli operatori economici in violazione dei principi di concorrenza». Peraltro, anche in quel frangente, la Corte non esitò a rilevare uno sconfinamento del legislatore regionale in materie statali, nell’affermare che la «norma impugnata determina, dunque, un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento (detto anche “di non discriminazione”), che si ricava dagli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi».
Di converso, avendo riguardo alla più recente pronuncia del 2020, il Giudice delle leggi ha ricondotto lo sfruttamento delle acque termali, minerali e di sorgente all’art. 12 della direttiva servizi[28], nel costatare che «In applicazione dei principi del diritto europeo in materia, questa Corte ha ripetutamente affermato che il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo (da ultimo, sentenza n. 1 del 2019) e, per quanto qui di interesse, delle acque termominerali (sentenza n. 117 del 2015), viola l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, dal momento che altri possibili operatori non avrebbero la possibilità, alla scadenza della concessione, di concorrere per la gestione se non nel caso in cui il vecchio gestore non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti».
Invero, occorre osservare che il precedente di cui alla sentenza n. 1/2019[29] richiamato dalla appena riportata pronuncia n. 233/2020, non si riferiva all’art. 117, comma 1, Cost., ma si collocava tra le numerose pronunce di incostituzionalità poco sopra menzionate e basate sull’art. 117, comma 2, Cost. In quella sede, la Corte costituzionale – nel vagliare una proroga trentennale delle concessioni balneari varata dalla Regione Liguria – dichiarò, infatti, che «la questione relativa all’art. 2, comma 2, dell’impugnata legge regionale è fondata, in relazione al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., restando assorbito ogni altro profilo di censura. L’enunciata finalità di tutelare, relativamente alla Regione Liguria, l’affidamento e la certezza del diritto degli operatori locali, non vale ad escludere il vulnus arrecato dalla disposizione in esame alla competenza esclusiva dello Stato, in materia di tutela della concorrenza».
Ne deriva che la pronuncia cui è dedicato questo commento si presenta del tutto innovativa nel panorama della giurisprudenza costituzionale, giacché – se si esclude il parziale richiamo alla sentenza n. 180/2010 – si presenta come prima a prendere in considerazione l’incompatibilità sul piano costituzionale della normativa italiana con il portato dell’art. 12 della direttiva servizi, arrivando ad una declaratoria di incostituzionalità.
Infatti la Corte, una volta ricostruito (sulla scorta della giurisprudenza amministrativa e dell’Unione europea) il contenuto prescrittivo dell’art. 12 della direttiva servizi, impiega quest’ultimo articolo quale parametro interposto al fine di sondare la bontà delle proroghe legali dei titoli e, nel caso concreto, delle proroghe dei termini procedimentali per chiedere il rinnovo delle concessioni in essere.
Seguendo tale iter, la Consulta giunge a due statuizioni finali.
Dapprima, riconosce l’incostituzionalità delle proroghe automatiche delle concessioni del demanio marittimo, poiché costituenti normativa primaria adottata in violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., ossia in spregio all’art. 12 direttiva n. 2006/123/CE.
In secondo luogo, la Corte estende la declaratoria di incostituzionalità – basata sulla violazione del medesimo paramento interposto – anche alle disposizioni che di per sé non costituiscono proroga del titolo, ma, come poc’anzi scritto, proroga del termine per la presentazione dell’istanza di proroga del titolo. Non a caso e con ragionamento condivisibile, la pronuncia de qua osserva che anche la sola proroga del termine di proposizione dell’istanza «finisce con l’incidere sul regime di durata dei rapporti in corso, perpetuandone il mantenimento, e quindi rafforza, in contrasto con i principi del diritto UE sulla concorrenza, la barriera in entrata per nuovi operatori economici potenzialmente interessati alla utilizzazione, a fini imprenditoriali, delle aree del demanio marittimo»[30].
4. Osservazioni conclusive
La pronuncia che si è avuto modo di commentare nelle pagine precedenti appare meritevole di segnalazione sulla base di differenti prospettive.
Innanzitutto, essa consolida un approccio critico della Corte costituzionale nei confronti del regime di proroga ope legis e, se volgiamo, di “proroga della proroga” che il legislatore ha perpetuato, ormai, da oltre un decennio. Se, originariamente, il modello era giustificabile nell’intento di assicurare un congruo arco temporale al legislatore per addivenire ad una complessiva riforma del demanio marittimo e dei suoi usi, oggi, a fronte della costante inerzia normativa, lo stesso modello non può più trovare cittadinanza, tramutandosi in un’evidente incertezza regolatoria per le pubbliche amministrazioni, gli operatori e i consociati in generale.
Alla luce di un altro punto di vista, la pronuncia de qua appare apprezzabile per il fatto di costituire una cesura nella giurisprudenza costituzionale che, nella sostanza, aveva sempre impiegato il parametro dell’art. 117, comma 2, Cost., dichiarando incostituzionali leggi regionali di proroga per aver illegittimamente espropriato allo Stato la disciplina della concorrenza, rimessa appunto alla potestà legislativa esclusiva. L’aver, diversamente, riscontrato un vizio per violazione dei vincoli comunitari ex art. 117, comma 1, Cost., comporta una “sostanziale” incostituzionalità del modello delle proroghe legali, replicabile – parrebbe – in ogni disposizione normativa di egual tenore.
Ancora, proprio il riscontro di una incostituzionalità nel portato sostanziale della disposizione censurata pone le basi per un generalizzata incostituzionalità del regime delle proroghe legali delle concessioni balneari, che si estende, pertanto, anche alle regole statali di egual tenore.
Inoltre, la sentenza in commento contribuisce ad arricchire quel “diritto pretorio” delle concessioni balneari, formatosi nella vacanza del legislatore statale. Non solo le proroghe ex lege sono contrastanti con il diritto dell’Unione europea e, quindi, disapplicabili dal giudice nazionale e dalla pubblica amministrazione, come assodato dalla Corte di Giustizia e dalla Plenaria, ma le medesime sono, altresì, incostituzionali.
Da ultimo, è pregevole l’ulteriore approccio sostanziale che la Corte costituzionale ha impiegato nell’equiparare la proroga del titolo alla proroga del termine per presentare l’istanza di rinnovo: anche quest’ultima tipologia di disposizione, come correttamente osserva il Giudice delle leggi, comporta un dilatarsi del titolo in essere oltre la sua naturale scadenza, cristallizzando il mercato di riferimento.
[1] Legge della Regione Siciliana 22 febbraio 2023, n. 2, recante “Legge di stabilità regionale 2023-2025”.
[2] Art. 1, comma 1, legge della Regione Siciliana 14 dicembre 2019, n. 24, recante “Estensione della validità delle concessioni demaniali marittime”.
[3] Art. 1, commi 682 e 683, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, avente ad oggetto “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021”: per un esame delle disposizioni menzionate, sia consentito il richiamo di M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia. Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020.
[4] La letteratura in materia assume dimensioni tali da non poterne dare compiutamente atto in questo commento. Oltre alle opere di volta in volta richiamate, sia sufficiente ricordare, Aa.Vv., La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, in Diritto e società, 2021, numero speciale, 3, nonché V. Caputi Jambrenghi, Appunti sullo stato delle concessioni marittime, in Liber amicorum per Vittorio Domenichelli, Bari, 2018, p. 130 ss.
[5] Legge 5 agosto 2022, n. 118, recante “Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”.
[6] Legge regionale siciliana 21 luglio 2021, n. 17, a sua volta modificata dalla successiva legge regionale 3 agosto 2021, n. 22.
[7] Sentenza in commento, punto 1.1. del ritenuto in fatto.
[8] Direttiva n. 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, nota anche come “Direttiva Bolkestein”.
[9] Cons. di Stato, Ad. Plen., 9 novembre 2021, n, 17 e 18, in questa Rivista, E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116), 2022.
[10] CGUE 20 aprile 2023, causa C-348/22, in questa Rivista, annotata da A. Persico, Concessioni balneari: interviene la Corte di giustizia, a conferma della posizione dell’Adunanza Plenaria. (Nota a Corte di giustizia, Sez. III, sentenza 20 aprile 2023, in causa C-348/22), 2023. Per un’analisi del rinvio pregiudiziale, cfr. M. Timo, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743), ivi, 2022. In merito alle ulteriori pronunce del TAR Puglia, Sede di Lecce, si rinvia all’ampia analisi di G. Mari, Demanio costiero e uso generale: la “scarsità della risorsa naturale” (nota a TAR Puglia, Lecce, nn. 1223 e 1224 del 2023), ivi, 2023.
[11] Nel prosieguo si avrà modo di menzionare la giurisprudenza della Corte costituzionale che, in anni recenti, ha dichiarato l’incostituzionalità di disposizioni normative regionali di proroga delle concessioni demaniali per l’aver le medesime esorbitato le potestà legislative riconosciute alle Regioni, ledendo la riserva statale di cui all’art. 117, comma 2, Cost.
[12] Punto 2.1. del considerato in diritto.
[13] D’altronde, è la legge stessa che detta le attività economiche esercitabili sulle aree concesse: cfr. art. 01 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 400, convertito in L. 4 dicembre 1993, n. 494.
[14] M. Timo, op. cit., p. 42 e p. 171.
[15] Cfr. sul punto già Cons. di Stato, Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1296, in Dir. mar., 2019, 1, p. 119 ss., con nota di M. Timo, Il Consiglio di Stato riqualifica una “auto-concessione” quale uso generale del demanio marittimo, ha statuito che «la destinazione alla collettività tramite la gestione diretta del bene demaniale marittimo è la regola e la concessione è di conseguenza l’uso speciale o eccezionale». Con maggior precisione, illustre dottrina ha precisato che «l’uso comune, l’uso speciale, e l’uso eccezionale, consistenti il primo in quello – conforme alla destinazione primaria del bene – cui siano ammessi tutti indifferenziatamente, senza bisogno di un particolare atto amministrativo; il secondo in quello – anch’es so conforme alla destinazione primaria del bene – pel cui esercizio sia richiesto un particolare atto permissivo […]; il terzo in quello – non conforme alla destinazione primaria del bene – che sia reso possibile dalla sottrazione (per lo più parziale), mediante atto di concessione, del bene all’uso comune (o a quello dell’amministrazione), onde metterlo a disposizione di soggetti particolari (per esempio, concessioni di acqua a fini di irrigazione, alimentazione, ecc.; concessioni di aree cemeteriali per edificarvi tombe, ecc.)» (A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Enc. dir., 1959, p. 277 ss.).
In ordine all’uso comune è stato, perlato, osservato che i «compiti che l’ordinamento assegna all’ente proprietario di bene pubblico aperto all’uso comune, infatti, implicano la sua “amministrazione”; si tratta di compiti immanenti di amministrazione, di difesa della sua integrità fisica, della sua apertura alla fruizione generale sostanzialmente libera, paritaria e gratuita; in particolari – ma frequenti – situazioni essi si configurano come vere e proprie obbligazioni»: così, V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al mare, Torino, 2019, p. 70.
[16] CGUE, 11 luglio 2024, causa C-598/22, disponibile in eur-lex.europa.eu.
[17] Prevista dall’art. 49 del codice della navigazione. Peraltro, la Corte di giustizia è pervenuta alla conclusione che «L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che: esso non osta ad una norma nazionale secondo la quale, alla scadenza di una concessione per l’occupazione del demanio pubblico e salva una diversa pattuizione nell’atto di concessione, il concessionario è tenuto a cedere, immediatamente, gratuitamente e senza indennizzo, le opere non amovibili da esso realizzate nell’area concessa, anche in caso di rinnovo della concessione».
[18] CGUE, 598/2024, punto 54. Su questa tematica, si veda già il contributo di M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria, in Diritto e società, 2021, 3, pp. 441 ss.
[19] CGUE, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67-15, disponibile in eur-lex.europa.eu, e annotata ex multis da G. Bellitti, La direttiva Bolkestein e le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, in Giorn. dir. amm., 2017, 1, p. 60 ss., e da L. Di Giovanni, Le concessioni demaniali marittime e il divieto di proroga ex lege, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2016, 3-4, p. 912 ss.
[20] CGUE, C-348/22, cit.
[21] Cass., S.U. 23 novembre 2023, n. 32559, in Foro it., 2024, I, 181, con annotazione di A. Travi.
[22] Ex multis, Cons. di Stato, Sez. VII, 20 maggio 2024, n. 4479, e Cons. di Stato, Sez. VII, 20 maggio 2024, nn. 4480 e 4481, tutte reperibili in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Corte Cost., 7 luglio 2017, n. 157, in www.cortecostituzionale.it, con nota di richiami in Foro it., 2017, 10, I, p. 2923; Corte Cost., 7 giugno 2018, n. 118, in www.cortecostituzionale.it, con nota di richiami in Foro it., 2018, 7-8, I, p. 2218; Corte cost., 9 gennaio 2019, n. 1, in www.cortecostituzionale.it, connota di richiami in Foro it., 2018, 7-8, I, p. 2218. In dottrina, L. Longhi, Concessioni demaniali marittime e utilità sociale della valorizzazione del patrimonio costiero, in Rivista della Corte dei conti, 2019, 1, p. 184 ss., e A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2019.
[24] Invero, già in precedenza la Corte costituzionale aveva sottolineato la necessità di rispettare la normativa unionale a presidio della concorrenza. Nel senso accennato 23 luglio 2020, n. 161, in www.cortecostituzionale.it, la quale, per un verso, afferma che nel «consolidato orientamento di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 86 del 2019, n. 118 del 2018, n. 157 del 2017), la disciplina concernente il rilascio di concessioni su beni demaniali marittimi investe diversi ambiti materiali, attribuiti alla competenza sia statale, sia regionale» e, per un altro verso, sostiene che «questa Corte ha poi costantemente affermato che i criteri e le modalità di affidamento delle concessioni sui beni del demanio marittimo devono, comunque, essere stabiliti nel rispetto dei princìpi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento previsti dalla normativa dell’Unione Europea e nazionale, e corrispondenti ad ambiti riservati alla competenza esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenze n. 118 e n. 109 del 2018, n. 157 e n. 40 del 2017, n. 171 del 2013 e n. 213 del 2011); in siffatta competenza esclusiva, le pur concorrenti competenze regionali trovano così “un limite insuperabile” (fra le altre, sentenza n. 109 del 2018)» .
[25] Chi scrive ha analizzato quella giurisprudenza della Corte costituzionale formatasi essenzialmente negli anni ’10 di questo secolo, aveva osservando come essa si fosse essenzialmente concentrata sulla violazione dell’art. 117, comma 2, Cost.: M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., pp. 159 ss.
[26] Corte cost., 20 maggio 2010, n. 180, in www.cortecostituzionale.it, annotata, ex multis, da M. Esposito, La triade schmittiana à rebours, in Giur. Cost., 2010, 3, 2167 ss.
[27] Corte cost., 9 novembre 2020, n. 233, in www.cortecostituzionale.it.
[28] Del quale, nella sentenza n. 233/2020 in parola, afferma che: «Al fine di garantire la libera circolazione dei servizi e l’apertura del mercato a una concorrenza non falsata e più ampia possibile negli Stati membri, l’art. 12 della direttiva da ultimo richiamata prevede l’obbligo per gli stessi di adottare “una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” e il conseguente rilascio di un’“autorizzazione” per una durata adeguata, ma pur sempre limitata, senza possibilità di “prevedere la procedura di rinnovo automatico”, né di “accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami”».
[29] Corte cost. n. 1/2019, cit., annotata da P. Vipiana, Le concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo fra leggi statali leggi regionali, in Il diritto marittimo, 2020, 2, 439.
[30] Pronuncia in rassegna, punto 2.4.2. del Considerato in diritto.
L’inarrestabile ascesa delle influenze illecite.
Commento alla sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione del 29 febbraio 2024, n. 19357 - Presidente dott.ssa Margherita CASSANO, Estensore Cons. dott. Ercole APRILE.
di Giuseppe Nicola De Nozza
Sommario 1. Introduzione - 2. L’attuazione degli obblighi internazionali assunti dall’Italia in seno alle Convenzioni di Mérida e di Strasburgo - 3. La sorte del millantato credito dopo la riformulazione dell’art. 346 bis del c.p. e la contestuale abrogazione dell’art. 346 del c.p. - 3.1. L’orientamento favorevole alla continuità normativa tra il reato di millantato credito e quello di traffico d’influenze - 3.2. L’orientamento contrario alla continuità normativa tra il reato di millantato credito previsto dal comma secondo dell’art. 346 del c.p. e quello di traffico d’influenze - 4. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite - 5. Le motivazioni delle Sezioni Unite “Mazzarella”- 6. Il traffico d’influenze nella Legge “Nordio” - 7. Lo “stato dell’arte” dopo le Sezioni Unite “Mazzarella” e la Legge “Nordio” – la nuova prospettiva europea.
1. Introduzione
La sentenza in commento[1] scioglie uno dei numerosi nodi interpretativi che hanno caratterizzato nell’ultimo quinquennio la vigenza del reato di traffico d’influenze illecite[2], il nodo relativo, cioè, al se sussista continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346[3] del Codice penale, abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della Legge 9 gennaio 2019, n. 3[4], e quello di traffico d’influenze così come riformulato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della medesima legge.
Introdotto nel sistema penale dall’art. 1, comma 75, lett. r)[5], della Legge 6 novembre 2012, n. 190[6], il reato di traffico d’influenze è stato oggetto di un primo intervento di restyling ad opera della Legge n. 3 del 2019[7] e, da ultimo, di un secondo intervento riformatore parimenti incisivo ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. e)[8], della Legge 9 agosto 2024, n. 114[9].
Ad esser investite dal raggio d’azione delle due riforme sono state, in poco più di cinque anni, la tipicità del fatto, la cornice edittale e, da ultimo, l’elemento soggettivo del reato, con l’inevitabile conseguenza che tale incedere frenetico del legislatore ha finito per generare nodi interpretativi che non sempre sono stati sciolti dalla giurisprudenza di legittimità in modo uniforme.
Nella configurazione originaria, il reato di traffico, infatti, tipizzava solo lo sfruttamento delle relazioni esistenti con il decisore pubblico; con l’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019, anche lo sfruttamento di quelle asserite, per poi tornare allo sfruttamento solo di quelle esistenti con la legge n. 114 del 2024[10].
Sempre nella configurazione originaria, il reato era stato costruito quale delitto a dolo generico, costruzione ribadita dal legislatore del 2019 e, invece, ribaltata da quello del 2024, che ha ristretto la classe dei fatti tipici ai sensi dell’art. 346 bis del c.p. (anche) mediante la previsione del dolo eventuale “rafforzato”.
All’originaria cornice edittale della reclusione da uno a tre anni è subentrata nel 2019 quella più severa della reclusione da uno a quattro anni e sei mesi e, poi, nel 2024, quella ancor più severa della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi.
Nei trascorsi dodici anni, l’attenzione del legislatore è parsa letteralmente monopolizzata dal profilo sostanziale della fattispecie, mentre è stato lasciato in disparte il profilo investigativo e quello processuale.
Nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. 1189, che ha innescato l’iter legislativo conclusosi con l’approvazione della Legge n. 3 del 2019, si è testualmente scritto[11] che: “Vi è la consapevolezza che l’effettività di un’incriminazione dipende non solo dalla formulazione delle fattispecie incriminatrici e dall’entità della pena edittale, ma anche dagli strumenti d’indagine e dai poteri d’accertamento che l’ordinamento mette a disposizione degli organi inquirenti e dell’autorità giudiziaria per perseguire efficacemente i reati”.
Nonostante la più che condivisibile dichiarazione d’intenti, ad essa non hanno, però, fatto seguito azioni riformatrici coerenti, perché la cornice edittale selezionata per il traffico d’influenze (punito, nella versione vigente, con la pena della reclusione fissata nel massimo in quattro anni e sei mesi e nella configurazione originaria con quella di tre anni) non ha consentito di fare ricorso allo strumento dell’intercettazione telefonica, ambientale e telematica, il cui impiego è stato ed è tutt’ora inibito dall’art. 266, comma 1, lett. b), del c.p.p., che autorizza il ricorso a tale strumento, in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, solo in relazione a quelli per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4 del medesimo Codice.
La scelta del legislatore si è mostrata ancor più originale sol che si tenga conto che il sistema processuale vigente consente il ricorso allo strumento dell’intercettazione per conclamare la prova dell’abusiva occupazione da parte di una famiglia molto numerosa di un immobile di proprietà pubblica o privata nonché per conclamare la prova del disturbo provocato dalle telefonate insistenti, ripetute, a qualsiasi ora del giorno e della notte, degli operatori commerciali, che fanno a gara per proporre l’acquisto di beni e di servizi di qualsivoglia natura[12].
Originalità che ha uniformemente caratterizzato sia l’agire del legislatore “Severino” sia di quello “Bonafede” che, infine, di quello “Nordio”.
A rendere ulteriormente “ineffettiva” la fattispecie ha poi concorso la non applicabilità ad essa della causa di non punibilità - introdotta proprio dalla Legge n. 3 del 2019 – oggi prevista dall’art. 323 ter[13]del c.p. per l’autore del delitto contro la pubblica amministrazione che ne faccia denuncia volontaria, tempestiva e fattiva nonchè la non applicabilità a tale fattispecie anche della circostanza attenuante prevista dal secondo comma dell’art. 323 bis del c.p., che, in cambio (non della non punibilità ma) di un “robusto” abbattimento della pena sino ai due terzi, agisce quale spinta all’emersione del delitto contro la pubblica amministrazione anche oltre il termine dei quattro mesi dalla commissione del fatto previsto dall’art. 323 ter del c.p.
La non applicabilità al delitto di traffico d’influenze dei due istituti ha agito da controspinta severa all’emersione di fatti penalmente rilevanti in relazione ad una fattispecie costruita come “reato contratto”, cioè come accordo illecito a prestazioni corrispettive in relazione al quale l’incriminazione è prevista per ciascuna parte dell’accordo e per di più con la medesima pena e in relazione al quale, quindi, non vi è interesse di nessuna di esse a denunciarne l’esistenza.
Causa di non punibilità e circostanza attenuante, invece, estese al traffico d’influenze rispettivamente dall’art. 1, comma 1, lett. d) e c), della Legge n. 114 del 2024, che, inasprendo il minimo edittale ma non anche il massimo, ha ribadito la non utilizzabilità dell’intercettazione per portare ad emersione i fatti tipici ai sensi dell’art. 346 bis del c.p.
Estensione che, però, come si argomenta nel prosieguo, non ridimensiona il risultato dell’ultima novella in ordine di tempo, che è stato quello di restringere a dismisura l’ambito della fattispecie, consegnandola, probabilmente, al definitivo isolamento applicativo.
È pur vero che la Legge 9 gennaio 2019, n. 3, ha esteso, per il tramite dell’art. 1, comma 8, anche al delitto previsto dall’art. 346 bis il ricorso alle “operazioni sotto copertura”, ma è parimenti vero che il bilancio dell’applicazione ai White collar crime di tale tecnica d’investigazione è, ad oggi, tutt’altro che confortante[14].
Potrebbe, quindi, apparire anomalo il fatto che sia stata oggetto di plurime azioni riformatrici una fattispecie scritta con penne che avevano finito l’inchiostro, ma anomalo non lo è sol che si tenga conto che tale fattispecie, al pari di quella di abuso in atti d’ufficio, è stata ed è utilizzata quale bandiera ideologica ora per criminalizzare, ora per decriminalizzare, a seconda del colore politico della maggioranza di volta in volta uscita vincitrice dalle urne.
Come si è accennato, uno dei nodi interpretativi generati dalla riforma del 2019 è stato quello relativo al rapporto tra il reato di millantato credito previsto dall’art. 346 del c.p. e quello di traffico d’influenze previsto dall’art. 346 bis del medesimo Codice.
L’art. 1, comma 1, lett. s), della Legge n. 3 del 2019 ha, infatti, abrogato il reato di millantato credito.
Nell’intenzione del legislatore del 2019 i fatti di millantato credito avrebbero, però, dovuto continuare a mantenere rilevanza penale (nonostante l’abrogazione della fattispecie di riferimento) in ragione della riformulazione dell’elemento oggettivo del reato di traffico d’influenze, riformulazione programmata dalla lettera t) del comma 1 dell’art. 1 della Legge n. 3 del 2019, con la quale si conferiva tipicità allo sfruttamento non solo delle relazioni esistenti ma anche di quelle asserite e, quindi, almeno nelle intenzioni di quel legislatore, anche di quelle millantate.
Plurime le ragioni che hanno sostenuto la riformulazione del traffico d’influenze e la contestuale abrogazione del millantato credito, tra le quali la necessità di dare attuazione agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in questa materia.
2. L’attuazione degli obblighi internazionali in seno alle Convenzioni di Mérida e di Strasburgo.
Le ragioni della scelta abrogativa – ma non abolitiva della rilevanza penale dei fatti di millantato credito – sono state diffusamente illustrate nella relazione d’accompagnamento al disegno di Legge n. 1189 e sono state indicate, la prima, nella necessità di completare il processo di adeguamento della normativa nazionale agli impegni assunti dal nostro Paese in ambito internazionale[15], la seconda in quella di risolvere “una serie di problemi interpretativi e di coordinamento non facilmente risolvibili, sui quali la stessa giurisprudenza di legittimità ha fornito risposte disomogenee e che, comunque, rendono scivolosi e opinabili i confini tra le due fattispecie e difficile la prova del delitto in giudizio[16]”.
Non è arduo comprendere a cosa facesse riferimento la relazione con la prima delle ragioni enunciate, più difficile, invece, è comprendere a cosa volesse far riferimento con la seconda di esse, perché i problemi interpretativi e di coordinamento non sono stati nella relazione più dettagliatamente enunciati.
Il riferimento era alla Convenzione penale sulla corruzione firmata, in seno al Consiglio d’Europa, a Strasburgo il 27 gennaio del 1999[17] e a quella firmata in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, adottata dall’Assemblea Generale il 31 ottobre del 2003 con la risoluzione n. 58/4[18].
Si tratta delle più importanti fonti normative sovranazionali in tema di contrasto alla corruzione, fonti che hanno tracciato il perimetro all’interno del quale sono andate a maturazione le riforme degli ultimi dodici anni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione.
Le due convenzioni hanno, tra i temi oggetto di pattuizione, anche il delitto di traffico d’influenze illecite.
L’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, rubricato “traffico d’influenza”, prevede che: “ciascuna parte adotta le necessarie misure legislative e di altra natura affinché i seguenti fatti, quando sono commessi intenzionalmente, siano definiti reati penali secondo il proprio diritto interno: il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di remunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli articoli 2, 4 – 6 e 9 – 11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di remunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’effetto ricercato”.
L’art. 18 della Convenzione di Mérida, rubricato invece “millantato credito”, prevede che: “ciascuno Stato Parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quanto tali atti sono stati commessi intenzionalmente:
a) Al fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore inziale di tale atto o per ogni altra persona;
b) Al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello stato Parte”.
La matrice del delitto è, quindi, chiaramente e inequivocabilmente sovranazionale.
Il delitto di traffico è stato introdotto, quindi, nell’ordinamento giuridico nazionale in attuazione di precisi obblighi internazionali assunti dal nostro Paese in seno al Consiglio d’Europa nel 1999 e all’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2003.
Il ricorso in entrambe le Convenzioni all’indicativo presente (nell’art. 12 di quella di Strasburgo si è scritto “Ciascuna Parte adotta le necessarie misure legislative…” mentre, nell’art. 18 di quella di Mérida, “Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione”) - e non all’indicativo presente preceduto dal verbo servile “può” – indurrebbe ragionevolmente a ritenere che gli Stati firmatari abbiano assunto precisi obblighi internazionali da attuare nei rispettivi ordinamenti nazionali.
L’attuazione di tale obbligo da parte dell’Italia ha avuto luogo con sensibile ritardo, perché il delitto di cui all’art. 346 bis del c.p. ha esordito il 28 novembre 2012 e, cioè, quando è entrata in vigore la Legge 6 novembre 2012, n. 190.
Prima del 28 novembre 2012, la vendita dell’influenza esistente era condotta non penalmente rilevante, mentre lo era, ai sensi dell’art. 346 del c.p., quella dell’influenza millantata.
Nel 2012, quindi, il legislatore nazionale ha affiancato all’art. 346 del c.p., che tipizzava la vendita della relazione d’influenza inesistente, l’art. 346 bis che puniva, invece, la vendita della relazione d’influenza esistente.
Pare utile evidenziare, però, che, allorquando il legislatore del 2012 è intervenuto con la Legge n. 190, introducendo il delitto di traffico d’influenze illecite ma mantenendo in vigore quello di millantato credito, sia la Convenzione di Mérida che quella di Strasburgo erano già state fatte oggetto di ratifica e di esecuzione da parte dell’Italia, quella di Mérida addirittura più di tre anni prima.
Il Legislatore del 2012, quindi, non aveva interpretato né l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo né l’art. 18 di quella di Mérida nel senso che l’uno o l’altro imponessero all’Italia né di abrogare il delitto di millantato credito né di costruire una nuova macro fattispecie di reato che prevedesse una sorta di “casa comune” per lo sfruttamento delle relazioni esistenti e di quelle millantate.
Il crinale costituito dall’esistenza o meno della relazione oggetto di sfruttamento avrebbe potuto costituire un valido strumento in chiave interpretativa per ricondurre a sistema il tema delle relazioni con il decisore pubblico “messe a reddito”.
Tale crinale avrebbe potuto, però, svolgere tale funzione di orientamento ermeneutico se solo si fosse aspettato il tempo necessario perché si consolidasse, ma quel tempo non si è aspettato perché si è deciso di intervenire sul sistema stravolgendolo, per di più dopo solo sei anni.
La prima attuazione di tali obblighi internazionali era apparsa, infatti, ai più un prodotto legislativo ampiamente migliorabile.
La vendita dell’influenza esistente su un decisore pubblico veniva, infatti, punita meno gravemente[19] della vendita di quella millantata, seppur la prima si prospettasse proporzionalmente più grave per il numero e la rilevanza degli interessi in gioco, così come appariva meritevole di un intervento di riforma il fatto che andasse esente da pena l’acquirente dell’influenza millantata, cioè il c.d. “compratore del fumo”, perché costui aveva acquistato del fumo, ma, nel momento in cui si era rivolto al trafficante, aveva intenzione di acquistare anche altro.
È su questo terreno, quindi, che è stato piantato il seme di una rinnovata attuazione degli obblighi internazionali, che si è poi materializzata con la Legge 9 gennaio 2019, n. 3, che, quindi, per rimediare all’esclusione dall’ambito del penalmente rilevante della condotta di chi offriva o prometteva un vantaggio al millantatore d’influenza e, più in generale, per conformare fedelmente la normativa interna a quella sovranazionale, ha apportato una radicale modifica in senso ampliativo della fattispecie incriminatrice del traffico d’influenze, con riassorbimento in essa delle condotte di millantato credito, e con contestuale abrogazione, quindi, dell’art. 346 del c.p.
A seguito della novella del 2019, il delitto di traffico ha subito, quindi, una profonda rivisitazione, in chiave ampliativa, della proiezione incriminatrice.
Almeno nell’intenzione del legislatore del 2019 avrebbe dovuto assorbire le condotte in precedenza penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 346 del c.p., dando luogo a quello che autorevole dottrina[20] ha descritto come un fenomeno di “abrogatio sine abolitione”; all’elemento costitutivo del vantaggio patrimoniale è subentrata l’utilità, indebita anche se sprovvista di un contenuto patrimoniale; ha esordito il traffico d’influenze c.d. internazionale e, cioè, quello relativo ad un pubblico ufficiale straniero o ad altro soggetto menzionato nell’art. 322 bis del c.p.; ha esordito, infine, la rilevanza penale della dazione o della promessa funzionale anche solo a remunerare l’esercizio delle funzioni o del potere, con riallocazione nel comparto delle circostanze aggravanti della remunerazione corrisposta in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri dell’ufficio o alla sua omissione o al suo ritardo.
A seguito della novella del 2019, è stata costruita, soprattutto, una sorta di “casa comune” per due mondi tra loro per nulla omogenei, anche perché portatori di una capacità d’offesa decisamente molto diversa al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.
La costruzione di una casa comune per due mondi così diversi era davvero imposta dagli obblighi internazionali?
In altri termini, tali obblighi davvero imponevano allo Stato italiano di superare il sistema costruito dalla Legge n. 190 del 2012 e, quindi, di introdurre un trattamento uniforme per due classi di fatti molto diversi tra di loro, quella, cioè, dei truffatori che traggono in inganno il privato vantando una relazione inesistente con il decisore pubblico e quella, invece, di coloro che sfruttano una relazione esistente mettendola a reddito?
S’impone, ovviamente, il ritorno alla formulazione degli artt. 12 della Convenzione di Strasburgo e 18 di quella di Mérida.
La prima in ordine di tempo ad essere stata oggetto di ratifica e di esecuzione è stata la Convenzione di Mérida, che ha svolto un ruolo primario nell’innescare la novella del 2019, come inequivocabilmente confermato, ancora una volta, dalla relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. 1189[21].
L’art. 18 impegna gli Stati firmatari a conferire il carattere d’illecito penale sia (alla lettera a) alla condotta di colui il quale chiede ad un determinato soggetto, privato o pubblico agente, di attivare, in cambio di un indebito vantaggio, l’influenza di cui è titolare nei confronti di un decisore pubblico sia (alla lettera b) a quella di colui, privato o pubblico agente, che agisca da mediatore.
Nel testo dell’art. 18 non compare, a differenza di quello dell’art. 346 bis del c.p., il sintagma “relazione” ma solo quello “influenza”, mentre la dicotomia “influenza reale o supposta” contenuta nel testo dell’art. 18 ha lasciato il passo alle “relazioni esistenti” nella Legge n. 190 del 2012, poi alla dicotomia “relazioni esistenti o asserite” nella n. 3 del 2019 e, infine, di nuovo alle relazioni “esistenti” nella Legge n. 114 del 2024.
Le due opzioni lessicali parrebbero non completamente sovrapponibili tra di loro perché non tutte le relazioni si caratterizzano sempre e comunque per la capacità del soggetto richiesto di mediare d’influenzare il decisore pubblico, ben potendosi immaginare nel concreto anche relazioni che si svolgono al netto di una reale capacità di influenza del primo sul secondo.
Parrebbe, quindi, che le relazioni che rientrano nel raggio d’azione dell’art. 18 siano solo quelle nelle quali il soggetto chiamato a mediare abbia una reale capacità d’influenza sul decisore pubblico o ne abbia una solo “supposta”, quindi un’influenza che supponga di avere al momento della stipula del patto di mediazione e che, viceversa, alla prova degli eventi successivi, si dimostri insuscettibile di venire ad esistenza.
Nel vocabolario Treccani al termine “supporre” sono assegnati, in modo equivalente, i significati di ammettere per congettura, presumere, immaginare che una cosa sia o possa verificarsi in un determinato modo, significati che parrebbero avere in comune il fatto, ove riferiti all’influenza, che il mediatore ritenga, evidentemente sopravvalutandosi ma non agendo né in mal fede né con riserva mentale, di essere comunque in grado di erogare al privato la prestazione di mediazione richiesta, perché in concreto in grado di attivare l’influenza sul decisore pubblico.
Ove condivisa tale opzione ermeneutica, parrebbe che lo sfruttamento economico della relazione millantata non fosse destinato a rientrare nel raggio d’azione dell’art. 18 della Convenzione di Mérida.
E, del resto, quest’ultima è nata in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite come strumento di contrasto alla corruzione dilagante anche su scala internazionale, fenomeno per prevenire e reprimere il quale nulla avrebbe aggiunto anche il contrasto ai fatti di millantato credito, che si caratterizzano per un disvalore che nulla ha a che fare con la corruzione, neanche con la prevenzione di essa, perché il mediatore è in radice privo della concreta possibilità d’influenzare un decisore pubblico, perché è in radice inibita la possibilità che tra i due s’instauri una relazione.
Vi è, però, un dato testuale che merita di essere evidenziato e, cioè, quello che rimanda alla rubrica dell’art. 18, intitolato proprio “millantato credito”, dato che, però, proprio perché contenuto nella rubrica, non parrebbe avere la forza di stravolgere il significato della norma convenzionale, che ha utilizzato il sintagma relazione “supposta” e che, quindi, parrebbe far riferimento a condotte che non nascono, sin dall’origine, con una vocazione fraudolenta.
L’art. 12 della Convenzione di Strasburgo impegna gli Stati firmatari a conferire il carattere d’illecito penale al fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di remunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli articoli 2, 4 – 6 e 9 – 11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettare l’offerta o la promessa a titolo di remunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’effetto ricercato.
Anche nel testo dell’art. 12 non compare il sintagma “relazione” ma solo quello “influenza”, destinata ad assumere rilevanza penale, anche in questo caso, anche ove solo “supposta”.
Ove condivisa tale opzione ermeneutica, parrebbe che lo sfruttamento economico della relazione millantata non fosse destinato ad entrare neanche nel raggio d’azione dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
Nella premessa della relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. 1189 è scritto[22] che ad innescare il percorso di riforma avevano agito con pari forza “anche alcune raccomandazioni provenienti, in sede sovranazionale, dal gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) e dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), per completare l’opportuno percorso di adeguamento della normativa interna a quella convenzionale, nella prospettiva dell’assunzione di un ruolo preminente dell’Italia all’interno del GRECO nell’azione di contrasto al fenomeno corruttivo”.
Il riferimento alle raccomandazioni del GRECO si è riempito di contenuto nel prosieguo della relazione, in specie nel paragrafo 3[23], ove si è specificato, per quanto qui d’interesse, che una di quelle raccomandazioni, la quinta, nello specifico quella che richiedeva all’Italia d’includere nell’ambito del penalmente rilevante anche la condotta di chi avesse offerto o promesso il vantaggio al millantatore d’influenza, fosse rimasta attuata solo in parte (perché fatta oggetto di riserva apposta all’atto del deposito dello strumento di ratifica, riserva ribadita nel 2017) e che, quindi, fosse intenzione del legislatore di superare tale riserva e di dare attuazione alla raccomandazione.
Ad essere chiamato in causa è stato, più nello specifico, l’addendum al secondo rapporto di conformità sull’Italia del GRECO, in specie quella parte di esso nella quale il GRECO ha formulato la raccomandazione V, articolandola nei paragrafi 29, 30, 31 e 32[24].
Anche in questo caso la lettura del testo della raccomandazione V non parrebbe indiziare il fatto che gli obblighi internazionali assunti in seno alla Convenzione di Strasburgo imponessero all’Italia la creazione di una “casa comune” per due classi di fatti molto diversi tra di loro.
Anzi, nel paragrafo 30, la Raccomandazione ha tenuto ben distinte le due classi, limitandosi solo ad evidenziare che la normativa nazionale non fosse ancora pienamente conforme all’art. 12 della Convenzione perché, in caso d’influenza millantata, l’art. 346 del c.p. continuava a non contemplare la rilevanza penale del lato attivo dell’accordo viziato dall’inganno del presunto mediatore, cioè la rilevanza penale della condotta di chi offriva o prometteva il vantaggio al presunto mediatore.
Parrebbe, quindi, legittimo potersi sostenere che la piena attuazione degli obblighi internazionali assunti dall’Italia in seno alle due Convenzioni non imponesse al legislatore del 2019 la riscrittura del reato di traffico d’influenze illecite ma, al più, di quello di millantato credito, con l’estensione della punibilità anche al lato attivo dell’accordo.
Di certo il legislatore del 2019 non avrebbe, però, potuto sottrarsi alla necessità di rimodulare il quadro sanzionatorio delle due fattispecie di reato, essendo del tutto evidente che la carica di offensività che si accompagna allo sfruttamento economico di una relazione esistente - o che si pensa di essere in grado di attivare - sia decisamente di gran lunga superiore a quella che, invece, caratterizza la vanteria della relazione millantata, soprattutto se ci si pone nella prospettiva del danno al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.
Il mantenimento nel sistema penale di entrambe le fattispecie avrebbe, quindi, imposto di rimodulare il quadro sanzionatorio selezionato per il traffico d’influenze, inasprendolo, anche solo di poco, oltre la pena della reclusione nel massimo di sei anni prevista dalla formulazione ormai abrogata del comma secondo dell’art. 346 del c.p., che tipizzava i fatti più gravi di millantato credito.
Inasprimento, però, che avrebbe avuto quale effetto, oltre che quello di conferire coerenza e ragionevolezza al trattamento sanzionatorio delle due diverse classi di fatti, anche quello di consentire il ricorso allo strumento dell’intercettazione per portare ad emersione, oltre che i fatti di millantato credito, anche quelli decisamente più gravi di sfruttamento delle relazioni esistenti.
La scelta fatta dal legislatore del 2019, invece, si è proiettata in una direzione decisamente diversa, quella, come si è più volte scritto, di creare una “casa comune” ma con non troppi piani, come confermato, del resto, dalla selezione nel massimo della misura della pena della reclusione aumentata dagli originari tre anni sino a quattro anni e sei mesi, ma tenuta sotto sia i sei anni nel massimo previsti per il millantato credito corruttivo dal comma secondo dell’art. 346 del c.p. sia sotto il “fatidico” limite dei cinque anni previsto dall’art. 266 del c.p.p., comma primo, lett. b).
L’ulteriore ragione della riforma, costituita dalla necessità di risolvere “una serie di problemi interpretativi e di coordinamento non facilmente risolvibili, sui quali la stessa giurisprudenza di legittimità ha fornito risposte disomogenee e che, comunque, rendono scivolosi e opinabili i confini tra le due fattispecie e difficile la prova del delitto in giudizio”[25], non si presta ad essere ulteriormente riempita di contenuto per mancanza nel testo della relazione, come già scritto, dei necessari elementi di dettaglio ma, di certo, si presta ad una riflessione generata dal “senno del poi”.
In realtà, è stata proprio la scelta di abrogare il millantato credito e di riscrivere il traffico d’influenze che ha generato interpretazioni radicalmente difformi nella giurisprudenza di legittimità, imponendo la rimessione della questione sulla continuità normativa tra le due fattispecie alle Sezioni Unite.
Tale scelta, come argomentato diffusamente nella pronuncia in commento delle Sezioni Unite Penali, è stata, in realtà, alla fine, non solo abrogativa ma anche abolitiva della rilevanza penale di una classe di fatti, quelli del millantato credito corruttivo, che, in ragione della cornice edittale prevista dal comma secondo dell’art. 346 del c.p., avrebbero potuto prestarsi, almeno essi, ad un’attività di accertamento più efficace perché in grado di poter fare leva anche sullo strumento dell’intercettazione.
A tale riflessione nulla toglie la considerazione che i fatti di millantato credito corruttivo possano ancora oggi, seppur a determinate condizioni, colorarsi di rilevanza penale ai sensi dell’art. 640 del c.p., perché alla procedibilità d’ufficio prevista per l’art. 346 del c.p. è subentrata quella a querela di parte prevista, invece, per il delitto di truffa e, soprattutto, alla punibilità del privato richiedente la mediazione e del mediatore è subentrata la responsabilità penale solo del secondo e non anche del primo.
Vi è da chiedersi, quindi e conclusivamente sul punto, quale sarebbe stato oggi lo stato di salute del reato di traffico d’influenze se il sistema delineato dalla Legge “Severino”, invece che essere stravolto o travolto, fosse stato completato con l’estensione della punibilità, in seno all’art. 346 del c.p., anche al privato che offriva o prometteva il vantaggio indebito e con l’inasprimento del trattamento sanzionatorio del delitto di cui all’art. 346 bis del c.p.
Probabilmente quest’ultima fattispecie avrebbe goduto di miglior salute quanto a “effettività”, per continuare a far uso del sintagma utilizzato dal legislatore del 2019.
3. La sorte del millantato credito dopo la riformulazione dell’art. 346 bis del c.p. e la contestuale abrogazione dell’art. 346 del c.p.
Nonostante l’intenzione del legislatore del 2019 fosse sin troppo chiara, il dato normativo, però, non ha riscosso un’interpretazione uniforme nella giurisprudenza della Corte di cassazione, nella quale, sin da subito, si sono materializzate opzioni ermeneutiche difformi sulla sorte dei fatti di millantato credito corruttivo.
Opzioni ermeneutiche che si sono materializzate e consolidate nel tempo, rendendo inevitabile l’intervento delle Sezioni Unite, che hanno sciolto il nodo interpretativo recependo quello che era stato sino a quel momento l’orientamento minoritario.
3.1. L’orientamento favorevole alla continuità normativa tra il reato di millantato credito e quello di traffico d’influenze.
La fattispecie di traffico d’influenze illecite, come riformulata nel 2019, assoggettava a sanzione penale un ventaglio di condotte.
Il delitto si configurava, in primis, a carico di colui il quale si fosse fatto indebitamente dare o promettere, per sé o per altri, denaro o altre utilità come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322 bis del c.p. (è il caso della c.d. mediazione illecita)
Il delitto si configurava, altresì, a carico di colui il quale si fosse fatto indebitamente dare o promettere, per sé o per altri, denaro o altre utilità per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322 bis del c.p. in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri (è il caso della c.d. remunerazione illecita).
Le due condotte avevano una fisionomia che era in parte sovrapponibile: l’elemento oggettivo che valeva a distinguerle era costituito dalla proiezione finalistica del denaro o dell’utilità data o anche solo promessa.
Nella prima, il denaro o l’utilità aveva quale destinatario finale il mediatore o il trafficante, che la acquisiva quale corrispettivo delle energie da spendere per mediare, nell’interesse del committente, presso il decisore pubblico.
Nella seconda, il denaro o l’utilità aveva un destinatario intermedio, il mediatore o il trafficante, ed uno finale, il decisore pubblico, e costituiva il corrispettivo destinato a quest’ultimo per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri funzionalmente mirato al soddisfacimento dell’interesse del committente.
In entrambe le ipotesi, ad essere assoggettato alla medesima sanzione penale era sia colui che dava o che prometteva sia il beneficiario della dazione o della promessa.
Ad esser puniti, quindi, erano sia colui che vendeva l’influenza sia colui che la acquistava ed entrambi erano puniti con una pena ricompresa tra un minimo di un anno ed un massimo di quattro anni e sei mesi.
La sanzione penale veniva aggravata nella misura di un terzo ove il trafficante avesse rivestito la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.
Era, altresì, aggravata nell’ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso in relazione all’esercizio di un’attività giudiziaria.
La sanzione penale era, infine, aggravata – al ricorrere della seconda delle due condotte tipizzate - quando il denaro o l’altra utilità fosse stato il corrispettivo destinato a remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio - non in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri ma - al compimento di un atto contrario ai doveri dell’ufficio o all’omissione o al ritardo di esso.
Per entrambe le condotte incriminate, il reato si configurava anche se il trafficante, per una qualsivoglia ragione, avesse deciso di non fare uso della capacità d’influenza che pure aveva venduto al committente ed anche se, pur avendola esercitata, non fosse stato raggiunto il risultato avuto di mira, ad esempio perché il decisore pubblico era rimasto impermeabile ed indifferente all’influenza esercitata.
Le condotte acquisivano rilevanza penale a condizione, però, che fossero state poste in essere facendo uso di due specifici mezzi.
Il primo era costituito dallo sfruttare o vantare una relazione esistente nel momento in cui il committente ed il trafficante erano addivenuti all’accordo.
Il secondo era costituito, invece, dallo sfruttare o vantare, nel medesimo momento, una relazione solo asserita, quindi, in ipotesi, anche quella millantata.
In quest’ultimo caso, la relazione d’influenza era solo il prodotto della fertile fantasia di colui che si presentava quale trafficante, quale facilitatore di contatti e, quindi, era il nucleo di una menzogna, di un inganno ordito ai danni di colui che aveva pensato di acquistare un’influenza realmente esistente.
Si era in presenza, in quest’ultimo caso, quindi, di un soggetto che aveva ordito un inganno e di un soggetto che era stato ingannato, il c.d. “compratore di fumo”, che veniva punito con la medesima pena prevista per colui che aveva comprato un’influenza esistente.
L’acquirente del “fumo” veniva assoggettato a sanzione penale anche nel caso in cui non fosse esistita la minima possibilità che il venditore del “fumo” potesse agire per creare e spendere l’influenza e, quindi, anche nel caso in cui la condotta incriminata fosse stata molto distante anche solo dall’approssimarsi alla soglia della concreta messa in pericolo dell’interesse protetto, nella specie di quello al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.
Il vantare una relazione inesistente o millantata e il fare uso di tale mezzo ingannatorio per lucrare denaro o altra utilità costituiva, come scritto in precedenza, il nucleo delle condotte che, prima della formale abrogazione dell’art. 346 del c.p., erano punite a titolo di millantato credito.
Millantato credito che, come scritto nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. 1189, avrebbe dovuto continuare ad essere punito non più in forza dell’art. 346 del c.p., perché formalmente abrogato, ma in forza del riformulato art. 346 bis.
Se per effetto dell’influenza si fosse materializzata la distorsione della funzione amministrativa, il delitto di traffico avrebbe ceduto il passo a quello di corruzione.
Nel caso in cui il denaro fosse finito nel patrimonio del decisore pubblico quale corrispettivo dell’esercizio distorto della funzione o dei poteri, il delitto in questione avrebbe dovuto cedere il passo a quello di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 del c.p.).
Nel caso, invece, in cui il denaro fosse confluito nel patrimonio del pubblico agente quale corrispettivo del compimento di un atto contrario ai doveri del suo ufficio o dell’omissione o del ritardo di esso, il delitto in questione avrebbe dovuto, invece, cedere il passo a quello di corruzione per il compimento di un atto contrario ai doveri dell’ufficio (art. 319 del c.p.).
Nel caso in cui il denaro fosse confluito nel patrimonio - non del decisore pubblico ma - del trafficante (al ricorrere, quindi, della prima tipologia di condotta incriminata) e fosse seguita la distorsione dell’esercizio della funzione o dei poteri, il delitto di traffico avrebbe potuto concorrere con il reato che si fosse materializzato per effetto di tale distorsione, ad esempio con l’abuso in atti d’ufficio o con il falso in atto pubblico.
Nulla escludeva che, anche in questo caso, avrebbe potuto profilarsi il delitto di corruzione, come nel caso in cui il committente l’influenza e il decisore pubblico, dopo essere stati messi in contatto dal trafficante che, a questo specifico fine, si era fatto retribuire, fossero addivenuti alla stipula di un accordo corruttivo.
Era questo il significato da attribuirsi all’incipit della norma, che aveva tipizzato il delitto di traffico d’influenze con, in apertura, il seguente inciso: “chiunque fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all’art. 322 bis del c.p.…….”.
Se l’assorbimento nel delitto di traffico d’influenze - per come riformulato nel 2019 - delle condotte una volta tipiche ai sensi del primo comma dell’art. 346 del c.p. era stato tema sul quale non si erano levate voci dissonanti, al contrario la sorte del c.d. millantato credito corruttivo, cioè dei fatti tipici ai sensi del secondo comma dell’art. 346 del c.p., era sembrata ai più tutt’altro che chiara.
Quella che, nell’intenzione del legislatore del 2019, avrebbe dovuto essere una tranquilla “migrazione” di una classe di fatti da una fattispecie ad un’altra, ben presto si era rivelata non così agevole e piana.
La sorte del millantato credito corruttivo è stato, infatti, tema sul quale sin da subito si è registrata, nell’orientamento della Corte di cassazione, una divergenza di valutazioni che ha investito il se le condotte, che, prima dell’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019, erano punite a titolo di millantato credito ai sensi del comma secondo dell’art. 346 del c.p., continuassero ad esser penalmente rilevanti ai sensi del nuovo 346 bis del c.p. e, quindi, al se sussistesse continuità normativa tra le due fattispecie.
L’orientamento favorevole alla piena continuità normativa tra la fattispecie prevista dall’art. 346 e quella prevista dall’art. 346 bis è stato inaugurato, immediatamente dopo l’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019, dalla sentenza della Sezione sesta del 14 marzo 2019, n. 17980, Nigro, nella cui motivazione è stato scritto: “…evidente si appalesa la continuità normativa tra il previgente art. 346 ed il novellato art. 346 bis del c.p.…..Ed, invero, salvo che per la previsione della punibilità del soggetto che intenda trarre vantaggi da tale influenza ai sensi del comma secondo del nuovo art. 346 bis del c.p. (non prevista nella pregressa ipotesi di millantato credito, nell’ambito della quale questi assumeva anzi la veste di danneggiato dal reato) e la non perfetta coincidenza fra le figure verso le quali la millanteria poteva essere espletata (atteso che l’abrogato art. 346 del c.p. aveva riguardo al credito millantato presso il “pubblico ufficiale” e “l’impiegato che presti un pubblico servizio”, mentre nell’attuale fattispecie rileva la rappresentata possibilità di condizionare il “pubblico ufficiale” e “l’incaricato di un pubblico servizio”, a prescindere dal fatto che sia un impiegato), la norma di cui all’art. 346 bis del c.p. di recente riformulata sanziona le medesime condotte già contemplate dall’art. 346 abrogato”.[26]
L’effetto della successione della Legge n. 3 del 2019 alla n. 190 del 2012 era stato, quindi, quello che un’intera classe di fatti, una volta pertinenti all’orbita dell’art. 346 del c.p., era migrata verso il riformulato universo del traffico delle influenze illecite.
Sostanzialmente sovrapponibili erano secondo tale orientamento sia la condotta strumentale che quella principale, anche in ragione dell’equipollenza di significato tra i due sintagmi utilizzati e, cioè, tra lo “sfruttamento o il vanto delle relazioni asserite” e il “millantare credito”.
Il nucleo della motivazione della sentenza “Nigro” poggia sul significato del sintagma “relazioni asserite” in contrapposizione a quello “esistenti”, sintagma, il primo, introdotto proprio al fine di equiparare “sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato[27]”.
Tale equiparazione di rilevanza penale e di trattamento sanzionatorio era da ritenersi imposta, secondo quanto si legge in motivazione, da un lato dalla necessità di completare l’adeguamento della normativa nazionale agli obblighi assunti su scala internazionale nonché dalla necessità di superare “le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il discrimen fra il delitto di millantato credito previsto dall’art. 346 cod. pen. e quello di traffico d’influenze, di cui all’art. 346 bis cod. pen. scaturenti dalla difficoltà di verificare l’esistenza – reale o solo ostentata – della possibilità di influire sul pubblico agente[28]”.
Del resto, era stata proprio questa la voluntas legis, quella di abrogare ma non di abolire, creando una “casa comune” per due classi di fatti, anche e soprattutto perché tanto pareva essere imposto dagli obblighi internazionali.
3.2. L’orientamento contrario alla continuità normativa tra il reato di millantato credito previsto dal comma secondo dell’art. 346 del c.p. e quello di traffico d’influenze.
L’orientamento che, invece, ha negato tale piena continuità normativa, ammettendola solo per il primo comma ma non anche per il secondo dell’art. 346, è stato inaugurato dalla sentenza della Sezione sesta del 18 settembre 2019, n. 5221, Impeduglia, secondo la quale la classe dei fatti prevista dall’ormai abrogato art. 346 del c.p., comma secondo, era tornata “alle origini”, cioè, era migrata in direzione - non dell’art. 346 bis del c.p. ma - del primo comma dell’art. 640 del c.p.
Nella motivazione della sentenza “Impeduglia” si è scritto: “Deve, allora, riconoscersi che non c’è continuità normativa tra l’abrogata ipotesi di millantato credito già prevista dall’art. 346, secondo comma, del cod. pen. nella condotta dell’agente che si riceve o fa dare o promettere denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare, e quella prevista nell’art. 346 bis del c.p., nella parte in cui punisce il faccendiere che, sfruttando o vantando relazioni asserite con l’agente pubblico, si fa dare o promettere indebitamente denaro o altre utilità per remunerare l’agente pubblico in relazione all’esercizio delle funzioni; condotta che, in considerazione della intervenuta abrogazione del secondo comma dell’art. 346 del cod. pen., deve ritenersi integrare il delitto di cui all’art. 640, primo comma, del cod. pen., allorché l’agente, mediante artifizi e raggiri, induca in errore la parte offesa che si determina a corrispondere denaro o altre utilità a colui che vanti rapporti neppur ipotizzabili con il pubblico agente”.[29]
È stato messo in risalto[30] nella motivazione della sentenza che la fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 346 aveva, rispetto a quella del primo comma, una spiccata autonomia, essendo ricalcata sullo schema della truffa.
Tale fattispecie tipizzava, infatti, una condotta che, a differenza di quella prevista dal primo comma della medesima disposizione, non avrebbe potuto realizzarsi se non attraverso gli artifizi e i raggiri propri della truffa, “contegno fraudolento ben evidente là dove la norma fa espresso e significativo riferimento al “pretesto”, termine che evoca la rappresentazione di una falsa causa posta a base della richiesta decettiva idonea ad indurre in errore la vittima che si determina alla prestazione patrimoniale[31]”.
Su un piano decisamente diverso da quello della tutela del patrimonio del privato era, invece, destinata ad operare, secondo tale sentenza, la fattispecie di cui all’art. 346 bis del c.p., con la quale “il legislatore ha inteso anticipare la soglia di punibilità rispetto a condotte che difficilmente avrebbero potuto integrare il delitto di corruzione (seppur nella forma tentata) e che fanno chiaramente presagire come la tutela si eminentemente volta a salvaguardare l’attività della pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni nazionali e internazionali. Sotto tale aspetto, allora, non può che osservarsi che un reato che era rivolto in maniera preponderante alla tutela del patrimonio della vittima truffata dal “venditore di fumo” difficilmente si presta a realizzare un vulnus alla pubblica funzione e di necessitare di una tutela rispetto a fatti che nessun collegamento, sia in astratto che in concreto, potrebbero avere con gli interessi pubblici teleologicamente tutelati dalla norma penale in esame[32]”.
Coerenti con tali premesse erano le conclusioni sul significato da attribuire al sintagma “relazioni asserite”: “Sotto tale aspetto, invero, come anche affermato da autorevole dottrina, deve osservarsi che il riferimento “al vanto a relazioni asserite” non può essere inteso come condotta sovrapponibile a quella posta in essere con l’inganno (resa palese con il termine “pretesto”), dovendosi ritenere che l’enunciazione da parte del mediatore faccendiere al rapporto con i pubblici poteri non sia rivolto ad indurre in errore per mezzo di artifizi e raggiri il cliente, quanto necessariamente a prospettare, seppur non in termini di certezza, la concreta possibilità di influire sull’agente pubblico; condotta tesa non a sfruttare una relazione inesistente ma a vantare la concreta possibilità di riuscire ad influenzare l’agente pubblico, comportamento che si pone, a ben osservare, nella fase immediatamente prodromica rispetto ad un eventuale coinvolgimento dell’agente pubblico, ……”
Se si volesse provare a formulare una sintesi dei percorsi argomentativi seguiti dalle due sentenze, si potrebbe ragionevolmente affermare che quello favorevole alla continuità normativa si era determinato a tanto attribuendo un maggior peso specifico ai profili di coincidenza delle due fattispecie, quello contrario attribuendo, invece, un maggior peso specifico ai profili di non coincidenza tra di esse.
L’esame e la valutazione degli arresti della Suprema Corte che hanno preceduto la pronuncia a Sezioni Unite in commento rende piuttosto evidente che, sin da qualche settimana dopo l’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019, in seno alla Sesta Sezione penale della Corte di cassazione, tabellarmente competente in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, si erano stagliate due opzioni ermeneutiche radicalmente diverse tra di loro, una delle quali, la favorevole alla piena continuità normativa, era divenuta decisamente quella maggioritaria.
Tale contrasto interpretativo veniva rimesso, ex art. 618, comma primo, del c.p.p., alle Sezioni Unite Penali con ordinanza n. 31478 del 28 giugno 2023 della Seconda Sezione della Suprema Corte.
4. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.
Ad innescare la rimessione alle Sezioni Unite è stata una vicenda giudiziaria piuttosto articolata.
M.V., detenuto nel 2017 nella Casa Circondariale di Frosinone, era stato imputato dal P.M. del reato di cui all’art. 319 quater del c.p., per aver, in concorso con un agente di polizia penitenziaria in servizio nella medesima Casa rimasto non identificato, indotto D.S.O., anch’egli ivi detenuto, a promettergli la somma di tremila euro per scongiurare il trasferimento, prospettato come imminente, in altro, lontano e disagevole istituto penitenziario.
Il Tribunale di Roma aveva condannato l’imputato per il reato ascrittogli e la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la relativa sentenza.
Era seguito il ricorso alla Corte di cassazione, che, con sentenza della Sezione sesta, aveva annullato la sentenza di secondo grado, censurandone la lacunosità della motivazione, la lacunosità della ricostruzione in fatto e l’errata applicazione della legge penale.
Più nello specifico, aveva evidenziato che non poteva ritenersi raggiunta la prova di un accordo tra l’indotto e l’induttore né la prova dell’abuso da parte del pubblico agente nonché aveva evidenziato che non vi era traccia in motivazione del perché si dovesse escludere che i fatti, ove correttamente accertati, potessero essere ricondotti ad altre fattispecie di reato quali la truffa o il traffico d’influenze illecite.
Seguiva, quindi, l’annullamento, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo giudizio.
A seguito del nuovo giudizio, il giudice di secondo grado aveva riqualificato i fatti ai sensi dell’art. 346 bis, dopo aver ritenuto la continuità normativa tra quest’ultima fattispecie e l’abrogato reato di millantato credito.
Avverso la nuova sentenza di secondo grado aveva fatto nuovamente ricorso in Cassazione il difensore di M.V., articolandolo in due motivi.
Con il primo il ricorrente aveva sostenuto che la configurazione del reato di traffico d’influenze illecite dovesse essere esclusa in assenza della prova di una relazione esistente tra il mediatore e il decisore pubblico.
Con il secondo aveva, altresì, sostenuto che la continuità normativa tra le due fattispecie non sussistesse, in quanto nella fattispecie di cui all’art. 346 bis non era ricompresa la condotta di chi, mediante artifizi e raggiri, si fosse fatto dare o promettere denaro o altre utilità con il “pretesto” di dover comprare il decisore pubblico.
L’ordinanza di rimessione[33] ha identificato il nucleo del riferito contrasto giurisprudenziale, individuandolo nell’elemento costitutivo delle relazioni oggetto di sfruttamento o di vanteria, che, come scritto in precedenza, devono essere esistenti o asserite.
Nell’ordinanza di rimessione, il contrasto giurisprudenziale è stato plasticamente raffigurato ponendo in contrapposizione il nucleo delle motivazioni delle sentenze “capostipite” dei due contrastanti orientamenti in seno alla Sesta Sezione della Corte e, cioè, la sentenza “Nigro” e la sentenza “Impeduglia”, entrambe pronunciate nel 2019, a distanza di soli sei mesi l’una dall’altra.
Il perdurare del contrasto anche negli anni successivi ha imposto, quindi, la rimessione alle Sezioni Unite, da parte della Seconda Sezione, della questione controversa “se sussista continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma secondo, abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), Legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346 bis del c.p.”
5. Le motivazioni delle Sezioni Unite “Mazzarella”.
L’iter motivazionale della sentenza ha preso le mosse dall’analisi della disposizione dell’art. 346 del c.p., che, secondo un orientamento giurisprudenziale e dottrinario ormai consolidatosi, descriveva due distinte fattispecie, caratterizzate, però, dalla medesimezza dell’oggettività giuridica, seppur con sfumature di intensità diverse tra il primo e il secondo comma.
La sua collocazione nel capo II del titolo II del Libro II del Codice penale, cioè nella partizione dedicata ai delitti contro la pubblica amministrazione commessi da soggetti ad essa estranei, indiziava in modo piuttosto chiaro, secondo la Corte, che ad esser offeso o messo in pericolo era l’interesse al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione, seppur si trattasse di una messa in pericolo solo potenziale, molto potenziale, perché si era in presenza di una c.d. “venditio fumi” e. quindi, di una relazione con il decisore pubblico inesistente, solo millantata.
Tutt’altro che potenziale ma reale era, invece, la deminutio patrimonii che subiva il compratore di fumo, in particolare nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 346 del c.p., il quale, alla fine, era la vittima di un inganno, dell’abile impiego di un pretesto, di una truffa cioè e, quindi, era il soggetto danneggiato dal reato.
L’oggettività giuridica delle due fattispecie, quindi, si caratterizzava per una dimensione marcatamente plurioffensiva.
A partire dal 2012, con l’entrata in vigore della Legge n. 190, all’art. 346 del c.p. era stato affiancato l’art. 346 bis del c.p., introdotto, secondo il Supremo Consesso, da un lato per dare attuazione agli obblighi internazionali assunti dall’Italia, dall’altro per “colmare una lacuna punitiva: perseguendo penalmente condotte che presupponevano una relazione effettivamente esistente tra il “trafficante” e il pubblico agente, dal primo all’uopo sfruttata, dunque una situazione fattuale caratterizzata da una qualche concreta capacità di condizionare ovvero di orientare le iniziative del pubblico ufficiale: comportamenti che, come si è innanzi accennato, restavano formalmente fuori dalla portava operativa dell’art. 346 del cod. pen.[34]”
Nel 2019, con l’entrata in vigore della Legge n. 3, si era esaurita la vigenza dell’art. 346 del c.p., abrogato contestualmente alla riformulazione dell’art. 346 bis, intervento di restyling che, secondo la Suprema Corte, si era imposto in ragione della necessità per l’Italia di adeguarsi agli obblighi internazionali medio tempore assunti, obblighi che imponevano di conferire rilevanza penale a qualsivoglia tipologia di compravendita d’influenza, anche di quella solo millantata.
Lo strumento selezionato allo scopo era stato quello dell’introduzione nel riformulato art. 346 bis del sintagma “relazioni asserite”.
Il Supremo Consesso, dopo aver sinteticamente ricostruito l’evoluzione normativa del “sistema delle influenze”, virava in direzione di quello che era stato sino a quel momento l’orientamento giurisprudenziale minoritario.
L’iter motivazionale ha, in primis, ridimensionato il peso specifico della voluntas legis, così come enunciata nella relazione d’accompagnamento al disegno di Legge “Bonafede”, perché la Corte ha a chiare lettere argomentato che la volontà del legislatore, in questo come negli altri casi, non poteva svolgere “un ruolo per così dire dirimente”[35], perché tale ruolo ad essa non è stato attribuito dall’art. 12 delle Preleggi, che ha configurato l’intenzione del legislatore quale canone ermeneutico sussidiario e recessivo rispetto a quello dell’interpretazione letterale[36].
Canone, quest’ultimo, che “per il suo carattere di oggettività e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il criterio cardine dell’interpretazione della legge e concorre alla definizione in termini di certezza, determinatezza e tassatività della fattispecie applicabile…”[37].
Ridimensionato il peso di una delle principali argomentazioni che aveva agito da “pilastro” dell’orientamento sino a quel momento maggioritario, il Supremo Consesso ha affermato che la questione della sussistenza o meno della continuità normativa tra le due fattispecie dovesse essere risolta con “l’unico attendibile criterio utilizzabile (che n.d.r.) è quello fondato sul formale confronto strutturale tra le considerate fattispecie incriminatrici, da compiere con una esegesi letterale e logico sistematica dei modelli astratti di reato in avvicendamento cronologico…… L’interprete, quindi, per accertare se vi sia stata abolitio criminis deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, quella precedente e quella successiva all’intervento del legislatore, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune alle dette fattispecie…Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova – di norma – di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis, il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell’abrogazione di quell’elemento, quale conseguenza del mutato disvalore insito nella scelta di politica criminale; in questo caso non può non trovare applicazione la disciplina prevista dal secondo comma dell’art. 2 del c.p.…..”[38].
Facendo applicazione di tali principi, la Suprema Corte ha affermato che “…la scelta del legislatore del 2019 di abrogare l’art. 346 del cod. pen. e contestualmente di modificare il contenuto dell’art. 346 bis del cod. pen., ha comportato un fenomeno di abolitio criminis con riferimento ai fatti di millantato credito c.d. “corruttivo”, già previsti dall’art. 346, secondo comma, del cod. pen.”.
Il confronto strutturale tra le due fattispecie ha evidenziato, secondo la Corte, difformità di tale e tanta consistenza da indiziare una forte discontinuità normativa per un duplice ordine di ragioni.
La prima fa leva sul fatto che l’art. 346 del c.p. era stato configurato quale reato di natura monosoggettiva, che contemplava la punibilità del solo venditore di fumo e non anche dell’acquirente di esso, mentre il riformulato traffico d’influenze è stato configurato quale reato plurisoggettivo, cioè reato che prevede la punibilità di entrambe le parti contraenti dell’accordo e con la medesima pena, previsione normativa che “è ragionevolmente compatibile con i principi costituzionali di materialità e di offensività solamente ritenendo che il committente, lungi dall’essere un soggetto ingannato, è consapevole che il trafficante non ha (ancora) una relazione effettiva con il pubblico agente (“vantando relazioni asserite , si legge nella disposizione”)[39].
La seconda ragione rimandava alla diversa formulazione letterale delle due fattispecie e, più nello specifico, al sintagma “pretesto” “espressione di una componente frodatoria ovvero di una più marcata falsa rappresentazione della realtà, che – significativamente presente nell’art. 640, comma secondo, n. 1 del c.p. con riferimento ad una ipotesi di truffa aggravata - è assente nel nuovo art. 346 bis del cod. pen.: nel quale la formula “vantando relazioni asserite” potrebbe ritenersi parificabile a quella del “millantato credito” di cui alla disposizione abrogata, senza potersi considerare comprensiva anche dello specifico sintagma “col pretesto di comprare””[40].
Consequenziali sono state le conclusioni sul significato da attribuire al sintagma “relazioni asserite”, perché testualmente la Corte ha affermato che “è ragionevole, pertanto, ribadire che il legislatore del 2019, inserendo nell’art. 346 bis del cod. pen., la formula “vantando relazioni asserite”, senza riproporre il sintagma “col pretesto”,….abbia voluto far riferimento non all’ipotesi del soggetto tratto in inganno dal mediatore…ma a quella di colui che partecipa a pieno titolo ad una intesa criminosa. Soggetto punibile, al pari del trafficante, perché, pur consapevole che la relazione con il pubblico funzionario è ancora inesistente e solo “vantata”, decide di fare affidamento sulla potenziale capacità del mediatore di instaurare quel rapporto affaristico: in tal modo concorrendo a determinare quella effettiva messa in pericolo del bene giuridico protetto, che, in una lettura costituzionalmente orientata, è l’unica condizione che può legittimare l’omogeneo trattamento sanzionatorio per entrambi i correi”[41].
L’orientamento giurisprudenziale minoritario aveva piuttosto uniformemente argomentato, proprio a partire dalla Sentenza “Impeduglia”, che l’affermata discontinuità normativa tra le due fattispecie aveva comportato automaticamente la riespansione dell’art. 640 del c.p., alla luce del quale avrebbero potuto essere riqualificati i fatti.
Anche in questo caso ad essere affermata era sempre una forma di abrogatio sine abolitione, che, però, a differenza di quella propugnata dall’orientamento maggioritario, aveva quale luogo finale di approdo l’art. 640 del c.p.
Anche questa diversa ipotesi di continuità normativa è stata ritenuta non condivisibile dal Supremo Consesso per l’assenza del necessario rapporto di specialità tra l’ormai abrogato art. 346 e la fattispecie di truffa, assenza che impedisce l’automatico effetto di riespansione della fattispecie generale preesistente a seguito dell’abrogazione di quella speciale.
L’inesistenza di un rapporto di genere a specie tra le due fattispecie, inteso come relazione di specialità unilaterale per specificazione o per aggiunta, rinviene la sua prima ragione nel fatto che “il confronto della struttura astratta dei due illeciti permette di affermare che nella fattispecie di millantato credito c.d. “corruttivo” non erano presenti tutti gli elementi costituivi della truffa ma solo alcuni latamente comuni (il millantare credito in una, gli artifizi e raggiri nell’altra) ed altri specializzanti (il pretesto di dover comprare o remunerare e la promessa di altre utilità); senza, però, che nell’art. 346, secondo comma, fossero richiamati gli ulteriori elementi specializzanti propri del solo reato di truffa (l’induzione in errore, l’atto di disposizione patrimoniale e l’ingiusto profitto con altrui danno). Il rapporto tra le due considerate norme incriminatrici si atteggiava, cioè, con quelle caratteristiche nelle quali la dottrina ha ravvisato gli estremi di una relazione di specialità bilaterale o di “interferenza”, in cui ognuna delle fattispecie poste a raffronto presenta elementi speciali ulteriori ed estranei rispetto all’altra: ipotesi queste che, per quanto innanzi espresso, non rientrano nella sfera di operatività delle regola dell’art. 15 del cod. pen….Per le vicende verificatesi prima dell’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019, dunque, va negata la possibilità di una “automatica” riespansione applicativa dell’art. 640 del cod. pen., laddove risulti che i fatti siano stati addebitati all’imputato e siano stati accertati in base alla disposizione a suo tempo prevista dall’abrogato art. 346, secondo comma, del cod. pen. e siano mancate una formale contestazione e un accertamento anche degli elementi specializzanti della truffa”[42].
A valle di un iter argomentativo così articolato, il Supremo Consesso ha formulato il seguente principio di diritto: “Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, del cod. pen. ……e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346 bis del cod. pen. …..”.
“Le condotte già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, secondo comma, del cod. pen. potevano, e tutt’ora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice”.
La sentenza della Corte d’Appello di Roma che, in sede di giudizio di rinvio, aveva riqualificato i fatti ai sensi dell’art. 346 bis, veniva, quindi, annullata senza rinvio - in accoglimento del secondo motivo di ricorso articolato dal difensore di M.O. - perché il fatto non era previsto dalla legge come reato.
Erronea da parte del giudice di secondo grado era stata, infatti, secondo il Supremo Consesso, la riqualificazione, perché l’insussistenza di una continuità normativa tra il comma secondo dell’art. 346 e l’art. 346 bis aveva comportato, nel caso di specie, l’abolitio criminis.
L’assenza di un rapporto di specialità tra quest’ultima fattispecie e quella di truffa ostava ad un’automatica applicazione dell’art. 640 del c.p., non essendo stati, nel caso di specie, contestati né accertati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di truffa, compresi quelli specializzanti di tale reato come l’induzione in errore e l’ingiusto profitto con l’altrui danno.
6. Il traffico d’influenze nella Legge “Nordio”.
A soli sei mesi dalla pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte, la travagliata vigenza del traffico d’influenze ha dovuto fare i conti questa volta con un secondo pesante intervento di restyling, quello portato dall’art. 1, comma primo, lett. c), d) ed e), della Legge 9 agosto 2024, n. 114, già denominata legge “Nordio”.
L’intervento di riforma ha inciso sull’elemento oggettivo del reato, su quello soggettivo e sulla cornice edittale, proiettandosi anche sul terreno dell’accertamento con l’estensione alla fattispecie del traffico della causa di non punibilità prevista dall’art. 323 ter del c.p. e della circostanza attenuante prevista dall’art. 323 bis del medesimo Codice.
Prima di entrare nel vivo e nel dettaglio delle modifiche introdotte, non appare fuor di luogo rivolgere anche in questo caso l’attenzione alla voluntas legis per come essa è stata enunciata nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. S. 808, che ha agito da innesco dell’iter legislativo che si è concluso con l’approvazione della Legge n. 114 del 2024.
La relazione d’accompagnamento si compone di sole otto pagine ed è, quindi, decisamente meno ampia e diffusa di quella che ha accompagnato il disegno di Legge “Bonafede”, dato, questo, che potrebbe trovare una plausibile spiegazione nel raggio decisamente meno ampio e profondo della riforma “Nordio” rispetto a quella del 2019.
All’incisione del reato di traffico d’influenze sono state destinate, però, poco più di venti righe della relazione d’accompagnamento e solo qualche riga, invece, per spiegare le ragioni del nuovo intervento di riforma, dopo e nonostante una pronuncia delle Sezioni Unite Penali che sembrava aver fissato, una volta per tutte, il baricentro, il punto di equilibrio del sistema dello sfruttamento delle influenze illecite.
Nella relazione d’accompagnamento la Legge n. 190 del 2012 e la Legge n. 3 del 2019 sono state accomunate per il “forte intento repressivo” che avrebbe animato in entrambe le occasioni il legislatore.
Intento repressivo che, però, ove davvero sia esistito, non avrebbe avuto la forza e gli strumenti per tradursi in repressione vera e propria perché, come si è scritto, o per scelta o per mera distrazione, più norme tra quelle via via introdotte nel corso del tempo hanno agito quali severe controspinte all’emersione di un fenomeno che è preparatorio e prodromico alla corruzione.
Come confermato, del resto, da autorevole dottrina che ha evidenziato che, nell’anno 2019, solo 88 procedimenti penali sono stati iscritti negli Uffici di Procura su tutto il territorio nazionale per il reato di cui all’art. 346 bis, con due condanne e cinque patteggiamenti[43].
Le modifiche introdotte hanno avuto quale causa quella di “meglio precisare alcuni elementi del reato, confermandone la natura di fattispecie “avamposto” (rispetto al sistema complessivo degli illeciti penali del pubblico agente) e tenendo conto dei rilievi mossi dalla dottrina e dagli sviluppi della più recente elaborazione giurisprudenziale[44]”.
L’intervento di riforma è stato ispirato, quindi, da una logica di minore repressione, alla quale non si è accompagnata, però, l’espansione dell’attività di prevenzione della corruzione su questo specifico terreno, come si sarebbe potuto fare, ad esempio, accompagnando tale riforma con l’approvazione di una disciplina organica dell’attività di rappresentanza degli interessi da parte delle lobbies, disciplina che si attende da lustri, anzi da decenni[45].
Con l’inevitabile conseguenza che il traffico d’influenze illecite sarà, dopo il 25 agosto 2024, un avamposto ancor meno protetto dal nemico “corruzione”.
Entrando nel vivo e nel dettaglio delle modiche introdotte, può ritenersi, a sommesso avviso di chi scrive, che tali modifiche abbiano una duplice matrice.
La prima rimanda al prodotto dell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità degli ultimi sei anni sia in tema di perimetrazione di quella parte dell’elemento oggettivo del reato costituito dalla c.d. “mediazione illecita” sia in tema di continuità normativa tra il delitto di millantato credito e quello di traffico d’influenze.
Tale matrice parrebbe connotare la modifica con la quale il concetto di mediazione illecita è stato riempito di contenuto mediante la previsione in forza della quale è tale la mediazione strumentale ad indurre il pubblico agente a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito e quella che ha limitato allo sfruttamento delle relazioni esistenti - e non anche di quelle asserite - il mezzo che deve connotare le due condotte tipiche dell’art. 346 bis del c.p.
Parrebbero essere quelli appena enunciati gli sviluppi della più recente elaborazione giurisprudenziale ai quali si sarebbe ispirato il disegno di legge di riforma e dei quali, come scritto, si fa menzione nella relazione d’accompagnamento.
La seconda rimanda, invece, alla modifica con la quale il delitto di traffico d’influenze è divenuto reato a dolo eventuale “rafforzato”, come indiziato dall’inciso di nuovo conio “utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti”, nonché a quella con la quale l’utilità pattuita quale corrispettivo dell’attività di mediazione deve avere un contenuto necessariamente economico e, infine, a quella relativa all’aumento nel minimo della sanzione edittale che passa da un anno ad un anno e sei mesi.
Aumento nel minimo che, nella relazione d’accompagnamento, è stato enunciato quale conseguenza della riduzione dell’ambito applicativo della fattispecie ai fatti più gravi di traffico d’influenze.
Il secondo insieme di modifiche sarebbe, invece, stato ispirato dai rilievi mossi dalla dottrina, anche in questo caso non più dettagliatamente indicata.
La duplicità delle matrici che hanno ispirato le numerose modifiche introdotte si è ricomposta ad unità nella logica di fondo che ha fatto da sfondo al disegno di legge, quella, cioè, di ridurre la repressione penale.
Il numero delle influenze illecite penalmente rilevanti si è ridotto drasticamente e, ove quelle poche rimaste vengano comunque ad emersione, l’estensione al reato di cui all’art. 346 del c.p. della causa di non punibilità prevista dall’art. 323 ter del c.p. e della circostanza attenuante prevista dal secondo comma dell’art. 323 bis del c.p. dovrebbe agire in chiave di bilanciamento e di attenuazione della risposta repressiva.
Logica che ha ispirato anche la sterilizzazione della fattispecie di abuso d’ufficio ad opera dell’art. 23 del Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella Legge 11 settembre 2020, n. 120, e, dopo quattro anni, la sua abrogazione proprio ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. b), della Legge n. 114 del 2024.
La simmetria potrebbe farla da padrona nella previsione del futuro destino del reato di traffico d’influenze illecite: al primo intervento normativo di “sterilizzazione” della fattispecie portato dalla Legge n. 114 del 2024 potrebbe seguire, nel volgere di qualche anno, la definitiva abrogazione e abolizione del reato.
7. Lo “stato dell’arte” dopo le Sezioni Unite “Mazzarella” e la Legge “Nordio” – la nuova prospettiva europea.
Come sostenuto da autorevole dottrina[46], la legge “Nordio” ha fatto un brusco “dietrofront” rispetto al passato: i plurimi lacci introdotti per restringere l’ambito applicativo dell’art. 346 bis del c.p. sono stati annodati senza il doveroso confronto con gli impegni internazionali assunti dall’Italia in seno all’O.N.U. e al Consiglio d’Europa, contesti nei quali il nostro Paese, come scritto, si è impegnato a conferire rilevanza penale non solo allo sfruttamento delle relazioni esistenti ma anche di quelle supposte nonché a conferire rilevanza penale a qualsivoglia tipo di vantaggio indebito nonché, infine, a conferire rilevanza penale alla mediazione illecita ben oltre i casi del compimento di un atto contrario ai doveri dell’ufficio.
Alla perdita di rilevanza penale dello sfruttamento delle relazioni millantate[47] si è aggiunta, infatti, la sopravvenuta perdita di rilevanza, per effetto della Legge “Nordio”, anche delle relazioni asserite nonché di quelle esistenti in relazione alle quali il corrispettivo dell’attività di mediazione sia stato fissato in una contropartita dal contenuto non economico[48]nonché, infine, delle relazioni esistenti caratterizzate dalla ricorrenza del dolo generico e non di quello intenzionale, per di più “rafforzato”[49].
Nei procedimenti o processi in corso per il reato di cui all’art. 346 bis del c.p., la successione alla Legge n. 3 del 2019 della Legge n. 114 del 2024 è destinata inevitabilmente a porre problemi di diritto intertemporale in relazione a quei fatti che continuano ad esser tipici nonostante la riformulazione della fattispecie, fatti per delibare i quali diviene dirimente individuare la disciplina più favorevole applicabile, ex art. 2, comma quarto, del c.p., da individuarsi nel concreto e nello specifico di ogni singolo procedimento o processo[50].
Il tema, pur centrale, della necessità di dare attuazione in questo campo a precisi obblighi internazionali non è stato, sotto alcun profilo, enunciato nella relazione d’accompagnamento al disegno di Legge “Nordio”.
Il prodotto della dinamica legislativa innescata da tale disegno di legge potrebbe, secondo autorevole dottrina[51], finire al vaglio della Corte Costituzionale per violazione dell’art. 117 della Costituzione, comma primo, che obbliga il legislatore italiano al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, ivi compresi di quelli d’incriminazione, tra i quali certamente vi sono, come scritto, sia quello previsto dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo che quello previsto dall’art. 18 della Convenzione di Mérida.
Lo “stato dell’arte” potrebbe essere passibile, seppur non a breve, di un’evoluzione perché, il 3 maggio 2023, la Commissione Europea ha approvato la proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione[52], che sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio.
Con riferimento specifico al reato di traffico d’influenze, l’art. 10 di tale proposta ha testualmente previsto che: “1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta seguente, se intenzionale: (a) il fatto di promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura per una persona o un terzo affinché detta persona eserciti un'influenza reale o presunta in vista di ottenere un indebito vantaggio da un funzionario pubblico; (b) il fatto che una persona solleciti o riceva, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio o la promessa di un indebito vantaggio di qualsiasi natura per sé o per un terzo, al fine di esercitare un'influenza reale o presunta in vista di ottenere un indebito vantaggio da un funzionario pubblico. 2.Affinché la condotta di cui al paragrafo 1 sia punibile come reato è irrilevante che l'influenza sia esercitata o meno o che la presunta influenza porti o meno ai risultati voluti”.
Parrebbe, ad una prima interpretazione del citato art. 10, che lo sfruttamento economico dell’influenza sia destinato in futuro ad assumere rilevanza penale anche in caso d’influenza solo “presunta” (aggettivo, quest’ultimo, al quale potrebbe ragionevolmente assegnarsi un significato equivalente a quello di “supposta” o “asserita”) e anche nel caso in cui il vantaggio oggetto di pattuizione abbia un contenuto diverso da quello economico.
Si è in presenza di un’iniziativa che ha ancora un significato in larga parte solo politico, almeno sino a quando non sarà concluso il relativo iter legislativo, ma che rende, però, l’idea del livello di sensibilità al contrasto del fenomeno corruttivo che ha raggiunto il legislatore europeo.
Per l’intanto ragionevole è affermare, a parere di chi scrive, che inarrestabile sia stata per più ragioni, almeno negli ultimi cinque anni, l’ascesa delle influenze illecite.
Brindisi, 31 agosto 2024.
[1] A commento alla sentenza cfr. anche PONTEPRINO G., Cronaca di un finale annunciato. In attesa dell’ennesima riforma le Sezioni Unite restringono i margini applicativi dell’art. 346 bis del c.p., in Diritto Penale e Processo n. 7 del 2024, pag. 876 e ss.; nonché MONGILLO V., Splendore e morte del traffico di influenze illecite. Dalle Sezioni Unite alla riforma Nordio, in Sistema penale, pubblicato il 22 marzo 2024.
[2] Sul reato di traffico d’influenze illecite cfr. MONGILLO V., Splendore e morte del traffico di influenze illecite. Dalle Sezioni Unite alla riforma Nordio, cit.; MONGILLO V., Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano: crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sistema penale, pubblicato il 2 novembre 2022; PONTEPRINO G., Il “nuovo” inquadramento giuridico del c.d. millantato credito “corruttivo”. I perduranti disorientamenti giurisprudenziali, in Diritto penale e Processo n. 8 del 2022; ROMANO B., Il fumus dello sfuggente traffico di influenze illecite, in Il Penalista.it, pubblicato il 6 maggio 2022; UBIALI M.C., L’illiceità della mediazione nel traffico di influenze illecite: le sentenze della Cassazione sui casi Alemanno ed Arcuri, in Sistema penale, pubblicato il 31 gennaio 2022; ARIOLLI G. e PIVIDORI E., Il traffico d’influenze illecite tra vecchie e nuove criticità, in Cassazione Penale, 1 gennaio 2020, pag. 45; PONTEPRINO G., La nuova versione del traffico d’influenze illecite: luci e ombre della riforma spazzacorrotti, in Sistema Penale, pubblicato il 10 dicembre 2019.
[3]Il reato previsto dall’art. 346 del c.p. prevedeva che: “Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309 a euro 2.065. La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 516 a euro 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare”.
[4] La Legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici, è stata pubblicata nella G.U. n. 13 del 16 gennaio 2019 ed è entrata in vigore, per quanto qui d’interesse, il 31 gennaio 2019.
[5] Nella versione originaria il delitto di traffico d’influenze illecite prevedeva che: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale. La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie. Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita”.
[6] La Legge 6 novembre 2012, n. 190, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, è stata pubblicata nella G.U. n. 265 del 13 novembre del 2012 ed è entrata in vigore, per quanto qui d’interesse, il 28 novembre 2012.
[7] Il primo comma veniva sostituito dal seguente: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322-bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.
Al secondo e al terzo comma le parole “altro vantaggio patrimoniale” venivano sostituite da quelle “altra utilità”.
Al quarto comma venivano aggiunte le seguenti parole: “o per remunerare il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”.
[8] L’art. 346 bis del c.p., nella versione oggi vigente, prevede che: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319 e 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità economica, per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis , in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita, è punito con la pena della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi.
Ai fini di cui al primo comma, per altra mediazione illecita si intende la mediazione per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 -bis a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito.
La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità economica.
La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità economica riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio o una delle qualifiche di cui all’articolo 322 bis del codice penale.
La pena è altresì aumentata se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”.
[9] La Legge 9 agosto 2024, n. 114, recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento penitenziario e al codice dell’ordinamento militare, è stata pubblicata nella G.U. n. 187 del 10 agosto 2024 ed è entrata in vigore, per quanto qui d’interesse, il 25 agosto del 2024.
[10] A commento della Legge n. 114 del 2024 cfr., in chiave fortemente critica verso le scelte fatte dal legislatore anche in materia di traffico d’influenze illecite, MANNA A., Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio e gli ulteriori interventi in materia di delitti contro la P.A.: note critiche, in Sistema Penale, pubblicato il 6 agosto 2024; GATTA G., La Legge Nordio e il “soffocamento applicativo” del traffico di influenze illecite. Tra parziale abolitio criminis e profili di illegittimità costituzionale per violazione di obblighi internazionali, in Sistema Penale, pubblicato il 16 luglio 2024; nonché, in chiave in parte critica e in parte adesiva, GAMBARDELLA Marco, Abrogazione dell’abuso d’ufficio e rimodulazione del traffico d’influenze illecite nel d.d.l. “Nordio” (la versione approvata dal Senato nel febbraio 2024)”, in Sistema Penale, pubblicato l’11 aprile 2024; nonché, ancora in chiave fortemente critica verso tali scelte, MONGILLO V., Splendore e morte del traffico di influenze illecite. Dalle Sezioni Unite alla Riforma Nordio, cit.
[11] Cfr. la Relazione d’accompagnamento al disegno di legge n. 1189 presentato alla Camera dei Deputati, il 24 settembre del 2018, dall’allora Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede, p. 2.
[12] Cfr. l’art. 266 del c.p., comma primo, lett. f), che consente il ricorso all’intercettazione per i fatti di disturbo o di molestia alle persone con il mezzo del telefono, e lett. f ter), che consente il ricorso a tale strumento per l’occupazione abusiva prevista dall’art. 630, secondo comma, del Codice penale.
[13] Sull’istituto cfr. MASULLO M.N., L’emersione del patto corruttivo: il nuovo fronte degli strumenti premiali e investigativi, in FIDELBO G., Il contrasto ai fenomeni corruttivi, dalla “Spazzacorrotti” alla riforma dell’abuso d’ufficio, Capitolo 4, p. 75 e ss.; sia consentito anche DE NOZZA G., La causa di non punibilità per la collaborazione processuale (art. 323 ter del c.p.), in Sistema Penale, pubblicato il 30 giugno 2022; BELLAGAMBA F., La non punibilità del delatore nei reati contro la pubblica amministrazione: praticabile compromesso o vera e propria chimera?, in Diritto penale contemporaneo, fascicolo n. 2 del 2021, pag. 141 e ss.; MASIERO A. F., La leva premiale nel prisma delle fattispecie corruttive. Brevi osservazioni a margine della causa di non punibilità ex art. 323 ter del c.p., in Archivio penale, fascicolo n. 2 del 2021, pag. 10 e ss.; MANES V., L’estensione dell’art. 4 bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale contemporaneo, fascicolo n. 3 del 2019; CANTONE R. e MILONE A., Prime riflessioni sulla nuova causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter del c.p., in Diritto penale contemporaneo, fascicolo n. 6 del 2019; Relazione del PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA ED ANTITERRORISMO del 19 ottobre del 2018, contenente le osservazioni sul disegno di legge, nella quale si formula, sulla causa di non punibilità, una “valutazione positiva perché stimola la collaborazione, rendendo precario l’accordo corruttivo, disincentivando il comune interesse a tacere”, pag. 10.
[14] L’operazione d’estensione è stata attuata tramite la riformulazione del comma 1, lett. a), dell’art. 9 della Legge 16 marzo 2006, n. 146, di ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre del 2000 ed il 31 maggio 2001.
[15] Nella relazione d’accompagnamento è stato scritto, alle pagg. 15, 16 e 17, che: “All’art. 1, comma 1, lett. p), per rimediare all’esclusione dall’ambito del penalmente rilevante della condotta di chi offre o promette il vantaggio al millantatore di influenza e, più in generale, per conformare fedelmente la normativa interna a quella sovranazionale, viene apportata una radicale modifica - in senso ampliativo – della fattispecie incriminatrice del traffico illecito d’influenze (art. 346 bis del c.p.) con riassorbimento nello stesso (nella stessa n.d.r.) delle condotte di millantato credito e contestuale abrogazione dell’art. 346 c.p. (art. 1, comma 1, lett. o)). Va precisato, al riguardo, che la doppia punibilità, sia di chi dà, sia di chi riceve il vantaggio indebito per il traffico illecito d’influenze, è imposta dalla necessità di adeguamento agli obblighi assunti sul piano internazionale, sia per effetto della citata Convenzione penale del Consiglio d’Europa del 1999, che all’art. 12 impone di incriminare……sia per effetto della Convenzione di Mérida…che all’art. 18, lett. a), impone agli Stati di incriminare…
Le convenzioni richiamate non distinguono la posizione degli aderenti al patto (il compratore e il venditore dell’influenza) entrambi ugualmente punite per le rispettive condotte. Né distinguono – e in tal senso insiste esplicitamente la raccomandazione da ultimo espressa dal GRECO – a seconda delle dinamiche intersoggettive sottese alla conclusione dell’accordo: nelle normative sovranazionali, l’eventuale “inganno” di una parte a danno dell’altra e il conseguente errore sul buon esito dell’operazione non incidono inalcun modo sulla configurabilità della fattispecie e sulla responsabilità dei soggetti coinvolti….
La riformulazione proposta all’art. 1, comma 1, lett. p), del disegno di legge…..prescinde dalla esistenza di un reale rapporto di influenza tra il mediatore e il pubblico agente e dall’eventuale inganno di una parte a danno dell’altra, rendendo punibile l’acquirente di influenza anche in quest’ultimo caso: il disvalore del fatto, del resto, sta nell’acquisto stesso di una mediazione “illecita”, condotta di per sé meritevole di sanzione, in quanto potenzialmente suscettibile di produrre influenze distorsive della funzione pubblica.”
[16] Cfr. la Relazione cit., p. 16.
[17] La convenzione è stata ratificata dall’Italia con la Legge 28 giugno 2012, n. 110, pubblicata nella G.U. n. 173 del 26 luglio 2012 ed entrata in vigore il giorno successivo.
[18]La convenzione è stata ratificata dall’Italia con la Legge 3 agosto del 2009, n. 116, pubblicata nella G. U. n. 188 del 14 agosto 2009 ed entrata in vigore il 15 agosto del 2009.
[19]Per il millantato credito previsto dal comma primo dell’art. 346 del c.p. era stata, infatti, prevista la pena della reclusione da uno a cinque anni e la multa da 309 a 2065 euro, mentre per il millantato credito c.d. “corruttivo”, quello, cioè, previsto dal secondo comma dell’art. 346 del c.p., era stata prevista la pena della reclusione da due a sei anni e la multa da 516 a 3098 euro; a fronte di una pena per il delitto di traffico di influenze illecite che il legislatore del 2012 aveva selezionato nella meno grave misura da uno a tre anni di reclusione.
[20] Cfr., tra gli altri, MONGILLO V., Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano: crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sistema penale, pubblicato il 2 novembre 2022.
[21]Nella relazione d’accompagnamento al Disegno di Legge n. 1189 è stato scritto alla pag. 2: “..La distorsione delle funzioni amministrative altera i meccanismi della competizione fra imprese e fra individui, favorendone alcune o alcuni a danno di altri, a prescindere dalle effettive qualità imprenditoriali o professionali dei soggetti coinvolti. Ne risultano danneggiate complessivamente l’economia, la crescita culturale e sociale del Paese, l’immagine della pubblica amministrazione e la fiducia stessa dei cittadini nell’azione amministrativa. Consentire la sedimentazione di simili fenomeni può portare alla disgregazione dello Stato di diritto, come incisivamente denunciato nel preambolo della Convenzione di Mérida….”
Nel preambolo della Convenzione di Mérida si è, invece, scritto: “Gli Stati Parti della presente Convenzione, preoccupati della gravità dei problemi posti dalla corruzione e della minaccia che essa costituisce per la stabilità e per la sicurezza della società, minando le istituzioni ed i valori democratici, i valori etici e la giustizia e compromettendo lo sviluppo sostenibile e lo Stato di diritto; preoccupati anche dei nessi esistenti tra la corruzione ed altre forme di criminalità, in particolare la criminalità organizzata e la criminalità economica, compreso il riciclaggio del denaro…..”
[22] Cfr. la Relazione cit., pag. 2.
[23] Cfr. la Relazione cit., pag. 12.
[24] Si riporta, per quanto qui d’interesse, il testo della Raccomandazione V del GRECO:
[25] Cfr. la Relazione cit., p. 16.
[26] Conformi sul tema Cass. Pen. Sezione sesta del 19 giugno 2019, n. 51124; Cass. Pen. Sezione sesta del 6 febbraio 2020, n. 7971; Cass. Pen. Sezione sesta del 7 ottobre 2020, n. 1869; Cass. Pen. Sezione sesta 21 ottobre 2020, n. 16781; Corte d’Appello di Lecce del 3 maggio 2021, n. 271; Cass. Pen. Sezione prima del 5 maggio 2021, n. 23877; Cass. Pen. Sezione sesta del 12 maggio 2021, n. 35581; Cass. Pen. Sezione seconda del 10 novembre 2021, n. 43329; Cass. Pen. Sezione sesta del 22 marzo 2022, n. 20935; Tribunale di Taranto del 23 marzo 2022, n. 246; Cass. Pen. Sezione sesta del 26 maggio 2022, n. 32574; Cass. Pen. Sezione sesta del 13 settembre 2022, n. 657.
[27] Cfr. Sentenza “Nigro”, pag. 5.
[28] Cfr. Sentenza “Nigro”, pag. 5.
[29] Conformi sul tema Cass. Pen. Sezione sesta del 2 febbraio 2021, n. 28657; Cass. Pen. Sezione sesta dell’8 giugno 2021, n. 26437; Cass. Pen. Sezione sesta del 10 marzo 2022, n. 23407; Cass. Pen. Sezione sesta del 12 dicembre 2022, n. 11342; Cass. Pen. Sezione sesta del 15 settembre 2023, n. 47671; Corte d’Appello di Napoli del 29 novembre 2023, n. 15168.
[30] Cfr. Sentenza “Impeduglia”, pag. 4 e ss.
[31] Cfr. Sentenza “Impeduglia”, pag. 4 e ss.
[32] Cfr. Sentenza “Impeduglia”, pag. 5 e ss.
[33]In dottrina per un approfondito commento alla citata ordinanza di rimessione e al contrasto giurisprudenziale che l’ha preceduta cfr. GAMBARDELLA M., I rapporti intertemporali fra l’abrogato millantato credito, l’attuale traffico di influenze illecite e la truffa: il contrasto giurisprudenziale rimesso alle Sezioni Unite, in Cassazione Penale n. 12 del 2023, pag. 3950 e ss.
[34] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 13.
[35] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 15.
[36] Cfr. art. 12 delle Preleggi, a tenore del quale “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore………”
[37] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 16.
[38] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pagg. 17 e 18.
[39] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 18.
[40] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 20.
[41] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pag. 21.
[42] Cfr. Sezioni Unite “Mazzarella”, pagg. 23 e 24.
[43] Cfr. GATTA G., La Legge Nordio e il “soffocamento applicativo” del traffico di influenze illecite. Tra parziale abolitio criminis e profili di illegittimità costituzionale per violazione di obblighi internazionali, in Sistema Penale, pubblicato il 16 luglio 2024.
[44] Cfr. Relazione cit., pag. 4.
[45] Cfr., sia consentito, DE NOZZA G., Il delitto di traffico d’influenze illecite e il confine con il lobbying, in Sistema Penale, pubblicato il 22 settembre 2023.
[46] GATTA G., cit.
[47] L’abolitio criminis dello sfruttamento delle relazioni millantate dovrebbe aprire la strada alla revoca delle sentenze definitive di condanna secondo GATTA G., Abuso d’ufficio e traffico d’influenze dopo la Legge n. 114 del 2024:il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, in Sistema Penale, pubblicato il 26 agosto 2024, pag. 14; nonché secondo MONGILLO V., Splendore e morte del traffico di influenze illecite. Dalle Sezioni Unite alla riforma Nordio, cit., pag. 28.
[48] L’abolitio criminis dello sfruttamento delle relazioni esistenti in relazione alle quali sia stata fissata una contropartita dal contenuto non economico dovrebbe aprire la strada alla revoca delle sentenze definitive di condanna secondo GATTA G., Abuso d’ufficio e traffico d’influenze dopo la Legge n. 114 del 2024:il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, in Sistema Penale, pubblicato il 26 agosto 2024, pag. 15.
[49] Secondo GATTA G., Abuso d’ufficio e traffico d’influenze dopo la Legge n. 114 del 2024:il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, cit., pag. 14, l’espressione “intenzionalmente allo scopo” è tanto tecnicamente infelice quanto sprovvista di una significativa capacità selettiva, limitandosi, più semplicemente, a rendere esplicito ciò che prima era solo implicito nell’art. 346 bis del c.p. e, cioè, che lo sfruttamento delle relazioni esistenti tra il mediatore e il decisore pubblico dovesse avere di mira proprio il traffico d’influenze.
[50] Cfr. GATTA G., Abuso d’ufficio e traffico d’influenze dopo la Legge n. 114 del 2024:il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, cit., pag. 12, secondo il quale tale valutazione dovrà tenere conto del fatto che la Legge “Nordio” ha innalzato il minimo edittale della fattispecie ma, nel contempo, ha esteso ad essa la causa di non punibilità prevista dall’art. 323 ter del c.p. e la circostanza attenuante prevista dal comma secondo dell’art. 323 bis del medesimo Codice.
[51] Cfr. GATTA G., Abuso d’ufficio e traffico d’influenze dopo la Legge n. 114 del 2024:il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, cit., pag. 17. Per un approfondito commento a tale pacchetto di misure cfr. SALAZAR Lorenzo e CLEMENTUCCI Francesco, Per una nuova anticorruzione europea: Eu-rbi et orbi, in Sistema Penale, pubblicato il 19 luglio 2023.
[52] Per un approfondito commento alla proposta di direttiva citata cfr. SALAZAR Lorenzo e CLEMENTUCCI Francesco, Per una nuova anticorruzione europea: Eu-rbi et orbi, in Sistema Penale, pubblicato il 19 luglio 2023.
Immagine: Piero del Pollaiolo, Temperanza (particolare), tempera grassa su tavola, 1470, Galleria degli Uffizi, Firenze.
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