ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Andrea Apollonio
La sentenza della Corte di Cassazione che mette la parola (quasi) "fine" alla nota inchiesta denominata "Mafia Capitale", condotta dalla Procura di Roma con clamorosi arresti nel dicembre 2014, ha suscitato molto clamore sui giornali. Le tonalità dei commenti sono state diverse, alcune particolarmente forti. Mario Ajello su Il Messaggero, per esempio, ha parlato di "danno planetario" e di "Roma diffamata". Un giudizio, per la verità, non consono ad una sentenza pronunciata da giudici di legittimità, inevitabilmente parametrata sul diritto e non sul fatto - fatti che, peraltro, appaiono oggi definitivamente accertati; fatti che, per di più, sono di tale gravità da far dire che il "danno planetario" è stato arrecato dai corruttori, e non certo da chi quei corruttori ha arrestato, ritenendo avessero utilizzato, nei loro affari, il metodo mafioso. Perché questo l'esito: il "mondo di mezzo" era corruzione, e non mafia. O meglio, il “mondo di mezzo” era un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà", come ha dichiarato al Corriere della Sera Michele Prestipino.
Intanto, proprio su questo giornale, Giovanni Bianconi ha rassegnato forse il commento più lucido: pur parlando di "sconfitta della Procura" (e su questo, torneremo), ha fatto notare che "non a caso i giudici che hanno visto e ascoltato i testimoni in primo grado (compresi quelli che hanno raccontato intimidazioni e minacce) hanno negato la mafia, mentre quelli d'appello che hanno rovesciato il primo verdetto hanno solo letto le carte". Un dato processuale a cui pochi hanno pensato, eppure rilevantissimo: è da qui che occorre partire per svolgere un ragionamento: un modesto commento al dispositivo (ancora privo di motivazioni) che ha contraddetto tanto la sentenza d'appello, tanto la stessa Cassazione, che nel 2015 si era pronunciata de libertate sull'astratta sussistenza della fattispecie di cui all'art. 416-bis cp. Nel mezzo, il giudizio di primo grado: così tracciato l'iter, già si ha un'idea della complessità della questione.
Perché, quindi, il "mondo di mezzo", non era mafia?
Una premessa è più che doverosa. È noto come il paradigma giuridico di mafia si sia gradualmente disancorato da quello socio-criminologico da cui deriva. Una separazione consensuale tra le due branche delle scienze sociali di cui si è dovuto ben presto prendere atto anche nelle aree a più alta densità mafiosa del Paese: una separazione operata dall’esegesi giurisprudenziale, forse inevitabile, ma che, ad ogni modo, sconfessa l’originaria intentio legis dei compilatori del 1982, che hanno volutamente poggiato buona parte della struttura del delitto su di un terreno sociologico anziché sul piano tecnico-giuridico. L'art. 416-bis - "L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva per commettere delitti" - è chiaramente intessuto da elementi eterogenei di natura extra-penale, la cui compatibilità occorre gestire con un principio di stretta legalità.
Risalendo via via la questione, quali sono i meccanismi fondativi di questo potere esercitato dall’associazione mafiosa? Le note modali dell’agere di una tale associazione si condensano nell’omertà e nell’assoggettamento che derivano dal vincolo associativo: si tratta di una forza intimidatrice scaturente dalla stessa compagine, capace di produrre ex se una condizione di assoggettamento e di omertà all’interno della collettività in cui si opera. Soltanto questi caratteri - gli stessi che, elaborati in campo sociologico, sono prima stati recepiti dalla giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sull’applicazione delle misure di prevenzione e poi trasfusi dal legislatore del 1982 nell’art. 416-bis - riescono a differenziare un apparato di potere lecito (se articola le proprie attività nella piena legalità, ad esempio mediante i meccanismi della rappresentanza democratica) o criminale (se invece realizza i propri fini mediante la perpetrazione di reati) dal potere mafioso. Intimidazione, assoggettamento e omertà sono cifre in uno distintive e caratterizzanti, proprio e soltanto di quest’ultimo: sul piano sociologico, ma anche su quello giuridico, dal momento che, come prescrive l’art. 416-bis, di tale forza intimidatrice ci si deve "avvalere" per il perseguimento delle finalità alternativamente indicate dal reato.
E qui subentra il dato processuale intelligentemente richiamato da Bianconi: i giudici di primo grado hanno apprezzato, tramite l'escussione diretta dei testimoni e delle persone offese, che il vincolo associativo della banda capeggiata da Carminati e soci non generava una forza di intimidazione tale da creare una condizione di assoggettamento e di omertà, tramite cui perpetrare le proprie condotte delittuose (in particolare, i delitti di corruzione); oppure, se la generava, non è stata sfruttata: questa forza di intimidazione non era concretamente percepita da chi, col gruppo criminale, aveva a che fare.
Un dato che non sorprende, perché questa "mafia", all’interno di una realtà politica, economica e sociale fluida e complessa come quella della capitale, "tende a preferire il ricorso al metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete forme di manifestazione" (così scriveva la Cassazione nel 2015). In altre parole, e quasi banalizzando, preferisce la mazzetta all'intimidazione (quella stessa, si badi bene, indicata all'art. 416-bis).
Il problema però è tutto in punto di configurazione del reato, perché tertium non datur: o i concorrenti non riescono ad esplicare le proprie attività d’impresa perché intimoriti dalla sola presenza del gruppo mafioso nel corso delle procedure d’evidenza pubblica, oppure tali attori economici, "semplicemente", non arrivano a conseguire le stesse possibilità imprenditoriali delle società del gruppo “mafioso” in ragione della corruzione dei funzionari pubblici. E, del resto, è nota l’evidenza empirica per la quale i fenomeni di corruzione contengono un disvalore ampio, che si proietta tanto sul corretto andamento della p.a. quanto – laddove il fatto corruttivo involga anche legittime pretese di terzi – nell’alterazione delle regole e del giogo della concorrenza. Un’evidenza che, peraltro, rende difficile se non impossibile capire se il dato della esclusione da appalti e concessioni di altri attori economici trovi la sua scaturigine in una carica intimidatrice autonoma del sodalizio, tale da sprigionare condizioni di assoggettamento ed omertà, oppure nella obiettiva impossibilità di ottenere tali appalti e concessioni, dal momento che le gare risultano essere pilotate già in partenza.
Probabilmente - ma a questo punto del discorso occorrerebbe leggere le motivazioni della sentenza, ancora in nuce - è stata questa sostanziale impossibilità di valutare, e comprendere perché Carminati e compagni ottenessero tanti e tali benefici - se per il denaro elargito, se per rapporti di amicizia e di cointeressenza consolidati, se per un'intimidazione che il suo gruppo promanava - a frenare la Cassazione, un attimo prima l'enucleazione di un nuovo paradigma giuridico: quello mafioso, slegato dal carattere dell'intimidazione, agganciato piuttosto al modus corruttivo.
Per intenderci, i giudici di legittimità negli ultimi anni già avevano compiuto una parabola evolutiva non da poco, elaborando, con annessa applicazione dell'art. 416-bis, le "piccole mafie" (gruppi composti da poche persone), le "mafie silenti" (gruppi non ancora o non più operativi), ma sopratutto "mafie" intimidatrici in potenza e non in atto, consorterie cioè che presentano una carica di intimidazione soltanto astratta, non (ancora) percepita all'esterno. Abbiamo così definitivamente accantonato l'idea che la mafia sia soltanto al Sud, utilizzi la lupara ed eserciti un controllo asfissiante del territorio. Tutto questo è, ormai, archeologia giuridica; rimaneva la sentenza su "Mafia capitale".
Che era attesa dai giuristi un po' come si attende l'ultima puntata di una serie, per capire come va a finire. E tutti o quasi, prima ancora dell'altro giorno, erano arrivati alle stesse conclusioni: ribattezzare il "mondo di mezzo" come "Mafia capitale", in via definitiva, significherebbe svuotare di sigificato, in via definitiva, l'art. 416-bis. Senza più l'utilizzo o il richiamo del concetto di intimidazione (neppure in astratto), si sarebbe determinato lo stacco irreversibile del paradigma giuridico dal contesto socio-criminologico da cui è inizialmente derivato.
In questo senso, è andata bene così. Perché mettere nelle mani dei magistrati inquirenti prima e giudicanti poi un paradigma di mafia soltanto "giuridica" (e ancora, torna quanto evidenziava Bianconi, il quale paventa l'idea che in appello, dove si leggono soltanto le carte, sia stata compiuta un'operazione "da laboratorio"), quindi facilmente interpolabile, avrebbe generato pericolose distorsioni di sistema; per non parlare degli squilibri sanzionatori (leggi: pene incalcolabili) che l'applicazione dell' art. 416 bis importa.
E neppure l'avrebbero voluto gli stessi teorizzatori di questo paradigma, ideato per il caso concreto, per un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà"; i quali, però, sono tutt'altro che "sconfitti", perché la parabola della Cassazione sopra descritta ha subito un'impressionante accelerazione proprio negli ultimi anni, con l'attenzione costante a quanto accadeva nelle aule d'udienza romane. La Procura capitolina si era spinta molto oltre con l'elaborazione esegetica dell'associazione mafiosa, ha segnato il passo; e più di un giudice, anche se non l'ultimo, le ha dato ragione: questo, assieme al dibattito pubblico (tra giuristi e non) che ha generato, ha concesso alla Cassazione - i cui magistrati non sono certo indifferenti ai dibattiti in atto; tutt'altro - margini di manovra di cui mai, prima d'ora, aveva goduto. Da qui, e dalle sue pronunce evolutive, è passata l'aggressione efficace ai nuovi gruppi mafiosi, non tradizionali - perché, parliamoci chiaro: le mafie, per come le abbiamo conosciute, non esistono più. Altro che sconfitta.
di Franco Caroleo
Sommario: 1. Prologo. - 2. L’onorario del consulente tecnico fino all’1 ottobre 2019: l’insostenibile leggerezza della prenotazione a debito. - 3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019: la luce in fondo al patrocinio (a spese dello Stato). - 4. La liquidazione dell’onorario dopo la sentenza della Consulta: addio, prenotazione bella. - 5. Conclusioni.
1. Prologo.
Il 1° ottobre 2019, a pochi giorni dall’inizio delle celebrazioni dell’ottobrata romana nel vicino rione Monti, la Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza n. 217 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 «nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai soggetti ivi indicati siano «prenotati a debito, a domanda», «se non è possibile la ripetizione», anziché direttamente anticipati dall’erario».
La pronuncia, facile a prevedersi, regalerà plurimi sussulti di giubilo ai consulenti tecnici di parte e d’ufficio (nonché agli altri ausiliari dei magistrati) che, fino ad oggi, nelle cause coinvolgenti una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, rischiavano di svolgere il loro incarico senza ottenere alcun effettivo compenso (salvi i rarissimi i casi in cui la prenotazione a debito portava ad esiti fruttuosi).
La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019 si presenta fortemente innovativa, tenuto peraltro conto che in passato la stessa Consulta aveva negato rilevanza costituzionale alla questione sull’incerta conseguibilità dell’onorario da parte dell’ausiliare del giudice.
La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 impone, dunque, di svolgere alcune considerazioni sul recente approdo della Corte Costituzionale e sugli effetti da questo scaturenti.
2. L’onorario del consulente tecnico fino all’1 ottobre 2019: l’insostenibile leggerezza della prenotazione a debito.
Ai sensi del previgente art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e agli ausiliari del magistrato potevano essere prenotati a debito, su domanda dell’interessato, “se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell’ammissione”.
Secondo la relazione al testo unico, gli onorari in questione dovevano essere prenotati a debito e riscossi con le spese solo dopo la “vana escussione del condannato non ammesso, e dell’ammesso in caso di revoca dell’ammissione, cui è equiparata la vittoria della causa”.
Tuttavia, come già rilevato da molti[1], il comma terzo in commento non richiedeva la necessità di attivare specifiche procedure esecutive, ma si limitava a subordinare la prenotazione a debito all’impossibilità della ripetizione (pur non chiarendo cosa dovesse intendersi in concreto).
Pertanto, considerato che in tutti i casi in cui il legislatore del d.P.R. n. 115/2002 ha voluto condizionare il pagamento all’esperimento di una particolare procedura lo ha espressamente previsto (si veda, ad esempio, l’art. 116 che dispone la liquidazione dell’onorario e delle spese spettanti al difensore di ufficio “quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali”), si era portati a riconoscere portata estensiva alla norma, ammettendo la prenotazione a debito anche in presenza di un semplice invito bonario ad adempiere (mediante raccomandata a/r) o dell’esperimento infruttuoso di parte della procedura esecutiva (atto esecutivo e contestuale precetto non seguiti da adempimento), senza dover attendere l’esito negativo del pignoramento.
Questa interpretazione più largheggiante non ha però inciso (nemmeno tangenzialmente) sul vero nodo che avviluppava il sistema della prenotazione a debito per come congegnato dall’art. 131, comma 3.
La liquidazione, infatti, restava meramente eventuale, essendo normativamente condizionata all’effettivo recupero della somma prenotata a debito da parte dell’ufficio giudiziario.
Del resto, l’art. 3, lett. s), d.P.R. n. 115/2002 definisce “prenotazione a debito” l’annotazione “a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero”.
Ciò rendeva decisamente elevato il rischio di sostanziale gratuità della prestazione del professionista, specie nelle ipotesi di condanna alle spese processuali della parte ammessa al patrocinio.
Eppure la Corte Costituzionale, in più occasioni, ha respinto i dubbi di costituzionalità periodicamente serpeggianti tra la giurisprudenza di merito (cfr. sentenza n. 287/2008: «Il rimettente muove dal presupposto interpretativo secondo cui, nei casi di ammissione di una parte al patrocinio a spese dello Stato, la disposizione censurata può comportare, in materia civile, che l’ausiliario del magistrato svolga la sua opera gratuitamente. Al contrario, tale disposizione disciplina il procedimento di liquidazione degli onorari dell’ausiliario medesimo, predisponendo il rimedio residuale della prenotazione a debito, a domanda, proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venga pregiudicato dalla impossibile ripetizione dalle parti del giudizio»; posizione successivamente ribadita nelle ord. nn. 408/2008, 195/2009, 203/2010, 12/2013).
Così, però, i giudici costituzionali non hanno fatto altro che ancorarsi al dato formale della prenotazione a debito, trascurando che, nelle frequentissime ipotesi di mancato recupero delle spese ex art. 134 d.P.R. n. 115/2002, il consulente non avrebbe mai conseguito alcun compenso.
Senza contare che nella relazione illustrativa dello schema del testo unico sulle spese di giustizia si era segnalato che, pur essendosi provveduto ad aggiornare le voci di spesa secondo la ricostruzione fatta nel testo unico, “… l’ipotesi della prenotazione a debito successivamente all’infruttuosa escussione da parte del professionista, appare un’ipotesi di scuola piuttosto che una concreta possibilità, ma in tal senso è la norma originaria”.
Quindi, già la relazione illustrativa del d.P.R. n. 115/2002 (che, come noto, mirava esclusivamente a riunire e coordinare le norme sulle spese del procedimento giurisdizionale, senza operare interventi modificativi) aveva evidenziato l’inconcludenza fattuale della regola della prenotazione a debito (ridicolizzata concettualmente a mera “ipotesi di scuola”).
Ciò nonostante, la Corte Costituzionale fino al 2019 ha preferito un’opzione ermeneutica letteralmente ineccepibile ma sostanzialmente impraticabile.
Quanto detto, è bene precisarlo, valeva con riferimento all’onorario del consulente tecnico di parte e dell’ausiliare del magistrato.
Con riferimento alle “spese sostenute per l’adempimento dell’incarico” (le cd. spese vive), invece, l’art. 131, co. 4, lett. c), già prevedeva (e prevede tuttora) l’anticipazione a carico dell’erario. Di tali spese, dunque, il consulente ha sempre potuto ottenere la corresponsione direttamente dallo Stato.
3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019: la luce in fondo al patrocinio (a spese dello Stato).
Con la sentenza n. 217/2019 la Corte Costituzionale compie una notevole virata prospettica (sì, per blandire i francesisti pettinati, parliamo pure di revirement).
La pronuncia trae origine da una rimessione operata dal Tribunale ordinario di Roma nell’ambito di un procedimento promosso ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. per l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione di una lite, in presenza di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
Nella specie, era emerso che gli onorari dovuti ai c.t.u. nominati non potevano essere corrisposti perché anche la parte (coniuge dell’ammesso al patrocinio) a carico della quale erano stati posti gli oneri della consulenza non era in grado di ottemperarvi e che, dovendosi applicare l’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002, non si sarebbe garantito agli ausiliari un compenso per la prestazione svolta.
Il caso, a ben vedere, è molto simile a quelli già esaminati dalla Corte Costituzionale e sui quali era freddamente calata la mannaia della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Questa volta, però, i giudici della Consulta resistono al canto delle sirene del formalismo e sposano un approccio eminentemente pratico.
Mentre in precedenza[2] si sosteneva che il rimedio residuale della prenotazione a debito era stato predisposto proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venisse pregiudicato dall’impossibile ripetizione dalle parti, nella decisione in commento si riconosce (finalmente) che il sistema risultante dal comma 3 dell’art. 131 si rivela piuttosto etereo, perché nei fatti impedisce al consulente tecnico di vedersi pagato il proprio onorario (così testualmente: «la suddetta opzione ermeneutica adottata da questa Corte non ha potuto trovare seguito nella prassi, rendendo impossibile – con riguardo a fattispecie come quella in esame – la liquidazione degli onorari e delle altre competenze contemplate nell’art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002»).
Da qui, dice la Corte Costituzionale, emerge un grave vulnus sotto il profilo della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
La nuova argomentazione proposta è semplice: se la finalità dell’istituto del patrocinio a spese dello Stato è quella di assicurare la tutela dell’indigente con carico all’erario delle spese inerenti le attività di assistenza (tra cui rientra certamente l’incarico tecnico affidato al consulente d’ufficio e di parte[3]), non si può ammettere una disposizione che, in ultima analisi, comporta la gratuità della prestazione del consulente tecnico.
Con il «tramonto della logica del gratuito patrocinio», non ci possono essere deroghe ispirate a questa superata logica; e le deroghe non possono nemmeno celarsi dietro lo stratagemma di un’annotazione “a futura memoria”.
In tal senso, il meccanismo procedimentale di cui al comma 3 dell’art. 131, che riconnette l’onere della previa intimazione di pagamento all’eventuale successiva prenotazione a debito del relativo importo, «impedisce il rispetto della coerenza interna del nuovo sistema normativo incentrato sulla regola dell’assunzione, a carico dello Stato, degli oneri afferenti al patrocinio del non abbiente»[4].
E, allora, come superare l’irragionevole ostacolo della prenotazione a debito? Per i giudici costituzionali, non si può far altro che trasformare l’onorario del consulente tecnico in una spesa anticipata.
Solo con l’anticipazione del compenso da parte dell’erario, infatti, si ristabilisce l’equilibrio economico voluto dal legislatore e si ripristina la grammatica fondante la disciplina del patrocinio a spese (non ad eventuale recupero) dello Stato.
La Corte Costituzionale, quindi, sancisce la metamorfosi organica della voce di spesa e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 131, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 «nella parte» in cui prevede che gli onorari siano prenotati a debito, previa intimazione di pagamento, «anziché direttamente anticipati dall’erario».
4. La liquidazione dell’onorario dopo la sentenza della Consulta: addio, prenotazione bella.
Da un punto di vista sistematico, la Corte Costituzionale finisce con l’applicare al processo civile[5] la stessa disciplina già prevista per il processo penale all’art. 107, co. 3, lett d (“Sono spese anticipate dall’erario: […] d) le indennità e le spese di viaggio per trasferte, nonché le spese sostenute per l’adempimento dell'incarico, e l’onorario ad ausiliari del magistrato, a consulenti tecnici di parte e a investigatori privati autorizzati”)[6].
Peraltro, la ricaduta normativa della pronuncia del 2019 è quella di svuotare di contenuto il precetto del comma 3 dell’art. 131, dacché la dichiarata mutazione attrae l’onorario del consulente tecnico di parte e dell’ausiliare del magistrato nella sfera regolamentare del successivo comma 4, dedicato appunto alle spese anticipate dall’erario (quasi una fagocitazione a freddo).
Ma l’effetto pratico più evidente è che, a seguito della sentenza n. 217/2019, i consulenti tecnici di parte e gli ausiliari del magistrato vantano una pretesa anticipatoria direttamente nei confronti dello Stato.
Ciò comporta una rivisitazione del sistema che fino ad ora aveva governato i compensi dei menzionati professionisti (nell’ambito di un processo in cui una o più parti sono ammesse al patrocinio), almeno sotto sei profili che si vanno a tratteggiare qui di seguito.
a) L’intimazione di pagamento
Tra i primi commentatori della sentenza n. 217/2019, qualcuno[7] ha paventato il dubbio che la declaratoria di incostituzionalità non abbia travolto anche l’onere della previa intimazione di pagamento. Sicché, dovrebbe aversi l’anticipazione solo una volta che il professionista abbia esperito infruttuosamente il recupero nei confronti della parte.
A parere di chi scrive, la Corte Costituzionale ha inteso censurare, oltre che la prenotazione a debito, anche il meccanismo della previa intimazione. E tanto sembra potersi ricavare proprio da alcuni passaggi della pronuncia in cui:
- [par. 6 in diritto] si denuncia il vizio di ragionevolezza dell’art. 131, co. 3, «proprio perché, in luogo dell’anticipazione da parte dell’erario, prevede, a carico dei soggetti che hanno prestato l’attività di assistenza, l’onere della previa intimazione di pagamento e l’eventuale successiva prenotazione a debito del relativo importo» (l’onere intimativo è dunque esplicitamente enumerato tra le incongruenze del sistema congegnato dalla norma discussa);
- [par. 6 in diritto] si stigmatizza la lesione costituzionale della norma poiché in essa si dispone che gli onorari e le indennità «siano previamente oggetto di intimazione di pagamento e successivamente eventualmente prenotati a debito» (anche qui la condanna è rivolta non solo alla prenotazione a debito, ma anche alla sua combinazione con l’onere di preventiva intimazione);
- [dispositivo] si decreta l’illegittimità costituzionale della disposizione «nella parte in cui prevede che gli onorari e le indennità dovuti ai soggetti ivi indicati siano «prenotati a debito, a domanda», «se non è possibile la ripetizione», anziché direttamente anticipati dall’erario» (se davvero i giudici costituzionali avessero voluto conservare l’onere di previa intimazione, non avrebbero sanzionato anche il secondo inciso riferito all’impossibilità della ripetizione).
Seguendo questa linea esegetica, deve escludersi che il consulente tecnico di parte e l’ausiliare del magistrato, per ottenere l’anticipazione del proprio onorario a carico dell’erario, debbano prima invitare la parte ad adempiere.
b) La liquidazione dell’onorario del c.t.p.
Nella prassi dei tribunali era raro imbattersi in istanze di liquidazione dell’onorario dei consulenti della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
La ragione è intuibile: il previgente meccanismo della prenotazione a debito scoraggiava moltissimi periti ad intraprendere la farraginosa via indicata dal comma 3 dell’art. 131 che, come si è detto, conduceva quasi sempre ad esiti infruttuosi.
Ora che le cose cambiano, è ragionevole attendersi un incremento di queste istanze di liquidazione.
A tal riguardo, è opportuno segnalare che, laddove il consulente dell’ammesso al beneficio si limitasse a redigere la perizia di parte e, nel corso del giudizio, non fosse disposta c.t.u. o, se disposta, non venisse nominato c.t.p., lo stesso ben potrebbe pretendere la liquidazione del proprio onorario fin dall’introduzione del giudizio.
Come è noto, infatti, ai sensi dell’art. 83, co. 2, d.P.R. n. 115/2002, la liquidazione delle spese del consulente tecnico di parte è effettuata dal giudice “al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico”. Tale norma consente quindi al giudice di liquidare fin dall’atto della cessazione dell’incarico[8].
Dunque, poiché l’incarico del consulente titolare della sola perizia di parte (da prodursi in atti) può dirsi cessato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa, già da questo momento sorgerà il suo diritto di esigere la liquidazione dell’onorario.
c) Il termine per la presentazione dell’istanza di liquidazione
La nuova natura di spesa anticipata dell’onorario del consulente tecnico di parte e degli ausiliari del magistrato sollecita una riflessione sul termine di presentazione della domanda di liquidazione.
In realtà, non sembrano porsi particolari questioni con riferimento al consulente tecnico d’ufficio (nonché agli altri ausiliari del magistrato), atteso che l’art. 71, co. 2, d.P.R. n. 115/2002 prevede espressamente il termine decadenziale di cento giorni dall’espletamento dell’incarico.
La norma, come è noto, è collocata nella Parte II del testo unico in materia di spese di giustizia e, perciò, non sembra poter risentire di eventuali modifiche involgenti la disciplina del patrocinio a spese dello Stato (contenuta, invece, nella Parte III del testo unico).
Più complicata si presenta la posizione del consulente tecnico di parte, tenuto conto che per la liquidazione del suo compenso non è contemplata una disposizione simile al descritto art. 71.
Orbene, considerato che le ipotesi di decadenza (specie con riferimento a situazioni giuridiche soggettive connesse a diritti fondamentali) devono essere tipiche ed espresse, deve escludersi che l’istanza di liquidazione del c.t.p. soggiaccia ad un termine decadenziale.
Ci si chiede, però, se debba comunque individuarsi un termine ultimo di presentazione dell’istanza prima dell’emissione del provvedimento che definisce il giudizio di merito. E ciò al pari di quanto avviene in relazione alla liquidazione dell’onorario del consulente tecnico d’ufficio (poiché, chiuso il giudizio e regolato con sentenza l’onere delle spese processuali, il giudice si spoglia della potestas decidendi e non ha più il potere di provvedere alla liquidazione[9]).
Al riguardo, si è propensi a negare validità ad un’applicazione analogica della disciplina concernente l’onorario del consulente tecnico d’ufficio, essendo la figura del consulente tecnico di parte più vicina a quella del difensore, atteso che:
- al c.t.p. è riconosciuto il potere (art. 201 c.p.c.) di intervenire e assistere la parte durante lo svolgimento delle indagini peritali, presentare istanze ed osservazioni al c.t.u., prospettare l’adozione di differenti parametri di giudizio oppure sollecitare l’assunzione di ulteriori elementi di valutazione o accertamenti fattuali e partecipare all’udienza ed alla discussione in camera di consiglio ogni qual volta vi intervenga il c.t.u. ed interloquire, su autorizzazione del presidente, per chiarire e svolgere le sue considerazioni sui risultati delle indagini (art. 197 c.p.c.);
- l’istituto del c.t.p. può quindi essere considerato come strumento essenziale ed indefettibile per la compiuta realizzazione del diritto di difesa (inteso anche come assistenza tecnico-professionale) e per la piena osservanza del principio del contraddittorio;
- la liquidazione del compenso del c.t.u. attiene in ultima analisi alla regolamentazione degli oneri processuali tra le parti in giudizio, le quali devono farsi carico delle spese per gli importi riconosciuti al c.t.u. (“in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di CTU e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell’onere delle spese”: cfr. Cass. nn. 6199/1996; 22962/2004; 23586/2008; 25179/2013); al contrario, la liquidazione dell’onorario del c.t.p., per come conformata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 217/2019, non ha alcuna incidenza rispetto al governo delle spese di lite, in quanto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato determinerebbe l’insorgenza di un rapporto che si instaura direttamente tra il consulente e lo Stato, di tal che le parti rimangono totalmente estranee agli esborsi che dovranno essere corrisposti al perito (sul punto, tornano molto utili le conclusioni rassegnate dalla recente Cass. n. 22448/2019, confermative di un orientamento sorto tra la giurisprudenza di merito con riferimento alla liquidazione del compenso del difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato).
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che il c.t.p. (esattamente come il difensore patrocinante) possa presentare l’istanza di liquidazione anche dopo che sia stato pronunciato il provvedimento che definisce la fase giudiziale di riferimento.
d) L’acconto concedibile al c.t.u.
La collocazione dell’onorario del c.t.u. tra le spese anticipate ha certamente un riflesso sul regime del provvedimento (ordinatorio discrezionale e provvisorio) con cui il giudice all’udienza di giuramento del c.t.u. ex art. 193 c.p.c. accorda all’ausiliare un acconto.
Ed invero, fino alla pronuncia della Corte Costituzionale in discussione, anche nei procedimenti con ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’acconto doveva essere comunque posto a carico di una parte (o di entrambe, a seconda dei casi), trattandosi di esborso che, al più, poteva essere successivamente prenotato a debito.
Adesso che invece si è riconosciuta l’anticipazione dell’erario anche con riferimento al compenso del c.t.u., il giudice non dovrà più addebitare l’acconto ad una delle parti, potendosi limitare a dare atto della prevista anticipazione. Quindi, il cancelliere procederà ad annotare il relativo importo nel foglio notizie tra le spese anticipate.
e) Il decreto di liquidazione del compenso del c.t.u.
Alla stregua del provvedimento che concede l’acconto al c.t.u., nel decreto di liquidazione dell’onorario del c.t.u. non dovrà più disporsi alcun addebito (provvisorio) a carico delle parti, essendo il compenso annoverabile come spesa anticipata.
Di base, il provvedimento di liquidazione dell’onorario presenterà i medesimi contenuti di quello per liquidazione delle spese cd. vive (“sostenute per l’adempimento dell’incarico”), per le quali l’art. 131, co. 4, lett. c), già prevede l’anticipazione a carico dell’erario.
Potrebbe però discutersi se debba destinarsi all’anticipazione statale l’intero compenso spettante al c.t.u. (all’esito della dimidiazione ex art. 130 d.P.R. n. 115/2002) o solo la quota astrattamente riferibile alla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (seguendo questa seconda prospettazione, ad esempio: in un procedimento tra due parti di cui una sola ammessa al beneficio, il 50% del compenso già dimidiato andrebbe anticipato, mentre il restante 50% rimarrebbe a carico della parte non ammessa).
A sciogliere questa perplessità soccorre proprio la pronuncia della Corte Costituzionale del 2019 nella parte in cui sancisce l’anticipazione dell’onorario globalmente inteso: sono «gli onorari e le indennità dovuti» agli ausiliari del magistrato che devono essere «direttamente anticipati dall’erario», non solo una parte di essi; nessuna scomposizione di sorta sembra ammessa.
f) Il dispositivo della sentenza
L’ingresso dell’onorario del c.t.u. nella categoria delle spese anticipate suggerisce un ripensamento anche in ordine alla formulazione del dispositivo della sentenza.
Eliminata la necessità di individuare in via definitiva il soggetto su cui far gravare le spese di c.t.u. (come già chiarito in relazione all’acconto e al decreto di liquidazione), il dispositivo deve tenerne conto e, peraltro, muta a seconda della situazione della parte risultata soccombente. In tal senso:
- se a soccombere è la parte non ammessa al patrocinio, la regolamentazione degli esborsi processuali potrà esaurirsi nella pedissequa osservanza del disposto dell’art. 133 d.P.R. n. 115/2002, con la condanna al pagamento, in favore dello Stato, di tutte le spese processuali anticipate e prenotate a debito; sicché, potrebbe essere superfluo aggiungere un ulteriore capo di condanna dedicato alle spese di c.t.u., dacché le stesse sono ora ricomprese tra le spese anticipate;
- se a soccombere è la parte ammessa al patrocinio, la stessa, fermo il suo obbligo alla rifusione del compenso del difensore della controparte e di tutti gli esborsi processuali da questa sostenuti (ad esempio, se controparte-attrice: contributo unificato, spese di notifica etc.), non potrà vedersi condannata in sentenza al pagamento delle spese liquidate al c.t.u.; infatti, trattandosi di importi divenuti anticipabili dall’erario (con il c.t.u. che trova così già soddisfatte le sue pretese creditorie), al pari di quelli riconosciuti al difensore patrocinante (ex art. 131, co. 4, lett. a), potranno al più essere successivamente recuperati dallo Stato al ricorrere delle condizioni fissate all’art. 134 d.P.R. n. 115/2002[10]; dunque, come accade per tutte le spese processuali anticipate e prenotate a debito[11], nulla potrà essere giudizialmente imputato alla parte ammessa a titolo di onorari e spese vive del c.t.u.
5. Conclusioni.
L’innovatività della sentenza n. 217/2019 della Corte Costituzionale è indiscutibile.
Partendo dalla necessità di rispettare compiutamente la finalità propria del patrocinio a spese dello Stato, la Corte ha rilevato l’intrinseca incoerenza di un meccanismo, quale quello della prenotazione a debito, che consentiva che le prestazioni rese dai consulenti tecnici di parte e dagli ausiliari del magistrato potessero rimanere gratuite.
La soluzione adottata è stata quella di trasformare l’onorario di questi professionisti in una spesa anticipata dall’erario, elidendo pure l’onere della previa intimazione di pagamento.
Quanto alle ricadute di questa pronuncia di incostituzionalità, se ne sono potute ipotizzare alcune, confidando che la futura prassi potrà meglio far luce sulle implicazioni concrete.
Di certo, già si possono ritenere raggiunti due risultati non da poco.
Per prima cosa, si è superato un serio paradosso (non meno astruso delle zenoniane tartarughe irraggiungibili[12]) della Parte III del d.P.R. n. 115/2002 che, pur essendo rivolta al patrocinio a spese dello Stato, lasciava schiere di consulenti tecnici senza remunerazione alcuna.
Il secondo risultato, meno esplicito ma non meno significativo, è quello di aver ridato centralità alla differenza strutturale tra gratuito patrocinio e patrocinio a spese dello Stato che, proprio con riferimento alla materia dell’onorario del consulente tecnico, la Corte Costituzionale in passato aveva pericolosamente sottovalutato.
Peraltro, la sentenza n. 217, con un garbo tutt’altro che snobistico, sembra ammonire chi ancora oggi si ostina a parlare di gratuito patrocinio anziché di patrocinio a spese dello Stato. Scambiare i nomi dei due istituti non è un capriccio da pigrizia intellettuale, ma è sintomo di sciatta confusione ordinamentale.
NOTE
[1] Financo dalla Direzione Generale della Giustizia Civile - Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della Giustizia cfr. nota prot. n. 9539 del 24.1.2006 Rif. n. QUES. 633/04.
[2] Corte Cost. sent. n. 287/2008, ord. nn. 408/2008, 195/2009.
[3] Su questa linea, Corte Cost. n. 149/1983 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, nella parte in cui non prevedeva che il beneficio del gratuito patrocinio si estendesse alla facoltà per le parti di farsi assistere da consulenti tecnici, concretandosi altrimenti «un’evidente limitazione del diritto di difesa del non abbiente, che ne menoma la possibilità di efficacemente contraddire quando nel giudizio si controverta su questioni di natura tecnica».
[4] Questa conclusione stride fragorosamente con quanto precedentemente sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 287/2008, in cui si evidenziava che, gratuito o meno, l’incarico del consulente doveva considerarsi garantito dall’art. 63 c.p.c. che, comunque, «prevede l’obbligo del consulente scelto tra gli iscritti ad un albo di prestare il suo ufficio».
[5] A dire il vero, prima del recente intervento della Consulta, non tutti i settori del processo civile erano estranei all’anticipazione dell’erario degli onorari dovuti al consulente tecnico e all’ausiliare del magistrato. Infatti, nel processo di interdizione e di inabilitazione promosso dal pubblico ministero l’art. 145 d.P.R. n. 115/2002 prevede che tali onorari siano anticipati in virtù di un’ammissione al beneficio d’ufficio (è la relazione illustrativa al testo unico che si esprime in questi termini, richiamando Corte Cost. n. 112/1967), salvo successiva verifica dei limiti reddituali ai fini del recupero (come avviene nel processo penale minorile).
[6] Vale la pena rammentare che in precedenza, in relazione a questa discrasia legislativa tra processo civile e processo penale, la Corte Costituzionale aveva negato la sussistenza di una disparità di trattamento sulla base della ontologica diversità dei processi, che escludeva la necessità di adozione di modelli unitari per entrambi i giudizi (cfr. Corte Cost. sent. n. 287/2008; ma si vedano anche ord. nn. 350/2005, 201/2006, 270/2012).
[7] Cfr. Caglioti G.W., “CTU e CTP, liquidazione dell’onorario nel patrocinio a carico dello Stato: un approfondimento”, 3.10.2019, su https://www.professionegiustizia.it/documenti/notizia/2019/ctu-ctp-liquidazione-onorario-gratuito-patrocinio-corte-costituzionale.
[8] Difatti, così si procede laddove sia stato revocato il mandato dell’avvocato patrocinante e lo stesso sia stato sostituito (e non si attende la conclusione del giudizio per liquidare distintamente i due difensori che si sono avvicendati). E a nulla pare rilevare il disposto del successivo comma 3-bis (“Il decreto di pagamento è emesso dal giudice contestualmente alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la relativa richiesta”), che atterrebbe solamente alla fattispecie della chiusura della fase, in mancanza di precedente cessazione dell’incarico.
[9] Cfr. Cass. nn. 7633/2006; 28299/2009.
[10] Scarselli G., Il nuovo patrocinio nei processi civili ed amministrativi, Cedam, Padova, 2003, p. 230.
[11] Si veda Cass. n. 10053/2012 che chiarisce come non possano essere addebitate all’ammesso le spese indicate all’art. 131 che lo Stato, sostituendosi alla stessa parte - in considerazione delle sue precarie condizioni economiche e della non manifesta infondatezza delle relative pretese - si impegna ad anticipare (confermata da ultimo da Cass. n. 8388/2017).
[12] Contessa N., “Non finirà”, in Aurora, 42 Records, 2016.
di Elena Quarta
Lo scorso 12 aprile 2019 la suggestiva cornice di Palazzo De Pietro a Lecce ha fatto da sfondo alla presentazione dell'avveniristico testo del Prof. Avv. Luigi Viola che è stata l'occasione per un incontro di studio intitolato “Giustizia Algoritmica-la nuova frontiera tra luci ed ombre" organizzato dal COA dell'Ordine degli Avvocati di Lecce.
Relatori dell'incontro sono stati il Prof. Luigi Viola, docente di Diritto processuale civile della scuola di specializzazione delle professioni legali “Vittorio Aymone”, Università del Salento, Direttore scientifico del Centro Studi Diritto Avanzato nonché autore del libro “Interpretazione della legge con modelli matematici”, Elena Quarta docente di diritto dell'informatica presso la Scuola di specializzazione delle professioni legali “Vittorio Aymone”, dell' Università del Salento ed il dottor Daniele Gallucci, magistrato presso il Tribunale di Termini Imerese. Ha coordinato i lavori il promotore dell'incontro, l'Avv. Vincenzo Caprioli Consigliere dell'Ordine degli avvocati di Lecce.
Sommario: 1. La nuova era della Giustizia Algoritmica : parallelismo con l'avvento del III millennio - 2. Il segreto legame tra legge e matematica era stato già svelato dagli antichi filosofi - 3 Rapporto tra la giustizia predittiva ed il modello matematico elaborato dal Prof. Viola - 4 Conclusioni :impatti del Modello matematico tra “Millennium bug” e strumenti ADR.
1. La nuova era della Giustizia Algoritmica : parallelismo con l'avvento del III millennio
Sono ormai passati quasi 20 anni dall'avvento del III millennio, un'epoca che a livello di percezione appariva a tutti come un tempo sospeso tra passato, presente e futuro. Un tempo che, potrebbe essere associato senza dubbio alle sonorità sfuggenti e incantate del pezzo “Vivere il mio tempo” dei Litfiba. È passato quasi un ventennio, eppure i fotogrammi di quell'epoca sono ancora ben impressi nelle nostre menti. Correva l'anno 2000 e nei media imperversavano messaggi carichi di entusiasmo rivolti ad esaltare il boom dell'era digitale. Un entusiasmo che, da sempre, è indissolubilmente legato al timore del futuro. Un timore a cui venne attribuito il nome di Millennium bug, il famoso corto circuito dei sistemi informatici dovuto al cambiamento di data suggellato dallo scoccare della mezzanotte che segnava il passaggio dal 31 dicembre 1999 al 1 gennaio 2000. Un problema che , come sempre accade per gli eventi allarmistici, si rivelò poi di portata inferiore a ciò che era stato prospettato. L'avvento del futuro infatti, genera da sempre nell'uomo due sentimenti: l'entusiasmo da un lato e dall'altro il timore dell' ignoto che si proietta nella sua essenza di ombra, e intimorisce. Un'alternanza che, musicalmente parlando, si potrebbe paragonare ai sentimenti contrastanti di magia ed inquietudine suscitati dalla composizione del pianista belga Wim Mertens “Struggle for Pleasure”, caratterizzata dall'escalation di suoni intensi e rarefatti che si alternano in una perfetta alchimia. Quando si parla di ombre sembra inevitabile il richiamo al mito della caverna di Platone, dipinto di un luogo carico di tormento dove i prigionieri scorgono le ombre degli oggetti proiettate dal fuoco convinti che quella sia la realtà. Eppure ai prigionieri basterebbe volgere lo sguardo al di là dell'orizzonte in cui sono costretti a vivere per avere una diversa visione. Basterebbe dunque un diverso angolo prospettico per cogliere l'essenza reale delle cose. Le ombre, tuttavia, hanno anche l'importante funzione di chiarire dubbi e perplessità, dare insegnamenti ed indicare strade da percorrere. Invero questo è un tema presente nella letteratura e nella filosofia di ogni tempo, basti pensare al dialogo immaginato da Nietzsche in “Il Viandante e la sua ombra” o al dialogo con le ombre dei morti di Dante o Ulisse nel corso del loro viaggio. Quindi luci ed ombre come parti di una stessa realtà, è questo ciò che ritroviamo nello stesso animo umano, aspetto cristallizzato nella filosofia di Jung, e che parallelamente ritroviamo nei protagonisti delle grandi opere letterarie come il Dorian Gray di Wilde nel famoso rapporto con il suo ritratto, ed il Mephistopheles del Faust di Goethe.
E la tematica della Giustizia algoritmica portata alla ribalta dal recente testo del Prof. Luigi Viola “ Interpretazione della legge con modelli matematici” riaccende questa antica dicotomia di luci ed ombre, di entusiasmo ed al tempo stesso di timore verso questo “nuovo Millennium bug”.
A parere della scrivente, occorre allontanare dal nostro immaginario i timori, occorre cioè andare ad individuare tutto ciò che non deve essere associato a questo libro: i timori e le ombre non devono essere associati a questo testo. Perchè? Qual è il timore quando nascono opere di questo tipo?
Il timore è che un algoritmo possa sostituire il giudice o l'attività dell'interprete. Questo timore non ha ragion d'essere perchè ci sono attività proprie del Magistrato che non possono essere affidate ad un algoritmo. Es. nel caso del Magistrato di Sorveglianza, la valutazione della pericolosità di un soggetto. Il giudice, infatti, dopo un attento ascolto delle parti, analizza gli elementi e sulla base di un ragionamento giuridico perviene ad una decisione assunta alla luce di un attento bilanciamento. L'attento bilanciamento è il riflesso dei valori e del senso di umanità che guidano il magistrato nel suo operato, elementi che un algoritmo non può certamente soppiantare.
Come traspare anche dalla puntuale presentazione del testo del Presidente della I sez Civ, della Corte di Cassazione Stefano Schirò[1], è chiaro che un algoritmo non può dominare valori imprevedibili come, ad esempio, quelli derivanti dall' espletamento dell' istruttoria dibattimentale.
L'Art. 12 delle Preleggi assume le vesti di un algoritmo, ma, come sottolineato espressamente nel testo[2], non è un algoritmo che ha la pretesa di anticipare le decisioni giudiziarie. Questo strumento si colloca in un momento storico propizio. Per capire il senso di questa affermazione occorre guardare alla dicotomia esistente tra Caos e Legge. In tal senso Renato Rordorf, già presidente aggiunto della Corte di cassazione, in un suo recente editoriale riconsegna all'attualità la prefazione di un testo edito più di 30 anni fa ed intitolato Riti e sapienza del diritto ( Laterza ;1985). Nello specifico Rordorf sottolinea come l'autore Franco Cordero “con la sua prosa immaginifica, si spingeva a paragonare il diritto al Minotauro, il mostruoso figlio di Minosse e Pasifae che abita nel labirinto: un luogo dove «vigono testi individuati da un canone, e dei sapienti li frugano pescando mille contenuti talvolta imprevedibili». Una visione angosciosa – la si potrebbe dire kafkiana – perché nel labirinto non ci si raccapezza, non si riesce a prevedere dove conduce il percorso che si è intrapreso ed è arduo trovare una via d’uscita[3]”.
Perché questa visione del diritto come mostruoso essere mitologico dipinta negli anni '80 appare così attuale?
Occorre considerare che il giurista del XXI secolo si colloca di fronte ad uno scenario giuridico molto particolare , che appare influenzato da vari fattori. In primis subisce l'influenza derivante da una continua metamorfosi , caratterizzante il sistema delle fonti . Nello specifico oltre al corpus di norme e valori dell'ordinamento nazionale, occorre tener presenti anche quelli derivanti dai disposti normativi e valori di matrice europea derivanti da Trattati, convenzioni internazionali e altri principi dell’ordinamento europeo.
Altro aspetto da considerare è che la qualità delle leggi è pessima perchè talvolta il legislatore è frettoloso. Ma la fretta da dove deriva?
Ad esempio dalla necessità di ottemperare ai diktat della Corte europea dei diritti dell'uomo ( es. art. 35 ter o.p[4]. rubricato “ Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”: norma creata ad hoc per obbedire al diktat derivante dalla sentenza Torreggiani di predisporre un insieme di rimedi idonei ad affrire una riparazione adeguata al pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario)
La fretta altresì può essere dettata dalla necessità di creare norme che colmino dei vuoti normativi creati, ad esempio, da dichiarazioni di illegittimità costituzionalità delle norme che prima regolavano un determinato settore. ( Es. Art. 238 bis tu spese giustizia[5], ,rubricato “ Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie non pagate”)
Un ulteriore aspetto da considerare è che talvolta sono le stesse decisioni giurisprudenziali ad essere clamorosamente contrastanti Esempio più recente di tale fenomenologia concerne l’applicabilità[6] o meno della nuova legge in materia di responsabilità sanitaria, la c.d. Legge Gelli – Bianco (n. 24/2017) a fatti antecedenti la sua entrata in vigore. Tutto questo crea un improvviso Caos, simile a quello esiodeo che, a sua volta crea incertezza ed i consociati non sono in grado di orientare i propri comportamenti. Ed ecco che appare utile all'interno di tale quadro descrittivo riportare alla luce il segreto legame tra legge e modelli matematici, presente fin dall'antichità e mai sopito
2. Il segreto legame tra legge e matematica era stato già svelato dagli antichi filosofi
In tale contesto in cui la funzione demandata alla legge è ostacolata dal Chaos interpretare la legge diviene vitale Interpretare la legge richiama alla mente quella che è un'attività del matematico, ossia quella di dare certezza, scegliendo un valore nella rosa di infiniti valori che si prospettano all'interprete.
Il segreto legame tra la legge, la matematica ed il mondo della giustizia è stato dunque posto sotto le luci della ribalta grazie al Modello matematico elaborato dal Prof. Avv. Luigi Viola che si pone come strumento tra passato, presente e futuro. Un segreto legame che, tuttavia non è del tutto nuovo, essendo stato svelato dagli antichi filosofi. Personalmente ero solo una matricola quando, tra i banchi universitari, scoprii questo dato nel corso delle appassionati lezioni di filosofia del diritto tenute dal Prof. Raffaele De Giorgi, e ne rimasi colpita. Volendo fare una rapida rassegna, si può intraprendere un viaggio virtuale, partendo dagli approcci logici dei giuristi romani di cultura stoica. Infatti, fu la generazione dei giuristi romani della seconda metà del II sec. a.C. a subire una maggiore influenza da parte della Cultura giuridica rodiese. Esiste una bibliografia ampia sull’influenza della filosofia greca dello stoicismo sulla cultura romana in generale e sulla Giurisprudenza romana in particolare[7].
Occorre altresì considerare che, nel 1600 la parola “sistema” viene mutuata dall’ambito della teologia e trasposta in altri ambiti. I giusnaturalisti come Hobbes e Pufendorf utilizzano la parola “sistema” per ridurre ad unità concettuale dell’insieme di comandi e regole
Va poi considerato Leibniz giurista e filosofo che, fin dall’adolescenza rimane affascinato , o per meglio dire, “folgorato” dalla logica. Secondo Leibniz il diritto è un sistema di proposizioni e la logica tiene unite le norme. Ed in riferimento a Leibniz una piccola parentesi è d’obbligo. L’idea di partenza dell’elaborazione di un modello matematico per interpretare la legge è rintracciabile fin dalle prime pagine dell'innovativo testo del Prof. Viola ed è racchiuso in una frase di Leibniz: "Le parti, un giorno, di fronte ad una disputa, potranno sedersi e procedere ad un calcolo". In fondo che cos'è il processo se non la disputa descritta da Leibniz? Inoltre il momento processuale presenta tutte le caratteristiche di una situazione di interazione strategica tra le azioni del singolo e degli altri agenti, evocata da Nash nell'elaborazione della sua Teoria dei giochi[8].
Riprendendo il fil rouge della rassegna,si consideri poi Savigny il fondatore della Scuola storica del diritto che teorizza un sistema scientifico, formato da concetti giuridici.
Puchta (allievo di Savigny) poi costruisce un sistema chiuso del diritto che riesce a fondarsi da se stesso e che non ha necessità di rinvenire in istanze esterne il proprio fondamento di legittimazione.
Puchta costruisce il diritto come una piramide concettuale in cui in alto vi sono le astrazioni di grado più elevato che sono connesse in una struttura unitaria alle astrazioni di grado inferiore
(es. servitù di passaggio livello più alto diritto soggettivo - diritto reale ( su cosa) - diritto reale su cosa altrui- diritto limitato non pieno in quanto diritto di godimento non di disposizione)
“Per Puchta il fondamento del diritto sta nella sua interna razionalità , il fondamento del sistema sta nella razionalità interna al sistema.
Kelsen arriva a costruire un sistema giuridico che muta continuamente e l’importanza di questo sistema è che la contingenza sia costruita secondo norme di produzione del diritto che stabiliscono come il diritto possa mutare. Il fondamento di validità dell'intero sistema di qualificazioni normative è costituito da una norma la cui validità stessa non può essere derivata da altra norma, che non può essere messa in discussione, che non è posta, in quanto deve essere assunta come
condizione di possibilità della posizione di norma, e che pertanto è presupposta e contiene soltanto “l'istituzione di una fattispecie produttiva di norme”.
Dalla norma fondamentale (Grundnorm) il sistema di norma non deriva il fondamento del suo contenuto, ma il fondamento di validità, a quello indifferente, il quale determina soltanto le condizioni formali della produzione di qualificazioni normative e costituisce il presupposto logico-trascendentale della interpretazione del senso soggettivo delle qualificazioni normative come il loro senso oggettivo, come norme giuridiche oggettivamente valide[9]”
Secondo il prof. Raffaele De Giorgi il limite della teoria Kelseniana risiedeva nella eccessiva dinamicità del sistema, un sistema caratterizzato da un mutamento continuo che avveniva in maniera incontrollata e ciò ne determinava la complessità. Per il prof. De Giorgi il problema della complessità venne risolto da Niklas Luhmann. Ed a tal proposito, a parere della scrivente, è in particolare all’impostazione di Luhmann che può maggiormente essere associata l’impostazione del testo del prof. Luigi Viola.
Precisamente Luhmann concepisce la società moderna come un sistema funzionalmente differenziato, per tale intendendosi uno status che si pone come diretta conseguenza della evoluzione della società. In sostanza la società si differenzia in sottosistemi come economia, diritto, politica, scienza, religione, medicina, educazione.
Ciascun sottosistema svolge una specifica funzione per conto della società e la funzione del diritto è quello di rendere stabili le aspettative del comportamento ( cognitive/normative[10]).
Al fine di svolgere questa sua funzione il diritto - al pari degli altri sistemi della società come scienza e religione- tra il XVII e XVIII secolo inizia a differenziarsi al suo interno in diritto privato e diritto pubblico ( ciò consentirà al sottosistema politica di autonomizzarsi rispetto al diritto). Il diritto inizia il processo di positivizzazione che sarà pienamente compiuto con la modernità, ed anche le strategie che il diritto utilizza per il suo funzionamento mutano. A tal riguardo il diritto costruisce al suo interno dei programmi che sono dei procedimenti che consentono al diritto di assumere delle decisioni consapevoli.
Qual è la forma di programmazione del diritto? In ambito giuridico il programma è un programma condizionale Come noto, la programmazione condizionale avviene secondo la forma “se...allora..” Nello specifico, in base alla programmazione condizionale, se si verifica una premessa allora si verifica una determinata conseguenza. I programmi consentono di trasformare i problemi del sistema in problemi della decisione e, questo è utile in quanto il problema della decisione è più facilmente risolvibile attraverso il rinvenimento della decisione corretta.
Nel momento in cui individuiamo la decisione corretta risolviamo il problema della decisione e questo per il diritto è importante. Per Niklas Luhmann, il sottosistema Diritto costruisce al suo interno due modelli di programmi di decisione: a) decisioni programmanti; b) decisioni programmate. Le decisioni programmanti sono decisioni che programmano ulteriori
decisioni come le leggi e le norme giuridiche che hanno un livello di astrazione più elevato
Ed il modello elaborato dal prof. Luigi Viola potrebbe essere associata alla seconda categoria ossia il modello delle decisioni programmate che, sono decisioni che si rifanno a programmi, nello specifico decisioni che sono programmate da altre decisioni.
Es. la sentenza del giudice è una decisione programmata perchè programmata dalla norma giuridica/legge. Il diritto dovrebbe più facilmente riuscire a risolvere un problema, nel momento in cui il problema è costruito come programma di decisione in questo modo il problema è risolto trovando la decisione più opportuna[11].
3 Rapporto tra la Giustizia Predittiva ed il Modello matematico elaborato dal Prof. Viola
Il timore del futuro, l'oscurità derivante dal quadro normativo poc'anzi descritto rende necessario che il mondo del diritto riscopra il suo naturale ed antico orientamento verso schemi logici, ed a questo scenario fa da sfondo l'antico sogno di predire il futuro[12]. Di quest'ultimo sogno troviamo la trasposizione in particolare nel culto apollineo di Delfi. Un culto che, come noto, ispirava gli antichi greci a recarsi presso il tempio di Delfi, ponendo domande ad Apollo che rispondeva per il tramite dei responsi dati dalla sacerdotessa Pizia[13]. Ed ecco che il concetto di “giustizia predittiva” diviene reale.
Per "giustizia predittiva" deve intendersi la possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli; non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi. Il diritto può essere costruito come una scienza, che trova la sua principale ragione giustificativa nella misura in cui è garanzia di certezza: il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane, tramite una complessa attribuzione di diritti e doveri (L. VIOLA, voce Giustizia predittiva, in Enc. Giur. Treccani (treccani.it), 2018)
In tal senso, pregevole dottrina (Giovanni Canzio) ha posto il rilievo che: “....Il giudice trova così nella legge il filo per uscire dal labirinto ermeneutico delle oscurità, ambiguità, polisemie, stratificazioni orizzontali delle fonti regolatrici del caso,
sia normative (art. 12 disp. prel. cod. civ.), nazionali o internazionali, sia contrattuali (art. 1367 ss. cod. civ.)”[14] Ed infatti, il dato di partenza per qualsiasi interpretazione , di certo, è la legge soprattutto per il nostro sistema, che è di civil law ( seppur de facto sempre più orientato al common law), visto che tutti sono soggetti alla legge- che è la fonte principale del diritto ex art. 1 Preleggi
- ivi compresi i giudici ( art. 101 Cost.) che rappresentano i soggetti istituzionalmente
deputati all'interpretazione giuridica.
L’interpretazione, per l’ordinamento giuridico, non è totalmente discrezionale, ma deve ancorarsi a criteri ben precisi, fissati dallo stesso legislatore all’art. 12 Preleggi (Disposizioni sulla legge in generale, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262).
L’art. 12 Preleggi è l’unico rubricato espressamente“interpretazione della legge”, con la conseguenza logica-deduttiva che rappresenta l’unica certezza metodologica da seguire; non è legittimo prescinderne in quanto, in difetto, si opterebbe per un’interpretatio abrogans in aperto contrasto con la voluntas legis sottesa. L’art. 12 citato così recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.”.
Nella sostanza l’art. 12 serve a trovare il significato all’interno della disposizione di legge oppure, detto in altri termini, serve a trovare la norma all’interno della disposizione (la disposizione è l’enunciato letterale, mentre la norma è il risultato a cui si giunge dopo l’attività interpretativa)[15]
Essenzialmente l'art. 12 delle Preleggi individua 4 tipologie di interpretazioni:
Interpretazione Letterale (primo criterio) è criterio MAGGIORE[16] >
IL > IR Interpretazione per ratio c.d. interpretazione teleologica (secondo criterio)
IL > AL Analogia legis (terzo criterio)
IL> AI Analogia iuris, principi generali (quarto criterio)
Considerando che l'Interpretazione Letterale (IL) è posta su una posizione gerarchica
superiore rispetto alle altre, si avrà IL > IS (Interpretazioni secondarie)
Pertanto, l’art. 12 esprime la seguente disequazione:
IL > IS.
considerando che l'Interpretazione Letterale (IL) è posta su una posizione gerarchica
superiore rispetto alle altre, si avrà IL > IS (Interpretazioni secondarie)
Pertanto, l’art. 12 esprime la seguente disequazione:
IL > IS.
Dove con l'espressione “interpretazioni secondarie” si intende la somma
di tutte le interpretazioni diverse da quella letterale pertanto:
= IR (interpretazione per ratio)
+ AL ( interpretazione per analogia Legis)
+ AI (interpretazione per analogia Iuris)
Si può tradurre :
IR + AL + AI = IS[17]
In altri termini per maggiore intelligibilità si afferma che l’art. 12 delle c.d. Preleggi esprime la seguente disequazione di primo grado: IS ≤ IL in quanto:
Interpretazione letterale (IL) = interpretazione corretta (IL)
Interpretazione secondo ratio legis (IR) = interpretazione meno corretta (IR≤IL)
Interpretazione per analogia legis (AL): interpretazione meno meno corretta (AL≤IR≤IL)
Interpretazione per analogia iuris (AI): interpretazione meno meno meno corretta (AI≤AL≤IR≤IL)
In sostanza si può affermare che, se le interpretazioni subordinate (quelle per ratio e per analogia) non sono coerenti con l’interpretazione letterale, allora vuol dire che c’è contraddizione con la conseguenza che l’interpretazione prospettata non è perfetta perché il sistema giuridico, almeno per materia, non può tollerare contraddizioni (principio di nonon contraddizione come desumibile dall’art. 3 Cost. e dall’interpretazione per analogia di cui all’art. 12 cit.)[18].
Detto in altri termini:
IR + AL + AI ≤ IL
In sostanza la somma dell’interpretazione per ratio legis (IR), dell'interpretazione per analogia legis
(AL) e dell'interpretazione per analogia iuris (AI) ossia le Interpretazioni secondarie non possono
valere più di quella letterale (IL), a pena di probabile incostituzionalità
Pertanto l’art. 12 delle c.d. Preleggi esprime la seguente
disequazione di primo grado:
IS ≤ IL[19]
Partendo da questo dato, il Prof. Viola è giunto ad elaborare una formula[20] la cui applicazione alle vicende processuali consente di prevederne l'esito. Questa formula è stata già applicata in via sperimentale su alcune vicende processuali che sono state poste all'attenzione della Suprema Corte giungendo con successo a prevedere esattamente il contenuto delle decisioni Una delle prime decisioni di cui si è giunti a prevedere esattamente l'esito è stata la sentenza della Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. n. 16601 del 5 luglio 2017[21].
Tanto premesso, deve evidenziarsi che la formula dell’EQUAZIONE dell’ INTERPRETAZIONE PERFETTA (eQuIP), basata principalmente sulla lettura dell’art. 12 delle c.d. Preleggi si prospetta come disequazione di primo grado
(AI ≤ AL ≤ IR ≤ IL).
Successivamente, lo studio dell’equazione sull’interpretazione perfetta è stato inglobato in quello sull’interpretazione giuridica, comprensivo di tutti i dati previsionali giungendo a prospettare il seguente ALGORITMO PER L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA:
IP: (IL ± ILn) ^(IR ± IRn) ° [IL = 0 => (AL ± ALn)] °[AL ≈ 0 => (AI ± AIn)] [22]:
4. Conclusioni :impatti del Modello matematico tra “Millennium bug” e strumenti ADR
In ambito processuale civile si si ritiene che tanto più il processo diventa prevedibile, anche nel suo esito, tanto più gli strumenti a.d.r. potranno svilupparsi:
- per la mediazione ex d.lvo 28/2010 e negoziazione perché, sapendo il probabile esito del processo, le parti saranno maggiormente indotte a concludere un accordo, al fine di risparmiare tempi e spese processuali, così discutendo direttamente del quantum e non più dell’an (dato per pacifico);
- per l’arbitrato perché, utilizzando modelli matematici, si potrà ridurre il rischio di parzialità, in uno con maggiore celerità e trasparenza[23]
I timori di un “nuovo Millennium bug” dunque appaiono infondati in quanto l’equazione esposta è congegnata per funzionare in modo integrativo dell’attività dell’interprete, che resta l’unico soggetto capace di inserire le corrette variabili, date dalle argomentazioni. La correttezza del risultato dell’equazione dipende unicamente dalla disposizione di riferimento che si è inteso utilizzare data dall’art. 12 preleggi, nonché dall’esattezza e completezza degli argomenti utilizzati[24]
Tuttavia, a parere della scrivente, il rivoluzionario modello matematico elaborato dal Prof. Viola porterà presto all'elaborazione di programmi informatici che, saranno di ausilio al magistrato nello svolgimento della sua delicata e complessa attività, e che contribuiranno a ridurre sensibilmente il carico giudiziario pendente.
* Contributo di studio in gran parte basato sulla relazione tenuta dall'Autrice nel corso dell'incontro di studio, intitolato “Giustizia Algoritmica-la nuova frontiera tra luci ed ombre" e tenutosi presso Palazzo De Pietro a Lecce il 12 aprile 2019 .
[1] S. SCHIRò, Presentazione, in L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici, Processo, a.d.r., giustizia predittiva, Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 23
[2] Si rinvia a L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione)
[3] R.RORDORF, Editoriale, Una giustizia (im)prevedibile? Il dovere della comunicazione n. 4/2018, Questione Giustizia n. 4/2018 Trimestrale promosso da Magistratura Democratica consultabile al seguente indirizzo url http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2018-4.pdf
[4] Per una puntuale osservazione circa gli aspetti problematici si conceda il rinvio a E. QUARTA, La logica del giudice di fronte alla complessa equazione dell'art. 35 ter. o.p., Un affascinante viaggio alla ricerca dei valori incogniti, Congedo, Galatina ,2017
[5] Per puntuale analisi delle criticità si conceda il rinvio a E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, Key editore, 2018
[6] Nel senso della retroattività, si vedano:
- Legge Gelli-Bianco: si applica anche ai processi in corso (Tribunale di Latina, sezione seconda, sent. del 27.11.2018), in La Nuova procedura Civile, 1, 2019;
- Legge Gelli-Bianco: anche Milano applica in modo retroattivo per la quantificazione del danno biologico
(Tribunale di Milano, sezione prima, sentenza del 2.8.2018), in La Nuova Procedura Civile, 5, 2018;
- La riforma Gelli-Bianco non può applicarsi a fatti precedenti la sua entrata in vigore
(neanche per la liquidazione del danno biologico) [Tribunale Treviso, sezione prima, sentenza del 26.10.2018], in La Nuova procedura Civile, 5, 2018;
-Legge Gelli-Bianco retroattiva? Anche Roma dice no, con ampia motivazione [Tribunale di Roma, sezione tredicesima, sentenza del 4.10.2017], in La Nuova procedura Civile, 1, 2019.
- Legge Gelli-Bianco non è applicabile a casi precedenti la sua entrata in vigore [Tribunale di Taranto, sezione prima, sentenza del 21.01.2019] in La Nuova procedura Civile, 1, 2019
[7] L. KOFANOV, Diritto commerciale nella Lex Rhodia, la dottrina dei contratti consensuali nella giurisprudenza romana e il “cuore del commercio nella Russia contemporanea in P. CERAMI, M. SERIO, (a cura di ) Scritti di comparazione e storia giuridica II: ricordando Giovanni Criscuoli, Giappichelli, 2013 pag. 321-322
[8] Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello "matematico" che risolverebbe i problemi, 30/07/2018 Studio Cataldi consultabile al seguente indirizzo url in https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp
[9] R. DE GIORGI, Scienza del diritto e legittimazione Pensa, Lecce, 2007 pag. 27 e ss.
[10] In tal senso F. CASSANO, nel suo testo La certezza infondata: previsione ed eventi nelle scienze sociali, Edizioni Dedalo, Bari, 1983, pag. 25 evidenzia : “ All'inizio della sua Rechtssoziologie Niklas Luhmann distingue tra due tipi di aspettative: aspettative cognitive e aspettative normative. “Come Cognitive vengono avvertire e trattate le aspettative che, in caso di delusione sono adattate alla realtà. Per le aspettative normative è vero il contrario, cioè le si lascia cadere se qualcuno agisce in modo difforme”. In questo caso cioè “la aspettativa viene mantenuta e la discrepanza fra aspettativa e realtà viene imputata a chi ha agito in modo difforme. Le aspettative cognitive sono quindi caratterizzate da una (non necessariamente consapevole) disponibilità all'apprendimento; le aspettative normative, per contro, dalla decisione di non apprendere dalle delusioni”
[11] R. DE GIORGI, op. loc. ult. cit.
[12] Si conceda il rinvio anche a E. QUARTA. L'algoritmo giuridico che realizza l'antico sogno dell'uomo di visualizzare scenari avveniristici : la giustizia nell'era 4.0 . in www.personaedanno,it, 21 febbraio 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.personaedanno.it/articolo/l-algoritmo-giuridico-che-realizza-l-antico-sogno-dell-uomo-di-visualizzare-scenari-avveniristici-la-giustizia-nell-era-4-0-elena-quarta
[13] Si conceda il rinvio a E. QUARTA , Giustizia e predizione: l'algoritmo che legge il futuro, in questa Rivista consultabile al seguente indirizzo url https://www.giustiziainsieme.it/it/cultura-e-societa/600-giustizia-e-predizione-l-algoritmo-che-legge-il-futuro
[14] G. CANZIO, Relazione tenuta in occazione dell’incontro sul tema “Il dubbio e la legge”, nell’ambito del festival Milanesiana (Milano, 19 luglio 2018), Diritto penale contemporaneo, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it/upload/4371-canzio2018c.pdf
[15] L. VIOLA, ult. op. cit., , pag. 49 e ss.
[16] Si consideri che questo orientamento è stato confermato dalla Corte di Cassazione che ha posto in evidenza che l’interpretazione teleologica e quella costituzionalmente orientata non consentono di superare il dato letterale) Si veda a tal proposito Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 22.03.2019, n. 8230:” La nullità comminata dall’art. 46, D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) e dagli artt. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985, va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”. Con tale espressione, in stretta adesione al dato normativo, deve intendersi un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione, in detti atti, degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile”. (Trasferimento di immobili abusivi e nullità: vince la tesi della nullità testuale (l’interpretazione teleologica e quella costituzionalmente orientata non consentono di superare il dato letterale) ; Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 22.03.2019, n. 8230 La Nuova Procedura Civile, 2, 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2019/03/8230_immobiliabusivi.pdf
17] L. VIOLA , Equazione dell'interpretazione perfetta versione 1.2, 8 gennaio 2017, scuola diritto avanzato, consultabile al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2016/11/Equazione_interpretazione4PERFETTA.pdf
[18] Ibidem
[19] Ibidem
[20] Una formula che è ormai giunta alla versione 1.6 ed è in fase di studio una versione 1.7 https://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/05/26/algoritmo-sullinterpretazione-giuridica/
[21] Una delle prime decisioni di cui si è giunti a prevedere esattamente l'esito è stata la sentenza della Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. n. 16601 del 5 luglio 2017. Per consultare i passaggi che hanno portato a prevederne esattamente l'esito si rinvia al seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/wp-content/uploads/2017/05/dannipunitivialgoritmo.pdf Per un commento della sentenza si conceda il rinvio a E. QUARTA. Le Sezioni Unite scrivono l'ultimo capitolo del romanzo intitolato “punitive damages”: un revival della concezione sanzionatoria della responsabilità civile nell'era 4.0 (Nota a Cassazione civile Sezioni Unite n. 16601 del 5 luglio 2017), Obiettivo Magistrato, n. 8/2017, pag.3 e ss. Tutte le previsioni centrate sono liberamente consultabili a seguente indirizzo url https://www.scuoladirittoavanzato.com/2017/05/26/algoritmo-sullinterpretazione-giuridica/ Ma più dettagliatamente si rinvia al testo di L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) Si conceda il rinvio a E. QUARTA, Giustizia: il modello “matematico” che risolverebbe i problemi, su Studio Cataldi, 30/07/2018 consultabile dall'indirizzo url https://www.studiocataldi.it/articoli/31319-giustizia-il-modello-quotmatematico-quot-che-risolverebbe-i-problemi.asp
[22] È la versione pubblicata nel testo L. VIOLA, Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione). Pertanto si rinvia allo stesso per una spiegazione dettagliata della formula
[23] L. VIOLA Interpretazione della legge con modelli matematici. Processo, Adr, giustizia predittiva. Volume 1, Diritto avanzato, Milano, 2018 (II edizione) pag. 206 e ss.
[24] L. VIOLA, L'interpretazione della legge ex art. 12 Preleggi si basa su un algoritmo, Giustizia Civile. Com, 22 febbraio 2019, consultabile al seguente indirizzo url http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/approfondimenti/linterpretazione-della-legge-ex-art-12-preleggi-si-basa
di Valeria Giannoni e Alfonso Giannoni
Sommario: 1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano. - 4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto. - 5. Conclusioni
1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria
La tutela della sicurezza alimentare è un tema di notevole interesse per il legislatore comunitario. La libera circolazione di alimenti sicuri e sani è, infatti, un aspetto fondamentale del mercato interno e contribuisce in maniera significativa alla salute e al benessere dei cittadini. La normativa comunitaria in materia di sicurezza degli alimenti e dei mangimi dovrebbe, pertanto, contribuire al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute nella Comunità. La definizione di standard, cui obbligatoriamente devono attenersi tutti i produttori di alimenti, rappresenta, dunque, un presupposto imprescindibile per la libera circolazione degli alimenti stessi all’interno del mercato unico.
Il corpus giuridico comunitario in materia di sicurezza alimentare è contenuto, prevalentemente, nei Regolamenti comunitari del cosiddetto “pacchetto igiene” quali il Reg. CE 178/2002, il Reg. CE 852/2004, il Reg. CE 853/2004, il Reg. CE 854/2004, il Reg. CE 882/2004 cui si è aggiunto il recente Reg. UE 625/2017. Attraverso questi interventi normativi si è provveduto ad abrogare i pregressi atti di natura “verticale” che, cioè, normavano, ognuno, una singola tipologia di prodotti e a sostituirli con atti normativi di natura “orizzontale” applicabili, invece, con le dovute eccezioni, alla totalità dei prodotti alimentari, così da creare un testo legislativo unitario.
2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione nazionale
Quanto all’impatto della legislazione comunitaria sugli ordinamenti giuridici dei Paesi membri, la maggior parte di essi non ha avuto difficoltà nella ricezione della norme europee in considerazione del sostanziale vuoto normativo nazionale in materia di sicurezza alimentare. In Italia, al contrario, l’adeguamento è stato, ed è tuttora, più complesso; ciò è dovuto al fatto che il nostro Paese, diversamente dagli altri, vantava già un corpus normativo dedicato alla tutela della salute mediante la disciplina dei requisiti sanitari degli alimenti.
La prima legge in materia di sicurezza alimentare risale al periodo post-unitario allorché venne emanata la L. 22/12/1888 n. 5849 “Tutela dell’Igiene e della Sanità pubblica” con la quale veniva istituito, presso ogni provincia, il Servizio Pubblico Veterinario con il compito di eseguire ispezioni nei macelli e negli spacci di carne dei Comuni particolarmente ricchi di bestiame. A tale legge seguirono, per citarne le più importanti, il Regio Decreto n. 7045/1890 “Regolamento speciale per la vigilanza igienica sugli alimenti, sulle bevande e sugli oggetti di uso domestico”, il Regio Decreto n. 45/1901 “Regolamento generale sanitario”, il Regio Decreto n. 1265/1934 “Testo Unico Leggi Sanitarie”, il Regio Decreto n. 3298/1928 “Vigilanza Sanitaria delle carni”, la Legge 30/4/62, n. 283 “Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande” e il suo regolamento di esecuzione approvato con DPR 26/3/80, n. 327.
Tali atti normativi hanno posto indubbiamente l’Italia all’avanguardia sul piano della tutela della sicurezza alimentare ma hanno reso, al contempo, più difficoltosa l’attività di adattamento della legislazione interna a quella comunitaria sopravvenuta rendendo, così, più difficoltosa l’azione delle Autorità Competenti all’effettuazione di controlli sugli alimenti (ASL, Carabinieri NAS, etc.) sia quella dell’Autorità Giudiziaria chiamata ad irrogare sanzioni nei casi in cui siano riscontrati illeciti penalmente rilevanti.
3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano
L’attività di adattamento delle norme interne a quelle comunitarie risulta particolarmente complessa in ambito penale. C’è da premettere che nessuna istituzione dell’Unione Europea gode del potere di legiferare in materia penale stante l’inderogabilità assoluta del principio di riserva di legge statale contenuto nell’art. 25 Cost.. Tuttavia, l’accelerazione del processo di integrazione europea ed il progressivo espandersi delle competenze unionali a settori sempre più vasti consente di affermare che l’attività legislativa dell’Unione Europea abbia, quantomeno, un’efficacia riflessa sulla legislazione penale interna determinando il modo in cui il giudice è tenuto ad interpretare una norma penale che intercetti una materia di interesse dell’Unione Europea. Occorre, pertanto, verificare l’influenza che la normativa comunitaria abbia avuto su quella interna dettata in materia di sicurezza alimentare.
La materia trova la sua fonte principale, a livello comunitario, nel regolamento CE n. 178/2002 il quale stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. In particolare, l’art. 14 di tale Regolamento afferma che “gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato”.
Il legislatore interno, invece, ha dedicato alla tutela della sicurezza alimentare diverse norme penali tra cui sovviene, principalmente, l’art. 444 c.p. il quale dispone che “chiunque detiene per il commercio, pone in commercio ovvero distribuisce per il consumo sostanze destinate all'alimentazione, non contraffatte né adulterate, ma pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a cinquantuno euro”.
Occorre, pertanto, verificare in che modo possano conciliarsi la normativa interna e quella comunitaria. Deve essere subito sottolineata la differenza semantica tra i due impianti normativi: quello europeo, più attuale e adeguato all’impronta scientifica, utilizza appropriatamente la parola “rischio” come la funzione della probabilità e gravità di un “pericolo”. Il pericolo viene distinto in chimico, microbiologico o fisico e per esso va intesa la sostanza, il microorganismo o il fattore fisico (ad esempio le radiazioni) che può causare un danno alla salute del consumatore. La normativa nazionale, ovviamente più datata ma non per questo meno efficace, utilizza, invece, l’espressione “alimenti pericolosi per la salute pubblica”.
Ferma restando la differente locuzione utilizzata dalle due norme è indubbio che l’interprete, nel valutare la sussistenza del pericolo richiesto quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 444 c.p., farà utilizzo proprio delle coordinate enunciate nell’art. 14 Reg. 17/2002. Quest’ultima norma, infatti, afferma che gli alimenti sono da considerarsi a rischio nei casi seguenti:
a) se sono dannosi per la salute;
b) se sono inadatti al consumo umano.
La stessa norma aggiunge, poi, che per determinare se un alimento sia a rischio occorre prendere in considerazione quanto segue:
a) le condizioni d'uso normali dell'alimento da parte del consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull'etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti.
Tali direttive, impartite dal legislatore europeo, certamente verranno prese in considerazione dal giudice ai fini della valutazione della sussistenza del pericolo richiesto dall’art. 444 c.p.
4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto
Giova ricordare che l’art. 444 c.p. rientra nel novero dei reati c.d. “di pericolo”; essi si distinguono dai reati di danno in quanto l'offesa consiste nella mera messa in pericolo del bene giuridico a prescindere dalla verificazione di una effettiva lesione dello stesso con anticipazione, dunque, della soglia di tutela penale. All'interno di questa categoria di reati si distingue tra reati di pericolo presunto (o astratto) e reati di pericolo concreto, sulla base della differente posizione che il pericolo assume nell'ambito della norma. Nei reati di pericolo concreto, il pericolo figura quale elemento costitutivo della norma e andrà accertato dal giudice caso per caso in modo che se il bene giuridico non sia stato esposto effettivamente a pericolo il reato non sussiste. Nei reati di pericolo astratto (o presunto) è il legislatore che formula in via preventiva il giudizio di pericolosità in relazione ai comportamenti antigiuridici. Il pericolo costituisce il motivo dell'incriminazione e non un elemento costitutivo del reato e, per tale motivo, il giudice accerta la ricorrenza del comportamento antigiuridico, a prescindere dal fatto che la condotta, nel caso concreto oggetto del giudizio, abbia causato un pericolo effettivo o meno.
L’art.444 c.p., richiamando all’interno del precetto il pericolo per la salute pubblica, certamente si configura quale reato di pericolo concreto. Spetterà, dunque, al giudice verificare quando le condotte descritte dalla fattispecie presentino una effettiva carica potenzialmente lesiva per il bene giuridico tutelato dalla norma.
Ad esempio sarà considerata pericolosa e, quindi, sanzionata penalmente la commercializzazione di alimenti nei quali, mediante analisi, si è accertato il superamento dei limiti di uno o più dei batteri patogeni elencati nell’allegato 1 del Reg. CE 2073/2005. Tale Regolamento definisce i cd. “criteri di sicurezza alimentare” approntati al fine di definire l’accettabilità di un prodotto o di una partita di prodotti alimentari sotto il profilo microbiologico; nel caso de quo il pericolo microbiologico è presente, il rischio è alto, e la fattispecie può essere sussunta nell’art. 444 C.P che vieta la commercializzazione di sostanze pericolose per la salute pubblica, ferma restando l’indifferenza per il legislatore, ai fini della punibilità, della effettiva verificazione di un danno.
5. Conclusioni
Appare evidente, in conclusione, che la tutela della sicurezza alimentare abbia suscitato grande interesse per il legislatore comunitario intento a garantire un elevato livello di benessere per tutti i cittadini. Tale materia, dunque, non poteva che essere foriera di notevoli interventi legislativi tesi a fissare standard qualitativi degli alimenti e a vietare pratiche scorrette.
È innegabile che tale corpus normativo, ferma restando l’assenza di un potere legislativo in materia penale dell’Unione, abbia contribuito notevolmente a definire i margini dell’area del penalmente rilevante imponendo al giudice di interpretare la normativa penale interna alla luce delle prerogative e degli standard imposti dall’Unione stessa. L’interprete, pertanto, nell’attività di accertamento dell’illecito penale, non farà più esclusivo uso di criteri interni, tratti dalla legislazione nazionale, ma finirà per fare riferimento a quelli di matrice comunitaria.
di Piero Gaeta
Sommario: 1. Premessa. - 2. La scala di Wittgenstein: dialogo e preminenza della Corte costituzionale.- 3. Prima icona. La scala ritirata con la Corte di Lussemburgo: dialogo e controlimiti. 4. Seconda icona. La scala ritirata con la Corte di Strasburgo: dialogo e giurisprudenza ‘consolidata’. 5. Terza icona. La fine delle “rime obbligate”: la scala ritirata al legislatore (ma anche ai giudici nazionali).
1. Premessa.
Considerato che il brevissimo tempo a disposizione per questo intervento consente di enunciare e di argomentare, al più, un’unica idea, desidero – oltre che ringraziare vivamente chi me ne ha fornito l’opportunità – immediatamente enunciarla. Proverò a dimostrare che, nello stato attuale del ‘dialogo’ tra le Corti (guardato, ovviamente nelle sue linee generali e nella prospettiva del giudice comune), la Corte costituzionale ha assunto un ruolo di assoluta primauté. Un ruolo espansivo e centrale, rispetto sia alle altre Corti sovranazionali che al giudice comune, secondo un percorso che ha inizio, a mio avviso, nell’ultimo lustro e che ha portato in qualche modo il Giudice delle leggi a ‘governare’ molto più che in passato presupposti, metodi e scopi di tale dialogo.
E’ una prospettiva ‘critica’, perché il quadro di sintesi che ne viene fuori probabilmente non appare in completa sintonia con l’atmosfera di contentezza ed entusiasmo che respiriamo in questo incontro. Quest’ultimo ha indubbiamente il valore di una giusta celebrazione: rinnoviamo la promessa del dialogo tra le Corti, anche alla luce di un nuovo ed importante strumento di esso, il Protocollo 16, di cui festeggiamo l’abbrivio, colmi di ulteriori speranze.
Non voglio di sicuro essere importuno in questa occasione e, dunque, rovinare il clima di festa; credo tuttavia che questa occasione sia da sfruttare per enucleare qualche punto fermo nella vorticosa evoluzione del dialogo fra le Corti e dei suoi riverberi sul giudice comune. Sono trascorsi alcuni anni cruciali da quando questo dialogo ha preso l’abbrivio e più di due lustri dalle sentenze ‘gemelle’: importa capire non soltanto se esse, secondo la metafora di Marco Bignami ([1]), siano “cresciute in salute”, ma anche – aggiungerei provocatoriamente – eventualmente a scapito di chi. Insomma: se le molte novità di interlocuzione sopravvenute hanno modificato l’originaria “grammatica conversazionale” – per dirla con Paul Grice ([2]) ‒ tra Consulta, Corte di Strasburgo e Corte di Lussemburgo e quali ne siano stati i riflessi di assetto e di partecipazione sulla figura meno centrale, che è quella tuttavia a cui maggiormente tengo, vale a dire il giudice comune.
2. La scala di Wittgenstein: dialogo e preminenza della Corte costituzionale.
Dico subito allora ‒ con grandi pennellate di estrema sinteticità – che, a mio avviso, il dialogo tra le Corti ha bensì assunto oggi una diversa stabilità rispetto a quell’originario “sentimento dell’urgenza” ([3]) che ne aveva caratterizzato gli albori e la prima fase, essendone oggi i contorni molto più definiti e, con essi, gli scopi e, soprattutto, le modalità. Ma ritengo anche che, in questa evoluzione, sia stata la Corte costituzionale ad assumere un ruolo preminente ‒ di personaggio chiave e personaggio principale assieme, si direbbe nel linguaggio della sceneggiatura cinematografica ‒ ed in progressiva espansione: guadagnando una centralità assoluta e divenendo il best player del dialogo. Il ruolo insomma di chi - con grande acume istituzionale, talvolta con astuzia ordinamentale - alla fine ha stabilito, quasi sempre in autonomia, le regole su come dialogare e soprattutto su quali esiti potesse/dovesse avere tale dialogo: ribadendo, con forza, che la testata d’angolo era e rimane il meccanismo del sindacato accentrato di costituzionalità e persino privilegiando l’“anima politica” rispetto a quella “giurisdizionale”. A tale ruolo, gli altri ‘dialoganti’ ‒ Corti di Strasburgo e Lussemburgo; giudici comuni - si sono dovuti, di volta in volta, in qualche modo adattare ed adeguare: in qualche occasione, perfino rassegnare.
Non intendo ovviamente esprimere giudizi, rispetto ai quali non avrei alcun tipo di competenza o legittimazione: cerco solo di registrare fatti. I quali mi pare dicano, tuttavia, della presenza di un dialogante ‘forte’: una Corte costituzionale che ha mostrato, come raramente accaduto nel corso della sua storia, un fermo predominio istituzionale.
Per sintetizzare il senso di questa impressione – ed, anzi, per esprimerla appieno – ricorro ad una metafora, assai immaginifica ma altrettanto luminosa, che prendo a prestito dalla profondità di Ludwig Wittgenstein ([4]). Nella penultima proposizione del suo Tractatus, il filosofo austriaco quasi congeda il lettore con l’allegoria della scala: afferma - spiegando l’intero senso della sua opera - che le sue proposizioni sono come una scala da usare per salire più in alto, per poi essere gettata via. Chi legge le mie proposizioni - afferma – sale per mezzo di esse, su esse, oltre esse: egli, tuttavia, deve superare queste proposizioni e deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito. Allora vedrà rettamente il mondo.([5]) Come dire: la scala (nel caso di Wittgenstein, il linguaggio) ci è servita per portarci in cima, “consentendoci di aprire lo sguardo a un nuovo ed emozionante panorama”, ma poi va distrutta, perché non serve più, non consente di andare oltre (nel caso di Wittgenstein, al linguaggio subentra la mistica).
Ho l’impressione che il dialogo con le altre Corti e con i giudici comuni sia stato usato dalla Corte costituzionale un po’ come la scala di Wittgenstein. Un mezzo da utilizzare sì per arrivare ad un punto (ermeneutico, istituzionale, ordinamentale) che sovrasta il passato, ma poi (e nonostante le apparenze) destinato ad essere gettato via dalla stessa Consulta: perché strumento che non serve più, una volta che il perimetro è stato tracciato (dalla stessa Corte), le condizioni del dialogo affermate ed i limiti, invalicabili, fissati. Ragion per cui è difficile (impossibile?) oltre-passare, utilizzando quello stesso strumento.
Sembra – mi rendo conto - una conclusione assai severa per la Corte costituzionale: in realtà, essa è, alla fine, il riconoscimento di una sua lucida abilità strategica e della sua assoluta centralità in questo segmento storico. Una Corte assai più ‘forte’ (ammesso che in questo àmbito si possano prospettare e misurare ‘rapporti di forza’) di Strasburgo e di Lussemburgo, ma anche della giurisdizione ordinaria e con bagliori muscolari mostrati anche al legislatore nazionale.
Cerco ora di argomentare questa idea attraverso tre brevi icone: quadri di un’esposizione che meriterebbe, naturalmente, ben altro indugio ed approfondimento.
3. Prima icona. La scala ritirata con la Corte di Lussemburgo: dialogo e controlimiti.
La ‘storia’ delle relazioni con la Corte di Lussemburgo – per cominciare da questa – presenta aspetti umbratili.
All’apparenza, nel suo versante di luce, pare (ed è auspicato come) un dialogo vero, attuale e collaborativo, come farebbe pensare, anche di recente, l’ordinanza n. 117 del 2019 (Viganò est.), di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sul problema della sanzionabilità del silenzio processuale nel procedimento dinnanzi alla Consob. In realtà, la storia recente di questa interlocuzione con Lussemburgo presenta anche versanti forse non di eguale luce (versanti di ombra?), nei quali pare evidenziarsi come la Corte costituzionale abbia, in realtà, già stabilito regole di ingaggio, punti di non ritorno, confini massimi. Mi riferisco, per un verso, al problema della c.d. “doppia pregiudizialità (sentenze n. 269 del 2017, § 5.2., est. Cartabia, e seguiti: sentenza n. 20 del 2019, §§ da 2.1. a 2.3., est. Zanon; sentenza n.63 del 2019, est. Viganò; e, per altro verso, soprattutto alla vicenda Taricco.
Comincio da quest’ultima, sempre per rapidissimi cenni. A conclusione del ‘ciclo’ Taricco (epico per la giustizia costituzionale), la sensazione che si riporta è che la Corte costituzionale - pervenuta ad uno snodo decisorio fondamentale per avere, in sostanza, azionato i “controlimiti” del sistema costituzionale italiano − abbia stabilito una sorta di confine mobile del futuro dialogo, che potrà, di volta in volta, da essa stessa essere ri-collocato. Insomma, non si tratta solo dei controlimiti - ovvio apparendo che fosse implicato ab origine tale confine; quanto del fatto che la Corte abbia chiarito, alla prima vera occasione, che la metodologia del ‘dialogo’ (l’an, il quando ed il quomodo) sono variabili preconizzate in funzione di un esito finale che, di volta in volta, spetterà ad essa e ad essa soltanto stabilire e che relega nella (quasi) insignificanza le altre variabili: di materia, di fonte, di finalità comuni in precedenza accettate, di rispondenza alle ‘tradizioni costituzionali comuni’, di implicazione sugli interessi (finanziari o meno) fondamentali dell’Unione.
E’ questo – in liofilizzato - quanto può essere tratto dal triangolo di provvedimenti rappresentati dall’ ordinanza n. 24 del 2017 (rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’interpretazione relativa al corretto significato da attribuire all’art. 325 TFUE e alla prima sentenza Taricco, Grande sezione della Corte di giustizia 8 settembre 2015, in causa C-105/14, Taricco); dalla successiva sentenza della Corte di Giustizia, c.d. Taricco bis (Grande sezione della Corte di giustizia, sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A. S. e M. B.) e dalla sentenza della Corte costituzionale n. 115 del 2018.
Impossibile, anche in pochi minuti, riassumere una delle vicende più significative della giustizia costituzionale degli ultimi decenni, per di più su di un tema sensibile quale la prescrizione; ma – persino al di là delle migliaia di pagine dei commenti ad essa - la piana scrittura della pronuncia consente alcune estrapolazioni, senza che ne sia troppo tradito il senso.
Va premesso che, in seguito al rinvio pregiudiziale, la Grande Camera, nella sentenza c.d. Taricco bis aveva fornito, come richiestole dalla Corte costituzionale, un’ermeneutica ‘autentica’ tanto dell’art. 325, par. 1 e 2 del Trattato (TFUE), che della c.d. ‘regola Taricco’, ribadendo la sussistenza dell’obbligo di disapplicazione della normativa interna della prescrizione tutte le volte in cui l’applicazione di detta normativa fosse ostativa all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive (in un numero considerevole di casi di frode grave lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea) o si risolvesse in un termine di prescrizione più breve rispetto a quello previsto dallo stesso diritto nazionale. Obbligo di disapplicazione che trovava limite – secondo la Corte di Lussemburgo – solo allorquando essa comportasse «una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato» (§ 62). Accertamento, questo, che secondo la Corte di Giustizia, spettava al «giudice nazionale»: se questi dovesse quindi ritenere «che l’obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione» (§ 61).
L’interlocutore di Lussemburgo è dunque il giudice nazionale italiano, né potrebbe essere diversamente: è a lui che si rimette la valutazione dell’effetto della disapplicazione che gli è imposta, ai fini della compatibilità con il principio di legalità/determinatezza.
La Corte costituzionale - allorquando dopo il rinvio pregiudiziale torna a riesaminare la questione (sentenza n. 115 del 2018) – dice cose diverse: ed, anche in tal caso, non potrebbe essere altrimenti.
Ribadito che la prescrizione deve essere considerata un istituto sostanziale e rientra quindi nell’alveo del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. – così recando con sé i corollari della tipicità, determinatezza e prevedibilità – la Corte pone in evidenza evidente il deficit di determinatezza che caratterizza sia l’art. 325, par. 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé.
Ne seguono i corollari, che costituiscono, alla fine, lo specimen decisorio, ma che si prospettano, pro futuro ed in chiave generale, come un ordine competenziale dettato dal Giudice delle leggi.
In primo luogo, «se è vero che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione e specificare se esso abbia effetto diretto è anche indiscutibile che (…) un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento»;
In conseguenza – seconda affermazione tranchant- «il giudice comune non può applicare la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.» e costituente «principio supremo dell’ordine costituzionale italiano».
In terzo luogo, «l’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona». A tale scopo il ruolo essenziale che riveste il giudice comune consiste «nel porre il dubbio sulla legittimità costituzionale della normativa nazionale che dà ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto».
Considero inevitabile, sotto un profilo istituzionale e politico, questa soluzione: detto altrimenti, risultava difficile ed improbabile una diversa.
Nondimeno, essa fornisce conferma, sotto il profilo funzionale, di alcune ipotesi già affacciate ed intravedibili nel rinvio pregiudiziale.
Innanzitutto che – come è stato rilevato – sul piano dei rapporti coi giudici comuni, quando anche costoro abbiano la piena certezza (e non il semplice sospetto) che il diritto sovranazionale abbia superato i “controlimiti” costituzionale (sia andato, cioè, in rotta di collisione con un «principio supremo dell’ordine costituzionale italiano») «non possono far altro che investire la Consulta della relativa questione» ([6]). Detto altrimenti, il giudice comune non è il giudice chiamato a dispensarsi ex se dall’obbligo di disapplicazione della norma interna a beneficio di quella eurounitaria e, anche quando abbia certezza della frizione, non potrà operare una doppia disapplicazione (della norma interna per il ritenuto contrasto con la normativa sovranazionale; della norma sovranazionale, per il ritenuto contrasto con uno o più principi supremi dell’ordine costituzionale italiano). Insomma, si dovrà solo fermare e sollevare la questione: non è compito suo accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale, anche quando tale contrasto sia palese.
Sotto altro profilo, la Corte non solo stabilisce (com’è ovvio) quali sono i «principi supremi dell’ordine costituzionale italiano», ma soprattutto cosa della giurisprudenza di Lussemburgo è riconducibile, di volta in volta, ad essi.
Emblematica la vicenda Taricco sul punto. La Corte di Giustizia si sforza e si affanna nel dire, nel corpo della motivazione della Taricco bis, che il principio di legalità dei reati e delle pene appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri; che esso, quale sancito all’articolo 49 della Carta, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione; che, dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17) emerge che, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, il diritto garantito all’articolo 49 della medesima ha significato e portata identici al diritto garantito dalla CEDU; che, insomma, il diritto sovranazionale riconosce la legalità penale in maniera altrettanto fondamentale (quanto ad architettura teorica, intensità della tutela, fonte, ecc.) quanto l’ordinamento costituzionale italiano e che dunque il diritto dell’Unione ‘tiene’ ad esso almeno quanto il diritto costituzionale italiano. Ebbene, tutto ciò pare superfluo alla Corte costituzionale: perché, a prescindere da tutto ciò (oltre tutto ciò, ricordando la metafora della scala) vale l’identità costituzionale nazionale, che sembra avere efficacia preclusiva ed assorbente su ogni altro argomento. Come dire che, alla fine, è quest’ultima la “variabile indipendente” ed in nucleo forte destinato comunque a prevalere nel dialogo.
Vi è poi la vicenda della c.d. “doppia pregiudizialità”, vale a dire, la sentenza n. 269 del 2017 e delle novità di principio che essa reca, attraverso una “precisazione” (contenuta nel par. 5.2. della sentenza estesa da Marta Cartabia) che conta molto di più di una decisione: qualcuno ha scritto che è una tappa della giustizia costituzionale importante almeno quanto la sentenza Granital (n. 170 del 1984).
Per comprendere la novità, occorre, in un baleno, rammentare alcune cose fin troppo note: che, cioè, l’antinomia tra norma di diritto interno e norma di diritto dell’UE dotato di effetto diretto comporta la «non applicabilità» accertata e dichiarata esclusivamente dal giudice comune (disapplicazione), eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 UE; che la norma interna così disapplicata naturalmente «non viene in rilievo» più per la disciplina della fattispecie e, pertanto, non può essere oggetto di un sindacato di costituzionalità; che tale sindacato ha spazio residuale nelle tre eccezioni ‘classiche’ a questo meccanismo di disapplicazione, vale a dire: in ipotesi di antinomia tra norma di diritto interno e norma UE priva di ‘effetti diretti’; quando dalla sua applicazione «derivi una responsabilità penale» (sent. n. 28 del 2010); infine, quando l’applicazione della norma UE intacchi un “principio fondamentale dell’ordine costituzionale”, un ‘controlimite’, appunto, come avvenuto nella vicenda Taricco. Al di fuori di questi casi, nel rapporto tra norma interna e norma UE self executing, l’incidente di costituzionalità non est in mundo: ne mancherebbe l’oggetto.
Tali pacifici adagi – che riposavano su di una giurisprudenza costituzionale granitica (onomatopeica alla sentenza Granital che l’aveva inaugurata nel 1984) - vengono alquanto stravolti dalla sentenza n. 269 del 2017. Si badi: essa formalmente rispetta, in punto di decisione, questa tradizione decisoria (dichiara cioè inammissibile l’incidente di costituzionalità che una Commissione Tributaria aveva sollevato sulla norma interna, anziché di disapplicarla per il contrasto con la norma UE avente efficacia diretta), ma va oltre con una ‘precisazione’ (par. 5.2.) che, pur non rientrando nella ratio decidendi, pone una statuizione di straordinario rilievo. Si afferma infatti che, tutte le volte in cui il giudice comune scrutina una norma interna «oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [doppia pregiudizialità, appunto, n.d.r.]. [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o in validità del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 267 del TFUE»
Qualche interrogativo preliminare: il dictum del par. 5.2. della sentenza 269/2017 ha innanzitutto valore precettivo? Il giudice comune, di fronte ad una possibile ‘doppia pregiudizialità’ ha l’obbligo di proporre prima l’incidente di costituzionalità?
A mio avviso certamente sì, fatta salva naturalmente l’assenza di qualsivoglia sanzione processuale o disciplinare: ma non di solo pane sanzionatorio vivono le regole ed i principi procedurali.
Perché è una statuizione prescrittiva quella della sentenza n. 269/2017?
Per molte ragioni, tutte già sapientemente scandagliate dalla dottrina che ha commentato la decisione. Perché se è pur vero che, tradizionalmente, è prescrittivo ciò che rientra nella ratio decidendi di una sentenza e non già quello che, fuori da essa, è un obiter, questo confine è assai incerto allorquando le sentenze della Corte costituzionale ‘parlano’ ai giudici comuni. La giurisprudenza costituzionale si sedimenta per regole, ma anche per principi (volendo scomodare la distinzione di Dworkin) e, spesso – com’è giusto che sia per un’Alta Corte – i principi sono più importanti delle regole. Poi perché se è vero che l’architettura del nostro meraviglioso sistema giurisdizionale si fonda sulla testata d’angolo della soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) nella legge sono certamente da ricomprendersi le sentenze della Corte costituzionale, che sono il formante giudiziale delle leggi, almeno quanto noi giudici siamo il formante ermeneutico delle leggi. E poi ancora perché la stessa regola che disciplina l’antinomia tra norma interna e norma comunitaria ed attribuisce ai giudici comuni il potere di disapplicazione della prima «è stata essa stessa enunciata dalla Corte costituzionale» (sentenza Granital n. 170 del 1984), all’esito del dialogo con la Corte di giustizia (sentenze Costa vs Enel del 1964; Van Gend & Loos del 1963; Francovich del 1990, ecc.) e poi recepita dai giudici comuni, al pari di quanto avvenuto, molti anni dopo, con le gemelle, per il rapporto ordinamento interno/CEDU. Sarebbe ben strano che l’organo che ha elaborato la regola principale (disapplicazione) non avesse oggi l’autorità per affermarne i limiti.
Dunque, la 269/17 enuncia un principio che pone al giudice, in qualche modo, un vincolo procedurale.
Perché la Corte ha dettato questo programma indubbiamente vincolante per il giudice comune, ancorché contenuto in una precisazione/obiter? Perché ha inteso ribadire la preminenza del giudizio costituzionale accentrato, depotenziando – con quest’ordine di priorità – il meccanismo della disapplicazione da parte del giudice comune e, dunque, la stessa funzione della diffusività applicativa del diritto dell’Unione? Perché la Corte si è riconosciuto il “diritto di prima parola” (come testualmente scrive Niccolò Zanon nella sentenza n. 20 del 2019) in questi casi?
Essenzialmente per due ragioni: una funzionale ed una politica.
Quella funzionale era nel fatto che, sempre più spesso, il riferimento alla Carta europea da parte dei giudici comuni era avvenuto – con un effetto di spill-over (traboccamento) della stessa - senza il suo essenziale presupposto: vale a dire era stata invocata a parametro anche se la fattispecie oggetto di legislazione interne non era «disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione», ma «da norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto» (sentenze n. 80 del 2011 e n. 63 del 2016). Detto altrimenti, i giudici comuni – secondo la valutazione della Corte costituzionale – finivano per utilizzare quale parametro ‘costituzionale’ le norme della Carta europea anche a prescindere da ogni inerenza tra la fattispecie normativa interna ed il diritto europeo. E ciò risultava poco tollerabile (oltre che errato) per motivi talmente intuibili che è superfluo esplicitare.
La ragione ‘politica’ appare più evidente: nell’intreccio inestricabile, per molte materie, tra principi e regole enunciati nella Carta europea ed omologhi diritti garantiti in Costituzione, la Corte ha ritenuto opportuno ribadire una tempestività (temporale, ma anche sostanziale) di intervento, con indubbi vantaggi. Innanzitutto, quello di poter fissare precisi ‘paletti’ ermeneutici, anche rispetto alla futura richiesta di pregiudiziale. Poi, quello di sostituire un effetto erga omnes (con un’eventuale pronuncia di incostituzionalità) all’effetto disapplicativo della norma interna da parte del singolo giudice comune. In pratica, con il meccanismo ‘tradizionale’ la norma interna, anche se disapplicata dal giudice comune nella singola fattispecie al suo esame con sostituzione della norma ‘europea’, continua a vivere nell’ordinamento interno. L’intervento abrogativo della Corte costituzionale della stessa norma (perché in contrasto anche con un diritto protetto dalla Costituzione italiana) evita l’eventuale ‘macchia di leopardo’: che la norma interna disapplicata in un caso non lo sia in un altro, così risolvendo – secondo il meccanismo dell’incidente di costituzionalità- il problema assai più radicalmente.
Prima di qualche considerazione finale sul punto, una brevissima notazione su quello che, rispetto alla sentenza n. 269 del 2017, ne costituisce un completamento: o, se si vuole, aggiunge another brick in the wall, per parafrasare il titolo di un capolavoro musicale.
Mi riferisco alla sentenza n. 20 del 2019 (Zanon est.), la quale precisa bensì, ma anche amplia e conferma (il par. 5.2. del)la sent. 269/2017.
La precisa nel senso di esplicitare quanto già in essa si poteva desumere: e cioè che naturalmente «i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria». Detto altrimenti, il giudice comune, di fronte ad una ‘doppia pregiudizialità’, dopo aver sollevato incidente di legittimità costituzionale e dopo che la soluzione negativa di esso (perché la Corte costituzionale non vi avrà ravvisato alcuna frizione con la Costituzione), può bussare a Lussemburgo e richiedere una pregiudiziale, eventualmente per disapplicare una norma interna che pure incostituzionale non è. Torno tra un momento sul punto.
Ma la sentenza n. 20 del 2019 amplia, confermandolo, l’orientamento espresso con il precedente citato in quanto afferma che la ‘doppia pregiudizialità’ viene in essere quando la norma interna non solo è in frizione con diritti e principi fondamentali della Costituzione e dal diritto europeo c.d. “primario”, ma anche – ed è qui la novità – di quello ‘derivato’ che abbia «una singolare connessione con le pertinenti disposizione della CFUE». Come dire: ciò che decide (ai fini della doppia pregiudizialità) non è tanto la natura self executing della norma europea quanto «il rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco». Sensibile ed evidente l’ampliamento di orizzonte.
Brevissime riflessioni a conclusione, espresse in forma di interrogativi.
Ci sarà mai un giudice comune che in caso di doppia pregiudizialità, una volta rassicurato dalla propria Corte costituzionale che la norma interna non vìola la propria Costituzione, andrà a richiedere una pregiudiziale a Lussemburgo? Andrà cioè a richiedere una ‘verifica dei poteri’ rispetto alla Carta europea, così sospettando che lo ‘spettro’ della tutela dei diritti fondamentali sia più intensa nella Carta sovranazionale rispetto a quella della ‘sua’ Costituzione? Ed il Giudice di Lussemburgo - eventualmente ricevendo una richiesta di pregiudiziale su di una norma nazionale su cui la Corte costituzionale italiana ha già effettuato una TAC positiva in punto di armonia con i diritti fondamentali della Costituzione italiana - si sentirà di affermare che quest’ultima è più fragile e meno perspicua della Carta europea? Più in generale, può davvero una norma interna non violare diritti e principi fondamentali della Costituzione italiana ed al contempo violare i corrispondenti diritti e principi contenuti nella Carta europea?
Le risposte a queste domande danno il senso della complessiva ‘operazione’ compiuta dalla giurisprudenza costituzionale di ‘espansione’ del proprio ruolo e sindacato accentrato di costituzionalità: quando il tradizionale meccanismo di disapplicazione tange i diritti in Costituzione, la Consulta assume la direzione delle operazioni ermeneutiche.
4. Seconda icona. La scala ritirata con la Corte di Strasburgo: dialogo e giurisprudenza ‘consolidata’.
La seconda icona è brevissima, perché arcinota: sicché pochi cenni sono sufficienti.
Rispetto alla Corte di Strasburgo, infatti, il punto di cesura, ciò che segna l’esistenza di un ‘prima’ e di un ‘dopo’ è rappresentato dalla nota sentenza n. 49 del 2015 (est. Lattanzi). E’ la sentenza del canone ‘occidentale’ della c.d. ‘giurisprudenza consolidata’: in essa si afferma che non ogni pronuncia isolata della Corte EDU, (che non individua, appunto, alcun orientamento consolidato) obbliga il giudice nazionale all’applicazione del principio espresso ad ipotesi diverse, ancorché astrattamente rientranti nel (o assimilabili al) caso deciso. Dunque, la Corte costituzionale statuisce che fino a quando non emerge un ‘diritto consolidato’ (espresso, cioè, quantomeno da una pronuncia della Grande Chambre), può continuarsi ad applicare il ‘diritto vivente’ nazionale. Nella specifica materia, ciò equivale ad affermare la piena compatibilità di una confisca urbanistica disposta sì in assenza di una formale sentenza di condanna, ma in presenza di una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Tale tipologia di pronuncia «non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità», doveroso ai fini della confisca e nondimeno presente nella sentenza di prescrizione, avuto riguardo alla sostanza dell’accertamento. Detto altrimenti: mentre secondo la Corte EDU (sentenza Varvara) ai fini della confisca è richiesta una formale sentenza di condanna (tale per contenuto e forma), per la Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015) è sufficiente – perlomeno fino a quando il principio della Corte sovranazionale non si sarà consolidato in un orientamento univoco di segno contrario – un giudizio di responsabilità ‘sostanziale’, quale quello che consegue anche ad una declaratoria di prescrizione che appunto presuppone tale accertamento.
Si è rischiato – com’è evidente – il corto circuito istituzionale. Per risolvere tale braccio di ferro, sono stati necessari oltre tre anni, quanti ne sono trascorsi tra la sentenza n. 49 del 2015 della Corte cost. e la pronuncia della Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. e altri contro Italia. Con essa - sostanzialmente avallando il decisum di Corte cost. n. 49 del 2015 sullo specifico punto - il vertice di Strasburgo ha affermato non essere indispensabile una ‘condanna formale’ (“formal conviction” o “condamnation formelle”) per stabilire il ‘legame morale’ tra chi subisce la confisca urbanistica (che è e rimane ‘pena’ ai sensi dell’art. 7 della Carta EDU) ed il reato commesso, purché il procedimento nel quale essa è applicata rispetti le garanzie discendenti dalla natura penale della sanzione (art. 7) e del giusto processo ‘convenzionale’ (art. 6), in ciò superando la sentenza Varvara.
Insomma, nel nocciolo duro della confisca urbanistica senza condanna, Strasburgo viene ai dicta di Roma.
Ma, al di là dello specifico problema decisorio (pure di enorme importanza), ciò che preme evidenziare è il principio secondo il quale – come si legge nella sentenza n. 49 del 2015 - «è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento ormai divenuto definitivo».
Ciò che preme evidenziare è il fatto che sia la stessa Corte costituzionale a delineare una sorta di ‘decalogo metodologico’ al giudice comune per individuare ciò che debba intendersi per ‘diritto consolidato’ della CEDU: in poche parole, come riconoscerlo. Così, la sentenza 49/2015 afferma che, se è pur vero come non sempre sia di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento (specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari), vi sono senza dubbio «indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano - secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda- non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.
Anche sul punto sono state scritte migliaia di pagine ed argomentate disparate opinioni in accesi dibattiti: io mi limito a poche riflessioni, in forma interrogativa.
Innanzitutto: ciò che non obbliga (in quanto non consolidato) implica anche irrilevanza dell’orientamento CEDU, potere, cioè, del giudice comune di ignorare l’orientamento ‘episodico’? Oppure il fatto stesso della presenza di un orientamento interpretativo di tale specie genera comunque un dubbio di legittimità costituzionale? Ancora: come sarà da intendere, alla luce dei parametri della sent. 49 del 2015 il parere consultivo previsto nel Protocollo n. 16? Certamente esso, non avendo natura di pronuncia giurisdizionale, non potrà essere inteso come ‘diritto consolidato’, pur se ne avrà, tuttavia, alcuni formali caratteri: postulabile solo dalle più alte giurisdizioni nazionali e solo nel contesto di una causa pendente dinanzi a essa, esso verterà su “questioni di principio relativa all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti nella Convenzione o nei suoi protocolli” e, soprattutto, sarà emesso dalla Grande Chambre, cui sono chiamati 17 giudici di diversi Paesi. Certo, l’art. 5 prevede espressamente che «i pareri consultivi non sono vincolanti» non solo nei confronti dell’Autorità Giurisdizionale richiedente e neppure nei confronti degli altri giudici nazionali: ma se – mi chiedo – nel parere consultivo la Corte EDU farà proprio ed avallerà un orientamento minoritario o episodico precedente (insomma, una propria isolata pronuncia precedente), è davvero possibile sostenere che i contenuti di quest’ultima non assurgano al rango nobiliare di “diritto consolidato”? Ed, in conseguenza, la Corte costituzionale manterrà fermi i propri principi di metodo della 49 del 2015 o sarà disposta ad una revisione di adattamento ?
5. Terza icona. La fine delle “rime obbligate”: la scala ritirata al legislatore (ma anche ai giudici nazionali).
Terzo ed ultimo quadro del ‘nuovo’ metodo dialogico attuato dalla Corte riguarda i soli rapporti con i giudici nazionali: precisamente la fine delle c.d. “rime obbligate” nella sua giurisprudenza su questioni incidentali.
Si tratta – insistendo nella metafora – della terza scala su cui la Corte ha fatto salire per lungo tempo innanzitutto il legislatore nazionale, ma anche noi giudici comuni e che alla fine ha riconosciuto “insensata” (per dirla con Wittgenstein), ritirandola: ciò che, azzardando un pronostico, pare aprire una nuova ed inedita stagione della giustizia costituzionale.
Il discorso è notevolmente complesso e la sua necessaria semplificazione in questa sede naturalmente sacrifica diversi riferimenti e molti argomenti: di questo chiedo anticipate scuse.
Cosa si intende per principio delle “rime obbligate”, che ha ispirato, praticamente dalla sua nascita, il metodo ermeneutico della Corte e che ora pare, appunto, strumento dismesso?
E’ la nota intuizione (e poi sistemazione) del genio di Vezio Crisafulli ([7]), secondo cui omissioni legislative incostituzionali potevano essere colmate dalla Corte attraverso interventi additivi non qualificabili come manipolativi (quindi legittimi) in quanto la regola da inserire “risultava direttamente implicata dal testo costituzionale”. Come scrive un costituzionalista di rango come Marco Rutolo (e con parole che è difficile trovare più chiare ed efficaci), «in tal caso la Corte agirebbe “sotto dettatura” della Costituzione, non essendovi propriamente una “discrezionalità” al riguardo. Un artificio retorico (…) da impiegare in prospettiva “giustificazionista”, per legittimare quella che altrimenti apparirebbe come una sorta di invasione della sfera riservata al legislatore»([8]). Per anni, l’idea delle “rime obbligate” ha tuttavia costituito, nella sua declinazione in negativo, il vero self restraint della Corte: più che «per “giustificare” la novità, ha finito per essere utilizzata come “argine” al dilagare della creatività della Corte»([9]), costituendo il postulato del dialogo con il legislatore nazionale. Le “rime obbligate” costituivano, insomma, la scala protesa verso cui ascendere ad una rispettata discrezionalità nelle scelte legislative più varie: dalla politica criminale in tema di cernita alla selezione delle incriminazioni, al quantum e proporzione della sanzione, alla modulazione dei diritti delle parti nel processo, e così via. In breve: il non possumus dei Giudici della Consulta ammantato di teoria della Costituzione, che, come tale, diveniva delicato equilibrio nei rapporti di potere istituzionale e che, alla fine, postulava l’idea «dell’incostituzionalità come extrema ratio»([10]).
Per fattori e circostanze qui neppure accennabili, la metodica della “rime obbligate” tramonta nell’ultimo triennio: tra Marco Ruotolo che parla di un “allentamento della sua morsa” e Tomaso Epidendio ([11]) che parla di una vera e propria “decostruzione”, mi sento di concordare più con la nettezza del secondo.
Comunque sia, al di là della semantica descrittiva del fenomeno, certamente crolla ‘l’argine’: Vezio Crisafulli è messo in un cassetto.
Le tappe decisorie di questo overrulling sono abbastanza note e provo a rammentarle rapidamente e per punti: l’abbrivio è forse nella sentenza n. 236 del 2016 (est. Zanon) ([12]), dove il trattamento sanzionatorio viene facilmente ricalibrato “per linee interne” sulla base del trattamento sanzionatorio della sostituzione di neonato (art. 567, comma 1, c.p.)([13]). Ad essa segue la sentenza n. 222 del 2018 (est. Viganò) ([14]): è la nota sentenza in cui la Corte trasforma l’editto sanzionatorio fisso (inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ed incapacità all’esercizio degli uffici direttivi per dieci anni) in una sanzione mobile (“fino a dieci anni”). Anche qui è superato il precedente, assolutamente in termini della sent. n. 134 del 2012 con la quale – ancora in salute il principio delle “rime obbligate”- era stato ritenuto necessario l’intervento del legislatore.
E’ soprattutto la sentenza della formale ed esplicita abiura del principio delle “rime obbligate”. In essa si legge: «(…) a consentire l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di “rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima».
E’ un vero manifesto della futura giustizia costituzionale: che va a saldarsi con quella rivoluzionaria tecnica decisoria compendiata nella ordinanza n. 207 del 2018 (est. Modugno), la pronuncia sul caso Cappato.
Ovviamente, non parlerò della Cappato e neppure ho il tempo di approfondire l’inaugurata tecnica della ‘promessa di incostituzionalità’. In questa sede mi serve solo sottolineare come l’ordinanza estesa dal mio Maestro rivela la piena consapevolezza, in capo al Giudice delle Leggi, della possibile declinazione di plurime (e persino assai distanti) soluzioni alla delicata quaestio iuris sottoposta “sulla base di scelte discrezionali” del legislatore ([15]): ma si rifugge, al contempo, la soluzione decisoria dell’inammissibilità sulla considerazione che «un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti», così preannunciando un’incostituzionalità che non si dichiara in attesa dello sperato intervento del legislatore.
Quale riverbero ha avuto la metodica delle “rime obbligate” sull’agere giudiziale dei giudici comuni? E quale metodo di dialogo con la giurisdizione ordinaria essa aveva instaurato? Soprattutto, cosa cambia nel dialogo con i giudici comuni l’abbandono di tale principio?
Interrogativi complessi.
Direi che quel principio aveva, indirettamente, il pregio di instaurare un metodo di dialogo assai efficace.
La Corte, infatti, insegnava ai giudici come fosse avventura da evitare, perché destinata all’insuccesso, la proposizione di incidenti di costituzionalità suscettibili di diverse soluzioni normative, ciascuna delle quali, appunto, non ‘obbligata’. Era – uso volutamente l’imperfetto – un criterio ermeneutico dettato alla giurisdizione: l’idea, insomma, che stante la pluralità di opzioni possibili, risultasse inutile (recte: inammissibile) compulsare la Corte allorquando, dal ventaglio di soluzioni possibili, soltanto il legislatore avrebbe potuto pescare. Oltre a costituire un momento pedagogico essenziale in ordine al valore formale ed al ruolo stesso del principio di legalità, questo principio ha stimolato il dinamismo della giurisdizione ordinaria, spingendola verso la pratica di soluzioni costituzionalmente orientate. Ha educato i giudici ordinari allo sforzo ermeneutico pro Constitutione. Tutti noi – parlo dei magistrati della mia prossimità generazionale – siamo cresciuti nell’idea sistemica dell’incidente di costituzionalità come di un raro ‘distillato’: prodotto prezioso ottenuto alla fine di un immane sforzo interpretativo o, per dirla con Zagrebelsky, prodotto estremo del “fallimento di ogni interpretazione.” Idea, questa, solo all’apparenza antinomica rispetto a quella dialogica, ma che, in realtà, ne incarna la forma probabilmente più nobile ed essenziale, perché ne ha ben chiari i limiti; idea culturalmente importante per i giudici, specie per quelli di sponda penalistica, perché, evitando derive solipsistiche, alla fine incentivava il metodo dell’interpretazione conforme a Costituzione.
Principio delle “rime obbligate” (della Corte costituzionale) ed interpretazione conforme (del giudice comune) si tengono assieme, in una sequenza di limiti, in un assetto complessivo di (armonia di) sistema. Come il giudice a quo non può sollevare l’incidente se non dopo la sperimentazione di un’ermeneutica armonica a Costituzione ([16]), così la medesima reductio ad unum è il corrispondente limite decisorio della Corte, poiché, parafrasando, in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime quando sia possibile prospettare, rispetto alla disarmonia denunciata, plurime soluzioni egualmente plausibili. Se, insomma, ‘salta’ quest’ultimo limite, è difficile, logicamente, difendere il primo: il sistema sta o cade solo alla condizione che tutti i protagonisti rispettino l’uso degli strumenti ermeneutici.
Oggi, senza le “rime obbligate”, la giurisdizione pare formalmente (ed apparentemente) più libera di richiedere soluzioni ermeneutiche che oltrepassino il cancelli della lettera normativa; sostanzialmente non è così. I giudici rischiano di divenire strumento di una metabasi dalla “formulazione legislativa del diritto, a quello del sistema della giurisdizione, vale a dire della formulazione giudiziaria del diritto”, ma interamente affidato, al contempo, all’organo di giustizia costituzionale.
Dove condurrà questo nuovo ruolo della Corte costituzionale e quali scenari dischiuderà al dialogo come anche alla giustizia costituzionale?
“Vedremo. Possiamo aspettare, non siamo più giovani”.
* Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di poche note, il testo della relazione svolta all’incontro di studi: "L''età dei diritti' e la tutela giurisdizionale effettiva nel dialogo fra le Corti”, svoltosi nell’Aula Magna della Corte di Cassazione nei giorni 30 e 31 maggio 2019 e promosso dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con la struttura di formazione decentrata della Corte Suprema di Cassazione.
[1]) M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, Cedu e diritto vivente, in Dir. pen. cont., (riv. trim), 2015, 2, p. 289 ss.
[2]) Elaborata nelle conferenze tenute su questo tema, nel 1967, all’Università di Harvard, le William James Lectures, il cui precetto fondante era: «Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato»: P. Grice, Logica e conversazione. Su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino, Bologna, 1993, cit. a p. 60. Una sintesi assai significativa (e di cui mi giovo per le essenziali citazioni nel testo) è in P. Cantù, I. Testa, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 25 ss.
[3]) A. Colella, Verso un diritto comune delle libertà in Europa. Riflessioni sul tema dell’integrazione della CEDU nell’ordinamento italiano, in www.forumcostituzionale.it (2007, pp. 1-142).
[4]) Riprendendo un accenno, davvero elegante, che rinvengo nell’assai pregevole saggio di G. Comazzetto, Luci e ombre del dialogo tra Corti: la “saga Taricco” tra revirements e questioni irrisolte, in Consultaonline, 2018 (7 maggio), fasc. 2, p. 348.
[5]) La proposizione 6.54 del Tractatus recita testualmente: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo”. A tale proposizione segue quella finale, immortale almeno quanto criptica: “7. Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen)”: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1961 (trad. di Amedeo G. Conte), p.82.
[6]) A. Ruggeri, Taricco, amaro finale di partita, in Consultaonline, 2018, fasc. III, p. 490.
[7]) Esposta essenzialmente in V. Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, in N. Occhiocupo (a cura di), La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 69 ss.
[8]) M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, di prossima pubbl. in Scritti in onore di Antonio Ruggeri, p. 6 del manoscritto.
[9]) Ancora, suggestivamente, M. Ruotolo, loc. ult. cit.
[10]) Secondo l’espressione di G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 257.
[11]) T. Epidendio, L’ordinanza n. 207 del 2018 tra aiuto al suicidio e trasformazione del ruolo della Corte costituzionale, in giudicedonna.it , 1/2019, a cui sono grato per l’intera discussione sul punto.
[12]) Illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, c.p. – alterazione di stato mediante falso - nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni.
[13]) Operazione ermeneutica per nulla scontata, considerando il precedente di inammissibilità, in termini quanto a quaestio, rappresentato dall’ordinanza n. 106 del 2007.
[14]) Illegittimità costituzionale dell’art. 216, ult. comma, della legge fallimentare, in materia di fissità della pena accessoria nei reati fallimentari.
[15]) Si v. i §§ 10 e 11 del Considerato, ove si enunciano tali possibilità: le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”; l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale; la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura, aggiungendo che “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima” e precisando ulteriormente che sarebbe necessaria “una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non punibilità non potrebbero altrimenti beneficiare: anche qui con una varietà di soluzioni possibili”.
[16])…perché «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali»: secondo il più famoso monito di metodo della giustizia costituzionale, quello di Gustavo Zagrebelsky nella sent. n. 356 del 1996.
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